Figli di un sognatore,
realizzatori di una profezia
“Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura…
Susciterò per loro un pastore, che le pascerà…
Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore” (Ez 34,11.23).
“Se non conosciamo don Bosco e non lo studiamo, non possiamo comprendere il suo cammino spirituale e le sue scelte pastorali; non possiamo amarlo, imitarlo e invocarlo; in particolare ci sarà difficile inculturare oggi il suo carisma nei vari contesti e nelle differenti situazioni. Solo rafforzando la nostra identità carismatica, potremo offrire alla Chiesa e alla Società un servizio ai giovani significativo e rilevante. La nostra identità trova il suo riferimento immediato nel volto di Don Bosco; in lui l’identità diventa credibile e visibile”1.
“Abbiamo bisogno di conoscere don Bosco, fino a farlo diventare la nostra mens, il nostro punto di vista, il nostro agire di fronte ai bisogni dei giovani. Vi invito ad amarlo… Ecco la mia esortazione: conoscerlo, amarlo, imitarlo perché siamo tutti quanti eredi e trasmettitori del suo spirito”2. Questa sollecitazione, pronunciata da don Pascual Chávez la sera della sua elezione a Rettor Maggiore, è stato un permanente motivo trainante del suo ministero, riproposto nella Strenna di questo anno.
Ma dove trovare oggi don Bosco, la sua identità, il suo progetto? La tradizione salesiana, da Don Rua in poi, ha creduto che nelle Costituzioni sono “sempre presenti Don Bosco, il suo spirito, la sua santità”.3
Che nelle Costituzioni “abbiamo tutto Don Bosco” non è una creazione ingegnosa dei suoi successori. 4 L’identificazione proviene dallo stesso Don Bosco, che voleva che i suoi figli considerassero le Costituzioni come caro ricordo di lui5: “Se mi avete amato in passato, continuate ad amarmi in avvenire colla esatta osservanza delle nostre costituzioni”, scrisse nel suo Testamento spirituale.6 E quando inviò i primi missionari in America, consegnò a don Cagliero, capo-spedizione, il libro delle Costituzioni7; “era come dicesse – commenta Don Rua –: Voi traverserete i mari, vi recherete in paesi ignoti, avrete da trattare con gente di lingue e costumi diversi, sarete forse esposti a gravi cimenti. Vorrei accompagnarvi io stesso, confortarvi, consolarvi, proteggervi. Ma quello che non posso fare io stesso, lo farà questo libretto”.8
Il primo capitolo delle Costituzioni SDB cerca, si sa, di «definire con precisione l'identità della nostra Società»9 ed inizia riconoscendo una particolare iniziativa di Dio nell'origine della Congregazione Salesiana. A far da intestazione al capitolo è stata collocata una citazione profetica nella quale si annuncia l'intervento imminente di Dio come Pastore del suo popolo. Cercare personalmente il suo gregge e affidarlo ad un pastore che lo guidi nel suo nome, sono i due eventi che il Dio Pastore si propone di realizzare. Non è difficile intuire il motivo salesiano che ha portato a scegliere questa citazione di Ez 34,11.23: «Con il debito "accomodamento" si applica meravigliosamente a Don Bosco: esso sottolinea l'iniziativa divina della sua vocazione; richiama il sogno dei 9 anni in cui il Buon Pastore affida il gregge di pecore al pastorello Giovannino Bosco; esprime molto bene la missione salesiana: guidare e nutrire i giovani».10
Questo primo sogno, di cui don Bosco scriverà per la prima volta nel 1873, “mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita… Non mi fu mai possibile togliermi quel sogno dalla mente”;11 e difatti, condizionò il suo modo di vivere e di pensare e, «in particolare, il modo di sentire la presenza di Dio nella vita di ciascuno e nella storia del mondo». Don Bosco «dovette sentirlo come una comunicazione divina, come qualche cosa che aveva l'apparenza (i segni e le garanzie) del soprannaturale».12 Giovane sacerdote tornerà a sognarlo nel 1844 e, anche se allora comprese “poco il significato”, lo confermò nella sua personale chiamata e più tardi assimilò che “le cose di mano in mano avevano il loro effetto”.13 Un anno prima di morire, mentre celebrava la S. Messa nella Basilica del Sacro Cuore a Roma, aveva ancora viva davanti agli occhi la scena di quando a nove anni aveva sognato la Congregazione.14
Non solo la vicenda vocazionale di Don Bosco15, ma anche tutta la sua opera storica risultano incomprensibili senza un esplicito riferimento a questo sogno dell'infanzia16. In esso”: abbiamo, come salesiani, uno, il primo, dei nostri momenti fondanti: siamo figli di un santo sognatore ed eredi dei suoi sogni.
1.Figli di un sognatore
«Don Bosco si caratterizza tra i santi anche per essere un sognatore»17. Di fatto «il nome di Don Bosco e la parola sogno sono correlativi... E fu mirabile infatti il ripetersi in lui quasi continuo per sessant'anni di questo fenomeno... La vita di Don Bosco è un intreccio di avvenimenti così meravigliosi»,18 come furono quei sogni che alimentarono la sua convinzione di vivere sotto l'ispirazione divina e lo sostennero nelle sue imprese. «Senza i sogni non si spiegherebbero alcuni lineamenti caratteristici della religiosità di Don Bosco e dei Salesiani».19 Per quanto sia difficile «stabilire l'atteggiamento di Don Bosco tra i sogni ch'egli sente o presenta come profetici, e la realtà», comunque «si ha l'impressione ch'egli agisca nella persuasione di aver ricevuto un mandato dall'alto, una meta da raggiungere, qualcosa da realizzare anche se egli non ne percepisca - attraverso i sogni - tutta l'entità».20
Il fatto è che nei suoi sogni Don Bosco si immergeva nel mistero di Dio,21 ne intravedeva i progetti, ne intuiva la volontà. Essi erano come «un ponte lanciato verso il soprannaturale».22 «II santo era del tutto aperto al soprannaturale e la sua comunicazione con quel mondo si è manifestata particolarmente nei sogni... In senso metaforico, si può dire che don Bosco ha portato nel suo animo un unico grande sogno... Tutti i sogni di Don Bosco sono, in fondo, un unico sogno; hanno per oggetto il medesimo tema, modulato su variazioni diverse: la salvezza della gioventù»23. E vive per prolungare questo primo sogno, a cui non dubita di attribuire il ruolo di «programma nelle mie deliberazioni».24
Il Dio di Don Bosco, che ci ha chiamato a prolungare nel tempo la missione affidatagli in sogno, continua ad essere pronto a dialogare con noi nei momenti di riposo e a guidare il nostro lavoro. Per continuare ad operare per la salvezza della gioventù, oggi c'è bisogno di santi sognatori, sognatori che si fanno santi, come Don Bosco, per far diventare realtà i suoi sogni, il progetto di Dio. La durezza del momento culturale che attraversiamo, le prevedibili, o non tanto, difficoltà del prossimo futuro, il disincanto accumulato dopo un passato più glorioso, non ci liberano dal sogno che abbiamo ereditato da Don Bosco, il giorno stesso in cui Dio ci chiamò a diventare salesiani. Non siamo nati nella Chiesa «da solo progetto umano, ma per iniziativa di Dio» (Cost 1). Con questa convinzione di fede inizia il nostro testo costituzionale. Non bisogna dimenticarlo.
Di conseguenza, se ogni salesiano assume la salvezza dei giovani, cioè il progetto che Dio ha sulla gioventù, come un sogno da ereditare, nulla – e nessuno! – è autorizzato ad annullare questo sogno e a impedirne la realizzazione. Non di rado, tra di noi c'è chi cerca di negarlo, o peggio ancora distruggerlo, anche se non sempre in modo cosciente. La stanchezza vocazionale di qualcuno, dovuta ad una donazione frutto di illusioni, a volte sbagliata nei modi e nei mezzi, emerge ed impressiona maggiormente rispetto a quella di altri fratelli più sognatori, al punto che i primi si sentono in diritto non solo di destarli dal sogno, ma addirittura di disprezzare i loro sogni. Con molta facilità dimentichiamo di essere nati dal sogno di un santo o, per essere più esatti, dal sogno fatto da un bambino a un grande santo. Abbiamo perciò il dovere di rispettare gli aneliti, gli ideali, la forza creatrice racchiusi in questi sogni apostolici che, grazie sempre al «Dio salesiano», danno senso e gioia alla donazione dei migliori fra di noi. E ogni salesiano ha il diritto di aspettarsi da tutti quelli che con lui condividono il progetto di Dio e la missione apostolica, non semplicemente rispetto e ammirazione, ma appoggio continuo e condivisione.
Attentare ai sogni di un apostolo significa attentare alla vocazione di un fratello ed è perciò un attentato contro Dio, da cui provengono la vocazione e i sogni (cfr. Cost 22). Perché, come fa capire la citazione scelta, che fonda biblicamente il sorgere dell'opera di Don Bosco nel sogno dei nove anni, questo tipo di sogni, in cui si percepisce pronunciato il proprio nome e svelato il compito affidato, realizza una parola profetica, cioè un impegno pubblico di Dio a favore del suo popolo. Peccato che non rimaniamo sorpresi per l'audacia di questa lettura salesiana della promessa di Ezechiele!
Come quello di Don Bosco, i sogni apostolici del salesiano, dato che prolungano quello nel tempo, non sono altro che una verifica della profezia che annunciava l'intervento di Dio Pastore. Se non vogliamo ridurre questa parola di Dio ad un puro ricordo storico, non possiamo vedere detta parola riferita in esclusiva a Don Bosco. Di fatto, ed è ciò che professiamo con gratitudine (cfr. Cost 1), non siamo nati da una sua decisione personale, ma da un progetto divino, intuito in sogno da un bambino. Ebbene, non bisogna trascurare il fatto che l'intervento promesso dal profeta sta per realizzarsi e continua a realizzarsi oggi. Ciò significa che, mentre esiste questo Dio Pastore e questo gregge da pascolare, Dio continuerà a suscitare pastori che lo rappresentino in mezzo al suo gregge. L'elezione personale di Don Bosco non ha eliminato quella di coloro che lo seguono, anzi l'ha preparata e la esige come suo naturale prolungamento (cfr. Cost 1, 2, 6).
Realizzando i suoi sogni apostolici, pertanto, il salesiano continua a ratificare l'impegno di Dio a favore del suo popolo giovane. Non soltanto ci dev'essere lecito continuare a sognare con la gioventù; il fatto è che Dio si gioca la sua credibilità, l'affidabilità della sua profezia, nella capacità nostra di sognare un futuro migliore per la gioventù povera e abbandonata. Di conseguenza, dal fatto di aver creduto che solo l'iniziativa divina spiega bene la sua esistenza (cfr. Cost 1), la Congregazione si è obbligata costituzionalmente a riconoscere la vocazione personale di ogni salesiano e ad aiutarlo nel suo sviluppo (cfr. Cost 22). Seguaci di Don Bosco, noi salesiani riconosciamo che le nostre origini si radicano nella volontà salvifica di Dio, una volontà sempre da realizzare, e ci sottomettiamo ad essa facendola nostra. L'avere una simile origine ci obbliga ad escludere qualsiasi altra meta.
2.Eredi del progetto di Dio
Ez 34,11.23 è la prima citazione biblica delle Costituzioni, apre il testo costituzionale e lo introduce. Questa sua collocazione ha un preciso obiettivo: identifica, anche se in maniera implicita, Don Bosco e la Congregazione come il pastore promesso da Dio (cfr. Cost 10). Si lascia intravedere così che una profezia «costituisce l'identità profonda della Società di San Francesco di Sales».25 La citazione, oltre ad alludere alla coscienza che Don Bosco aveva di essere destinato da Dio ai giovani, esprime anche la comprensione della Congregazione, che vede se stessa come realizzazione di una promessa divina.
Comprendersi come compimento di una profezia comporta chiare conseguenze che vanno riconosciute e accolte, indagando il senso di questa parola che annuncia il piano di Dio e assumendo la responsabilità di metterlo in atto. Dio si è impegnato a salvare il suo popolo trasformando noi allo stesso tempo in compartecipi dei suoi sogni ed eredi del suo progetto.
2.1.La profezia come promessa
In Ez 34 il profeta sogna la salvezza che Dio è disposto a realizzare a favore del suo popolo, esiliato in Babilonia: Dio si è impegnato a fare ritornare Israele, profondamente rinnovato – ‘cambiato il cuore’ – alla sua terra. E lo farà con un intervento tutto personale. Le disgrazie che hanno investito Israele e la solitudine nella quale vive la sua impotenza, sono riuscite a cambiare l'animo di Ezechiele e l'orientamento della sua profezia. Il temuto deserto, previsto come castigo - in quanto lontano dalla terra, garanzia di salvezza, e da Dio, Signore di essa - ha convertito l'annunciatore di disgrazie in veggente di alleanze nuove. Ad Ezechiele dobbiamo le profezie più stupende, di grande espressività simbolica e innegabile carica teologica (cfr. Ez 36,16-38; 37,1-14), tra cui Ez 34.
Il testo, che segue da vicino un breve vaticinio di Ger 23,1-6, «ci presenta una costruzione in progressivo movimento; la denuncia dei cattivi pastori si conclude con la loro destituzione e cede il passo al Signore che pasce di persona: riunito il gregge, egli lo porta nella sua terra, dove opera una separazione, escludendo i turbolenti; poi nomina lui stesso il pastore ideale. Quindi l'immagine si ritira, per dare spazio alla visione meravigliosa della nuova alleanza».26 La profezia, dunque, più che descrivere la salvezza che verrà, annuncia le misure che Dio sta per prendere per farla realtà.
Il capitolo è dominato dall'immagine del pastore, un motivo classico ben radicato nella letteratura biblica.27 Israele è visto come gregge trascurato, saccheggiato, disperso (Ez 34,1-10). Ogni capo del popolo, specialmente il re, ma non solo, era tradizionalmente visto come legittimo pastore del popolo di Dio, sua guida più che padrone (cfr. Ger 2,8; 3,15; 10,21; 23,4); incaricato da Dio e suo rappresentante, restava davanti a Lui responsabile del proprio operato (cfr. Ger 21,12; 22,3; 34,8). In realtà, ‘pastore’ di Israele era primo, e per sé solo, il proprio Dio (Sal 76, 21; 79,2; Gn 49,24; Is 40,11).
Qui è significativo, e assai commovente, che sia Dio stesso a presentarsi come pastore, proprio quando il popolo vive il disincanto di fronte ai propri capi, il cui disastroso operare aveva determinato l'esilio e la dispersione. Si riflette qui l’esperienza plurisecolare del popolo: i re sono stati i responsabili primi dell’annichilamento dello stato (597 a.C.) e della dispersione del popolo (585 a.C.); solo la loro rimozione assicura la salvezza del popolo. Ma Dio non solo rimuoverà loro, li sostituirà personalmente: il popolo salvato sarà un popolo senza capi, sottomesso unicamente a Dio (cfr. Ez 37,24-25). Sulla disgrazia vissuta si fonda nel profeta la speranza in Dio: Lui in persona si occuperà del suo gregge, lo radunerà e lo condurrà alla patria e a nuovi pasti (Ez 34,15). La formula che Dio utilizza, ‘mio gregge’, connota, più che l’appartenenza o la soggezione, il vincolo affettivo. Dio, impegnando la sua parola, si dichiara garante e curatore di quelli che non sono stati abbandonati e derubati.
In un popolo di origini e di tradizioni seminomadi, l'immagine del pastore aveva una grande capacità evocatrice. Chi può contare su un pastore, sa di poter contare quotidianamente su una guida che gli fa compagnia, su un padrone che lo serve, su un guardiano con cui convive. L'essere pastore comporta autorità indiscussa e donazione fino al sacrificio, superiorità riconosciuta e servizio sacrificato. Applicando ciò a se stesso, il Dio previsto da Ezechiele si impegna con un popolo disperato e derelitto ad instaurare il nuovo regime di relazioni, in cui Dio è ad un tempo l'unico capo e Signore e l'unico compagno nel cammino e nelle fatiche.
Un alternarsi di castighi annunciati e di salvezza promessa percorre tutto il capitolo (Ez 34,1-10: giudizio sui cattivi pastori; 1-6: formale accusa; 7-10: manifestazione del giudizio; Ez 34,11-16: autopresentazione di Dio come unico pastore, che difende il gregge da pericoli esterni; Ez 34,17-22: giudizio sulle pecore cattive e liberazione da esse; Ez 34,23-31: presentazione del pastore scelto da Dio, nuovo ed unico intermediario dell’alleanza). Ebbene, risulta significativo che i due versetti scelti dalla profezia citata appartengano alla serie delle promesse salvifiche fatte da Dio; e, per affermarle, il profeta lascia che Dio stesso le proclami, in prima persona: un solenne “ci sono qui” introduce la prima affermazione, presentandola come una autorivelazione divina: cercare, andare dietro, e avere cura sono le attività che distinguono Dio; nessuno farà più da pastore del popolo, gregge esclusivo del Signore (Ez 34,11).
La salvezza promessa, dunque, e il ristabilimento di una relazione immediata e personale che Dio sta per sancire con il suo popolo; questa salvezza è concessa: il pastore nuovo non sarà eletto dal popolo, ma da Dio; di più, l’esclusività della relazione si manifesta nell’invio di un unico pastore che Dio manderà al suo popolo (Ex 34,23), un solo pastore per un popolo riunificato; Dio è così sicuro che il suo nuovo eletto lo rappresenterà bene, che riassicura a Israele che continuerà ad essere “mio popolo, e Lui suo Dio” (Ez 34,31).
In questi due versetti si evidenzia la coscienza della Congregazione di essere, per iniziativa divina, un'opera di salvezza. Di fatto, giustamente, il testo costituzionale si apre con un atto di fede e di riconoscimento: deriviamo la nostra origine da un Dio che desidera la salvezza della gioventù, di una gioventù in situazione quasi disperata. Sentirsi amati da Dio, essere oggetto della sua volontà di salvezza e riconoscersi gratificati dal suo amore, è proprio di chi si sente chiamato a prolungare il sogno personale di Don Bosco, il progetto salvifico di Dio (cfr. Cost 1).
Quel Dio, dalla cui volontà siamo nati, è un Dio che si impegna personalmente nei riguardi di un popolo apparentemente senza futuro e precisamente nel suo stato di smarrimento e nella mancanza di capi degni, dopo il sonoro fallimento dei suoi rappresentanti, che obbliga Dio ad uscire – di nuovo – dall'anonimato (Ez 34,11). Per quanto questo gregge sia disperso, esso continua ad appartenere al pastore: «anche nell'esilio, hanno continuato ad essere le mie pecore. Il Signore viene dunque a riprendere ciò che è suo».28 La situazione del gregge spinge Dio a diventarne l'autentico pastore (cfr. Mi 2,12-15; Lc 15,4; Gv 10,16). Ricuperando personalmente il gregge perduto, Dio ricupera, per così dire, se stesso come Pastore unico. E il popolo ricupera Dio, più che come geloso alleato, come era stato durante l’esodo, come compagno permanente. La nuova relazione non si fonda su un contratto pattuito, risiede piuttosto in una convivenza continua, in un regime di vita che porta a condividere la stanchezza e il riposo, il cibo e il bisogno, il sole e la notte, amici e nemici (cfr. Gv 10,1-18).
L'impegno del Dio Pastore include, inoltre, la promessa di dare al popolo un nuovo luogotenente, un pastore che lo rappresenti in esclusiva (Ez 34,23). L'elezione del suo rappresentante è già una decisione salvifica. Che sia Dio a scegliere un pastore, offre al suo popolo un motivo per poter di nuovo fare assegnamento su Dio e iniziare ad assaporare la sua salvezza. La designazione diventa così una prova solida della fedeltà del Dio Pastore e una garanzia di speranza per il popolo. Uno solo sarà il pastore, perché il gregge è stato ormai, grazie all’intervento di Dio, radunato ed è diventato un solo popolo. Il pastore scelto deve vivere in modo da riprodurre la volontà salvifica di Dio e il suo stesso modo di relazionarsi con il popolo. La sua vita dev'essere segno del coinvolgimento divino. Il pastore eletto non potrà scegliersi il «modo», il «dove» e il «per chi» vivere, perché è stato scelto per rappresentare la preoccupazione pastorale del suo Dio. Nel suo modo di comportarsi nei riguardi del popolo, si deve vedere il suo desiderio di essere un pastore, sostenuto da Dio.
La salvezza promessa da Dio non contempla il restauro della monarchia, anche se rinnovata, ma l’instaurazione di una teocrazia assoluta: Dio sarà Dio per loro (Ez 34,24).
Poiché tale è il progetto di Dio, questo è il tipo di pastori di cui ha bisogno oggi la gioventù: credenti che si sentano chiamati a rendere concreta e viva la promessa che Dio ha fatto al suo popolo di essere Lui l'unico pastore. Perché Dio sia credibile ed il suo programma sia attuale ed appetibile, c'è bisogno di persone talmente identificate con il suo progetto e le sue strategie da dedicarsi interamente a diffonderli, non ripetendoli solo meccanicamente, ma assumendoli vitalmente. Se non sorgono persone che si impegnano, come Don Bosco, a essere per i giovani i pastori che Dio ha pensato per loro, Dio non riuscirà a portare a compimento la sua parola, né i giovani potranno sentirsi al riparo, vicini a Dio.29
Il salesiano crede nel Dio Pastore, per il fatto stesso di essere nato nella storia grazie all'iniziativa divina che lo ha collocato «nel cuore della Chiesa» (Cost 6). Questa fede deve trasformarlo in pastore dei giovani, per il semplice fatto di credere che la sua ragion d'essere si radica nel progetto di un Dio che è Padre e Pastore. Il salesiano non può rendere culto a Dio, né celebrare il suo nome, né testimoniarlo efficacemente, se non accetta il suo compito di guida e di compagno, di capo e di servo, di maestro e di amico della gioventù, «questa porzione la più delicata e la più preziosa dell'umana società».30
L'essere rappresentanti del Dio Pastore comporta il fare propria la sua promessa e la sua tattica. Il salesiano s'impegna solo perché si è sentito chiamato a rappresentare il suo Dio, a dare vita nel presente alla meta – la salvezza – e ai metodi - l’accompagnamento di pastore - del suo Dio. Essere nato dal cuore di un Dio Pastore impone una precisa metodologia (cf Ez 34,11-16), come dovette imparare assai presto Don Bosco: «non colle percosse, ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici».31 Avere un Dio Pastore come origine obbliga ad accettare la sua carità di pastore come motivo della propria vita.
E questa carità pastorale, che non è altro che l'amore teologale «divenuto pastorale educativa»,32 è la forma salesiana di rendere presente Dio tra i giovani, il modo concreto di essere salesiano. «La carità evangelica non è soltanto il motore e la sorgente dell'apostolato, essa ne è anche il mezzo, il metodo specifico e fondamentale. Dal Vangelo Don Bosco ha appreso ad educare per mezzo dell'amore e per l'amore, ma ancora a educare con l'amore, attraverso l'amore».33 Se però i salesiani non si sforzano di realizzare una convivenza pastorale con i giovani, è molto difficile che riescano a portare a termine la missione provvidenziale a cui sono destinati, e i giovani non riusciranno a vedere in essi «i liberatori nei quali possono riconoscere il Salvatore».34
2.2. La profezia come avvertimento
Non è indifferente il fatto che la promessa di un pastore futuro, quale suo rappresentante, Dio la fa ad un popolo stanco di capi che lo avevano condotto al disastro, defraudato da guide che si erano arricchite alle sue spalle, che avevano disprezzato i deboli e saccheggiato i forti. Il profeta non annunzia la redenzione dal nemico oppressore, Babilonia, ma sconfessa i suoi luogotenenti; quello che gli interessa è una liberazione interna al proprio popolo. Infatti, prima di impegnarsi a pascolare personalmente il suo popolo, Dio ripudia i suoi inviati: «Dice il Signore Dio: Eccomi contro i pastori; chiederò loro conto del mio gregge..., strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto» (Ez 34,10). Per poter diventare pastore del suo gregge, Dio deve eliminare i suoi rappresentanti, perché non è disposto a tollerare più che suo popolo sia di nuovo sopraffatto e fuorviato, precisamente da quanti Lui aveva inviato per custodirlo e nutrirlo.
Non è sufficiente sentirsi chiamare per nome, se non si vive per chiamare per nome le pecore del Dio Pastore (cfr. Gv 10,3; Cost 22). Egli potrà sempre esautorare i suoi rappresentanti legittimi e affidare il gregge a un nuovo pastore, che lo pascoli secondo il suo cuore e con la sua autorità (cfr. Ez 34,23). Se la profezia è parola di Dio che continua a risuonare nel tempo, essa deve mettere in crisi la sicurezza di essere automaticamente «segni e portatori dell'amore di Dio ai giovani» (Cost 2) e deve ravvivare la responsabilità davanti a Dio, che parla di salvezza futura, e di fronte al gregge, nel quale si è chiamati a far le veci di Dio.
L'aver introdotto il primo capitolo delle Costituzioni con la promessa del Dio Pastore mette la Congregazione, comunità di pastori, nella scomoda situazione di dover considerare quello che già si è fatto come non del tutto soddisfacente: l'iniziativa di Dio che sta per compiersi «non autorizza evidentemente nessuna beata passività: anzi, la nostra responsabilità si accresce gravemente, e la nostra collaborazione con lo Spirito diventa una necessità quotidiana».35
La nostra esistenza nella Chiesa come comunità apostolica non è solo dono che suscita il ringraziamento, ma è soprattutto compito da realizzare con il nostro sforzo per mantenere la fedeltà alle nostre origini, un progetto di Dio intravisto in sogno da Don Bosco. Stiamo realizzando la profezia e vivendo il sogno. La fedeltà alla nostra origine facilita a Dio la fedeltà alle sue promesse. Da figli ed eredi di un santo sognatore ci convertiamo così in esecutori di profezie divine. Interprete della Parola non è chi la sa dire, la sa spiegare agli altri, ma chi, vivendo il suo progetto e per il suo progetto, sa realizzare i sogni di Dio. Quando la nostra missione apostolica sia realizzazione della parola di Dio, la nostra presenza tra i giovani rappresenta Dio e la sua cura per loro, sapremo di essere il pastore sognato e promesso da Dio e i nostri giovani si sentiranno accompagnati da Lui.
Chi sa di essere nato da Dio, è sicuro del suo presente e saprà affrontare qualunque futuro. Se Dio è stato con noi, non ci lascerà, nella misura in cui noi non tralasciamo di dare compimento alla sua promessa. La volontà divina di «dotare la Chiesa di un corpo specializzato per il servizio dei giovani poveri»,36 suppone perciò una sfida permanente alla nostra fedeltà e una scommessa alla nostra sopravvivenza, dal momento che «si può benissimo "resistere allo Spirito" (At 7,51), "spegnere lo Spirito" (1 Ts 5,19), che allora potrebbe affidare ad altri la missione salesiana».37 Questo è l'avvertimento da tenere in conto, di cui parla la profezia di Ez 34.
Non prenderemo Dio sul serio, se non ci dedichiamo a realizzare la sua promessa. Essa è la nostra culla, ma può essere anche la nostra tomba. Non saremmo mai i primi pastori, lungo la storia della salvezza, ad essere espropriati del gregge…, e della propria vocazione. La stessa profezia, da cui riteniamo essere sorti, obbligherebbe Dio a ripudiarci, nel caso che fossimo infedeli al suo gregge. La nostra fedeltà al Dio che ci ha ideato passa inesorabilmente attraverso la fedeltà ai giovani, a cui il Dio Pastore ha consegnato le nostre vite.
Affermare la fedeltà di Dio alla sua Parola, che vediamo realizzata nella nostra esistenza dentro la Chiesa, è un audace, quanto entusiastico, atto di fede. Allo stesso tempo costituisce un grave impegno di fedeltà. Noi salesiani – non si deve dimenticare – apriamo il testo costituzionale credendo di essere debitori della nostra esistenza alla preoccupazione pastorale che Dio nutre per la gioventù. Con questo atto di fede non ci introduciamo tanto in un libro di norme che accettiamo liberamente; ci dichiariamo piuttosto disposti ad assumere come espressione della volontà salvifica di Dio quanto liberamente abbiamo professato. Con questo atto di fede impegniamo pubblicamente la nostra parola, facendo proprio l'eterno progetto di Dio, il sogno che fece santo Don Bosco ormai quasi duecento anni fa.
A modo di conclusione, vorrei riassumere brevemente quanto detto in alcune tesi:
1.Se la citazione profetica di Ez 34,11.23 “si applica meravigliosamente a Don Bosco” e “sottolinea l'iniziativa divina della sua vocazione” oltre a esprimere “molto bene la missione salesiana: guidare e nutrire i giovani”, noi, famiglia salesiana possiamo sentirci fieri di essere eredi di un santo sognatore; ma proprio perciò dovremmo saperci responsabili e amministratori di una salvezza promessa da Dio stesso. La missione salesiana è parte del progetto di salvezza che Dio ha pensato ed attua in favore della gioventù; non è un incarico da noi liberamente scelto e autonomamente realizzato da noi, ma la carica per cui siamo stati eletti personalmente. Dal nostro operare dipende la realizzazione della promessa di Dio: a noi sta, dunque, che Dio compia la sua parola. Abbiamo assunto una grave responsabilità quanti di noi ci sentiamo eredi del sogno di don Bosco.
2.Nell’immagine del buon pastore, presente nella profezia di Ezechiele e nel sogno di Giovannino, non resta assicurata la buona riuscita del progetto divino di salvezza; viene identificato però il metodo della sua realizzazione: la carità pastorale, il modo di amare fino alla fine (Gv 13,1). “La carità pastorale caratterizza tutta la storia di Don Bosco ed è l’anima delle sue molteplici opere. […] Questo è il nostro marchio e la credibilità presso i giovani. […]Attraverso i bisogni e le richieste dei giovani, Dio sta chiedendo a ogni membro della Famiglia salesiana di sacrificare se stesso per loro. Vivere la missione non è dunque un attivismo vano, ma piuttosto un conformare il nostro cuore al cuore del Buon Pastore, che non vuole che alcuna delle sue pecore vada perduta”38.
3.Il Dio Pastore sceglie un suo rappresentante, “un pastore che li pascerà” (Ez 34,11). La cura che personalmente il Dio pastore promette al suo gregge si fa palese nella scelta di un suo delegato. Non è pastore del gregge di Dio chi vuole, ma chi è stato voluto, non chi va e lavora, ma chi, mandato, non può non andare. Ma per rappresentare Dio il suo pastore deve vivere in modo da riprodurre la volontà salvifica di Dio e il suo stesso modo di relazionarsi, da buon pastore, con il popolo. La sua vita dev'essere segno del coinvolgimento divino. Il pastore eletto non potrà scegliersi, dunque, il «modo», il «dove» e il «per chi» vivere, perché è stato scelto per personificare la preoccupazione pastorale del suo Dio. Nel suo modo di comportarsi nei riguardi del popolo, deve risplendere il suo impegno di diventare pastore come Dio. Se il gregge è la sua missione, Dio resta il suo modello e l’unico movente.
4.Concludo con una avvertenza, che non appare nel sogno di don Bosco, ma che è parte importante della profezia. Prima di impegnarsi a pascolare personalmente il suo popolo, Dio ha cacciato via i suoi inviati: «Eccomi contro i pastori; chiederò loro conto del mio gregge» (Ez 34,10). Per poter diventare lui stesso pastore, Dio dovette eliminare i suoi rappresentanti, perché non era disposto a tollerare più che il suo popolo fosse di nuovo sopraffatto e fuorviato da quanti Lui aveva inviato per custodirlo e nutrirlo. Non basta essere legittimo pastore, da Dio inviato, se non si è buono, cioè “se non si offre la vita per le pecore… perché abbiano la vita e l’abbiamo in abbondanza” (Gv 10,11). Chi non è buon pastore, o perché non conosce le pecore o perché non offre la vita per loro (cfr. Gv 10,114-15), non può rappresentare Gesù, buon pastore. Diventare il pastore che Dio ha pensato è esercitare quell’amore che “consiste nel ‘dare tutto’; […] è cammino di ascesi; non c’è presenza animatrice tra i giovani senza ascesi e sacrificio. Perdere qualcosa, o meglio, perdere tutto per arricchire la vita dei giovani è il sostegno della nostra dedizione e del nostro impegno”39. Senza pagare di persona, senza sacrificio di sé, non si rappresenta il Dio Pastore, anzi si corre il rischio di diventare da lui ripudiati. Solo chi consegna la vita per il suo gregge, sarà riconosciuto da Dio come buon pastore.
Juan J. Bartolomé
19 gennaio 2012
1 Chávez P. , Conoscendo e imitando Don Bosco facciamo dei giovani la missione della nostra vita. Strenna 2012, Roma: Tipografia Vaticana, 2011, 3.
2 Chávez P. , ‘Buonanotte’, in La comunità salesiana oggi. Documenti del Capitolo Generale 25, ACG 378 (2002) 179.
3 AA.VV., Il Progetto di Vita dei Salesiani di Don Bosco. Guida alla lettura delle Costituzioni salesiane, Editrice SDB, Roma 1986, 74.
4 “Possiamo dire che nelle Costituzioni abbiamo tutto Don Bosco; in esse il suo unico ideale di salvezza delle anime; in esse la sua perfezione con i santi voti; in esse il suo spirito di soavità, di amabilità, di tolleranza, di pietà, di carità e di sacrificio” (Rinaldi F., “Il Giubileo d’oro delle nostre Costituzioni”, ACS 23 [1924] 177)
5 “Fate che ogni punto della Santa Regola sia un mio ricordo” (MB X, 647. Cf. MB XVII, 296)
6 Bosco G., Memorie dal 1841 al 1884-5-6 pel sac. Gio. Bosco a’ suoi figliuoli salesiani [Testamento spirituale]. Edizione critica curata da Francesco Motto, in Braido P., (a cura di), Don Bosco Educatore, scritti e testimonianze, LAS, Roma 31997, 410.
7 Fu Don Bosco stesso che volle immortalare l’evento e renderlo pubblico con una storica fotografia. “Possiamo ritenere quindi questa immagine come emblematica di Lui, la sua ‘fotografia ufficiale’ (Soldà G., Don Bosco nella fotografia dell’800 (1861-1888), SEI, Torino 1987, 124).
8 Don Michele Rua, Lettere circolari ai salesiani, Direzione Generale Opere Don Bosco, Torino 1965, 498.
9 Progetto, 80.
10 Aubry J., Una via che conduce all'amore. Commento alle Costituzioni Salesiane Rinnovate, Torino: LDC, 1974, 32.
11 Bosco G., Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855. Saggio introduttivo e note storiche a cura di Aldo Giraudo, Roma: LAS, 2011, 62.63.
12 Stella P., Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. Vol. I: Vita e opere, Zürich: PAS-Verlag, 1968, 30.
13 Bosco G., Memorie 135.
14 Cf. MB XVIII, 340-341. Vedi un commentario sull’importanza del sogno per don Bosco, in Lenti A. J., Don Bosco. Historia y Carisma. I: Origen. De I Becchi a Valdocco (1815-1849), Madrid: CCS, 2010, 162.
15 “Le souvenir qu’il [le songe] a laissé, bientôt formalisé dans un récit oral, puis écrit, a subsisté et tenu un place privilégiée dans l’histoire de son âme” (Desramaut F., Don Bosco en son temps (1815-1888), Torino: SEI, 1996, 21).
16 L’intreccio istituito tra storia personale e storia dell’Oratorio è chiaro già dalle prime pagine delle Memorie dell’Oratorio. Aggiunge don Bosco dopo aver narrato il sogno fatto “al nono anno di età”: “Le cose che esporrò io appresso daranno a ciò qualche significato. Io ho sempre taciuto ogni cosa… Ma quando, nel 1858, andai a Roma per trattar col Papa della congregazione salesiana, egli si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali. Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto in età di nove in dieci anni” (Bosco G., Memorie 63; cfr. MB V, 882).
17 Viganò E., Un progetto evangelico di vita attiva, Torino: LDC, 1982, 32.
18 MB I, 254-255.
19 Stella P., Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. Vol. Il: Mentalità religiosa e spiritualità, Zürich, PAS-Verlag, 1968, 507.
20 Stella, Don Bosco I, 161.
21 Stella, Don Bosco I, 41.
22 Viganò E., Un progetto evangelico 33.
23 Nigg W., Don Bosco. Un santo per il nostro tempo, Torino: LDC, 1980, 75-76.
24 Bosco G., Memorie 135. Cfr. Stella, Don Bosco I, 161. Nel 1876, durante una conferenza ai direttori, Don Bosco giunse ad affermare che «le altre Congregazioni ed Ordini religiosi ebbero nei loro inizi qualche ispirazione, qualche visione, qualche fatto soprannaturale, che diede la spinta alla fondazione e ne assicurò lo stabilimento; ma per lo più la cosa si fermò ad uno o a pochi di questi fatti. Invece qui tra noi la cosa procede ben diversamente. Si può dire che non vi sia cosa che non sia stata conosciuta prima» (MB XII, 69).
25 Progetto, 80.
26 Alonso Schökel L. – Sicre J. L., I Profeti, Roma: Borla, 914.
27 Vedi, p. es., Nm 27,17; 1 Re 22,17; Ger 23,1-6; Sal 23; 80; Zc 11,4-17; Lc 15,3-7; 19,10; Mt 18,12-14; 25,32-46; Gv 10,1-18.26-29; 21,15-17; At 20,28; 1 Pt 5,1-4; Ap 7,17.
28 Alonso Schökel L. – Sicre J. L,, Profeti 917.
29 Il pastore descritto in Ez 34,11-16 è «un pastore che cerca le pecore che sono in situazione di grave crisi, disperse nei giorni nuvolosi e di caligine, pecore smarrite... Un pastore che cerca le pecore in situazione di dispersione» (Martini C. M., Preghiera e Conversione intellettuale, Casale Monferrato: Centro Ambrosiano - Piemme, 1992, 49-50).
30 MB II, 45.
31 MO 34.
32 CG20, 45.
33 Aubry J., Lo Spirito Salesiano. Lineamenti (Roma 1974) 63. 23. CG XX, 36.
34 CG20, 36.
35 Aubry J., Una via, 34.
36 CG20, 14.
37 CG20, 15.
38 Chávez P. , Conoscendo e imitando Don Bosco, 31.
39 Chávez P. , Conoscendo e imitando Don Bosco, 31.
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[Strenna 2011. Riflessione biblica] |
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