STRENNA 2013
Roma, 31 Dicembre 2012 – 1 Gennaio 2013
Il secondo anno di questo triennio di preparazione al bicentenario della nascita di Don Bosco sarà focalizzato sulla sua pedagogia. Nell’anno 2012 abbiamo centrato l’attenzione sulla sua storia e abbiamo cercato di comprendere meglio come tutta la sua vita è stata segnata dalla predilezione per i giovani. Per questo scopo egli consegnò tutte le sue energie, proprio perché percepì che questa era la missione che Dio gli affidava.
Nel 2013 il nostro obiettivo sarà quello di approfondire la sua proposta educativa: ciò che Don Bosco ha inteso offrire ai giovani e il metodo che egli utilizzò per aprire le porte del loro cuore, per conquistare la loro confidenza, per plasmare robuste personalità, dal punto di vista umano e cristiano. Concretamente, vogliamo avvicinarci a Don Bosco educatore. Si tratta dunque di approfondire ed aggiornare il Sistema Preventivo. Ecco il tema della Strenna 2013.
Anche questa volta, il nostro approccio non è solo intellettuale. Da una parte, è certamente necessario uno studio approfondito della Pedagogia Salesiana per aggiornarla secondo la sensibilità e le esigenze del nostro tempo. Oggi i contesti sociali, economici, culturali, politici, religiosi, nei quali ci troviamo a vivere la vocazione e a svolgere la missione salesiana, sono profondamente cambiati. D’altra parte, per una fedeltà carismatica al nostro Padre, è ugualmente necessario fare nostro il contenuto e il metodo della sua offerta educativa e pastorale. Nel contesto della società di oggi siamo chiamati ad essere santi educatori come lui, donando la nostra vita come lui, lavorando con e per i giovani.
Ripensando l’esperienza educativa di Don Bosco, siamo chiamati a riviverla oggi con fedeltà. Certo siamo tutti convinti che, per certe sue particolari espressioni e interpretazioni, il suo Sistema Preventivo appare decisamente “datato”, in quanto legato ad un mondo che non esiste più. Tante sono state infatti le “rivoluzioni” a livello pedagogico, psicologico, religioso, politico, culturale, filosofico, tecnologico, demografico, che si sono succedute lungo il secolo XX. Il mondo è ormai divenuto un “villaggio globale”. È permeato da continue innovazioni mediatiche, globalizzanti, che influiscono su tutte le culture del pianeta. Il modo di pensare appare segnato da inediti criteri culturali di produttività, efficienza, calcolo, razionalità scientifica. Quindi, in questo quadro di lettura dei fenomeni sociali, molte vecchie categorie interpretative appaiono oggi superate.
Ora per una corretta attualizzazione del Sistema Preventivo, più che pensare immediatamente a dei programmi, a delle formule, o ribadire degli “slogans” generici e buoni per tutte le stagioni, oggi il nostro sforzo sarà quello di una comprensione storica del metodo di Don Bosco, sapendo che particolari considerazioni situazionali hanno dato origine alle impostazioni di principio, alle elaborazioni teologiche, antropologiche, pastorali, pedagogiche che egli ha pensato opportune per i giovani del suo tempo. Questa comprensione storica ci aiuterà a non isolare la sua esperienza, applicandola, con i suoi principi, attraverso modalità nuove. Si tratta, in concreto, di analizzare come sia stato diverso il suo operare per i giovani, per il popolo, per la Chiesa, per la società, per la vita religiosa, e anche come diverso sia stato il suo modo di educare giovani del primo Oratorio festivo, del piccolo seminario di Valdocco, dei chierici salesiani e non salesiani, dei missionari. Ciò non toglie che già nel primo Oratorio di casa Pinardi fossero presenti alcune importanti intuizioni che saranno successivamente acquisite nella loro valenza più profonda di complessa sintesi umanistico-cristiana:
a) una struttura flessibile (è la modalità con cui Don Bosco pensa all’Oratorio) quale opera di mediazione tra Chiesa, società urbana e fasce popolari giovanili;
b) il rispetto e la valorizzazione dell’ambiente popolare;
c) la religione posta a fondamento dell’educazione secondo l’insegnamento della pedagogia cattolica trasmessa a lui dall’ambiente del Convitto;
d) l’intreccio dinamico tra formazione religiosa e sviluppo umano, tra catechismo ed educazione. In altre parole, la convergenza tra educazione ed educazione alla fede (integrazione fede-vita);
e) la convinzione che l’istruzione costituisce uno strumento essenziale per illuminare la mente;
f) l’educazione, così come la catechesi, che si sviluppa in tutte le espressioni compatibili con la ristrettezza del tempo e delle risorse: alfabetizzazione di chi non ha mai potuto fruire di una qualsiasi forma di istruzione scolastica, il collocamento al lavoro, l’assistenza lungo la settimana, lo sviluppo di attività associative e mutualistiche ecc.
g) la piena occupazione e valorizzazione del tempo libero;
h) l’amorevolezza come stile educativo e, più in generale, come stile di vita cristiana.
Dalla dinamica della sua particolare esperienza questo metodo, denominato appunto da un certo momento in avanti "Sistema Preventivo", diventa un "sistema" pubblicizzato e presentato come metodo universale. Don Bosco lo propose e volle che fosse adottato per l'educazione e la rieducazione dei giovani appartenenti ai gruppi più svariati.
Come è noto, e come troviamo scritto nella Carta d’Identità della Famiglia Salesiana, il Sistema Preventivo “rappresenta il condensato della saggezza pedagogica di Don Bosco e costituisce il messaggio profetico che ha lasciato ai suoi eredi e a tutta la Chiesa. È un'esperienza spirituale ed educativa che si fonda su ragione, religione ed amorevolezza.
Ragione sottolinea i valori dell'umanesimo cristiano, quali la ricerca di senso, il lavoro, lo studio, l’amicizia, l'allegria, la pietà, la libertà non disgiunta da responsabilità, l’armonia tra saggezza umana e sapienza cristiana.
Religione significa fare spazio alla Grazia che salva, coltivare il desiderio di Dio, favorire l’incontro con Cristo Signore in quanto offre un senso pieno alla vita ed una risposta alla sete di felicità, inserirsi progressivamente nella vita e nella missione della Chiesa.
Amorevolezza esprime la necessità che, per avviare un’efficace relazione educativa, i giovani non solo siano amati, ma conoscano di essere amati; è un particolare stile di rapporti ed è un voler bene che risveglia le energie del cuore giovanile e le fa maturare fino all’oblatività.
Ragione, religione e amorevolezza sono oggi, più di ieri, elementi indispensabili all’azione educativa e fermenti preziosi per dar vita ad una società più umana, in risposta alle attese delle nuove generazioni”.[1]
Una volta conosciuto correttamente ciò che ci è stato trasmesso dal passato, occorre tradurre nell’oggi le grandi intuizioni e virtualità del Sistema Preventivo. Bisogna modernizzarne i principi, i concetti, gli orientamenti primigeni, reinterpretando sul piano teorico e pratico sia le grandi idee di fondo, che tutti conosciamo (la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime; la fede viva, la ferma speranza, la carità teologico-pastorale; il buon cristiano e l’onesto cittadino; l’allegria, studio e pietà; sanità, studio e santità; pietà, moralità, cultura, civiltà; l’evangelizzazione e civilizzazione… ), sia i grandi orientamenti di metodo (farsi amare prima di farsi temere; ragione, religione, amorevolezza; padre, fratello, amico; familiarità, soprattutto in ricreazione; guadagnare il cuore; l’educatore “consacrato” al bene dei suoi allievi; ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento…). E tutto ciò a vantaggio della formazione di giovani “nuovi” del sec. XXI, chiamati a vivere e confrontarsi con una vastissima e inedita gamma di situazioni e problemi, in tempi decisamente mutati, nei quali le stesse scienze umane sono in fase di riflessione critica.
In particolare desidero suggerire tre prospettive, analizzando più in profondità la prima.
1. Il rilancio del “onesto cittadino” e del “buon cristiano”
In un mondo profondamente cambiato rispetto a quello dell’ottocento, operare la carità secondo criteri angusti, locali, pragmatici (e qui dobbiamo riconoscere che Don Bosco non era certo in condizione di fare più di quello che ha fatto), dimenticando le più ampie dimensioni del bene comune, nazionale e mondiale, sarebbe una grave lacuna di ordine sociologico ed anche teologico. La maturazione etica della coscienza contemporanea ha infatti riscontrato i limiti di un assistenzialismo che, dimenticando la dimensione politica del sottosviluppo, non riesce a influire positivamente sullecause della miseria, sulle strutture di peccato dalle quali scaturisce un contesto sociale da tutti sempre denunciato. Concepire la carità solo come elemosina, aiuto d'emergenza, significa rischiare di muoversi nell'ambito di un “falso samaritanesimo” che, al di là delle buone intenzioni, finisce talora col divenire un’espressione di solidarietà scadente, perché funzionale a modelli di sviluppo che puntano al benessere di alcuni, indorando l'amara pillola per gli altri.
Ricordiamo che nel post-Concilio le parole “povertà della Chiesa” e “Chiesa dei poveri” ebberomolti volti, anche contradditori, e tuttavia dobbiamo ricordare pure che il vangelo non lo abbiamo inventato noi, così come non abbiamo inventato il suo tragico impatto con la politica e l’economia. La fede tocca la storia, pur non riducendosi ad essa. Se l'amore del prossimo non è tutto il messaggio cristiano, si può forse negare che esso sia centrale ed essenziale?
Si è detto e scritto che, di fronte allo Stato moderno che ha assunto la tutela e l’assistenza sociale dei cittadini, la Chiesa non aveva più quello spazio di intervento sul piano della carità e dell’assistenza, che aveva nel passato. La realtà che oggi viviamo smentisce questa ipotesi che aveva nutrito le ideologie laiciste e stataliste. La Chiesa torna spessissimo ad essere punto di riferimento anche in seno allo Welfare state. Per lunghi anni abbiamo sentito dire che la carità e l’assistenza erano strumenti vecchi e inservibili, che non erano più utilizzabili nella società moderna e nello stato democratico. Oggi, anche in ambienti laici, si riconosce la funzione sociale del volontariato cristiano, del cosiddetto terzo settore - non profit - delle iniziative che partono dalle parrocchie, dalle associazioni, dalle istituzioni, dalle chiese locali…
Ora il fatto che miliardi di persone stiano vivendo oggi in condizioni ben lontane da quella “civiltà dell’amore”, auspicata dal papa Paolo VI e ribadita dai suoi successori, può trovare in noi “una risposta specifica” nel ricorso alla formula di Don Bosco del “onesto cittadino e buon cristiano”?
In riferimento al “onesto cittadino”, ci si impone una riflessione profonda. Innanzitutto, a livello speculativo, essa deve estendere la sua considerazione a tutti i contenuti relativi al tema della promozione umana, giovanile, popolare, avendo, al contempo, attenzione alle diverse qualificate considerazioni filosofico-antropologiche, teologiche, scientifiche, storiche, metodologiche pertinenti. Questa riflessione si deve poi concretizzare sul piano della esperienza e della riflessione operativa dei singoli e delle comunità. Vorrei qui ricordare che, per i Salesiani di Don Bosco, un Capitolo Generale di grande rilievo, il CG 23, aveva indicato come importanti luoghi ed obiettivi dell’educazione la “dimensione sociale della carità” e “l’educazione dei giovani all’impegno e alla partecipazione alla politica“, “ambito da noi un po’ trascurato e disconosciuto” (cfr CG 23, numeri 203-210-212-214).
Se da una parte comprendiamo la scelta di Don Bosco di non fare se non “la politica del Padre Nostro", dall’altra dobbiamo anche chiederci quanto la sua iniziale scelta di un’educazione intesa in senso stretto, e la conseguente prassi dei suoi educatori di escludere dalla propria vita la "politica”, non abbiano condizionato e limitato l’ importante dimensione socio-politica nella formazione degli educandi. Oltre alle obiettive difficoltà create da differenti regimi politici con i quali Don Bosco ha dovuto convivere, non vi hanno per caso contribuito anche degli educatori propensi al conformismo, all’isolazionismo, con un’insufficiente cultura ed una scarsa conoscenza del contesto storico-sociale?
Dovremo quindi procedere nella direzione di una riconferma aggiornata della "scelta socio-politica-educativa" di Don Bosco. Questo significa non promuovere un attivismo ideologico, legato a particolari scelte politiche di partito, ma formare ad una sensibilità sociale e politica, che porta comunque a investire la propria vita come missione per il bene della comunità sociale, con un riferimento costante agli inalienabili valori umani e cristiani. Si tratta quindi di operare all’insegna di una più coerente attuazione pratica nel settore specifico. Detto in altri termini, la riconsiderazione della qualità sociale dell'educazione – già immanente, anche se imperfettamente realizzata, nell'opzione giovanile fondamentale, anche dal punto di vista delle enunciazioni e delle formule – dovrebbe incentivare la creazione di esplicite esperienze di impegno socialenel senso più ampio. Ma ciò suppone anche uno specifico impegno teorico e vitale, ispirato ad una più ampia visione dell'educazione stessa insieme a realismo e concretezza. Non bastano proclami e manifesti. Occorrono anche concetti teorici e progetti operativi concreti da tradurre in programmi ben definiti e articolati.
Chi è veramente preoccupato della dimensione educativa cerca di influire attraverso gli strumenti politici, perché essa sia presa in considerazione in tutti gli ambiti: dall'urbanizzazione e dal turismo fino allo sport e al sistema radiotelevisivo, realtà in cui sovente si privilegiano i criteri di mercato.
Chiediamoci: la Congregazione Salesiana, la Famiglia Salesiana, le nostre Ispettorie, gruppi e case stanno facendo tutto il possibile in tale direzione? La loro solidarietà con la gioventù è solo atto di affetto, gesto di donazione, o anche contributo di competenza, risposta razionale, adeguata e pertinente ai bisogni dei giovani e delle classi sociali più deboli?
E altrettanto si dovrebbe dire del rilancio del “buon cristiano”. Don Bosco, “bruciato” dallo zelo per le anime, ha compreso l’ambiguità e la pericolosità della situazione, ne ha contestato i presupposti, ha trovato forme nuove di opporsi al male con le scarse risorse (culturali, economiche…) di cui disponeva.
Si tratta di svelare e aiutare a vivere consapevolmente la vocazione di uomo, la verità della persona. E proprio in questo i credenti possono dare il loro contributo più pregiato.
Essi infatti sanno che l'essere e i rapporti della persona vengono definiti dalla sua condizione di creatura, che non indica inferiorità o dipendenza, ma amore gratuito e creativo da parte di Dio. L'uomo deve la propria esistenza a un dono. È situato in una relazione con Dio da ricambiare. La sua vita non trova senso al di fuori di questo rapporto. L'“oltre”, che egli percepisce e desidera vagamente, è l'Assoluto, non un assoluto estraneo e astratto, ma la sorgente della sua vita che lo chiama a sé.
In Cristo la verità della persona, che la ragione coglie in modo iniziale, trova la sua illuminazione totale. Gesù Cristo, con le sue parole ma soprattutto in forza della sua esistenza umano-divina, in cui si manifesta la coscienza di Figlio di Dio, apre la persona alla piena comprensione di sé e del proprio destino.
In Lui siamo costituiti figli e chiamati a vivere come tali nella storia. È una realtà e un dono, di cui l’uomo deve penetrare progressivamente il senso. La vocazione a figli di Dio non è un’aggiunta di lusso, un complemento estrinseco per la realizzazione dell'uomo. È invece il suo totale compimento, l’indispensabile condizione di autenticità e pienezza, il soddisfacimento delle esigenze più radicali, quelle di cui è sostanziata la sua stessa struttura creaturale.
Ma come attualizzare il “buon cristiano” di Don Bosco? Come salvaguardare oggi la totalità umano-cristiana del progetto in iniziative formalmente o prevalentemente religiose e pastorali, contro i pericoli di antichi e nuovi integrismi ed esclusivismi? Come trasformare la tradizionale educazione, il cui contesto era “una società monoreligiosa”, in una educazione aperta, e al tempo stesso critica, di fronte al pluralismo contemporaneo? Come educare a vivere in autonomia e nello stesso tempo essere partecipi in un mondo plurireligioso, pluriculturale, plurietnico? A fronte dell’attuale superamento della tradizionale pedagogia dell’obbedienza, adeguata ad un certo tipo di ecclesiologia, come promuovere una pedagogia della libertà e della responsabilità, tesa alla costruzione di persone responsabili, capaci di libere decisioni mature, aperte alla comunicazione interpersonale, inserite attivamente nelle strutture sociali, in atteggiamento non conformistico, ma costruttivamente critico?
2. Il ritorno ai giovani con maggior qualificazione
È tra i giovani che Don Bosco ha elaborato il suo stile di vita, il suo patrimonio pastorale e pedagogico, il suo sistema, la sua spiritualità. L’unicità della missione giovanile in Don Bosco fu sempre e comunque reale, anche quando per motivi particolari non era materialmente a contatto con i giovani, anche quando la sua azione non era direttamente servizio dei giovani, anche quando difese tenacemente il suo carisma di fondatore per tutti i giovani del mondo, di fronte a pressione di ecclesiastici non sempre ben illuminati. Missione salesiana è consacrazione, è “predilezione” per i giovani, e tale predilezione, al suo stato iniziale, lo sappiamo, è un dono di Dio, ma spetta alla nostra intelligenza ed al nostro cuore svilupparla e perfezionarla.
Il vero salesiano non diserta il campo giovanile. Salesiano è colui che dei giovani ha una conoscenza vitale: il suo cuore pulsa là dove pulsa quello dei giovani. Il Salesiano vive e lavora per loro, si impegna per rispondere alle loro necessità e ai loro problemi; essi sono il senso della sua vita: lavoro, scuola, affettività, tempo libero. Salesiano è chi dei giovani ha anche una conoscenza teorica ed esistenziale, che gli permette di scoprire i loro veri bisogni, di creare una pastorale giovanile adeguata alle necessità dei tempi.
La fedeltà alla nostra missione poi, per essere incisiva, deve essere posta a contatto con i “nodi” della cultura di oggi, con le matrici della mentalità e dei comportamenti attuali. Siamo di fronte a sfide veramente grandi, che esigono serietà di analisi, pertinenza di osservazioni critiche, confronto culturale approfondito, capacità di condividere psicologicamente la situazione. Ed allora, per limitarci ad alcune domande:
a) Chi sono esattamente i giovani cui “consacriamo” personalmente e in comunità la nostra vita? Cosa vogliono, cosa desiderano loro e che cosa vogliamo noi (e Dio) per loro? Li conosciamo i giovani di oggi? Siamo convinti del diverso problema quantitativo e qualitativo dei giovani di oggi rispetto a quello affrontato centocinquanta anni fa da Don Bosco?
b) Quale è la nostra professionalità pastorale a livello di riflessione teorica sugli itinerari educativi ed a livello di prassi pastorale? Essa trova il banco di prova nella creatività, duttilità, flessibilità, nell’anti-fatalismo. Quello che è certo è che per poterci “inculturare” non possiamo fare affidamento solo sui documenti dei Capitoli Generali delle nostre Congregazioni, sulle deliberazioni più importanti dei vari gruppi o sulle lettere del Rettor Maggiore.
c) La responsabilità educativa oggi non può essere che collettiva, corale, partecipata. Quale è allora il nostro “punto di aggancio” con la “rete di relazioni” sul territorio e anche oltre il territorio in cui vivono i nostri giovani? Quale il nostro preciso contributo di partecipazione e di collaborazione all’interno di tale rete educativa globalizzata? Abbiamo preso in considerazione le soluzioni possibili, confrontandoci anche con terzi?
d) Se qualche volta la Chiesa si trova disarmata di fronte ai giovani, non è che per caso lo sono anche i Salesiani o la Famiglia Salesiana di oggi?
In questi ultimi decenni forse le nuove generazioni salesiane provano un senso di smarrimento di fronte alle antiche formulazioni del Sistema Preventivo: o perché non sanno come applicarlo oggi, oppure perché inconsapevolmente lo immaginano come un “rapporto paternalistico” con i giovani. Al contrario, quando guardiamo a Don Bosco, visto nella sua realtà vissuta, scopriamo in lui un istintivo e geniale superamento del paternalismo educativo inculcato da molta parte della pedagogia dei secoli a lui precedenti (’500-’700); in quel tempo il discorso pedagogico rifletteva infatti la società europea, che, anche a livello politico, era strutturata paternalisticamente. La vita di Don Bosco risulta invece tutta un tessuto di rapporti interpersonali con giovani e adulti, da cui nasce anche l’arricchimento suo personale. Mille episodi ed espressioni, come «Lasciate che ve lo dica e niuno si offenda: voi siete tutti ladri; lo dico e lo ripeto: voi mi avete preso tutto […] mi rimaneva ancora questo povero cuore, di cui già mi avevate rubati gli affetti per intiero […] hanno preso possesso di tutto questo cuore, cui nulla più è rimasto se non un vivo desiderio di amarvi nel Signore»[2], indicano la simbiosi, la modernità, l’attualità al di là delle note etichette: preventivo, amorevolezza, carità. L’impossessarsi del cuore, in Don Bosco, è una espressione analogica e simbolica. I ragazzi penetravano il cuore di Don Bosco, vi si ritrovavano, vi si arricchivano, ne godevano. Oggi certo le modalità del rapporto interpersonale sono diverse: società pluralistica, globalità delle forme di conoscenza, internet, viaggi, ecc.
Possiamo chiederci: oggi i giovani e gli adulti entrano o possono entrare nel cuore dell’educatore salesiano? Che vi scoprono? Un tecnocrate, un abile, ma vacuo comunicatore, oppure una umanità ricca, completata e animata dalla grazia di Gesù Cristo, nel Corpo Mistico, ecc.? Se non vi scoprono tutto questo, Don Bosco non potrebbe ripetere più o meno le parole: “Quando nel cuore del salesiano non si trova la ricchezza e la profondità della grazia di Cristo, la Congregazione e la Famiglia Salesiana hanno finito il loro corso”?
IMPEGNI CONCRETI PER LA FAMIGLIA SALESIANA
A partire dalla conoscenza della pedagogia di Don Bosco, e alla luce delle riflessioni sopra sviluppate i grandi punti di riferimento e gli impegni della Strenna del 2013 per la Famiglia Salesiana sono i seguenti.
“In Gesù di Nazaret Dio si è rivelato come il «Dio della gioia»[3] e il Vangelo è una “lieta notizia” che esordisce con le “Beatitudini”, partecipazione degli uomini alla beatitudine stessa di Dio. Si tratta di un dono non superficiale ma profondo perché la gioia, più che sentimento effimero, è un’energia interiore che resiste anche alle difficoltà della vita. Ricorda san Paolo: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2Cor 7,4). In questo senso la gioia che proviamo quaggiù è un dono pasquale, anticipo della gioia piena di cui godremo nell’eternità.
Il “vangelo della gioia” caratterizza tutta la storia di Don Bosco ed è l’anima delle sue molteplici opere. Don Bosco ha intercettato il desiderio di felicità presente nei giovani e ha declinato la loro gioia di vivere nei linguaggi dell’allegria, del cortile e della festa; ma non ha mai cessato di indicare Dio quale fonte della gioia vera. Alcuni suoi scritti, quali Il Giovane Provveduto, la biografia di Domenico Savio, l’apologo contenuto nella storia di Valentino, sono la dimostrazione della corrispondenza che egli stabiliva tra grazia e felicità. E la sua insistenza sul “premio del paradiso” proiettava le gioie di quaggiù nella prospettiva del compimento e della pienezza.
Alla scuola di Don Bosco, l’appartenente alla Famiglia Salesiana coltiva dentro di sé alcuni atteggiamenti che favoriscono la gioia e la comunicano agli altri.
a) La fiducia nella vittoria del bene: «In ogni giovane, anche il più disgraziato – scrive Don Bosco –, c’è un punto accessibile al bene, e dovere primo dell'educatore è di cercare questo punto, questa corda sensibile del cuore, e di trarne profitto».[4]
b) L'apprezzamento dei valori umani: Il discepolo/a di Don Bosco coglie i valori del mondo e rifiuta di gemere sul proprio tempo: ritiene tutto ciò che è buono, specie se gradito ai giovani e alla gente (cf. Cost SDB 17).
c) L'educazione alle gioie quotidiane: occorre un paziente sforzo di educazione per imparare, o imparare nuovamente, a gustare, con semplicità, le molteplici gioie umane che il Creatore mette ogni giorno sul nostro cammino.
Poiché si affida totalmente al «Dio della gioia» e testimonia in opere e in parole il «Vangelo della gioia», il discepolo e la discepola di Don Bosco sono sempre lieti. Diffondono questa gioia e sanno educare alla letizia della vita cristiana e al senso della festa, memori dell’appello di san Paolo: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti» (Fil 4,4)”.[5]
“L'amorevolezza di Don Bosco è, senza dubbio, un tratto caratteristico della sua metodologia pedagogica ritenuto valido anche oggi, sia nei contesti ancora cristiani sia in quelli dove vivono giovani appartenenti ad altre religioni.
Non è però riducibile solo a un principio pedagogico, ma va riconosciuta come elemento essenziale della nostra spiritualità.
Essa infatti è amore autentico perché attinge da Dio; è amore che si manifesta nei linguaggi della semplicità, della cordialità e della fedeltà; è amore che genera desiderio di corrispondenza; è amore che suscita fiducia, aprendo la via alla confidenza e alla comunicazione profonda (“l’educazione è cosa di cuore”); è amore che si diffonde creando un clima di famiglia, dove lo stare insieme è bello ed arricchente.
Per l’educatore, è un amore che richiede forti energie spirituali: la volontà di esserci e di starci, la rinuncia di sé e il sacrificio, la castità degli affetti e l’autocontrollo negli atteggiamenti, l’ascolto partecipe e l’attesa paziente per individuare i momenti e i modi più opportuni, la capacità di perdonare e di riprendere i contatti, la mansuetudine di chi, talora, sa anche perdere ma continua a credere con speranza illimitata. Non c’è amore vero senza ascetica e non c’è ascetica senza l’incontro con Dio nella preghiera.
L’amorevolezza è frutto della carità pastorale. Diceva Don Bosco: «Questa nostra reciproca affezione sopra quale cosa è fondata? […] Sul desiderio che ho di salvare le vostre anime, che furono redente dal sangue prezioso di Gesù Cristo, e voi mi amate perché cerco di condurvi per la strada della salvezza eterna. Dunque il bene delle anime nostre è il fondamento della nostra affezione».[6]
L’amorevolezza diventa così segno dell’amore di Dio, e strumento per risvegliare la sua presenza nel cuore di quanti sono raggiunti dalla bontà di Don Bosco; è una via all’evangelizzazione.
Da qui la convinzione che la spiritualità apostolica della Famiglia Salesiana si caratterizza non per un amore genericamente inteso, ma per la capacità di amare e di farsi amare”.[7]
3. L’educazione è cosa del cuore.
Per comprendere la celebre espressione “l’educazione è cosa di cuore e Dio solo ne è il padrone” (MB XVI, 447)[8] e per capire quindi la Pedagogia della bontà nel Sistema Preventivo, mi sembra importante sentire uno dei più riconosciuti esperti del Santo educatore: “La pedagogia di Don Bosco s’identifica con tutta la sua azione; e tutta l’azione con la sua personalità; e tutto Don Bosco è raccolto, in definitiva, nel suo cuore”.[9] Ecco la sua grandezza e il segreto del suo successo come educatore: Don Bosco ha saputo armonizzare autorità e dolcezza, amore di Dio e amore dei giovani.
“L’amore di Don Bosco per questi giovani era fatto di gesti concreti e opportuni. Egli si interessava di tutta la loro vita, riconoscendone i bisogni più urgenti e intuendo quelli più nascosti. Affermare che il suo cuore era donato interamente ai giovani, significa dire che tutta la sua persona, intelligenza, cuore, volontà, forza fisica, tutto il suo essere era orientato a fare loro del bene, a promuoverne la crescita integrale, a desiderarne la salvezza eterna. Essere uomo di cuore, per Don Bosco, significava quindi essere tutto consacrato al bene dei suoi giovani e donare loro tutte le proprie energie, fin l’ultimo respiro!”[10]
4. La formazione dell’onesto cittadino e del buon cristiano.
“Formare «buoni cristiani e onesti cittadini» è intenzionalità più volte espressa da Don Bosco per indicare tutto ciò di cui i giovani necessitano per vivere con pienezza la loro esistenza umana e cristiana: vestito, vitto, alloggio, lavoro, studio e tempo libero; gioia, amicizia; fede operosa, grazia di Dio, cammino di santificazione; partecipazione, dinamismo, inserimento sociale ed ecclesiale. L’esperienza educativa gli suggerì un progetto ed un particolare stile di intervento, da lui stesso condensati nel Sistema preventivo, che «si appoggia tutto sopra la ragione, la religione, e sopra l'amorevolezza».[11]
La presenza educativa nel sociale comprende queste realtà: la sensibilità educativa, le politiche educative, la qualità educativa del vivere sociale, la cultura.
“Per Don Bosco significava valorizzare tutto il positivo radicato nella vita delle persone, nelle realtà create, negli eventi della storia. Ciò lo portava a cogliere gli autentici valori presenti nel mondo, specie se graditi ai giovani; a inserirsi nel flusso della cultura e dello sviluppo umano del proprio tempo, stimolando il bene e rifiutandosi di gemere sui mali; a ricercare con saggezza la cooperazione di molti, convinto che ciascuno ha dei doni che vanno scoperti, riconosciuti e valorizzati; a credere nella forza dell'educazione che sostiene la crescita del giovane e lo incoraggia a diventare onesto cittadino e buon cristiano; ad affidarsi sempre e comunque alla provvidenza di Dio, percepito e amato come Padre”.[12]
6. Sistema Preventivo e Diritti Umani.
La Congregazione non ha motivo di esistere se non per la salvezza integrale dei giovani. Come Don Bosco nel suo tempo, noi non possiamo essere spettatori; dobbiamo essere protagonisti della loro salvezza. La lettera da Roma del 1884 ci chiede anche oggi di mettere “il ragazzo al centro” come impegno quotidiano di ogni nostro gesto e come scelta permanente di vita di ogni nostra comunità. Per questo, per la salvezza integrale dei giovani, il vangelo e il nostro carisma oggi ci chiedono di percorrere anche la strada dei diritti umani; si tratta di una via e di un linguaggio nuovi che non possiamo trascurare. Non dobbiamo lasciare nulla di intentato per la salvezza dei giovani; oggi non ci sarebbe possibile guardare negli occhi un bambino se non ci facessimo promotori anche dei suoi diritti.
Il sistema preventivo e i diritti umani interagiscono, arricchendosi l’un l’altro. Il sistema preventivo offre ai diritti umani un approccio educativo unico ed innovativo rispetto al movimento di promozione e protezione dei diritti umani finora caratterizzato dalla prospettiva della denuncia “ex post”, la denuncia di violazioni già commesse. Il sistema preventivo offre ai diritti umani l’educazione preventiva, ossia l’azione e la proposta “ex ante”.
Come credenti possiamo dire che il sistema preventivo offre ai diritti umani un’antropologia che si lascia ispirare dalla spiritualità evangelica e vede come fondamento dei diritti umani il dato ontico della dignità di ogni persona “senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”.[13]
Allo stesso modo i diritti umani offrono al sistema preventivo nuove frontiere ed opportunità di dialogo e di collaborazione in rete con altri soggetti, al fine di individuare e rimuovere le cause di ingiustizia, iniquità e violenza. I diritti umani inoltre offrono al sistema preventivo nuove frontiere ed opportunità di impatto sociale e culturale come risposta efficace al “dramma dell’umanità moderna della frattura tra educazione e società, del divario tra scuola e cittadinanza”.[14]
Nel nuovo contesto globalizzato i diritti umani diventano uno strumento in grado di oltrepassare gli angusti confini nazionali per porre limiti e obiettivi comuni, creare alleanze e strategie e mobilitare risorse umane ed economiche.
Il Sistema Preventivo nell’educazione della gioventù, la Lettera da Roma, le Biografie di Domenico Savio, Michele Magone, Francesco Besucco, sono tutti scritti di Don Bosco che illustrano bene sia la sua esperienza educativa che le sue scelte pedagogiche. Queste opere sono state scritte infatti perché noi potessimo conoscere la sensibilità pedagogica ed educativa del nostro caro fondatore e padre, ciò che gli stava a cuore a riguardo della centralità dei giovani, del loro protagonismo nella propria formazione, del clima da creare per garantire il successo educativo. Le biografie diventano, da questa prospettiva, tre itinerari diversi secondo il punto di partenza di ciascuno di questi ragazzi dell’Oratorio di Valdocco, e con proposte a misura loro. Per Don Bosco si doveva cominciare dalla realtà di ciascuno dei ragazzi senza dover attendere di avere situazioni ideali, facendo leva sui valori e le attitudini che si portavano dietro e additando vette da raggiungere.
Concludo il commento alla Strenna 2013 con un poemetto inviato da un confratello salesiano dell’India. Il testo raccoglie molto bene ciò che è la vera educazione, soprattutto perché visto ed espresso dalle parole di un bambino che dice a sua madre ciò che passava per la sua mente e restava nel suo cuore contemplando la sua forma di agire. La lettura del poema mi ha portato alla memoria la testimonianza stessa di Giovannino Bosco su Mamma Margherita.
In effetti, lo stile educativo praticato a Valdocco, e oggi diffuso in tutto il mondo, ha le sue radici nella fanciullezza di Don Bosco caratterizzata dall’ambiente contadino austero e forte dei Becchi e, soprattutto, dalle persone che gli erano accanto. Don Bosco ebbe a dire: “Mi si domanda come educo i ragazzi. Io li tiro su come mia madre tirava su noi in famiglia. Di più non so”.
Fu Mamma Margherita la prima e grande educatrice di Don Bosco. Rimasta vedova, seppe dare ai suoi figli l’amore esigente di un padre e l’amore dolce e gratuito di una madre. Da lei Don Bosco imparò quei valori e atteggiamenti che praticò con i suoi ragazzi e, con il passar degli anni, lasciò ai Salesiani, divenendo le basi della sua pedagogia:
● Una presenza attiva. L’assistenza salesiana non è semplice azione di sorveglianza; è una presenza che fa sentire al ragazzo di essere amato; che condivide con lui il gusto di lavorare e di crescere insieme, rendendolo protagonista.
● Il lavoro quotidiano. Edotto dall’esperienza del lavoro contadino nei campi dei Becchi e dei Moglia, Don Bosco amava dire ai suoi ragazzi: “Un ragazzo pigro sarà sempre un somaro”, “Chi non si abitua al lavoro in tempo di gioventù, per lo più sarà sempre un poltrone sino alla vecchiaia”. A Valdocco era stigmatizzata la pigrizia e il lavoro si alternava con la preghiera, il gioco, e l’apprendimento.
● Il senso di Dio. Mamma Margherita fu per Giovannino anche una catechista: lo preparò al sacramento della confessione e alla prima comunione e, soprattutto, gli insegnò a saper leggere la presenza di Dio nel quotidiano, nel creato, nelle vicende belle e tristi della vita. Guardando la sua generosità con i più poveri e bisognosi, il futuro prete maturò una pietà religiosa in grado di trasformarsi al momento opportuno in carità concreta, semplice e genuina.
● La ragione come sinonimo di dialogo. La saggezza contadina dava al termine “ragioniamo” diverse valenze; veniva usata per dialogare, per spiegarsi, per arrivare ad una decisione in comune, presa senza che uno volesse imporre il proprio punto di vista. Don Bosco fece in seguito del termine “ragione” una delle colonne portanti del suo metodo educativo. In questa prospettiva il dialogo tra Domenico Savio e Don Bosco è un vero e proprio patto educativo che guidò il giovane santo ad un impegno: “Dunque io sono la stoffa; lei ne sia il sarto; dunque mi prenda con sé e farà un bel abito per il Signore”.
Alla luce di questa memoria, il poema proposto diventa un messaggio per ogni adulto consapevole educatore, perché i bambini e i ragazzi guardano e fanno quello che tu fai, non quello che tu dici.
QUANDO CREDEVI CHE IO NON STESSI GUARDANDO
Quando
credevi che io non stessi guardando,
ti ho vista attaccare il
mio primo disegno sul frigo
e subito ho voluto farne un
altro.
Quando credevi che io non stessi guardando,
ti ho
vista dar da mangiare a un gatto randagio,
e ho imparato che è
bene essere buoni con gli animali.
Quando credevi che io non
stessi guardando,
ti ho vista preparare per me il mio dolce
favorito,
e ho imparato che le cose piccole possono essere cose
speciali nella vita.
Quando credevi che io non stessi
guardando,
ti ho vista cucinare un pranzo e portarlo a un amico
ammalato,
e ho imparato che dobbiamo prenderci cura gli uni
degli altri.
Quando credevi che io non stessi guardando,
ti
ho vista curare la nostra casa e quelli che vi abitano,
e ho
imparato che bisogna prendersi cura di ciò che abbiamo
ricevuto.
Quando credevi che io non stessi guardando,
ti ho
vista affrontare le tue responsabilità anche se non ti sentivi bene,
e ho imparato che dovrò essere responsabile quando sarò
grande.
Quando credevi che io non stessi guardando,
ho
visto sgorgare lacrime dai tuoi occhi,
e ho imparato che certe
cose a volte fanno soffrire, ma che piangere va bene.
Quando
credevi che io non stessi guardando,
ho visto che eri
preoccupata,
e ho voluto essere tutto ciò che potrei
essere.
Quando credevi che io non stessi guardando,
ho
imparato la maggior parte delle lezioni di vita che dovrò sapere
per essere una persona buona e utile quando crescerò.
Quando
credevi che io non stessi guardando,
ti ho guardata e volevo
dire: «Grazie di tutto quello che ho visto
quando credevi che
io non stessi guardando».
Ognuno di noi (genitori, nonni, zie,
zii, maestri, amici) influisce sulla vita di un bambino.
E la
cosa importante è sapere in che modo toccheremo oggi la vita di
qualche persona.
Viviamo semplicemente. Amiamo generosamente.
Curiamo seriamente. Parliamo gentilmente.
Roma, 31 Dicembre 2012 – 1 Gennaio 2013
Don Pascual Chávez V., SDB
Rettor Maggiore
[1] Art. 21 – Carta di identità carismatica della Famiglia Salesiana – Roma 2012
[2] Giovanni Bosco. Lettera ai ragazzi di Lanzo, 3 gennaio 1876, in Epistolario, a cura di Francesco Motto, LAS Roma, vol. V, p. 38
[3] Cfr SAN FRANCESCO DI SALES, Lettre à la Présidente Brulart, Annecy, 18 febbraio 1605, in Oeuvres, vol. XIII, p.16.
[4] MB V, p. 367
[5] Cfr Art. 33 – Carta di identità carismatica della Famiglia Salesiana – Roma 2012
[6] Giovanni Bosco, Lettera a don Giuseppe Lazzero e alla comunità degli artigiani di Valdocco, Roma 20 gennaio 1874, in Epistolario,a cura di Francesco Motto, LAS Roma 2003,vol. IV p. 208
[7] Cfr Art. 32 – Carta di identità carismatica della Famiglia Salesiana – Roma 2012
[8] Cf. G. BOSCO, Dei castighi da infliggersi nelle case salesiane, in P. BRAIDO, Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, LAS, Roma 1992, p. 340.
[9] Cf. P. BRAIDO, Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di Don Bosco, LAS, Roma 1999, p. 181.
[10] P. RUFFINATO, Educhiamo con il cuore di Don Bosco, in “Note di Pastorale Giovanile”, n. 6/2007, p. 9.
[11] G. Bosco, Il sistema preventivo nella educazione della gioventù, in Pietro Braido (ed.), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, p. 248ss. (citato dall’art. 17 della Carta di identità carismatica della Famiglia Salesiana, Roma 2012)
[12] Cfr Art. 7 – Carta di identità carismatica della Famiglia Salesiana – Roma 2012
[13] Così recita l’art. 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
[14] Si veda P. Pascual Chávez Villanueva, Educazione e cittadinanza. Lectio Magistralis per la Laurea Honoris Causa, Genova, 23 aprile 2007.