Lectio su At 9,1-20
Accogliere il credente, educare l’apostolo,
compiti della comunità cristiana
Benché Paolo non ne abbia mai parlato, è molto probabile che subito dopo il suo inatteso incontro con il Risorto si sia incorporato nella comunità cristiana di Damasco, quella precisamente a cui era andato “per condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati” (At 9,2). Il primo racconto lucano della ‘vocazione’ di Saulo (At 9,1-19) finisce, infatti, affermando che “rimase insieme ai discepoli che erano a Damasco (At 9,19).
Come qualsiasi altro credente, Paolo ebbe bisogno di una comunità che gli desse accoglienza e lo accompagnasse nel suo personale cammino di fede. Anche se per poco tempo – “alcuni giorni” (At 9,19) – Paolo poté contare su educatori di una fede, che egli doveva comunque solo a Dio (Gal 1,11.15-17). Trovare Gesù Risorto sulla via di Damasco (At 9,1-9) lo portò a trovare una comunità di fratelli (At 9,10-19). I discepoli a Damasco, Anania in modo speciale, continuarono come pedagoghi l’opera che Dio aveva iniziato in Paolo, cioè “rivelare in me il suo Figlio” (Gal 1,16).
Per capire il testo
Luca ci ha lasciato tre versioni dell’accaduto sulla via di Damasco; la ripetizione è segno del valore che l’autore degli Atti attribuisce a questo episodio all’interno della sua storia; è, inoltre, un esempio riuscito della capacità letteraria di Luca. Nella sua presentazione Paolo non voleva affatto farsi cristiano; però non ci fu un’altra scelta: il missionario dei gentili non era un illuminato spontaneo; il suo apostolato seguì un preciso piano divino, sviluppatosi come incontro con Gesù Risorto. Inoltre a Luca interessava presentare l’apostolo fin dal principio in rapporto e in dipendenza con una comunità di testimoni, già istituita e riconosciuta come tale. Questi due rilievi sono i motivi di questa preghiera.
Il primo racconto, il più sviluppato, At 9,1-19a, è un narrazione in terza persona; gli altri due sono resoconti autobiografici pro vita sua: At 22,6-21, a Gerusalemme, nel Tempio; At 26,12-23, nel palazzo di Cesarea, di fronte al governatore romano Festo e al tetrarca giudeo Agripa II. In tutti e tre i racconti si ricorda il passato dell’apostolo come osservante giudeo e feroce persecutore, il cambio radicale ed imprevisto verificatosi nell’incontro con il Signore Gesù e i primi passi come evangelizzatore dei pagani. Solo i due primi menzionano la comunità di Damasco che lo accolse (At 9,3-8.11-12; 22,10-11) e Anania che lo guarì e lo battezzò (At 9,10.17-19; 22,12-16).
At 9,1-19a, è una chiara unità letteraria. Saulo, che era stato presentato già prima come accanito persecutore (At 7,58; 8,1,3; cf. 22,20), ritorna in scena con un solo obiettivo: vessare ‘i seguaci della dottrina di Cristo’ a Damasco (At 9,1-2). Il ‘ritratto’ di Paolo non è benevolo, coincide però con quanto egli stesso dirà ai galati (Gal 1,13-14).
1Saulo sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote 2e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovato.
Prima di arrivare a destinazione, Saulo si imbatte con il Risorto (At 9,3-9). L’incontro è presentato come una visione di Cristo Gesù: la visione di una luce sfolgorante che lo acceca (At 9,3.8) e l’ascolto di una voce sconosciuta che lo identifica (At 9,4) sono al centro dell’inatteso incontro. Con la parola Gesù si lascia riconoscere e, più decisivo ancora, si identifica con i perseguitati (At 9,5); poi, ordina a Paolo di entrare in città: là farà quanto gli sarà detto (At 9,6). L’incontro impone obbedienza, anche se provoca buio e disorientamento.
3E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo 4e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?’ 5Rispose: ‘Chi sei Signore?’. E la voce: ‘Io sono Gesù, che tu perseguiti!. 6Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare’. 7Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati, ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. 8Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, 9dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda.
L’incontro non è ancora missione: Saulo si è ‘convertito’ in un ammalato necessita di cure; e si fa obbediente alla voce del Signore incontrato. Ma ha bisogno di aiuto per compiere il comando di andare in città (At 9,8). I suoi compagni di viaggio restano senza parole; hanno sentito ma non hanno visto (At 9,7): la visione non è per loro.
Quando Paolo, reso cieco dalla luce verso mezzogiorno, rispose alla voce che lo chiamava per nome “cosa devo fare” ottenne come risposta un ordine: “entra nella città e là sarai informato su tutto ciò che è stabilito che tu faccia” (At 22,10). Obbedire al Signore che perseguitava fece Paolo obbediente ai cristiani da lui perseguitati: la sottomissione a Cristo non fu resa possibile senza la subordinazione alla comunità. Fu per mandato del Signore che Paolo trovò nella comunità perseguitata una maestra. Se non risultò semplice a Paolo eseguire quell’ordine, non fu neanche facile alla comunità accettare Paolo come fratello da curare.
In una nuova scena (At 9,10-16), un discepolo del Signore riceve pure una visione, meno sconvolgente ma tanto impegnativa. Anania riceve precise disposizioni, alquanto strane: dovrà cercare un ammalato e guarirlo (At 9,11-12).
“Devoto osservante della legge, in buona riputazione presso tutti i giudei colà residenti” (At 22,12), Anania fu mandato da Dio, scelto per sanare Paolo e riempirlo dello Spirito col battesimo (At 9,18-19): oltre ad offrirgli una casa ed accoglierlo come ‘fratello’ (At 19,17), lo istruì nella fede. Lo stesso Paolo confesserà anni dopo, anche se in modo velato, che lui non fa altro che trasmettere quello che a sua volta ha ricevuto (1 Cor 11,2.11; 15,1).
All’intento ragionato di resistere, con cui reagisce Anania, il Signore risponde rendendo pubblico il destino di Paolo: una missione e una passione; sarà ‘strumento di elezione’ per l’evangelizzazione del mondo, poi dovrà patire sofferenze appena annunziate (At 9,16). È da notare che la prima e l’unica volta che il Risorto svela il suo disegno non lo fa a Paolo, ma al rappresentante della comunità che lo deve accogliere.
10Ora c’era a Damasco un discepolo di nome Anania e il Signore in una visione gli disse: ‘Anania!’. Rispose: ‘Eccomi, Signore!’ 11E il Signore a lui: ‘Su, va sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco sta pregando, 12e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire a imporgli le mani perché ricuperi la vista’. 13Rispose Anania: ‘Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. 14Inoltre ha l’autorizzazione dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome’. 15Ma il Signore disse: ‘Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; 16 e gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome’.
Una terza scena (At 9,17-20) chiude il resoconto. Ubbidendo al Signore, Anania risana Paolo, lo riempie dello Spirito e lo battezza. Anche se Paolo ha visto la luce e ha ascoltato la voce, l’incontro con il Risorto non gli ha dato una missione nuova, anzi l’ha lasciato malridotto. Il discepolo obbediente conosce la missione di Paolo e lo introduce, una volta guarito, nella vita comune.
Paolo voleva arrivare a Damasco da persecutore dei cristiani (At 9,2.13-14). Invece entrò nella città – e nella comunità – per conoscere cosa fare (At 9, 6; 22,10). Fu il Risorto, col quale si imbatté sulla via che gli impose di accettare la guida della comunità: l’incontro con il Risorto segnò l’inizio di un processo educativo nella fede e il ricupero della salute. Paolo divenne così fratello dei discepoli perché servo obbediente del Signore Gesù: la sua esperienza cristiana, nata dall’ incontro con il Risorto, non finì quando lo riconobbe come Signore, ma quando si ritrovò in comunità, fratello tra fratelli.
17Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: ‘Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo’. 18E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista; fu subito battezzato, 19poi prese cibo e le forze gli ritornarono. Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco’. 20E subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio.
Non si può non vedere in questa presentazione una chiara intenzionalità teologica. Confrontato con la testimonianza paolina, il racconto lucano in At 9 non presenta l’evento come un incontro pasquale (1 Cor 9,1; 15,8); non contempla un immediato invio a predicare (Gal 1,16b); né costituisce Paolo come apostolo (Gal 1,1.11.16b). Invece, l’intervento di Anania è determinante, secondario solo con quello di Gesù. Se è stato il Risorto a prendere sempre l’iniziativa, Anania è il suo mediatore prescelto, necessario per introdurre Paolo nella fede e nella comunità per il battesimo e lo Spirito, e per ricuperarlo per la società, mediante la guarigione.
Non sempre si avverte che Luca nel suo racconto ha privilegiato il protagonismo di Anania (At 9,10-19) su quello dell’apostolo (At 9,1-9). Il Signore incontrò tutte e due (At 9,4-5.10), a tutte e due ha dato ordini precisi (At 9,5.11-16), ma soltanto a Anania svelò la missione – e la passione – che aspettava a Paolo (At 9,15-16); a questi invece era stato ribadito di fare quanto gli sarebbe stato detto (At 9,6). Chi doveva educare l’apostolo ricevette, come primizia, cosa stava pensando Dio per Paolo. Paolo abbisognò di una comunità, non ben preparata per accoglierlo, e un discepolo, non tanto disposto ad incontrarlo, per educare Paolo, “strumento scelto per portare il suo nome alle nazioni” (At 9,15). Dall’ esperienza di Damasco Paolo uscì come credente nuovo; per riuscire a diventare apostolo dovette entrare in comunità.
Per illuminare la vita
Anche se Gesù apparve pure a Paolo, “l’ultimo fra tutti.., come a un aborto” (1 Cor 15,8), l’incontro con il Signore lo obbligò ad incontrarsi con una comunità: l’esperienza pasquale si è sempre realizzata come un ‘lasciarsi’ trovare da Cristo ed è finita sempre nel ritrovamento dei fratelli. La prima parola che Anania dice a Saulo è, appunto, “fratello mio” (At 9,17). L’inserimento in una comunità che cura le mia salute e accompagna la mi fede è la conseguenza immediata dell’ aver trovato Cristo. È possibile convertirsi a Cristo senza inserirsi nel suo corpo, nella comunità? Posso dire che la mia consegna personale a Cristo cammina alla pari della mia dedizione alla vita comune? Saulo, che perseguiva i discepoli, si trovò a perseguire Cristo: all’interno della sua esperienza pasquale scoprì, per precisa indicazione del Risorto, che Cristo si identifica con i cristiani (At 9,4.5).
Nel suo racconto Luca insiste sulla mediazione comunitaria nella ‘conversione’ di Saulo. La comunità non è solo la meta, la garanzia, del cambiamento è pure il suo cammino e il pedagogo. E non perché essa desideri occuparsene, ma per mandato del suo Signore. Anania ebbe pure lui una visione dove gli fu detto cosa doveva fare (At 9,12), anche se lui non ne aveva tanta voglia (At 9,13-14). L’intervento della comunità nell’educazione dell’apostolo fu atto di obbedienza a Dio: la comunità riceve da Dio i credenti da curare e da accompagnare. Come apostolo, mi sento a mio agio in comunità, mi lascio attendere ed educare nella fede da essa? Vivo in comunità fratello tra fratelli?
Risulta sorprendente che sia stato Anania, e non Saulo, che ha ricevuto dal Signore le indicazioni sulla vocazione; il Risorto ha svelato alla comunità cosa voleva da Paolo, cosa era lui “per Dio” (“uno strumento eletto”: At 9,15): così l’apostolo è dono di Dio alla comunità, e la comunità obbedisce a Dio prendendosi cura di lui. Anche se inviato alla comunità, spetta ad essa accettare – e accertare – la decisione di Dio su di me, ma non compete a lui determinare i compiti. A chi devo la mia missione apostolica, davanti a chi mi sento responsabile?
Saulo ha dovuto lasciarsi dapprima curare , poi guidare dalla comunità che aveva cercato di rovinare. Ha obbedito al suo Signore, permettendo alla comunità di educarlo e battezzarlo. Consento di essere accolto e accompagnato nella mia vita di fede da chi ha ricevuto da Dio la conferma della mia chiamata? La mia sottomissione all’educazione comunitaria è segno, e conseguenza, della mia obbedienza al mio Signore?