La rivendicazione del Diritto alla Comunicazione è generalmente accompagnata da discussioni relative a
temi quali: il diritto alla riservatezza, la proprietà intellettuale, la libertà d’espressione. Per quanto
concerne il software libero, non vi è alcun dubbio che tuteli al meglio il diritto alla riservatezza, liberi dal
fardello della proprietà intellettuale, offra spazi più vasti alla creatività espressiva. Si tratta di temi già
ampiamente esplorati dalla comunità FLOSS, e tuttavia quasi sempre in chiave individuale. Il grande
assente è il contesto comunitario in cui tali libertà si esercitano, nonché l’aspetto culturale. Il mondo
virtuale non è, come spesso si crede, un indistinto coacervo di contenuti immessi caoticamente, cui
occorre avere accesso. Rassomiglia piuttosto a una rete di persone che comunicano e si scambiano
informazioni: il mezzo che queste utilizzano è sempre quello linguistico.
Pochi sanno che la rapida diffusione del software libero nel mondo deve molto a un fraintendimento di
natura linguistica. Nel 1992 Microsoft introdusse in Cina programmi software con codifica in lingua
cinese. Essi, però, piuttosto maldestramente, erano stati impostati con un insieme di caratteri utilizzato
nella Cina pre-rivoluzionaria, oggi non più in vigore se non a Taiwan. I rappresentanti della Cina
Popolare, che nel 1949 aveva adottato un nuovo sistema di scrittura, si ritennero offesi dal fatto che una
decisione così importante fosse stata presa negli Stati Uniti, senza il coinvolgimento di agenti locali. I
rapporti tra l’azienda informatica e le autorità cinesi, divenuti pertanto problematici, si deteriorarono
rapidamente negli anni successivi. Forse anche in conseguenza di tali accadimenti la Cina decise di
orientarsi all’utilizzo di sistemi operativi di tipo open source, escludendo di fatto l’azienda leader
mondiale dal più grande mercato potenziale del mondo. Questo esempio dimostra come
un’apparentemente banale decisione tecnica abbia potuto assumere un significato politico e culturale
che non si era saputo prevedere e che ha condotto in seguito a ripercussioni di carattere economico.
La comunità open source, in questi anni, ha saputo produrre molto software in lingua locale, offrendo
anche a popolazioni poco numerose, e dunque poco appetibili per il mercato mondiale, la possibilità di
disporre di software nella lingua di appartenenza. In molti casi, purtroppo, la localizzazione si è limitata
alla traduzione e, per il resto, si sono riprodotte anche nei software localizzati funzioni e impostazioni
già presenti nei più famosi software proprietari, magari con il nobile proposito di accelerarne l’adozione
e la diffusione.
La localizzazione, in realtà, è un processo di adattamento assai più delicato di una traduzione. Richiede
una profonda capacità, da parte dei programmatori, di adattare le proprie creazioni alla cultura
dell’utilizzatore, di cui la lingua non è che una delle espressioni. Pensiamo, per fare qualche esempio, a
quanta attenzione debba essere prestata alla scelta delle icone grafiche, ormai componente irrinunciabile
dei moderni sistemi operativi. Oppure si pensi al linguaggio dei colori: mentre il rosso indica “stop” o
“pericolo” nei paesi occidentali, esso può significare “vita” o “speranza” in altre culture. Un altro
esempio è dato dalla tipologia di scrittura di una lingua: i caratteri utilizzati dall’alfabeto, la particolare
modalità di scorrimento del testo, il modo in cui vengono scritte le date e il calendario utilizzato, le
modalità di ricerca utilizzate dai dizionari incorporati nei programmi di videoscrittura. Sono problemi
soltanto apparentemente tecnici, che possono invece inficiare la possibilità di un’autentica
comunicazione.
Un altro problema strettamente legato alla localizzazione è quello della standardizzazione linguistica. La
comunità FLOSS vive generalmente un rapporto ambiguo e non di rado conflittuale con la comunità
che si occupa dei problemi della standardizzazione, a causa dei risvolti commerciali che ogni
standardizzazione comporta. Eppure la mancata attenzione a questo aspetto può causare effetti
disastrosi. In India, per esempio, sia il governo indiano sia le aziende informatiche hanno fallito nel
tentativo di creare standard universalmente condivisi per le lingue indiane e di costruire un software
localizzato che se ne serva. La mancanza di uno standard di codifica univoco ha reso impossibile
ricercare nell’internet dati in lingua hindi utilizzando un comune motore di ricerca come Google. È
sorprendente che si possano effettuare ricerche in una lingua come l’estone, parlata da non più di un
milione e mezzo di individui, ma non nella lingua hindi, che conta quasi mezzo miliardo di parlanti.
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