Lectio su Gal 2,11-21
‘La verità del vangelo’:
certezza di essere salvati solo per la fede e passione per la vita comune
Il discorso di Paolo ad Antiochia conclude il racconto autobiografico (Gal 1,13-2,14a) con cui ha cercato di confermare l’origine divina del suo vangelo e l’indipendenza del suo apostolato (Gal 1,1.11-12). Per comprendere quanto espone ai galati non si può sorvolare il fatto che - anche nel caso che stesse ripetendo il medesimo discorso pronunciato davanti a Pietro, Barnaba e gli altri (Gal 2,11.13), cosa ben incerta – lo scrisse avendo i galati quali destinatari. In Galazia, così come prima ad Antiochia e a Gerusalemme (Gal 2,5.15), Paolo vide messa in discussione la verità del vangelo (Gal 2.5.14). Ma il discorso che egli colloca ad Antiochia fu pensato per la crisi galata. Paolo tace sul risultato del suo intervento; forse non gli è stato favorevole. Di fatto, da questo momento Paolo si separerà da Barnaba e si allontanerà da Antiochia (cf. At 15,36-39).
Per capire il testo
Il discorso, tanto conciso quanto efficace, è ben costruito. È la prima, e più chiara, proposta della dottrina sulla giustificazione per la fede, ‘cuore’ per molti del pensiero paolino.
Una chiave per entrare nella sua logica interna è la alternanza di soggetti grammaticali: si apre con una invettiva diretta a Pietro (tu: Gal 2,14b), seguita da un noi (Gal 2,15-17) che comprende Pietro, Paolo, Barnaba e gli altri giudeo-cristiani. Gal 2,18-21 ha come protagonista un io che non può essere limitato esclusivamente a Paolo, dato che esprime qualcosa di valido per qualsiasi uomo (Gal 2,18) e per ogni cristiano (Gal 2,19-21).
La notevole presenza di proposizioni condizionali (Gal 2,14b.17.18.21b) danno al discorso una tonalità di argomentazione sostenuta; impressione confermata dalle numerose antitesi, tipicamente paoline, che appaiono in tutto il discorso (Gal 2,14b-15.16.19-21a). L’insistente ripetizione del termine ‘Cristo’ (Gal 2,16.16.17.17.19.20.21) indica la concentrazione cristologica del paragrafo centrale, chiaramente identificato da una inclusione verbale (Gal 2,16.21).
Gal 2,14b fa da collegamento tra il racconto (Gal 2,11-14a) e il discorso (Gal 2,14b-21): trasmette l’interpretazione paolina di quanto accaduto e ne evidenzia le conseguenze.
14bSe tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?
Prima di addentrarsi in considerazioni teologiche, davanti a tutti, Paolo rivolge il suo rimprovero a Pietro, e lo presenta come istigatore e responsabile della divisione esistente nella comunità. È da supporre che Pietro, Barnaba e gli altri siano rimasti sorpresi davanti a simile correzione, piuttosto per il motivo addotto che per il modo di farla.
Secondo Paolo, Pietro si era comportato da pagano e da giudeo successivamente, prima insieme ad essi, poi appartandosene. Col suo cambiamento - deduce Paolo - sta imponendo ai credenti di origine pagana di accettare usanze giudaiche poiché, dopo la separazione, solo così si conserverebbe l’unità. Pietro starebbe condizionando la comunanza di vita all’accettazione di pratiche che egli stesso, prima che arrivassero quelli di Giacomo, non avrebbe considerato valide.
La forza del rimprovero sta in una deduzione che fa Paolo, e che non sapremo mai se sia stata condivisa da Pietro né se l’abbia almeno prevista. Un comportamento temporeggiatore, rispettoso delle diverse sensibilità, obbligava i non-Giudei ad adottare la forma di vita, in questo caso riguardo ai pasti, propria dei Giudei. L’argomentazione si sostiene in quanto per Paolo è evidente che i Gentili sarebbero disposti a sacrificare le proprie diffidenze pur di continuare a convivere con Pietro.
Gal 2,15-16 contiene il punto di partenza dell’argomentazione e la tesi di fondo; con abilità, Paolo la espone come convinzione di fede del giudeo-cristiano.
15Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori,
Il ‘noi’, adesso, include Paolo, Pietro e gli altri Giudei ‘per natura’; in modo conciso viene espressa la coscienza giudaica. Secondo la persuasione del giudeo, il giudeo-cristiano pure, egli deve questo vantaggio sul pagano unicamente alla misericordia di Dio, alla sua elezione. I pagani sono peccatori perché, non avendo la legge, non possono adempierla.
Paolo non vuole captare la benevolenza dei supposti interlocutori; dà per scontata la situazione di privilegio del popolo giudaico. Il suo punto di partenza, quindi, è pienamente nel contesto dell’ortodossia giudaica.
16sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede di Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge ‘non verrà mai giustificato nessuno’”.
Cominciata nel versetto precedente, la frase continua, sovraccarica di ripetizioni. Paolo, preoccupato di precisare quanto vuol dire, complica la frase. Infatti con tre soli concetti basilari (giustificare, legge, fede) si stabilisce una elaborata antitesi.
Coloro che hanno creduto in Cristo ‘sanno’ da dove procede la loro salvezza: la fede produce una conoscenza che facilita l’adesione a Gesù: crede in lui chi sa – poiché ne è sicuro – che l’obbedienza della legge non giustifica. Tale affermazione è possibile solo partendo dalla fede in Gesù come il Cristo (ripetuto tre volte come titolo); è, in realtà, la professione di fede del giudeo-cristiano, e viene sorretta da una citazione biblica (Sal 142,2LXX). Non solo i gentili, pure i giudeo-cristiani trovano la giustizia nella fede in Cristo.
Non è pensabile che tutti i giudeo-cristiani vedessero il contenuto della loro fede nel Messia Gesù allo stesso modo come lo presenta Paolo. Il problema di Gerusalemme e di Antiochia non si sarebbe presentato, se tutti i cristiani di etnia giudaica avessero potuto esprimersi come fa qui l’apostolo. Paolo, occorre avvertirlo, ha obbligato – in forma magistrale – i suoi antagonisti a vedere la questione teologica come la vedeva lui, avendo loro prima concesso quei privilegi ‘naturali’, che poi nega appoggiandosi precisamente sulla loro fede in Cristo.
Per giungere a questo risultato ha dovuto accumulare sfumature e ripetere senza necessità espressioni che gli sono tipiche. Ciò nonostante, non è difficile scoprirne la disposizione formale, in simmetria concentrica: la frase principale è al centro.
a l’uomo non è giustificato dalle opere della legge
b ma soltanto per la fede di Gesù Cristo,
c abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati
b’ dalla fede in Cristo
a’ e non dalle opere della legge,
d poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno.
Si può osservare che le negazione, ripetute tre volte, accompagna sempre la formula ‘dalle opere della legge’. L’unica affermazione positiva, che si colloca al centro della inclusione, ha come soggetto un ‘noi’ cristiano. Qui il verbo ‘giustificare’ – sempre in passiva, sottointeso Dio come agente – è all’aoristo, mentre le altre volte, in negazioni universali, si usa al futuro o al presente; Dio è chi prende l’iniziativa di giustificare, di rimettere cioè il credente in rapporto di alleato. L’agire secondo la legge, senza fede in Cristo, è considerato – e non contempla alcuna eccezione – negativo in vista della salvezza.
Alla base della dottrina paolina della giustificazione vi era, quindi, la esperienza personale e apostolica di Paolo. Come credente e come missionario, lui è il miglior testimone del suo vangelo. Il teologo dell’amore gratuito di Dio è il credente conquistato immeritatamente da Cristo e apostolo predicatore di una giustificazione senza condizioni previe. La legge non fu sufficiente per il giudeo Saulo, né era, dunque, necessaria per i pagani in vista della loro giustificazione. Persona credente e vangelo creduto non si possono separare nella vita e nella teologia di Paolo.
Nessuno può illudersi di trovare una strada di accesso a Dio basandosi sull’adempimento legale, di conseguenza è rimosso qualsiasi privilegio ricevuto automaticamente in vista della salvezza. La giustificazione non è una meta da raggiungere, né si costruisce progressivamente, né si colloca nell’avvenire; è un evento passato e unico, puntuale e compiuto, simultaneo al momento dell’adesione a Cristo. L’obbedienza che gli si chiede deve condurlo all’accettazione del dono che gli si concede, non alla produzione di opere, per buone che siano. Ma la fede che si esige dal cristiano non è semplice fiducia nel potere di Dio; supera, includendola, la dimensione soggettiva, il rapporto interpersonale del credente con il suo Dio, giacché ha un contenuto preciso: un uomo concreto, Gesù morto e risorto. Non si tratta di fare qualcosa ma di accettare qualcuno.
Paolo, parlando in base all’esperienza del giudeo credente in Cristo, evita di porre la formula ‘dalle opere della legge’ quando afferma in positivo la giustificazione; in quel caso parla solamente di ‘fede in Cristo’. I giudeo-cristiani, come lui, si sono convertiti a Cristo abbracciando la fede; l’adesione a Cristo mediante la fede senz’altro non esclude l’obbedienza alla legge. Il giudeo credente in Cristo non deve smettere di essere giudeo, se desidera farsi cristiano. La fede in Cristo, però, non include necessariamente la legge mosaica; il cristiano di origine pagana non deve farsi giudeo per poter essere un cristiano autentico.
Paolo difende la diversità della sua comunità rivendicando l’unicità del vangelo. L’unica manifestazione di Dio, la rivelazione del suo Figlio, fa sì che giudei e pagani possano avere fiducia di essere accettati da Dio senza dover rinunciare alle proprie origini sociali e alle proprie tradizioni culturali. L’origine del vangelo paolino è la migliore garanzia di unità per una comunità i cui membri sono diversi e vivono con modalità diversificate; l’unicità del vangelo assicura l’universalità ecclesiale. Affonda qui le sue radici ‘la verità del vangelo’ (Gal 2,5.14).
In Gal 2,17-18 Paolo propone, in forma condizionale, i punti di disaccordo e cerca di ridurre all’assurdo gli argomenti dell’opposizione.
17Se pertanto noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri, forse Cristo è ministro del peccato? Impossibile!”
Il versetto è di difficile interpretazione. Nel ragionamento si danno per evidenti dati non affermati. La giustificazione che si cerca risiede in Cristo; assioma già detto, e che ritornerà (Gal 2,16.20); coloro che la cercano in Lui sono quelli che hanno creduto in Lui e sanno che per la fede ottengono da Dio la giustificazione. Il soggetto della ricerca continua ad essere il ‘noi’ giudeocristiano (Gal 2,15-16). Ma ora si concede come possibile che essi possano ritrovarsi peccatori, cosa che non erano per natura.
Paolo, contemplando la situazione ad Antiochia e nella Galazia, concede per un momento che i Giudei che, credendo in Cristo, cercavano la giustificazione mediante la fede potessero sentirsi trasgressori quando non vivono secondo la legge: la fede in Cristo Gesù è servita a rendere peccatore chi non lo era per nascita. Una tale conclusione era evidentemente assurda per i suoi stessi avversari: Cristo non è al servizio del peccato (una espressione fortissima!). Persino Paolo vi si oppone con tutte le proprie forze: ‘impossibile!”. È nell’impossibilità di un simile ‘servizio’ che risiede l’irragionevolezza della posizione dei suoi oppositori; chi ha cercato sinceramente in Cristo la giustificazione da parte di Dio non può fare di Cristo uno strumento di peccato.
Con ogni probabilità una simile alternativa era incomprensibile per i suoi antagonisti, secondo i quali la fede nel messia Gesù non imponeva loro la rinunzia alle tradizioni patrie. Alla base dell’argomentazione paolina vi è una passione per la vita in comune dei cristiani, che egli vede resa possibile dalla fede in Cristo ed esigibile unicamente in tale contesto. Dopo di aver superato le divergenze culturali e le prescrizioni rituali, i credenti che tornavano a rispettarle, in contrasto con i loro fratelli di origine pagana, stavano annullando la salvezza e facendo di Cristo un ‘ministro del peccato’.
18Infatti se io riedifico quello che ho demolito, mi denuncio come trasgressore.
L’argomentazione continua. La frase, a prima vista un po’ estranea al contesto, è presentata come una spiegazione. Si cerca di chiarire perché chi ritorna alla pratica legale si scopre peccatore. Paolo osserva che se tornasse all’osservanza legale confermerebbe il punto di vista dei suoi avversari: farebbe di Cristo un servitore del peccato e si dichiarerebbe peccatore egli stesso. È precisamente ciò che sta avvenendo ad Antiochia, sempre secondo la prospettiva di Paolo.
L’argomentazione paolina cerca di portare ‘ad absurdum’ la posizione dei giudeocristiani. Non è che Cristo sia al servizio del peccato, bensì che la ricuperata osservanza della legge renderebbe ora patente la mia disobbedienza precedente; detto con espressioni paoline: la servitù di oggi condanna la libertà di ieri.
Gal 2,19-20 raccoglie in quattro affermazioni essenziali la comprensione paolina del vangelo.
19In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. 20Sono stato crocifisso con Cristo…
Paolo continua a parlare in prima persona: l’ “io” domina e unifica Gal 2,19-20. L’apostolo non descrive il suo vissuto individuale, ma l’esperienza cristiana per antonomasia che sta difendendo a nome e a favore della sua comunità. Cerca di rispondere alla questione implicita che il versetto precedente proponeva: perché opporsi alla vigenza della legge nella vita cristiana?
La formulazione, tipicamente paolina, è sovraccarica di antitesi e paradossi, né preparati né spiegati.
Paolo afferma di essere morto. La morte però non è assoluta, non implica cessazione di vita, è relativa alla legge: ‘sono morto alla legge’ , non la utilizzo più. Si tratta di una morte per la vita: morte alla legge per vivere per Dio. Tuttavia permane il paradosso – e lo scandalo per il giudeo – di contrapporre antiteticamente la legge, vincolata alla morte, e Dio, legato alla vita. Più paradossale ancora: é una morte alla legge per mezzo della legge, con la legge come istrumento.
Chiama l’attenzione il fatto che Paolo non parli della morte della legge per la fede in Cristo, bensì della morte alla legge e al suo potere. Paolo non è un libertino a oltranza, né un liberatore che desidererebbe liberare i giudeocristiani dalla pratica della legge. Non annulla la legge di Dio; non vuole, però, che si continui a considerarla necessaria per vivere per Dio. È probabile che Paolo non si sarebbe espresso in questo modo se non avesse dovuto scagliarsi contro il tentativo giudeocristiano di ripristinare la sequela della legge nella vita cristiana.
La morte di Paolo alla legge è al servizio di una vita per Dio. Si comprende, allora, che aggiunga, dopo aver menzionato la sua morte come un avvenimento passato, la sua partecipazione alla morte in croce di Cristo. La morte di Paolo è reale perché è parte della morte reale di Cristo; si riconosce crocifisso con Lui.
Parla ora come credente in Cristo, sorvolando la diversità tra giudeo e gentile da cui era partito (Gal 2,15-17). Cristo morì sotto la legge (Gal 3,13); è un fatto; morto, rimase libero dall’osservanza: ne è convinto il giudeo fedele, così come è convinto che la legge comporta morte o vita (cf. Dt 30,15.19). Ma il cristiano, che non può scindere la legge dalla morte di Cristo, sa che quella morte fu il passo verso una vita di rapporti con Dio fuori dell’ambito della legge, una vita che si era ottenuta senza la mediazione della legge. L’apostolo basa, quindi, la sua liberazione dalla legge sulla morte di Cristo. Ed è precisamente per esprimere questa partecipazione che Paolo crea una delle espressioni più innovatrici ed ardite del proprio pensiero: afferma la sua stessa morte, la sua com-passione personale con Cristo. Chi condivide la morte di Cristo è morto alla legge, come Lui; e come Lui vive per Dio (cf. Rm 6,10).
Paolo non spiega come, né quando, può essere morto alla legge. È da supporre che Paolo stia alludendo alla propria teologia del battesimo: la morte alla legge sarebbe avvenuta nel momento di passare sacramentalmente alla vita da-per Dio; la vita sorta in tale passaggio sarebbe vista come un condividere la morte e la vita di Cristo (cf. Gal 6,17; Fil 3,10). La cosiddetta mistica paolina passa in forma concreta e realistica attraverso la croce. Vivere la morte di Cristo crocifisso, portare nella propria carne i suoi patimenti, dà libertà suprema e dona il coraggio di difendere senza compromessi il vangelo.
20… e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.
Paolo continua a difendere la posizione cristiana, sempre in modo antitetico, anche se ora predomina l’aspetto positivo della vita del battezzato. Considera la situazione cristiana come un vivere (l’unico verbo principale, usato quattro volte), che, paradossalmente, viene affermato e negato successivamente: si afferma il fatto della vita stessa, si nega il protagonismo principale al soggetto (!) – in questo caso Paolo. Il testo oppone resistenza ad ogni interpretazione logica; ci colloca al limite del comprensibile.
La prima frase, formulata in antitesi (vivo, ma non io, vive piuttosto in me Cristo) raccoglie e continua il pensiero precedente (Gal 2,19: sono morto, vivrò per Dio). La morte di Paolo, che era una morte alla legge, ora è morte al proprio io, o meglio l’accettazione della vita che vive Cristo (non più Paolo): chi vive per Dio è, in realtà, Cristo risorto. La condizione per poter vivere per Dio risiede nel permettere che il Risorto risusciti in me. La sua vita personale ha ormai un nuovo protagonista, un ‘io’ diverso, che non è il suo io ‘risorto’ ma è quello del Cristo Risorto. Se morirono Cristo e Paolo (alla legge), solo Cristo risuscitò; il credente si è trasformato nel creduto, il cristiano è [parte di] Cristo. È Lui che vive nel credente. Cristo ‘vive in me’, osa confessare Paolo. Il protagonismo di Cristo non annulla, e nemmeno divinizza magicamente, la realtà del credente; costituisce - si potrebbe dire – lo spazio mondano della vita di Cristo risorto, il luogo e l’evidenza della nuova esistenza del Signore Gesù.
Paolo si sforza di descrivere con maggior precisione questa vita di Cristo nel cristiano. Questi vive ancora nell’ambito della carne la propria esperienza cristiana, non è ancora giunto ad associarsi perfettamente alla morte di Cristo (questa vita che vivo nella carne). Ciò nonostante può anticipare ‘nella fede’ ciò che attende; osa già vivere di quello che sarà il dono finale, anche se ancora vive nella caducità di una esistenza carnale. Cristo vive nel credente, non in alcuni momenti privilegiati, ‘vive’ mentre vive nella carne. Cristo non si sostituisce, quindi, al credente, non lo priva della sua libertà; vive in lui mentre e perché costui vive nella fede del Figlio di Dio). Cristo non si impone, si offre, si consegna; dà la possibilità di essere liberi a coloro che lo accettano.
La fede del cristiano è determinata da un’attuazione concreta del Figlio di Dio; due participi attributivi caratterizzano questa attuazione: chi mi ha amato e consegnato per me. Di sicuro Paolo si è servito dell’espressione tradizionale, ma riduce la portata della salvezza di Cristo alla sua persona. La fede giunge a cogliere la dedizione del Figlio come un atto oblativo di amore personale e trova in essa, allo stesso tempo, il suo miglior fondamento.
Sapersi amato fino al dono di se stesso suscita la fedeltà che da sé una persona non può ripromettersi; dell’amore, scoperto nella dedizione del Figlio, si alimenta la fedeltà. La vita di fede nella carne non è sinonimo di un’esistenza senza certezze o di una vita senza amore; nella fede si sperimenta già l’amore di Dio, se ne ha già la prova. Nella fede si riconosce come Figlio di Dio colui che si è consegnato alla morte per l’amore che aveva per noi: solo il Figlio di Dio poteva amarci così divinamente. A cosa serve, allora, la legge?
A mo’ di conclusione, Gal 2,21 torna a confutare la posizione contraria e mette allo scoperto senza ambagi quanto è in gioco: il valore salvifico della morte di Cristo.
21Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano.
Paolo conclude bruscamente. Unisce un’affermazione personale ad un nuovo argomento con una concisione tale che, nuovamente, rende difficile la comprensione. Dice che non annulla la grazia di Dio, cioè la dedizione amorosa di Cristo. L’affermazione paolina costituisce un’accusa finale contro i suoi antagonisti: sono essi che, ritornando all’ordine legale, stanno rendendo nulla l’attuazione divina in Cristo Gesù. È questo, né più né meno, quel che vede implicato nella crisi galata, così come lo è stato già nell’incidente di Antiochia.
Ed aggiunge un argomento ipotetico come prova. La frase raccoglie la posizione fondamentale degli antagonisti, proponendola come concessione. Chi pretende che la giustizia si ottiene per mezzo della legge, annulla il dono di Dio, la dedizione di Cristo ed il suo amore, ne annulla la sua morte.
Paolo pretende di ridurre all’assurdo la tesi giudeocristiana, mettendone i fautori davanti ad una decisione che sicuramente non erano disposti a prendere: quella di dichiarare nulla e senza effetto la morte di Cristo. È probabile che essi non abbiano nemmeno osato pensare che la giustificazione proviene dalla legge ed è ancor meno probabile pensare che abbiano sospettato che il vangelo che proponevano rendesse nullo il sacrificio di Cristo: in quello stesso momento avrebbero smesso di essere cristiani! Ma l’apostolo vede queste conseguenze in quanto fanno e predicano.
Per illuminare la vita
Non si può negare che quella aspra polemica tra apostoli che fu l’incidente di Antiochia sia stato un fatto poco edificante, ma non per questo merita di essere dimenticato; anzi il suo racconto è testo ‘canonico’: in esso ‘parla Dio alla sua chiesa’.1 Paolo non lo volle dimenticare e lo ricordò ai Galati senza menzionare – cosa che lo rende ancor più paradigmatico – chi ne uscì meno perdente. Il caso è che uno scontro, pubblico ed acre, tra apostoli fu l’occasione per ‘fissare’ la primazia della grazia e l’irrinunciabilità della vita comune. Dalle lite e dai conflitti nella comunità può sorgere una migliore comprensione della vita cristiana…, sempre che ci sia un apostolo che si batti per ‘la verità del vangelo’.
Per Paolo la fede libera dalla ‘fatica’ del merito: accogliere Cristo – e solo questo – rende la legge (di Dio!) indifferente per la salvezza. Come coniugare nella vita fede e obbedienza, fiducia ed opere?
Per morire alla legge si deve vivere per Dio, cosa possibile solo a chi, mentre vive, resta ‘con-croficisso’ con Cristo. C’è dunque un prezzo da pagare per vivere liberi – persino – dalla legge di Dio, il prezzo della ‘com-passione’ (solidarietà nella croce) con Cristo. Mi sento disposto/capace di pagare questo prezzo?
La formulazione forse più riuscita dell’esperienza cristiana ‘vivo io ma non sono io, vive in me Cristo’, afferma un radicale svuotamento, l’evacuazione dell’io, e una innaturale presenza, lasciarsi abitare da Cristo. Come farlo possibile senza la grazia?
L’incentrarsi solo in Cristo e questi crocifisso (Gal 2,19; 1 Cor 2,2) ha costituito Paolo apostolo della libertà cristiana e pastore di comunità aperte, universali. Su chi/cosa è fondato il vangelo che predico?
1 Non si rende nessun servizio alla chiesa quando si cerca di diluire la gravità di quanto successo negando che sia stato Pietro, in realtà, il responsabile dello scontro (Clemente di Alessandria pensò a un discepolo che ne portasse il nome; Tertulliano accusò Paolo di eccedere nel giudicare quanto avvenuto) oppure negando che vi sia stato un vero conflitto tra i due apostoli (il Crisostomo riteneva che Pietro avrebbe lasciato che gli riferissero quanto avevano udito i credenti giudei; Girolamo pensava che si trattasse di cristiani di origine pagana che non compresero le ragioni di Pietro, il quale non desiderava perdere i suoi compatrioti per il vangelo). Così pure è ingiustificata la tendenza a esagerare unilateralmente la portata dell’incidente, come se in esso si legittimasse la ribellione contro l’autorità nella Chiesa, come fece Lutero; se pure aveva ragione quando affermava che per non perdere il vangelo occorre rischiare di perdere tutto il resto, non l’aveva quando decise di uscire dal cammino comune che inesorabilmente nasce da quell’unico vangelo.