Nelle Orme di San Paolo - lectio su 1 Cor 8,1-13

Lectio su 1 Cor 8,1-13


Liberi da tutti…,

mai, però, nei confronti del fratello debole





La comunità di Corinto, come ogni altra comunità cristiana frutto del primo sforzo missionario all’interno del mondo greco-romano, incontrava delle difficoltà nella sua convivenza interna, a causa dell’influsso che le credenze e i costumi dell’ambiente pagano esercitavano ancora sui suoi membri.


Il caso delle carni immolate agli idoli costituì, indubbiamente, una fonte di tensioni fin dai primi giorni. Oggi a noi riesce difficile immaginare il pericolo che supponeva per la neonata vita in comune dei nuovi cristiani la questione degli “idolotiti”. Una gran parte della carne che si vendeva nei mercati era stata oggetto di culto nei templi pagani; l’origine sacrificale di tale carne metteva i credenti nel dilemma di accettare inviti di amici e familiari pagani, senza rinunciare alla loro convivenza, o a rifuggire da una familiarità con essi, il che inevitabilmente induceva una emarginazione sociale.


Le soluzioni che, a livello personale, trovava tale situazione creavano tensioni e scandali nella comunità: la vita stessa di fraternità correva pericolo. L’obiezione a mangiare carne sacrificata nasceva da un paganesimo idolatrico diluito, non ancora superato da alcuni cristiani; altri, in cambio, basandosi sulla loro fede monoteista, erano riusciti a liberarsi da quella ripugnanza e a testimoniare in concreto di fronte agli idoli quella libertà che la fede cristiana concede al credente.



  1. Per capire il testo



1Riguardo alle carni immolate agli idoli: noi sappiamo, poiché abbiamo tutti la scienza. Ma la scienza gonfia, mentre la carità edifica. 2Se alcuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora appreso come bisogna sapere. 3Chi invece ama Dio, è conosciuto da Lui. 4Riguardo dunque al mangiare le carni immolate agli idoli, noi sappiamo che un idolo è nulla al mondo, e che non esiste che un Dio solo. 5Anche se infatti vi sono delle pretese divinità nel cielo e sulla terra, come di fatto vi sono molti dèi e molti signori, 6per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene, e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, per mezzo del quale sono tutte le cose e noi siamo per mezzo di lui. 7Ma non tutti hanno la scienza; anzi alcuni, per la consuetudine avuta fino al presente con gli idoli, mangiano le carni come carni sacre agli idoli, e la loro coscienza, debole com’è, si macchia. 8Non sarà certo un alimento a raccomandarci a Dio; né, privandocene, veniamo a mancare di qualche cosa, né mangiandone abbiamo di più; 9badate piuttosto che questa vostra libertà non divenga un inciampo per i deboli. 10Se uno infatti vedesse te, che hai la scienza, a convito in un tempio di idoli, non resterebbe forse la sua coscienza debole spinta a mangiare le carni immolate agli idoli? 11E così per la tua scienza va in rovina il debole, il fratello per il quale Cristo è morto! 12E peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. 12Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne giammai, per non dare scandalo al mio fratello!”


Paolo comincia affermando che tutti dovrebbero sapere che cosa fare, dato che a tutti è stato dato conoscere quel che afferma la fede: aver paura di entrare in contatto con la divinità attraverso qualcosa che è stato consacrato ad essa è timore infondato per chi confessa come unico il Dio Padre di nostro Signore Gesù.


Ma stabilisce, quasi inavvertitamente, un altro principio che costituirà la chiave di soluzione: l’amore è superiore alla conoscenza, posto che solo l’amore edifica. Chi ama sa di essere conosciuto dal suo amato. E’ il principio che applicherà al caso concreto.


Il fatto che in una comunità non tutti abbiano raggiunto lo stesso grado di maturazione cristiana, obbliga i più ‘saggi’ a riconoscersi responsabili dei più deboli. Chi, non ancora conquistato del tutto dalla propria fede, trova scandaloso fare uso della libertà concessa, deve essere rispettato nella sua coscienza; la liberazione da antiche schiavitù non può diventare pietra di scandalo per i più deboli.



  1. Per illuminare la vita



Se c’è qualcosa che è sovrabbonda ai corinzi – riconosce Paolo – è la loro capacità di discernimento spirituale e il vissuto della loro libertà cristiana. Ma prima di dare ragione al gruppo che viveva con maggior coerenza la sua fede nell’unico Dio, ha ricordato loro un principio ancora più fondamentale, più decisivo di quello del sapere che si è liberi dagli dèi: la carità verso il fratello, sapere che si è servi del credente con cui si condivide fede e vita; una conoscenza di Cristo che non porti al riconoscimento del prossimo non si può autenticare come cristiana; la sapienza che non costruisce comunità, è superbia umana.


Conoscere Dio non significa riuscire a comprenderlo, ma sapersi compreso da lui; conoscerlo implica riconoscerlo come Dio, sentirsi grato sentendosi graziato. Infatti conoscere Dio non proviene dallo sforzo intellettuale del credente, ma dall’agire sorprendente e meraviglioso dell’unico Dio, che è Padre perché ha pensato a noi prima che noi pensassimo a Lui e ci ha concepito molto prima che fossimo concepiti; siamo stati nel suo cuore prima che Egli fosse sulle nostre labbra; prima di amarlo, siamo stati amati da Lui. Siamo prodotto dell’amore divino: la conoscenza cristiana del credente è semplice riconoscimento.


Quante volte abbiamo accumulato saperi su Dio senza riuscire a riconoscerci amati da Lui! Crediamo di essere meglio formati perché siamo un poco più informati; dato che sappiamo parlare di Dio, pensiamo che Dio dovrebbe parlare con noi. Conoscere Dio non implica sapere molte cose su di Lui, ma sapersi amato da Lui; questo riconoscersi oggetto della volontà divina è la base della conoscenza cristiana e solo questa conoscenza costruisce comunità.


Occorrerebbe verificare se le nostre difficoltà a creare comunità e vivere in comune la fede non provengono magari da questa incapacità di sentirsi compresi da Dio. Colpisce il fatto che tra di noi a malapena parliamo della nostra esperienza personale con Dio, non ammettiamo nessuno al nostro dialogo personale con Lui, non ci fidiamo di quelli che condividono la nostra vita e la nostra dedizione. Non dovremo meravigliarci se le nostre comunità non riescono a dare testimonianza convincente dell’amore di Dio, se non si arriva al dialogo interpersonale, se non abbiamo il coraggio di confidarci con chi, come noi, condivide conoscenza ed esperienza dello stesso Dio.


L’unica conoscenza cristiana che costruisce comunità, che la edifica, è l’amore che Dio ha per noi: come sarebbe facile vivere in comune se ci riconoscessimo tutti e ciascuno oggetto dell’amore personale di Dio! E’ questo il “sapere” cristiano che è alla base della libertà del credente; sapere che la propria origine e finalità si trova in un Dio Padre, che si è creati e ricreati mediante l’intervento di un unico Signore, libera dal timore verso qualsiasi potenza superiore e dalla sottomissione a qualsiasi padrone che pretenda obbedienza.


Questa “conoscenza” cristiana manifesta il mondo come creatura e gli uomini come servi di Cristo, essendo stati creati da lui. Non vi è potere alcuno nel creato che possa chiedere o attendersi culto da un credente. La desacralizzazione di quanto nel cielo e in terra non è Dio, ne è la conseguenza. Una fede così liberatrice dovrebbe consolarci; colui che crede in Dio Padre, origine e meta della nostra esistenza, non può aver paura di niente e di nessuno, fatta eccezione del suo Dio, che è il Padre che ci ha immaginato e che pensa a ricrearci. Il servo del Signore Gesù, intermediario del suo essere e del suo rinascere, non deve obbedienza a nessun altro signore; né il mondo né gli uomini, poteri invisibili o potenze concrete, sono degni del nostro rispetto o del nostro timore. E’ questa la forza liberatrice, anche da dèi o da padroni, la cui realtà è innegabile, che proviene dal riconoscersi fedeli ad un solo Dio e servi di un unico Signore. Ma una fede così liberatrice dovrebbe infonderci anche timore; il credente non fa affidamento su nessun luogo nel mondo né su alcun potere fra gli uomini, capace di sottrarlo al suo destino, che è Dio Padre, né al suo Signore, che è Cristo Gesù: la disobbedienza si paga non con nuove servitù, ma con la perdita di un Padre e di un Salvatore.


Orbene, la libertà cristiana ha la sua frontiera nel fratello meno preparato a viverla: per quante ragioni possiamo avere, per quanto liberi ci sentiamo, per quanto possiamo crederci esperti, la validità delle nostre motivazioni, la legittimità della nostra libertà, la autenticità del nostro sapere risiedono nel rispetto e nell’attenzione verso il fratello meno forte, meno libero, meno saggio.


Bisogna prendere sul serio il fatto che Paolo stia fissando i limiti della libertà di colui che ha coscienza di essere nella verità; il che non impedisce che chi ostacola lo sviluppo di una libertà legittima, nata dalla fede in Dio e nel servizio al Signore, sia una persona non ancora matura, ancora legata al proprio errore passato ed ai suoi idoli; basta sapere che si tratta di un fratello che può cadere, precisamente, perché invidia la nostra vera libertà. Non vi è conoscimento né liberazione che possa autorizzarci a ignorare le ragioni di chi non è giunto al nostro grado di maturità cristiana ed a liberarci dai suoi scrupoli.


Il cristiano non può fare della propria libertà motivo di scandalo; smette di essere fratello, chi ama tanto la propria libertà da mettere in pericolo la salvezza del prossimo: una liberazione che è sorta dalla morte di Cristo non deve condurre alla morte del cristiano. E dato che questa libertà non è stata frutto di sforzo personale, essendo stata concessa gratuitamente, può essere sacrificata gratuitamente per ottenere la libertà del fratello. Sperimentarsi libero contro o di fronte al fratello ancora schiavo dei propri pregiudizi, significa attentare contro quella stessa libertà di cui siamo stati gratificati; meglio la rinuncia alla libertà a cui abbiamo diritto che condannare il fratello per cui Cristo è morto. La salvezza del debole può esigere la rinuncia del forte alla propria salvezza individuale, sia pure legittima.


Nella nostra vita comune e nella nostra azione apostolica, quante volte pecchiamo contro il fratello, ritenendoci più forti, più saggi, più liberi! Ci riteniamo migliori, liberandoci dal rispetto delle coscienze di quanti convivono con noi; a volte siamo arrivati a fare dello “scandalo” una tattica di urto nell’evangelizzazione; a forza di mostrarci forti, abbiamo fomentato la debolezza e la schiavitù a dèi falsi; non prestando attenzione alle obiezioni del fratello, ai suoi dubbi e alla sua immaturità, senza tener conto delle sue paure infondate e senza comprendere la sua incapacità di essere così libero come noi, lo abbiamo spinto ad andare contro la sua coscienza e il suo Dio. Il credente in Cristo, l’apostolo di Dio, è sempre disposto ad essere un poco meno libero pur di essere un po’più fraterno, di non schiacciare il fratello col peso del proprio sapere e delle proprie libertà, se in tal modo si riesce a salvarlo dal tradimento della sua coscienza e del Signore comune. Da tutto e da tutti ci ha liberato Cristo, meno dal fratello debole; la sua coscienza, anche se erronea, definisce e segna il limite della libertà cristiana. Per rispettare il fratello scrupoloso Dio ci ha fatti liberi.



  1. Per fare preghiera la vita



Chiedo a Dio che mi conduca alla conoscenza del suo amore, che mi renda consapevole che sono da Lui amato e che basi su questo riconoscimento il modo di vedere le cose e i fratelli e il modo di trattarli.


Chiedo a Dio che mi dia consapevolezza della libertà che mi dà di servirlo in esclusiva. Che sappia godere della liberazione del non avere altri signori fuori di Lui.


Chiedo a Dio che mi dia il coraggio di rinunciare a tale libertà pur di non rinunciare ai miei fratelli. Che mi liberi, se è il caso, dalla mia autonomia e magari anche dalla mia vita pur di non sentirmi libero dalla vita e dal bene dei miei fratelli.


4