LETTERE DEL RETTOR MAGGIORE
JUAN VECCHI
ACG 362 ‘98
Levate i vostri occhi e guardate i campi
che
già biondeggiano per la mietitura.
Il
nostro impegno missionario in vista del 2000
1. Con lo sguardo di Cristo
2. Una Famiglia missionaria
3. Una nuova fase nella nostra prassi missionari
4. Il
primato dellevangelizzazione
5. Un compito necessario e
delicato: l'inculturazione
- Approfondimento del mistero di
Cristo
- Adeguata comprensione della cultura
- In
comunità
- Il processo di inculturazione
- Ipercorsi
6.
Il dialogo interreligioso ed ecumenico
7. Una parola d'ordine:
consolidare
8. Nuove frontiere
9. Insieme verso il 2000
Conclusione
Roma, 1 gennaio 1998
Solennità
di Maria SS. Madre di Dio
1. Con lo sguardo di Cristo.
“Levate
i vostri occhi e guardate i campi”, è l’invito di Gesù ai
discepoli, quando essi, dopo il dialogo con la Samaritana, gli
suggeriscono di mangiare. Misterioso sguardo quello del Signore, che
vede il mondo come una messe pronta per il raccolto!
Troviamo il
segreto di tale sguardo nelle sue parole: “Il mio cibo è fare la
volontà di Colui che mi ha mandato e portare a termine la sua opera
sino in fondo”. La volontà del Padre è la salvezza di ogni
persona. Con Cristo, Salvatore universale, viene annunciata ed estesa
a tutte le nazioni e a tutti i tempi .
Mentre si va compiendo,
il Padre agisce nell'umanità. Prepara il cuore di molte persone e
mantiene vive le attese dei popoli, perché riescano a leggere i
segni della loro salvezza. Ispira l’intervento di coloro che
aderiscono alla sua volontà e hanno lo stesso amore di Cristo per
l’uomo. Perciò nel mondo c’è sempre molto da raccogliere. Gesù
lo afferma al presente: “È il momento di mietere”.
La
maturità della messe si deve anche all'ammirevole comunione che lo
Spirito crea tra le generazioni in una reale storia di salvezza.
“Altri hanno faticato prima di voi, e voi siete venuti a
raccogliere i frutti della loro fatica”. Niente si è perso degli
sforzi e dei tempi precedenti, malgrado apparenze di infecondità e
lentezze.
La missione di Gesù in terra samaritana è come il
preludio dell’evangelizzazione dei popoli. Suggerisce lo spirito
con cui svolgerla. Ai discepoli, ignari del progetto di Dio, Gesù
indica il tempo in cui compierlo: adesso!
Bisogna imparare a
guardare e mettersi all'opera senza attendere, come essi pensano,
altre fasi di maturazione. Tutto è già pronto, predisposto dal
Padre, dal Figlio, dallo Spirito Santo. Si deve procedere al raccolto
e fare nuove semine: “Uno semina e l’altro raccoglie”. Sono lo
sguardo e la fiducia che dovranno guidare l’impresa che Egli
affiderà loro: “Andate in tutto il mondo, annunciate il vangelo ad
ogni creatura”.
Gesù insegna anche a scorgere i “segni”
della maturità dei tempi. Il dono di Dio arriva a coloro che erano
ritenuti esclusi e diventa in loro sorgente interiore di
intelligenza, di amore e di pace; essi divengono a loro volta
annunciatori di Gesù attraverso la testimonianza e la parola; c’è
un nuovo spazio entro il quale avviene l’incontro dell'uomo con
Dio, al di sopra e indipendentemente da ogni legge ed esperienza
religiosa precedente, valido per tutti. È lo spazio creato
dall'offerta di Dio e dalla sincera accoglienza dell'uomo: “È
giunto il momento in cui né su questo monte né in Gerusalemme
adorerete il Padre... I veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito
e verità”. Allo stesso tempo viene affermato il carattere storico
e unico dell’avvenimento che segna la manifestazione di Dio: “La
salvezza viene dai Giudei”.
Anch’io, con lo sguardo
suggerito dal Signore ai discepoli, ho potuto percepire l’abbondanza
del raccolto da mietere oggi e l’estensione delle terre da seminare
per il futuro. Ho intravisto l’opera di preparazione che il Padre
ha compiuto e sta facendo in attesa di coloro che Egli manderà a
lavorare.
I tempi sono maturi. Lo si scorge nell’ascolto dato
da tante persone all'annuncio del Vangelo, nell’accoglienza che
hanno le proposte di bene, nella generosità di coloro che si
uniscono a noi nelle iniziative apostoliche e missionarie. Di frutti
se ne raccolgono dappertutto, anche se i campi, secondo quanto il
Signore aveva già predetto, hanno pure spazi aridi e infecondi.
Il
28 settembre scorso nella Basilica di Maria Ausiliatrice ho
consegnato il crocifisso a 33 nuovi missionari. Era la 127a
spedizione che ci ricollega a quella prima, carica di audacia e
profezia, che Don Bosco preparò e inviò l’11 novembre 1875.
Mentre compivo il gesto, ringraziavo il Signore per i segni di nuova
fecondità che emergevano nel gruppo. I missionari venivano da tutti
i continenti e tra di essi si contavano anche dei laici. In qualche
caso (una giovane coppia!) la vocazione missionaria era congiunta e
come integrata nella promessa sponsale. Alcuni erano destinati a
continuare un lavoro iniziato precedentemente, mentre ad altri era
affidato il dissodare terreni nuovi e fondare nuove presenze: mietere
e seminare!
Pensavo allora alla “legge” che si verifica
sempre nel lavoro apostolico: “La messe è molta, gli operai sono
pochi”. È una costante dell’evangelizzazione. Il Padre riempie
il mondo con i suoi doni e i suoi inviti. La ricchezza di Cristo è
immensa. Gli operai, anche se si centuplicassero, sarebbero sempre
pochi per dispensare tanta abbondanza.
Gli stessi pensieri hanno
occupato la mia mente mentre visitavo la nostra antica missione nella
Cina o godevo con i confratelli per la nuova semina in Cambogia;
quando nel Sud Africa constatavo l’abbondanza dei risultati (in
particolare nello Swaziland e nel Lesotho) e quando mi fermavo a
prevedere quello che sarebbe avvenuto in altri luoghi che oggi sono
nelle prime fasi del lavoro.
2. Una Famiglia missionaria.
Don
Bosco si sentì attirato dal lavoro missionario. Il suo desiderio e
la sua intenzione non si tradussero immediatamente in una “partenza
geografica”, come Egli aveva pensato. Il discernimento illuminato
del suo confessore intravide altre strade predisposte per lui.
Lo
spirito missionario però rimase in lui con la medesima intensità e
ispirò la sua visione, la sua spinta e la sua collocazione
pastorale: egli fu missionario a Torino. Partì all'incontro delle
frange emarginate e dimenticate dei giovani; si spinse verso le
frontiere urbane dell’evangelizzazione e dell’educazione.
Più
tardi realizzò anche il proposito missionario in terre lontane,
attraverso molteplici vie: inviando ogni anno, sin dal 1875,
spedizioni missionarie, accendendo nei giovani e nei confratelli la
passione per la diffusione del vangelo e l’entusiasmo per la vita
cristiana, sognando di giorno e di notte nuove imprese, diffondendo
attraverso il Bollettino la sensibilità missionaria, cercando
risorse e coltivando rapporti che agevolassero l’opera dei
missionari.
Il tratto missionario divenne in tal modo tipico di
ogni salesiano, perché radicato nello stesso spirito salesiano. Non
è quindi qualcosa di aggiunto per alcuni. È come il cuore della
carità pastorale, il dono che caratterizza la vocazione di
tutti.
Ognuno, dovunque si trovi, considera “la sua scienza
più eminente conoscere Gesù Cristo e la gioia più profonda
rivelare a tutti le insondabili ricchezze del suo mistero”. Pensa
perciò a coloro che hanno bisogno della luce e della grazia di
Cristo; non si accontenta di curare quelli che già “ci sono”; ma
si muove verso le frontiere sociali e religiose.
Non a caso
Paolo VI ci ha chiamati “missionari dei giovani”: catechisti per
alcuni e portatori di un primo annuncio di vita per tanti altri;
educatori nelle istituzioni ed anche itineranti nel vasto campo delle
situazioni giovanili non raggiunte da tali istituzioni.
Nelle
medesime spedizioni missionarie Don Bosco unì queste due direzioni
della missionarietà. Don Ceria ha voluto documentarlo negli Annali:
“Gli stava pur anche molto a cuore, ha scritto, la condizione degli
Italiani che in numero stragrande e ognor crescente vivevano dispersi
(...). Esuli volontari in cerca di fortuna, privi di scuole per i
fanciulli, lungi da ogni possibilità di pratiche religiose o per
lontananza o per difetto di buoni preti parlanti la loro lingua,
rischiavano di formare ammassi di popolazioni senza fede e senza
legge”. Il progetto missionario comprendeva anche “i cristiani”
lontani, dimenticati, abbandonati, emigranti.
Nell’ultimo
tempo si è parlato di “terre di missione”, e non solo per gusto
di immagine, in riferimento a contesti segnati da una tradizione
cristiana. La parrocchia è stata definita “comunità missionaria”,
la scuola, “ambiente di missione”. Salve le distinzioni tecniche,
è evidente che ogni nostra comunità si trova oggi anche su fronti
molto simili a quelle di prima evangelizzazione.
Poiché il
senso missionario non è un tratto opzionale, ma appartiene
all’identità dello spirito salesiano in ogni epoca e situazione,
nella programmazione del Rettor Maggiore e del suo Consiglio
l’abbiamo proposto a tutte le Ispettorie come area di attenzione
per il sessennio 1996-2002.
Tra gli interventi operativi,
attraverso i quali realizzare la significatività, abbiamo indicato:
rafforzare l’impegno della Congregazione verso i più bisognosi,
puntare su una più intensa educazione dei giovani alla fede in
maniera da far sorgere vocazioni e orientare con decisione il maggior
volume di energie possibile (persone, progetti, mezzi) verso le
missioni “ad gentes”.
Lo spirito e stile missionario hanno
il loro segno eloquente nella disponibilità di molti confratelli a
lavorare in zone di primo annuncio e di fondazione della Chiesa; ma
vengono assunti e vissuti da tutti nello svolgimento della propria
missione. La volontà di evangelizzare e la capacità di esprimere
con trasparenza il messaggio evangelico è il punto in cui si saldano
le sue diverse realizzazioni.
I confratelli che si portano alle
frontiere si sentono sostenuti dalla preghiera, dalla vicinanza,
dalla collaborazione concreta di tutti gli altri che condividono con
loro la medesima passione. Per questo le Costituzioni affermano che
nel lavoro missionario ravvisiamo un “lineamento essenziale della
nostra Congregazione”.
Sul nostro movimento verso i più
poveri ho avuto già opportunità di esprimermi nella lettera “Si
commosse per loro”, e questo rimane uno dei criteri fondamentali di
ricollocazione. È infatti il tratto che segna il momento nascente
del nostro carisma e rivela la forza che muove la comunità dei
discepoli di Cristo: la carità.
La missione “ad gentes” è
l’oggetto della presente lettera. Intendo proporre alcuni
orientamenti su due linee di azione che oggi appaiono più urgenti:
qualificare le presenze missionarie esistenti e muoverci verso nuove
frontiere. Consolidare e avanzare; dare consistenza “pastorale” a
quanto si è iniziato nell'ultimo tempo e spingerci verso terre
ancora non battute e destinatari non raggiunti, per far arrivare a
tutti la luce del vangelo.
Ho sempre presente, ed è un punto
fermo anche per gli spunti che vi offro, una particolarità
dell’opera missionaria dei Salesiani: essa si impegna nella prima
evangelizzazione e nella fondazione delle Chiese; ma sin dall’inizio
è chiamata ad arricchire la comunità cristiana con un carisma
singolare: quello della predilezione per i giovani, nel versante
educativo e popolare.
Il carisma determina, senza chiuderla, la
modalità e la direzione dell’opera missionaria, mentre questa dona
vitalità al carisma riportandolo al suo vigore evangelico ed al suo
senso ecclesiale.
Vorrei suscitare un rinnovato entusiasmo per
le missioni in tutte le Ispettorie e invitare i confratelli, di
qualsiasi età, a considerare la possibilità di un impegno
missionario.
Faccia il Signore che avvenga oggi quello che
accadde a Valdocco quando Don Bosco immaginò, preparò, e mandò la
prima spedizione e quelle che immediatamente la
seguirono.
“Frattanto, raccontano gli Annali, gli atti e le
parole di Don Bosco sulle Missioni avevano gettato un fermento nuovo
fra allievi e soci. Si videro allora moltiplicarsi le vocazioni allo
stato ecclesiastico: crebbero anche sensibilmente le domande di
ascriversi alla Congregazione e l’ardore dell’apostolato si
impadronì di molti che vi erano ascritti”.
3. Una nuova fase nella nostra prassi
missionaria.
La nostra prassi
missionaria si ritrova oggi nel solco di una tradizione di
intraprendenza, zelo, tenacia e creatività: i suoi risultati sono
innegabili. Meriterebbe uno studio più accurato, sì da poterla
capire a fondo e metterla a frutto. Si è inserita ed è stata
provata in aree geografiche e culturali molto diverse durante un arco
di tempo che dà garanzia sicura della sua consistenza. Il primo
progetto missionario di espansione in America (1875-1900), quello che
ha portato la diffusione della Congregazione in Asia (1906-1950) e la
recente espansione in Africa hanno plasmato una modalità tipica di
azione missionaria i cui tratti sono stati raccolti sinteticamente
nelle Costituzioni e Regolamenti.
Oggi tale prassi viene
sollecitata ad un ripensamento. La riflessione del Concilio Vaticano
II e gli approfondimenti della teologia hanno dato nuove prospettive
alla missiologia, di fronte ad avvenimenti che segnano la vita della
Chiesa ed il mondo attuale: il movimento ecumenico, il risveglio e la
valorizzazione delle religioni, la valenza umana e sociale delle
culture, l’intercomunicazione a livello mondiale, il crescere delle
nuove Chiese ed il loro vivere la fede in interazione con il
contesto, il declinare di antiche zone di cristianità.
Tali
fenomeni hanno provocato un approfondimento sulla grazia della
creazione e sull'opera del Padre nella salvezza di ogni persona così,
come sulla presenza dello Spirito nella vita dell'umanità.
Insieme
alle nuove prospettive emergono interrogativi, che vanno da noi
conosciuti e dovutamente risolti dal punto di vista dottrinale e
pratico. Riguardano il valore del cristianesimo per la salvezza
dell'uomo, la portata della mediazione universale di Cristo, il ruolo
della Chiesa e, di conseguenza, il senso stesso della
evangelizzazione e delle sue vie odierne.
Prospettive ed
interrogativi sono stati affrontati dalla lettera enciclica
Redemptoris Missio, il cui attento studio risulta perciò
indispensabile. Sugli stessi argomenti si vanno esprimendo con
ricchezza di riflessione ed analisi circostanziate i Sinodi
continentali convocati in vista di una nuova
evangelizzazione.
Indicazioni per la nostra prassi missionaria
oggi vengono anche dalle sollecitazioni dell'Esortazione Apostolica
Vita Consecrata. Essa infatti affida ai religiosi l’attenzione di
alcuni aspetti che sono emersi in questi ultimi anni.
Paolo VI
aveva già sottolineato la partecipazione dei religiosi nell'opera
missionaria: “Essi sono intraprendenti e il loro apostolato è
spesso contrassegnato da una originalità, una genialità che
costringono all'ammirazione. Sono generosi: li si trova spesso agli
avamposti della missione, ed assumono i più grandi rischi per la
loro salute e per la loro stessa vita”.
Giovanni Paolo II l’ha
messo in luce nella Redemptoris Missio: “La storia attesta le
grandi benemerenze delle famiglie religiose nella propagazione della
fede e nella formazione di nuove Chiese: dalle antiche istituzioni
monastiche agli ordini medioevali, fino alle moderne
Congregazioni”.
Con espressione più diretta, Vita Consecrata
considera la “missio ad gentes” una dimensione di tutti i carismi
perché compresa nella donazione totale che suppone la consacrazione.
La loro missione - afferma - si esplica non solo mediante le opere
proprie del carisma del singolo Istituto, ma soprattutto con la
partecipazione alla grande opera ecclesiale della “missione ad
gentes”.
La Chiesa si attende oggi dai consacrati “il
massimo contributo possibile” ed affida loro il compito specifico
di annunciare Cristo a tutti i popoli con nuovo entusiasmo.
Oltre
al contributo quantitativo, realizzato nel passato, verificabile nel
presente e auspicato per il futuro, l'Esortazione Apostolica
sottolinea alcuni aspetti attuali della azione missionaria per i
quali i religiosi appaiono particolarmente dotati.
Attribuisce
ai consacrati una particolare capacità di inculturare il vangelo e
il carisma nei diversi popoli. “Col sostegno del carisma dei
fondatori e delle fondatrici, molte persone consacrate hanno saputo
avvicinarsi alle diverse culture nell'atteggiamento di Gesù che
“spogliò se stesso assumendo la condizione di servo” (Fil 2, 7)
e, con un paziente ed audace sforzo di dialogo, hanno stabilito
contatti proficui con le genti più varie, a tutte annunciando la via
della salvezza”. Ci si attende dunque molto da loro per quanto
riguarda lo sforzo e la direzione dell’inculturazione.
Qualcosa
di simile viene affermato riguardo al dialogo religioso. Poiché il
centro della vita dei consacrati è l’esperienza di Dio, essi hanno
una particolare disposizione per entrare in dialogo con altre
esperienze, ugualmente sincere, presenti nelle diverse
religioni..
Alla nuova portata che acquista la vita consacrata,
corrisponde, d'altro lato, l’impulso nuovo dato alla condizione
laicale. Se le Chiese fondate devono, fin dal loro inizio,
manifestare la santità e la novità di vita del popolo di Dio,
risulta primordiale la formazione cristiana dei credenti. I laici,
d'altra parte, sono chiamati a sviluppare la loro capacità di
partecipazione attiva nella comunità e di servizio al mondo. La
nuova dimensione del laicato modifica l'immagine stessa della
comunità cristiana ed il suo funzionamento. I laici, rileva
l'Esortazione Apostolica Ecclesia in Africa, “saranno aiutati a
prendere sempre più coscienza del ruolo che devono occupare nella
Chiesa (...). Conseguentemente devono essere formati a questo”.
In
tale quadro di riferimento si ordinano diversamente gli sforzi e le
competenze dei consacrati e dei sacerdoti.
Alla luce di questi
stimoli mettiamo a fuoco alcune questioni, supponendo conosciuta
l'ordinaria prassi salesiana.
4. Il primato
dell’evangelizzazione.
L’evangelizzazione
implica una pluralità di aspetti: presenza, testimonianza,
predicazione, appello alla conversione personale, formazione della
Chiesa, catechesi; ed inoltre: inculturazione, dialogo
interreligioso, educazione, opzione preferenziale dei poveri,
promozione umana, trasformazione della società. La sua complessità
ed articolazione è stata rilevata e presentata in forma autorevole
dalla Evangelii Nuntiandi.
C’è però un nucleo principale,
senza il quale l’evangelizzazione non è tale, che dà senso e
orienta la totalità e detta persino i criteri e le modalità secondo
cui il resto va compiuto: è l’annuncio di Cristo, il primo
annuncio che presenta Gesù Cristo a chi ancora non lo conosce, ed il
cammino successivo con cui il suo mistero viene approfondito fino a
spingere all'apostolato.
Il Sinodo della Chiesa in Africa dice
al riguardo: “Evangelizzare è annunciare attraverso la parola e la
vita la buona novella di Gesù Cristo crocifisso, morto e
risuscitato, via verità e vita”. Annunciare la buona novella è
invitare ogni persona e ogni società all’incontro personalizzato e
comunitario con la persona vivente di Gesù Cristo.
In che modo
gli aspetti enumerati sopra sono da considerarsi o risultano, nella
realtà, complementari e convergenti verso un’unica meta che è
appunto la conoscenza sempre più profonda di Cristo, l’adesione di
fede alla sua persona e la partecipazione alla sua vita? È un
interrogativo che non va risolto soltanto dottrinalmente dalle
comunità missionarie, ma anche nel progetto quotidiano di
azione.
Nella prassi missionaria infatti ci possono essere
squilibri per scelta, per limiti di visione o capacità, per mancanza
di attenzione. Per prevenirli bisogna stabilire delle priorità e
curare alcuni dosaggi. Uno di questi è il giusto rapporto tra
l’annuncio esplicito di Cristo nelle sue diverse forme (il primo
annuncio, la catechesi, la cura della comunità dei credenti, la
formazione cristiana delle persone) e la promozione umana.
L'Esortazione Evangelii Nuntiandi ne ha presentato con definitiva
chiarezza i “legami profondi” e la distinzione; ha offerto anche
i principi illuminanti per cogliere la portata ed il senso profondo
della liberazione, quale l’ha annunziata e realizzata Gesù di
Nazareth e quale la pratica la Chiesa.
La tradizione e lo
spirito salesiano sottolineano l’armonia e il vicendevole
riferimento tra queste dimensioni dell'evangelizzazione; allo stesso
tempo, ne mettono in chiaro la gerarchia di significato. La
formulazione più chiara la troviamo nelle Costituzioni: “Educhiamo
ed evangelizziamo secondo un progetto di formazione integrale
dell'uomo orientato a Cristo, uomo perfetto”; “Anche per noi
l’evangelizzazione e la catechesi sono la dimensione fondamentale
della nostra missione”. Da essa e da Colui che ne è l’oggetto
prende significato il nostro impegno per l’uomo.
Bisogna
dunque dare la priorità all’evangelizzazione nelle sue diverse
forme: nella nostra preparazione, nella nostra dedicazione,
nell'impiego del nostro tempo, del personale e delle
risorse.
L’ideale di una situazione missionaria è quella che
veniva prospettata dagli orientamenti operativi del CGS quando
chiedevano che l’Ispettoria diventasse “comunità a servizio
dell’evangelizzazione”, che ogni comunità salesiana divenisse
una “comunità evangelizzatrice”, che ogni salesiano fosse un
“evangelizzatore”.
L'indirizzo ecclesiale, nel tempo della
nuova evangelizzazione, porta a concentrare più che mai lo sguardo e
la speranza su Cristo. La sua conoscenza e accoglienza trasformano la
persona e la salvano, senza ignorare o trascurare le sue condizioni
temporali, ma trascendendole. Offrire tale annuncio di salvezza è lo
specifico della missione della Chiesa.
All’interno di questo,
c’è un altro equilibrio da stabilire: quello tra il primo annuncio
e la cura della crescita nella fede dei singoli e della comunità
cristiana, tra sforzo di diffusione e consolidamento. Quest’ultimo
comprende l’educazione dei giovani nella fede, la formazione degli
adulti, secondo le loro diverse situazioni, la preparazione di
operatori e ministri, l'unità e la testimonianza delle comunità
cristiane, l'impegno apostolico da parte dei credenti.
I due
aspetti vanno convenientemente soddisfatti: estendere l'annuncio e
dare consistenza alle comunità. Questo è un compito delle
Ispettorie, delle singole comunità e di ciascuna persona, che devono
diventare capaci di condurre il processo di evangelizzazione fino ai
suoi livelli ottimali.
Infine c’è l'opportuno dosaggio tra
mezzi ed annuncio, tra strutture e presenza nel popolo, tra
organizzazione delle opere e comunicazione diretta, tra servizio e
inserimento. Mezzi, strutture e organizzazione sono funzionali
all’annuncio, alla presenza e alla comunicazione. E dovrebbero
essere ad essi proporzionati e corrispondenti nello stile. Quando
strutture e mezzi sono troppo grandi e pesanti, o quando per crearli
e mantenerli dobbiamo limitare eccessivamente la nostra meditazione
della Parola da proclamare, la comunicazione diretta, la dedicazione
all’annuncio ed alla formazione delle persone, bisogna ripensarli
alla luce di un progetto meglio centrato sull’essenziale.
5. Un compito necessario e delicato:
l’inculturazione.
È un
tema oggi sovente messo a fuoco ed approfondito. Viene presentato in
forma organica in diversi documenti ecclesiali. Se ne sono occupati
per disteso i Sinodi continentali. I testi preparatori, le
discussioni e le Esortazioni che seguirono ne hanno parlato con
sufficiente chiarezza sottolineando l’urgenza, esplicitando i
fondamenti teologici, indicando criteri e vie di realizzazione ed
individuando i campi preferenziali di applicazione.
La nostra
tipica sintesi tra educazione ed evangelizzazione ci fa
particolarmente sensibili all’inculturazione; perciò anche noi
Salesiani le abbiamo dedicato attenzione. Don Egidio Viganò l’ha
trattato in diverse lettere. Il CG24 vi ha fatto riferimento come
esigenza e cammino per poter educare e far partecipare nella missione
e nella spiritualità salesiana.
Il rischio per operatori
pratici come noi è che dopo tante illuminazioni, necessarie, ma
anche articolate ed applicabili in diverse direzioni, non troviamo le
linee comunitarie di realizzazione e, di conseguenza, rinunciamo allo
sforzo o ci disperdiamo in piccole esperienze personali non sempre
convenientemente vagliate. È dunque opportuno richiamare alcuni
orientamenti pratici.
La centralità del mistero di Cristo
Il
primo, anche se evidente, è fondamentale nel discorso della
inculturazione. Riguarda la realtà storica e il carattere unico
dell’avvenimento di Cristo.
Cristo non è una realtà
simbolica, oggetto generico del sentimento religioso, somma delle
aspirazioni dell'umanità, sintesi di quanto di nobile e generoso si
trova nelle culture. È invece una persona concreta, storica, con una
biografia singolare, diversa anche da tutti gli elementi acquisiti ed
espressi dall'umanità messi assieme. Si è manifestato come un
evento unico e irripetibile. Di Lui rendono testimonianza gli
Apostoli. Il Gesù che hanno contemplato con i loro occhi e che le
loro mani hanno toccato è il Cristo Signore, lo stesso dappertutto,
ieri oggi e sempre, che resta con noi fino alla fine del mondo.
Il
Regno che Egli predica e la vita che propone non sono l’accumulo o
la somma dei beni che l'uomo può desiderare e sperimentare. Sono la
comunicazione gratuita di Dio concretizzata in una alleanza e una
promessa che hanno avuto realizzazione storica nella sua
persona.
Egli non lascia dietro di sé solo una “dottrina”
che noi siamo incaricati di tradurre in parole o concetti adeguati,
una morale da adattare a situazioni diverse, ma offre gesti e fatti
salvifici da “vivere” e “celebrare” in una relazione vissuta
personalmente e condivisa in comunità.
Può assumere tutti i
“semi” di verità e di bene sparsi nella storia umana, ma non
comunque. Criterio e modello per l’inculturazione sono
l’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo, eventi definitivi
per la salvezza dell'uomo.
Inculturare la fede vuol dire far
penetrare la verità che Cristo propone nella vita e nel pensiero di
una comunità umana, in tal modo che riesca ad esprimersi con gli
elementi della cultura e abbia anche una funzione ispiratrice,
stimolatrice, trasformatrice e unificante di questa
cultura.
L’Incarnazione non è fusione di due elementi di
uguale dignità ed energia, ma assunzione della natura umana da parte
di una persona divina. Il Verbo, che ha una sua personalità divina e
completa nella Trinità, si fa uomo. C’è dunque un soggetto
determinante che assume l’umanità e una natura che, purificata e
redenta, gli dà possibilità storica di espressione.
Da ciò
derivano alcune indicazioni per la prassi dell'inculturazione. Poiché
la persona, la vita ed il messaggio di Cristo hanno una identità
propria e un ruolo essenziale, ad essi va rivolta una continua e
principale attenzione. Sarebbe inutile, se non pericoloso, voler
inculturare il vangelo senza un permanente approfondimento del
mistero di Cristo, senza l’esperienza di una relazione personale
con Lui e la comunione con il suo corpo, la Chiesa. Purtroppo spesso
si rileva una limitata comprensione dei misteri che si vorrebbero
comunicare o una meditazione troppo individuale, con scarso
riferimento alle fonti della fede.
Adeguata comprensione della cultura
D’altra
parte, è necessaria quella conoscenza della cultura che viene
dall'essersi immersi in essa per un tempo sufficiente e dall'aver
studiato, in modo riflesso e organico, i suoi aspetti significativi,
come vengono presentati negli appositi studi e come vengono vissuti
dalla comunità.
Bisogna però tener presente che nessuna
cultura è monolitica e uniforme. In ogni ambito, specialmente oggi,
convivono diverse modalità culturali. La cultura non è nemmeno una
realtà “fissa”. È sempre in evoluzione, per sviluppo di
elementi propri e in forza di interscambi con altre culture. È
soggetta a cambiamenti, trasformazioni, processi evolutivi che
avvengono attraverso passaggi progressivi, ma anche attraverso salti
dovuti soprattutto a cause libere.
Della cultura dunque bisogna
considerare non solo quello che è stato e quello che è, ma quello
che si avvia ad essere.
In comunità
C’è
poi da tener presente che l'inculturazione avviene in una comunità,
che è allo stesso tempo soggetto della cultura e dell'esperienza di
fede. In essa si va operando la compenetrazione di entrambe. Vi
collaborano i fedeli che nel quotidiano, senza teorizzare, fondono
vissuto ed esigenze evangeliche; influiscono pure gli esperti che
riflettono sulla fede, scrutano e interpretano le forme culturali;
intervengono i Pastori che accompagnano ed educano il popolo alla
sequela di Cristo secondo il proprio contesto; sono determinanti gli
“spirituali” che più di altri intuiscono, posseggono la capacità
di sintonia, scoprono i semi di vangelo che ci sono in certi filoni
culturali.
A ragione dunque si indica, come criterio
fondamentale, per l'inculturazione la comunione ecclesiale.
Trasferito all’ambito salesiano, questo criterio suggerisce di
affrontare il problema attraverso una riflessione della comunità,
ispettoriale e locale, per muoversi nella direzione giusta.
Il processo di inculturazione
Un
altro fattore, che occorre considerare nell'inculturazione, è il
tempo. Non si tratta tanto del tempo “cronologico”, cioè del
solo passare degli anni, quanto del tempo riempito dalla presenza di
Cristo, nel quale opera lo Spirito Santo. L'espressione efficace del
mistero cristiano in una cultura è in essa “pienezza” dei tempi.
La rapidità del processo dipende dall’intensità con cui la
comunità cristiana vive il mistero di cui è portatrice e della sua
capacità di rendersi “lievito” nella società.
Ciò porta a
capire come avviene il processo di inculturazione per non lasciarsi
tentare da scorciatoie impraticabili.
Inculturare il vangelo
comporta evangelizzare la cultura. E questo segue un percorso non
certamente rigido, storicamente osservabile: la fede si riceve con la
veste culturale di colui che l'annuncia. L'accoglienza del messaggio,
secondo le parole e proposte di chi già lo vive, è un primo passo
necessario per inserire il vangelo in una cultura.
L'assimilazione
profonda dell'annuncio va producendo, nelle persone che lo accolgono,
un cambio di mentalità; la conversione progressiva va trasformando
le abitudini personali e modifica a poco a poco i rapporti e la vita
del gruppo cristiano, finché la lievitazione evangelica di tutto
l'umano gli dà un volto originale, così come l’umanità di Gesù
caratterizzò la presenza storica di Dio. In tal modo, la fede assume
le forme tipiche di un popolo e diventa in esso fermento di
cambiamento. Il processo non è lineare, ma circolare. Ciò evidenzia
che quanto più intensamente si lavora sulla conversione della
persona, tanto più rapidamente ed efficacemente si raggiungono
livelli di inculturazione.
I percorsi
Finalmente
l'inculturazione presenta alcuni percorsi tipici. Sono
sostanzialmente la continuità, la contestazione profetica, la
creazione.
La continuità porta ad assumere i “semina Verbi”
che si riscontrano in un determinato contesto correggendoli,
purificandoli, risignificandoli o aprendo per essi una nuova fase di
sviluppo. Ci può servire l’esempio di San Paolo all'Areopago di
Atene. La religiosità degli ateniesi offriva uno spazio per
l'annunzio e perciò l’Apostolo si appoggia su di essa. Ma arriva
per gli ateniesi il tempo in cui quella religiosità non basta più
nemmeno dal punto di vista umano, in forza di un evento che segna una
nuova fase: “Dopo esser passati sopra i tempi dell'ignoranza, ora
Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi poiché
egli ha stabilito un giorno...”. Ci sono molti aspetti che si
possono assumere in una cultura, ma non senza discernere i suoi
significati e confrontarli con il mistero di Cristo.
Non tutto
in una cultura è poi compatibile col vangelo. Ci possono essere in
esse realtà e concezioni inconciliabili con l’esperienza
cristiana. E ci sono anche “sistemi”, “insiemi”,
“costellazioni di elementi” il cui punto stesso di coerenza
interna è “non-evangelico”. Il cristiano e la comunità dunque
sono invitati, mediante un confronto con l'evento di Cristo, anche ad
abbandonare, a lasciare alcuni elementi saldamente radicati in una
cultura. Se il fatto dell’Incarnazione suggerisce la condiscendenza
di Dio che si è rivestito della natura umana, la morte e la
risurrezione di Cristo indicano il passaggio attraverso cui questa
stessa natura può raggiungere la forma alla quale è destinata e per
cui è stata assunta.
Da ultimo, la fede cristiana, poiché non
è solo sentimento soggettivo ma confessione di fatti storici e
mistero salvifico reale, è capace di produrre espressioni culturali
proprie. L'Eucaristia porta una cultura, ha significati umani,
parole, gesti, comportamenti, forme di socialità collegati
indissolubilmente alla sua natura e al momento storico della sua
istituzione. Tale cultura perciò attraversa l'universo cristiano nel
senso dello spazio e del tempo. Leggiamo ancora con commozione il
racconto di quello che Paolo dice di aver ricevuto dal Signore
riguardo alla celebrazione eucaristica e lo vediamo oggi ripetuto
nelle comunità cristiane sparse sotto tutti i cieli.
Ciò
avviene anche per la preghiera, che è inserita in quella di Gesù, e
per gli altri segni in cui la comunità cristiana si riconosce. È
l’universalmente valido dell'esperienza cristiana, che sgorga dalla
verità storica e dall'unicità dell'evento di Cristo. Per esprimere
questo unum lo Spirito Santo dà alla comunità ecclesiale diversità
di lingue, doni, carismi, culture. Il principio cristologico è
criterio di unità, il riferimento allo Spirito Santo dà ragione
della pluralità.
C’è una evidente interazione fra fede,
cultura della fede e culture. Quanto più si medita il mistero
cristiano e il significato dei gesti e delle parole con cui esso è
stato espresso nel momento “nascente”, tanto più si coglie la
sua novità e dunque la sua esigenza interna di “convertire” la
cultura. Quanto più si approfondiscono la struttura e gli elementi
di una cultura particolare, tanto più si comprendono le vie
attraverso cui un popolo cerca la pienezza di umanità e dunque quali
sono le espressioni, le intuizioni, i modelli che sono atti ad
esprimere il vangelo.
La dialettica è permanente. Non ci può
essere pace, nel senso di assenza di sfide reciproche o una specie di
convivenza definitivamente tranquilla che elimina il
confronto.
L'inculturazione rappresenta non solo il cammino di
penetrazione del vangelo in un gruppo umano, ma anche la conversione
completa della comunità cristiana. Essa risulta evangelizzata, non
in maniera decorativa, come vernice superficiale, quando si giunge in
profondità e fino alle radici della sua cultura, partendo dalla
persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con
Dio.
Perciò l'inculturazione è sentita come urgente
dappertutto. Non possiamo non farcene carico in comunione con le
nostre Chiese.
6. Il dialogo interreligioso ed
ecumenico.
Le
considerazioni precedenti sull’Incarnazione, sull’unicità di
Cristo e sul bisogno della sua mediazione per la salvezza totale
dell’uomo servono anche per illuminare un’altra linea di impegno:
quella del dialogo con altre religioni e confessioni cristiane.
Il
dialogo interreligioso è complementare all’annuncio. Avvicina
coloro che in qualche modo sentono la presenza di Dio, valorizza i
semi di verità presenti nelle diverse religioni, favorisce
l'accettazione vicendevole e la convivenza pacifica. Ci ricorda le
interpellanze e le domande rivolte da Gesù ai suoi contemporanei
riguardo a pratiche e credenze religiose (giudei, greci, samaritani,
sirofenici).
È pure parte importante del processo di
inculturazione, se è vero, come pensano non pochi studiosi, che la
religione rappresenta l’aspetto più profondo delle culture e, in
alcuni casi, forma con queste un'unica realtà per la gente
povera.
Forse mai come oggi si è avuta un'esperienza così
immediata della pluralità delle religioni. I mezzi di comunicazione
ne hanno favorito una almeno sommaria informazione. Le possibilità
di spostamento hanno consentito di farne esperienze parziali e
temporanee anche da parte di chi intendeva soltanto beneficiare di
alcune manifestazioni o soddisfare le proprie curiosità. Sono
conosciuti i fenomeni collegati alle religioni, come la ricerca di
spiritualità, il risveglio delle credenze tradizionali e
l’integralismo.
Nella Chiesa si è fatto un lungo e paziente
cammino di incontro, comprensione e valorizzazione delle diverse
religioni. Si collabora con esse in cause comuni, come il
perseguimento della pace, il superamento della povertà, la difesa
dei diritti umani. Tutti abbiamo ancora nella memoria le immagini
dell'incontro di Assisi, quelle della visita del Papa in Marocco e il
suo discorso ai mussulmani o, più recentemente, i funerali di Madre
Teresa di Calcutta.
I Salesiani operano in contesti
plurireligiosi nei quali sovente i cattolici sono minoranza. Per
educare ed evangelizzare devono conoscere in forma adeguata il fatto
religioso del proprio contesto e l’incidenza che ha sulle persone e
sulla cultura per poter interagire riguardo ad atteggiamenti,
tradizioni, credenze e pratiche religiose.
Il dialogo non
riguarda soltanto la formulazione della verità. Include anche
l'accoglienza, la compresenza rispettosa negli ambienti educativi e
sociali, le esperienze condivise in campo promozionale, la
testimonianza, il servizio. Non viene quindi praticato solo nelle
circostanze formali, ma si svolge anche nel quotidiano. In non pochi
degli ambienti, dove al presente stiamo lavorando con giovani e
personale di altre religioni, tali modalità sono già in atto. Ora
si richiede di aggiungerne altre più esplicite sul contenuto
dottrinale, morale, cultuale delle religioni. In questo modo si
abbattono i pregiudizi, si acquista una comprensione più adeguata
del senso e delle norme che ciascuna religione propone, si favorisce
la libertà religiosa e la sincerità di coscienza.
L’esperienza
ci dice che questa forma di dialogo non è sempre facile. Il sospetto
che la religione cristiana sia collegata al predominio culturale
dell’occidente crea non poche barriere. La convinzione che Cristo
sia mediazione, necessaria e universalmente valida, di salvezza,
appare come ostacolo quasi insormontabile. Si va insinuando il
pensiero che ogni espressione religiosa, seguita con sincerità di
coscienza, abbia, per l'uomo, uguale valore.
Così il dialogo
interreligioso perde interesse e il desiderio e la capacità
dell'annuncio decadono. Di un tale rischio non siamo totalmente
immuni.
Un’ulteriore difficoltà viene dai nuovi movimenti
religiosi, genericamente denominati “sette”. La loro varietà e
diversità non consente di distinguere quale dialogo si possa fare
con esse. L'Instrumentum Laboris del Sinodo per l'America ripete, a
diverse riprese, che il loro proselitismo aggressivo, il fanatismo,
la dipendenza che creano nelle persone attraverso forme di pressione
psicologica e di costrizione morale, la critica e ridicolizzazione
ingiusta delle Chiese e delle loro pratiche religiose sembrano
rendere impossibile ogni forma di dialogo, confronto e
collaborazione. Eppure siamo invitati a comprendere le ragioni di una
certa loro incidenza ed a favorire la libertà di coscienza e la
convivenza pacifica.
Con le dovute distinzioni che suppongono i
commenti di cui sopra, dobbiamo pure noi inserire il dialogo
interreligioso nella nostra pastorale missionaria. Ci sorreggono per
questo alcune convinzioni.
La luce e la grazia portate da Gesù
non escludono i cammini validi di salvezza presenti in altre
religioni. Anzi li assumono, li purificano e li perfezionano. “Il
Verbo incarnato è il compimento dell’anelito presente in tutte le
religioni dell’umanità: questo compimento è opera di Dio e va al
di là di ogni attesa umana. È mistero di grazia”.
Lo Spirito
è presente e agisce in ogni coscienza e in ogni comunità che
cammina verso la meta della verità. Egli precede l’azione della
Chiesa e suggerisce ad ogni persona la via verso il bene. Allo stesso
tempo, spinge la Chiesa ad evangelizzare quei gruppi e popoli che
egli già interiormente prepara all’accoglienza. È una
affermazione ribadita in molti documenti recenti del Magistero. “Lo
Spirito, leggiamo nell’enciclica Dominum et Vivificantem, si
manifesta in maniera particolare nella Chiesa e nei suoi membri:
tuttavia la sua presenza e azione sono universali, senza limiti né
di spazio né di tempo”. È all'origine della stessa domanda
esistenziale e religiosa dell’uomo, la quale nasce non soltanto da
situazioni contingenti, ma dalla struttura stessa del suo essere...
Lo Spirito sta all’origine dei nobili ideali e delle iniziative di
bene dell’umanità in cammino... È ancora lo Spirito che sparge i
“semi del Verbo” presenti nei riti e nelle culture, e li prepara
a maturare in Cristo.
Una tale lettura, per un verso porta a
superare il relativismo religioso che considera le religioni approcci
e vie ugualmente valide verso la salvezza, ignorando, con detrimento
non lieve dei destinatari, la pienezza di rivelazione e la
singolarità della grazia risanatrice apportata da Cristo. D’altro
canto, ci incoraggia ad offrire con entusiasmo la nostra esperienza e
quella della Chiesa con atteggiamenti di rispetto e attesa,
consapevoli delle difficoltà dei cambiamenti, aperti alle sorprese
della grazia, grati e gioiosi di tante risposte anche soltanto
parziali, anzi piccole.
Aggiungo soltanto un accenno al dialogo
ecumenico, quello che si svolge con le altre chiese cristiane.
L'unità è uno dei traguardi pressantemente ribadito da Giovanni
Paolo II. È condizione e segno della nuova evangelizzazione. La
preghiera, gli atteggiamenti e gli sforzi per costruirla sono parte
essenziale della pastorale odierna perché rispondono al desiderio di
Gesù e alle necessità del mondo. Ogni comunità è chiamata ad
impegnarsi. Con alcune di queste confessioni si è già fatto un
cammino ed è aperta la via all’interscambio nella preghiera ed
alla collaborazione nell’azione.
Atteggiamenti e modalità salesiane nel
dialogo
Vista la convenienza di
incorporare il dialogo interreligioso ed ecumenico alla nostra prassi
missionaria, è utile indicare alcuni atteggiamenti e modalità per
intervenire in esso con spirito salesiano.
Metto in primo luogo
la capacità, tipica del Sistema Preventivo, di scoprire e
valorizzare il positivo dovunque si trovi. Le Costituzioni lo
propongono a tutti i Salesiani: “Ispirandosi all’umanesimo di San
Francesco di Sales, (il salesiano) crede nelle risorse naturali e
soprannaturali dell’uomo, pur non ignorandone la debolezza. Coglie
i valori del mondo (...): ritiene tutto ciò che è buono...”. Lo
riferiscono in particolare ai missionari quando affermano che
“sull’esempio del Figlio di Dio assumono i valori dei popoli e
condividono le loro angosce e speranze”.
C’è poi il
desiderio di incontro con le persone, ispirato alla fiducia e alla
speranza. Il salesiano prende l’iniziativa di muoversi verso ogni
destinatario, sia esso cristiano o fedele di altre religioni. Va con
la sua carica di umanità (la bontà!) e convinto che in ogni cuore
c’è un terreno fecondo per lo svelamento della verità e per la
generosità nel bene.
Da ultimo ricordo la pazienza che sa
gioire dei piccoli passi, attendere ulteriori frutti, accompagnare
intuizioni o scoperte, affidare a Dio il momento della maturazione
della fede, approfittare di ogni occasione per comunicare, attraverso
l’amicizia e la parola, la propria esperienza del vangelo.
Nel
dialogo religioso hanno una importanza particolare le comunità. Esso
infatti è opera corale, piuttosto che di pionieri solitari. La
comunità ecclesiale è “segno e strumento” della salvezza e
comunica senza interruzione con la società emettendo segnali con il
suo essere, più ancora che con le sue prediche. All’interno della
Chiesa le singole comunità, come quelle dei consacrati e quelle
educative, aprono o chiudono le possibilità di dialogo con il loro
stile di vita e la loro capacità di accoglienza.
È accertato
che nelle comunità educative plurireligiose animate dai nostri
confratelli si convive, si impara la tolleranza, si conoscono e si
valorizzano elementi di altre religioni, sono presenti i segni e le
pratiche cristiane, ci si presta al dialogo approfondito con coloro
che desiderano conoscere meglio Gesù Cristo.
Riguardo alle
comunità dei consacrati, d’altra parte, l’Esortazione Vita
Consecrata sottolinea il ruolo particolare che esse possono avere
nella comunicazione con altre esperienze religiose attraverso la
vicendevole conoscenza e rispetto, la cordiale amicizia e sincerità,
“la comune sollecitudine per la vita umana, che va dalla
compassione per la sofferenza fisica e spirituale, all’impegno per
la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato”, il dialogo di
vita e l’esperienza spirituale.
Nei luoghi di missione, sarà
importante, in questo come in altri aspetti della vita missionaria
(inculturazione, formazione, ecc.), curare una costante ed ampia
collaborazione con gli altri missionari, religiosi o laici, per dare
un contributo più ricco al comune impegno per il Regno.
7. Una parola d'ordine: consolidare.
Negli
ultimi vent’anni la Congregazione, nonostante la scarsità di
vocazioni in vaste zone, si è aperta con generosità verso nuove
presenze missionarie. Il carisma salesiano è stato portato in
numerosi paesi. Al Progetto Africa si è aggiunto, poco dopo, un
intenso movimento verso l’Est europeo e l’espansione nel Sud Est
dell'Asia (Indonesia, Cambogia).
In alcuni di questi contesti,
compiuta felicemente la fase di fondazione, è ora in corso quella di
consolidamento per quanto riguarda le comunità, le strutture, il
progetto pastorale.
Proprio in vista di tale consolidamento e
riconoscendo i risultati già raggiunti, voglio indicare alcune
urgenze. Le affido in forma particolare ai missionari che operano sul
posto ed alle Ispettorie responsabili di presenze missionarie.
Lo sforzo principale va rivolto alla formazione. Per quanto riguarda
quella iniziale, costruite ormai le sedi e fondate le comunità
formatrici, è necessario provvedere alla preparazione di personale e
alla costituzione di équipes sufficienti dal punto di vista numerico
e qualitativo. Converrà allo stesso tempo costituire la commissione
per la formazione ed attivare l’elaborazione del Direttorio
prescritto dai Regolamenti. Assumendo gli orientamenti normativi
comuni e l’esperienza del posto, il Direttorio diventerà uno
strumento di inculturazione secondo quanto ho richiamato nelle pagine
precedenti.
Si va imponendo dappertutto il bisogno di conoscere
il retroterra culturale e religioso dei candidati per fare un
discernimento accurato delle loro capacità e motivazioni e
accompagnarli pedagogicamente, affinché interiorizzino gli
atteggiamenti di vita consacrata e vivano in maniera personalizzata
il genuino spirito salesiano, convenientemente contestualizzato.
Nell’assimilazione profonda e convinta dello spirito, oltre la
pratica esterna, consiste la vera fondazione del carisma in un paese.
Le comunità di formazione vanno dunque curate, in particolare per
quanto riguarda il personale, a partire da quella del
prenoviziato.
La formazione iniziale oggi trae il suo modello e
profilo da quella permanente e mira e renderla generale ed efficace.
La formazione permanente è dunque un aspetto indispensabile del
consolidamento. Comprende l’impegno personale di preghiera e vita
spirituale, di riflessione e studio, di progressiva qualificazione e
preparazione per la missione, da cui mai il lavoro di
evangelizzazione può esser disgiunto. Comprende anche la qualità
della vita della comunità locale e ispettoriale. Si è sempre e
dovunque verificato che l'efficacia evangelizzatrice dipende dallo
stile comunitario di vita fraterna, di preghiera e da un’ordinata
progettazione, più che dall'attivismo individualista.
L'Esortazione
Apostolica Vita Consecrata ricorda che la comunione è già missione
per la sua forza di testimonianza evangelica. Forse le “comunità
missionarie” più delle altre sono chiamate a diventare luogo di
crescita permanente.
Si aggiungono per ciascuno i tempi
straordinari di aggiornamento, sintesi e ricarica. Questi sono
pensati per un conveniente riposo periodico, ma soprattutto per
ridare profondità al vivere quotidiano e all'impegno di
evangelizzatori. Converrà renderli regolari e specifici.
Una seconda attenzione va rivolta alla qualificazione del nostro
lavoro educativo e pastorale. Indico, alla luce dell’esperienza,
alcuni elementi da curare in modo speciale.
Uno è l’armonia e
integrazione tra evangelizzazione, promozione umana ed educazione.
La
prima, l'evangelizzazione, costituisce la finalità principale. È la
ragione del nostro esistere e delle nostre opere. Ad essa va dunque
data, come abbiamo detto, la preferenza in tempi, mezzi, impiego di
persone, qualifiche e piani.
L’educazione è per noi via e
modalità tipica. Riguarda principalmente i giovani, ma ci detta lo
stile da seguire anche con gli adulti. Per sua natura si rivolge
anche a coloro che non sono cristiani e non intendono assumere la
fede. Ai cristiani offre una formazione umana completa che si integra
col cammino catechistico e di iniziazione nella fede.
La
promozione umana è aspetto indispensabile della evangelizzazione.
Anch’essa riguarda l’uomo e la società in quanto tale; ha
finalità, metodi e dinamismi propri e può assumere diversi
orientamenti. Perciò Paolo VI qualifica come “evangelica”,
“fondata sul Regno di Dio” la promozione che la Chiesa favorisce.
Ciò deve apparire nella costanza e nel modo di agire, così da
rendere evidente la finalità specificamente religiosa
dell’evangelizzazione, che perderebbe la sua ragion d’essere se
si scostasse dall’asse che la governa: il Regno di Dio prima di
ogni altra cosa, nel suo senso pienamente teologico.
Tutto
questo trova uno strumento di chiarezza, orientamento e convergenza
nel Progetto Educativo e Pastorale, che motiva e sintetizza le
diverse dimensioni del nostro lavoro: quella educativa e culturale,
quella di evangelizzazione e di catechesi, quella comunitaria e
associativa, quella vocazionale.
La sua elaborazione e
realizzazione appaiono necessarie per superare l’improvvisazione e
le visioni troppo individuali che sbilanciano su di un versante e
portano fuori dalle finalità. Il mettersi a prepararlo ed attuarlo
sarà un’opportunità di ripensamento dell’azione, di accordo
comunitario e di formazione permanente.
La pastorale non
raggiunge i suoi fini e il progetto non ha garanzia di funzionamento,
se non si mette la qualificazione delle persone al centro
dell’attenzione. In questo caso ci riferiamo ai neofiti, ai fedeli,
ai collaboratori, agli animatori, ai genitori e, in generale, alle
persone disponibili per processi formativi. Ad alcune di queste
categorie bisogna dedicare cure particolari. L’esperienza che fanno
offre loro l’opportunità di entrare più profondamente in una
relazione con Cristo e il lavoro che compiono incide in forma
determinante nella comunità cristiana. Mi riferisco ai catechisti ed
agli educatori.
Intendo praticamente richiamare con energia
tutti a investire principalmente nella formazione delle persone: il
maggior numero possibile e al livello più alto possibile.
Si
verifichi l’impiego del denaro per distribuirlo a sostegno delle
attività più importanti e si riveda l'impiego delle strutture e
l’orientamento delle nostre occupazioni, affinché quello che è
solo strumentale non impedisca quello che è principale. Anche nelle
missioni, la comunità deve funzionare come “nucleo animatore”.
Una terza attenzione va rivolta alle condizioni perché il vangelo e
il carisma salesiano si radichino nei diversi contesti.
L’inculturazione non è un’operazione fatta da alcuni esperti a
tavolino. È la vita cristiana e salesiana che progredisce e va
producendo un’interpenetrazione tipica tra vangelo e costumi.
Si
va realizzando prima di tutto in noi. Esige un senso di appartenenza
al luogo, di apprendimento e uso quotidiano della lingua, di
assunzione dei costumi, migliorati se si vuole, di partecipazione ai
rapporti più semplici e umili, di comprensione e appropriazione
della religiosità popolare. In una parola, diventare del posto e
venir percepiti come tali, “essersi fatti tutto a tutti”.
Questo
cammino (appartenenza, lingua, costumi, inserzione popolare),
intrapreso già da coloro che danno il primo sviluppo a una missione,
faciliterà la convivenza con le generazioni native e il passaggio
delle consegne a loro nel momento opportuno.
A questo mira la
creazione di circoscrizioni che raggruppano presenze, rafforzano il
senso di appartenenza, creano corresponsabilità e consentono la
costituzione di comunità composte da confratelli provenienti da
diverse nazioni, che dovranno modellare il tipo di vita sul criterio
dell’inserimento e dell’inculturazione.
All’inculturazione,
alla qualità della evangelizzazione, alla comunicazione dello
spirito salesiano, alla trasmissione della memoria concorrono pure
gli archivi, le biblioteche specializzate sulla cultura locale, la
raccolta di materiale etnografico e di quello che documenta il
cammino missionario.
Le missioni salesiane del primo tempo
ebbero molto a cuore questa dimensione storica che rispondeva alle
raccomandazioni dei superiori, a partire da Don Bosco, e alla
preparazione culturale dei pionieri. È una preoccupazione che va
ripresa oggi.
8. Nuove frontiere.
Abbiamo
in cantiere parecchi progetti missionari, tutti promettenti. Le
attese che si manifestano nelle zone dove verranno iniziati, la
ricchezza umana e culturale con cui si viene a contatto e i bisogni
estremi a cui si darà risposta, incoraggiano ad intraprenderli. Sono
campi preparati per la mietitura. Ve li presento per rendere il
discorso più concreto e condividere con voi la gioia dello sguardo
verso il futuro.
Nell’Africa, oltre al rafforzamento e
all'organizzazione delle presenze stabilite precedentemente, andiamo
avanti inserendoci in nuovi contesti: Zimbabwe, Malawi e
Namibia.
Nell’Asia è in piena attività la prima presenza
nella Cambogia: un vasto e moderno centro di formazione professionale
con 500 giovani con possibilità di un centro giovanile e di azione
missionaria. Una seconda opera si sta avviando, mentre si esplorano
le possibilità che offre il Laos. Recentemente si sono stabilite le
comunità nelle Isole Salomone e nel Nepal e si mira ad iniziare la
fondazione nel Pakistan, alla quale nel secondo semestre del 1998
verranno inviati quattro confratelli. Nuove iniziative missionarie
hanno intrapreso tutte le Ispettorie dell'India.
C’è poi la
Cina dove si affacciano tempi nuovi pieni di promesse per le
dimensioni del territorio e della popolazione, le caratteristiche
umane, gli antecedenti missionari e i fermenti religiosi. Il lavoro
per il momento si svolge in forme molto originali, atipiche. Il
futuro presenta segni di speranza ed interrogativi. Comunque, la
Congregazione segue gli avvenimenti politici per muovere i passi
verso una consistente presenza non appena si diano le condizioni. Con
queste prospettive si accolgono già domande di candidati che si
sentono chiamati a lavorarvi.
In Europa ci sono da appoggiare
alcune comunità di recente fondazione, come in Albania, mentre si
procede a stabilire l’opera in Romania con il coinvolgimento delle
Ispettorie di Venezia e dell'Austria. Don Bosco ci ha preceduti e la
diffusione della sua biografia ha suscitato vocazioni locali, che
stanno compiendo già le prime fasi di formazione.
In America
guardiamo a Cuba, dove negli ultimi anni abbiamo avuto il segno
positivo del sorgere di vocazioni e dove le necessità del contesto
cristiano appaiono immense per la scarsità delle forze. E nel nuovo
clima di collaborazione e solidarietà adombrato nel CG24 e
riaffermatosi nel Sinodo di America, progettiamo delle presenze tra
gli emigranti ispanici degli Stati Uniti.
Ci sono poi,
all’interno delle nazioni, indigeni ai quali abbiamo dato
attenzione nel passato e che continuiamo a seguire. Ad essi si
aggiungono oggi i numerosi gruppi di afro-americani, per i quali,
seguendo le linee delle Chiese di America, abbiamo in cantiere
qualche progetto.
Chiudo la lista accennando al doloroso
problema dei rifugiati, che sono milioni, specialmente in Africa, e
tra i quali le conseguenze più gravi ricadono sui ragazzi e giovani.
Ho affidato al Dicastero per le missioni di elaborare un’ipotesi di
azione, partendo dalla conoscenza del fenomeno in ogni continente,
per giungere ad iniziative significative sul fronte educativo e
pastorale.
“La messe è molta”. Seguendo l’esempio di Don
Bosco e dei suoi successori, che hanno presentato alla Congregazione
nuove imprese missionarie per suscitare generosità, faccio anch’io
un appello ai confratelli che sentono il desiderio e la chiamata a
mettersi a disposizione del Signore. Lo rivolgo a tutti. La presenza
degli anziani può risultare provvidenziale, per la testimonianza, la
preghiera e il contributo di sapienza, in comunità missionarie assai
giovani. Similmente può essere prezioso per le missioni quel tempo
di vita che in molte nazioni non viene più impegnato nelle opere
educative. Vorrei comunque che sentissero questo appello
particolarmente i giovani.
La generosità missionaria è stata
una delle ragioni della buona salute e della espansione della
Congregazione durante il primo secolo e mezzo di vita. Sono persuaso
che lo stesso avverrà nel futuro.
In questo appello vorrei
mettere due accenti particolari. Il primo riguarda le Ispettorie che
oggi godono di abbondanza di vocazioni. Per molto tempo sono state le
Ispettorie dell’Europa a fornire il maggior numero di missionari e
grazie ad esse la Congregazione è stata impiantata negli altri
continenti. Nel recente congresso europeo sulle vocazioni,
celebratosi a Roma, si è constatato che l’apporto delle Chiese
europee alla missione “ad gentes” negli ultimi venticinque anni è
diminuito dell'80%, mentre continua ancora da parte di esse una
esemplare solidarietà economica e di assistenza varia. Allo stesso
tempo si va facendo consistente il contributo di altri continenti,
come ho potuto verificare nella consegna del Crocifisso ai partenti
della 127a spedizione missionaria.
Giovanni Paolo II, alla
conclusione della Enciclica Redemptoris Missio afferma: “Vedo
albeggiare una nuova epoca missionaria, che diventerà giorno radioso
e ricco di frutti, se tutti i cristiani e in particolare i missionari
e le giovani Chiese risponderanno con generosità e santità agli
appelli e alle sfide del nostro tempo”. Anche noi dobbiamo
diffondere mentalità ed entusiasmo nelle Ispettorie di recente
fioritura ed aprire ai giovani la possibilità del mondo.
La
reciprocità missionaria ci deve rendere disponibili a condividere
vicendevolmente mezzi, personale e aiuti spirituali.
Il secondo
accento riguarda il coinvolgimento dei laici nella missione “ad
gentes”. Contestualmente alla crescita generale della coscienza del
laicato e della sua partecipazione nella comunione e missione della
Chiesa, è venuta aumentando la sua attenzione alla missione “ad
gentes”. Si diffonde il desiderio, le richieste crescono, si va
migliorando la preparazione dei candidati e si cercano le forme di
rendere possibile la partecipazione con le peculiarità delle loro
condizioni. Annunciare la buona novella è un dovere-diritto dei
laici fondato sulla dignità battesimale. Stiamo assistendo ad una
mobilitazione senza precedenti dei volontari impegnati in prima linea
nella pastorale delle Chiese e nella promozione umana svolta con
senso cristiano.
Il CG24 ha ribadito in molte forme questa
possibilità d’impegno missionario dei laici. È ora di andare
oltre le realizzazioni e procedere verso forme ampie e organizzate di
laicato missionario salesiano.
9. Insieme
verso il 2000.
A quest’opera
di consolidamento ed alle nuove imprese per l’estensione del Regno
siamo tutti convocati. Le “missioni” fanno parte di un'unica
missione ecclesiale. Quelle salesiane fanno parte dell’unica
missione salesiana. Si realizzano, senza soluzione di continuità,
dovunque la Chiesa deve annunciare il Vangelo o la Congregazione è
chiamata a offrire il proprio carisma.
Tra coloro che lavorano
nelle diverse “missioni” si dà una profonda comunione di beni e
una misteriosa solidarietà di sforzi e risultati.
Condividiamo
il tratto missionario della spiritualità salesiana, desiderando che
la luce del Vangelo arrivi a tutti. Condividiamo la prassi
missionaria perché la priorità dell’annuncio, l’apertura al
dialogo religioso, il movimento d’inculturazione, lo sforzo di
consolidare la comunità attraverso la formazione delle persone
vengano assunti dappertutto nella misura che ciascuna situazione
richiede. Condividiamo la vita missionaria, partecipando agli
avvenimenti consolanti e tristi e cercando di vedere in essi la
volontà del Signore, attraverso l'informazione, la lettura
evangelica degli eventi. Ci manteniamo in comunione con i missionari
soprattutto con la preghiera quotidiana ed in date o circostanze
speciali segnate dalla nostra memoria, dalle indicazioni della Chiesa
o da eventi particolari.
Espressione della medesima condivisione
è una pastorale giovanile che nel cammino di fede fa vivere
intensamente la dimensione missionaria della Chiesa. Nei percorsi di
maturazione umana, di approfondimento della fede, di esperienza
ecclesiale e di orientamento vocazionale c’è posto per svariati
stimoli provenienti dal mondo delle missioni. Nell’associazionismo
giovanile si trovano spazi per gruppi di finalità apostolica varia
che si ispirano all’interesse per le missioni. In essi si coltivano
e fioriscono atteggiamenti e attitudini cristiane, come la prontezza
nel donarsi, la stima per le diverse culture, la capacità di andare
oltre le apparenze delle persone, il senso comunitario del lavoro e
dell’azione, il gusto per la comunicazione, la mondialità
.
Espressione della condivisione è ancora la diffusione della
sensibilità missionaria o la testimonianza della nostra vita povera,
tra la gente cristiana o semplicemente di buon cuore. Va fatta
conformemente ai principi e finalità dell’evangelizzazione,
piuttosto che soltanto secondo le tecniche della pubblicità e della
captazione del consenso. L’apporto delle Procure missionarie,
mondiali, interispettoriali e ispettoriali, ha reso possibili
l’inizio e la crescita di molti progetti missionari e continua ad
essere ancora il segno del coinvolgimento di molte persone
nell’impresa missionaria e di quel senso concreto che ci ha
caratterizzato sin dalla prima spedizione.
Tutto ciò va
vissuto, è quasi superfluo dirlo, non con mentalità puramente
funzionale, ma col desiderio di niente tralasciare affinché molti
abbiano la felicità di sperimentare la salvezza di Cristo.
La
prossimità del 2000 ci invita a dare una nuova prova della nostra
capacità di intraprendere insieme iniziative missionarie di vasto
respiro.
Ricorreranno allora i 125 anni della prima spedizione
missionaria. Nella nostra storia non si è lasciata passare nessuna
delle ricorrenze importanti di questo avvenimento senza segnarla con
particolari celebrazioni.
All’inizio del secolo toccò a don
Rua commemorare il 25º. I Salesiani dell’America desideravano
ardentemente la sua presenza in quel continente e interposero a tal
fine importanti influenze, che però non approdarono al risultato
agognato. Le celebrazioni comunque si tennero con la presenza del
Catechista generale, don Paolo Albera, nel contesto del Congresso
internazionale dei Cooperatori di Buenos Aires, secondo dopo quello
di Bologna.
Più ricordata è la commemorazione del
cinquantesimo, nel 1925, voluta dal Beato Filippo Rinaldi e che
coincideva con un anno giubilare. Il punto primo del suo programma
consisteva in “una grande funzione e una numerosa spedizione
missionaria” Tale spedizione infatti si preparò. Si componeva di
172 Salesiani e 52 Figlie di Maria Ausiliatrice. Toccò al Card.
Cagliero benedirla e consegnare il crocifisso ai missionari
partenti.
Nel settantacinquesimo, don Pietro Ricaldone chiese un
contributo straordinario di personale alle Ispettorie che erano state
destinatarie dei primi sforzi missionari e spinse la fondazione di
alcuni aspirantati missionari fuori Europa.
Nel 1975, a cento
anni della data che ci è tanto cara, don Luigi Ricceri invitò a
ricordarla con alcune iniziative pratiche di cui la seconda era : una
spedizione missionaria degna del centenario. “Vengo ora - diceva -
a farvi non una proposta, ma un fervido invito. La Congregazione,
grata al Signore per tutto il bene che ha potuto fare alle anime in
questi cento anni e consapevole del molto che rimane da fare,
fiduciosa nella Provvidenza che saprà ricompensare il gesto di chi
lascia l’Ispettoria per le missioni, suscitandovi nuove e generose
vocazioni, si propone di realizzare una spedizione missionaria degna
dell’avvenimento”.
Le dimensioni della Congregazione e la
vitalità delle nuove Ispettorie, l’allargamento del mondo e le
nuove zone di semina ci invitano a mettere in pratica la reciprocità
missionaria.
Vi propongo, in vista del 2000, di formare un
manipolo, con il contributo minimo di un confratello per ogni
Ispettoria, per consolidare le opere iniziate da poco ed avanzare
sugli spazi che si vanno aprendo. Le Ispettorie favorite con più
vocazioni potranno contribuire secondo la loro ricchezza, cominciando
sin da adesso un’opera di sensibilizzazione e motivazione tra i
giovani confratelli. Congiungeremo così l'appello del Papa ad una
nuova evangelizzazione con il ringraziamento al Signore per le circa
10.000 vocazioni missionarie mandate alla nostra Congregazione.
Conclusione.
Al
termine di questa riflessione, il mio pensiero torna a Maria
Ausiliatrice. Non a caso le nostre spedizioni partono dalla Basilica
a Lei dedicata come centro di irradiazione della fede e della
Congregazione. Anche se oggi, a causa del decentramento missionario,
i punti di partenza sono molti, la consegna del Crocifisso davanti a
Maria Ausiliatrice sarà sempre il gesto col quale la Congregazione
salesiana in quanto tale rinnova il suo impegno missionario.
Il
quadro che la rappresenta ci consegna una sintesi di spiritualità
missionaria con il riferimento al Padre che è all’origine della
missione, all’Incarnazione del Figlio, che è la prima missione
fonte di tutte le altre, e alla presenza dello Spirito inviato a
animare la Chiesa, a sua volta mandata ad evangelizzare il
mondo.
Maria ci fa pensare alla parola accolta
nell’Annunciazione, all’annuncio gioioso portato nella
Visitazione, alla Parola meditata nella nascita di Gesù e
progressivamente diventata vita nella partecipazione al ministero
pubblico, pienamente realizzata nell'unione alla passione, morte e
risurrezione di Gesù.
I territori dove abbiamo seminato sono
oggi quasi tutti segnati da un santuario di Maria Ausiliatrice. Le
comunità che si sono formate hanno imparato a invocarla. Le tre
comunità cristiane con le quali abbiamo celebrato l’eucaristia
nella Cina hanno chiesto spontaneamente nel momento di congedo la
benedizione di Maria Ausiliatrice. È una pratica e un ricordo che
tanti anni di isolamento non sono riusciti a cancellare e cui è
attaccata la fede.
A Lei, che ha aperto e guidato la nostra
storia missionaria, affidiamo il nostro presente e i nostri progetti
futuri.
Juan Vecchi