Lectio su 1 Cor 1, 4-9
Pregare per la comunità,
missione della vita apostolica
Dopo il saluto di rigore, la prima cosa che Paolo scrive alle sue comunità è, invariabilmente, una preghiera. Solo nella lettera ai Galati l’apostolo ha rinunciato alla preghiera iniziale; in quell’occasione non gliene mancavano buoni motivi (cf. Gal 1,6-10). L’eccezione conferma la regola. Paolo cominciava le sue lettere pregando per – e davanti a – le sue comunità. Questa caratteristica dell’epistolario paolino svela un tratto fondamentale della sua vocazione apostolica.
L’apostolo, che scriveva per mettersi in comunicazione con le sue comunità, si metteva in comunicazione col suo Dio. Pensare ai suoi lo portava a pensare a Dio che glieli aveva dati: parlare loro come inviato da Dio gli richiedeva di parlare col Dio che lo inviava, affrontare i suoi destinatari implicava per lui dover affrontare Dio che lo aveva assegnato loro; voler sapere qualcosa dei suoi faceva sì che sapesse di essere di Dio. Chi sa di essere interpellato da Dio con una missione affidatagli, risponderà al suo Dio rispondendo della sua missione: la responsabilità nei confronti della comunità è la preghiera dell’apostolo eletto. E questa risposta bisogna dirla a Dio davanti alla comunità.
1. Per capire il testo
4Ringrazio sempre il mio Dio per voi, per la grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù; 5perché in lui siete stati arricchiti di ogni cosa, di ogni dono di parola e di ogni conoscenza, 6essendo stata confermata tra di voi la testimonianza di Cristo; 7in modo che non mancate di alcun dono, mentre aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. 8Egli vi renderà saldi sino alla fine, perché siate irreprensibili nel giorno del Signore Gesù Cristo. 9Fedele è Dio che vi ha chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro.
Paolo rende grazie a Dio per quanto Egli ha operato nei corinzi (1,4-7°: arricchiti di ogni cosa.. non mancate di alcun dono) e che rappresenta la maggiore garanzia per affrontare l’atteso giorno del Signore senza timori né mancanze (1,7b-8). Chi è a conoscenza delle circostanze di questa lettera rimarrà sorpreso da questo inizio: sembrerebbe che Paolo non avesse scoperto altro che problemi in questa comunità. Eppure…
Il motivo appare alla fine: la fedeltà dei corinzi si basa sulla fedeltà di Colui che li ha chiamati (1,9). Paolo “basa” il suo ringraziamento non su quel che fanno i corinzi bensì su quanto Dio fa in loro. Ed è riconoscendo i doni che vi sono nella comunità il modo in cui identifica Dio come il donante (1,4), colui che arricchisce (1,5) e conferma (1,6), che ha chiamato (1,9): quel che sono i cristiani lo devono a Dio. Gli apostoli che pregano quando pensano ai loro, sanno essere grati al loro Dio.
2.Per illuminare la vita
Risulta difficile comprendere la povertà della vita di preghiera in cui viviamo oggi noi apostoli: la mancanza di motivazioni – e di immaginazione – per esprimersi, la scarsezza di temi e di voglie, la tremenda superficialità della nostra vita personale di preghiera mettono – in fin dei conti – allo scoperto fondamentalmente la nostra infedeltà vocazionale. La fretta con cui andiamo via dalla preghiera comunitaria e le scuse che accumuliamo per evitarla non sono altro che il rovescio, la disgraziata conseguenza, della fretta della convivenza con i nostri destinatari e delle scuse accumulate per evitare la loro compagnia.
Sta diventando per noi ogni giorno più penoso parlare con Dio, quel Dio che parlò con noi per parlarci dei nostri destinatari, perché è diventato penoso parlare con coloro che Dio ha stabilito come destinatari della nostra vita. Ritornare a comunicare con essi, ritornare sui loro problemi, riprendere le loro pene e le loro attese, avvicinarci al loro peccato e alla loro solitudine, ci ridarebbe la capacità di comunicazione con Dio, il gusto della preghiera. E Dio si avvicinerebbe a noi per andare al di là dei nostri peccati e della nostra solitudine.
La nostra comunità, motivo della nostra preghiera
Come inviati di Dio non abbiamo altro modo di costringerlo a prestarci attenzione se non prestando noi attenzione ai nostri destinatari. All’apostolo basta sapere che gli à stata affidata una comunità, perché si senta oggetto della fiducia divina: la sua stessa comunità è la prova irrefutabile della fiducia dimostratagli da Dio. La comunità a cui siamo stati inviati non può mai convertirsi in ostacolo per la preghiera dell’apostolo cristiano: deve esserne l’oggetto, il contenuto, la motivazione. L’apostolo non può esaurire i temi della sua preghiera: potrà – dovrà- raccontare a Dio la vita della comunità che gli è stata affidata.
I nostri destinatari devono sapere che sono motivo della nostra preghiera di apostoli, che pensare a loro ci spinge a pregare, che dirigerci a loro vuol dire dirigerci a Dio. Quale migliore prova di predilezione possiamo dar loro se facciamo sì che si accorgano che sono essi la causa e il tema della nostra conversazione con Dio! Risulterà loro molto più facile confidarsi con noi, quando sappiano che li abbiamo affidati a Dio. Mancano al nostro popolo apostoli oranti, che parlino del Dio con cui hanno parlato. Solo gli oranti possono essere testimoni convincenti; stiamo allontanando Dio dal nostro mondo a forza di tacerlo; e lo tacciamo non tanto perché non parliamo molto di Lui, ma perché non parliamo più con Lui.
Pregare, attività prioritaria dell’apostolo
La preghiera per la comunità è prioritaria nella vita dell’apostolo, non perché sia la cosa più importante da fare, ma perché è la prima cosa che viene in mente al vero apostolo, quando si mette in comunicazione con i suoi.
La vita dell’apostolo non può essere un divertimento, un riposo, una fuga dal mondo. E la missione in obbedienza, l’apostolato da svolgere, non devono essere una scusa per evitare la preghiera personale; oggi le nostre comunità hanno diritto alla nostra preghiera, perché è l’unico argomento che può convincerle che stiamo tra loro gratuitamente, esprimendo e vivendo l’amore che Dio ha per loro.
E’ forse una casualità che la nostra vita apostolica manchi così tanto di motivi di ringraziamento a Dio che ci ha costituiti suoi apostoli? Non sapere o non potere ringraziare Dio per il dono concesso (una chiamata come presupposto e una comunità come destinazione) mette allo scoperto la nostra ingratitudine verso Dio. Ritornare al ringraziamento significa ricuperare la capacità di ammirare Dio e la nostra comunità; sentire riconoscenza ci riempirà di quella stima per le nostre cose, per la nostra chiamata e per la nostra comunità, che ci sta mancando.
Una buona ragione per vivere riconoscenti
Non c’è bisogno di molti motivi per diventare apostoli riconoscenti: non occorre attendere finché la nostra comunità non lasci nulla a desiderare o che la nostra vocazione ci abbia dato tutto quel che ci attendevamo da essa. Nessuno dei doni ricevuti sono stati da noi chiesti o meritati, non sono stati fatti a nostra misura né destinati a soddisfare i nostri bisogni. Chi vede, come Paolo, la propria comunità come frutto della grazia divina non può non vivere riconoscente. Il dono ricevuto è sufficiente per alimentare una vita eucaristica; dovremmo esaminarci sulla nostra capacità di vivere con riconoscenza verso Dio, poiché ha qui la sua radice, probabilmente, una delle cause più profonde della nostra povertà apostolica: risulta un cattivo inviato colui che non si riconosce con gratitudine oggetto di un mandato; una povera eucaristia sarà in grado di fare colui che non riconosce nella propria comunità la grazia fattagli da Dio, che gli è stata data in Cristo Gesù.
Noi, eletti da Dio, non abbiamo diritto a negargli giorno per giorno, il riconoscimento del suo dono. Così come i corinzi, le nostre comunità hanno diritto a vedere che siamo riconoscenti a Dio, perché ce le ha affidate come destinatarie della nostra esistenza di credenti. L’apostolo cristiano è ministro dell’eucaristia non solo quando la celebra sacramentalmente, ma anche quando la vive normalmente; vedere in questa ottica la nostra comunità, col cuore di apostolo ‘bennato’, cioè, grato, ci ridonerà motivi per la nostra eucaristia.
3. Per fare la vita preghiera
Chiedo a Dio, che mi ha inviato alla comunità cui presto il mio servizio nel suo nome e in cui lo rappresento, che mi aumenti le “voglie” di mettermi in comunicazione con essa, di non dimenticarla quando mi trovo lontano da essa e di non dimenticarLo quando sto con essa.
Chiedo a Dio che mi dia la capacità di contemplare la mia comunità come la vede Lui, che possa scoprire la Sua azione, la Sua presenza in essa. Che mi faccia vedere i doni di grazia – orme del suo agire – che le ha donato mediante il mio ministero; che mi faccia riconoscere come lavora con me, gomito a gomito, al mio fianco, condividendo successi e distribuendo fallimenti, stanchezza e aspettative.
Chiedo a Dio che mi faccia diventare uomo ‘eucaristico’, apostolo che riconosce nella sua comunità la presenza di Dio e gliene rende grazie nella preghiera.
4. Per contemplare Dio nella vita
Contemplo la mia comunità con gli ‘occhi’ di Dio. La vedo come Egli la vede, la stimo come Egli la stima, la amo come Egli la ama. Fino a dar la vita per essa, come Egli ha consegnato la vita del suo Figlio.
Contemplo Dio nella mia comunità. Scopro il suo operato, tranquillo ma costante, speranzoso e paziente. Al di là delle evidenti mancanze, e persino attraverso di esse, vedo Dio e celebro la sua comprovata fedeltà con i miei.