IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE
DON ANGEL FERNANDEZ ARTIME
GESÙ SI È FERMATO
A KAKUMA
Ho visto, in mezzo ad una sofferenza immane, i Salesiani che tengono aperta una casa di speranza, consolazione, convivenza ed educazione
Amiche e amici lettori, desidero condividere con voi l’impressione che ho provato vivendo una profonda esperienza umana. Si tratta della visita che ho potuto fare, con altri salesiani, al campo dei rifugiati delle Nazioni Unite a Kakuma (Kenia), qualche settimana fa. Potete facilmente immaginare quanto forte sia l’impatto con un campo di rifugiati. A questo si aggiunge una motivazione particolare e importante. Non sono andato là per incontrare i rifugiati del Sud Sudan, Ruanda, Burundi e Congo, tra gli altri, ma per salutare e abbracciare i miei fratelli salesiani di questa magnifica comunità in cui cinque salesiani provenienti da Tanzania e Kenia vivono con queste 150mila persone. Molti sono i bambini, i ragazzi e i giovani.
La comunità vive in mezzo al campo dei rifugiati già da molti anni. È qualcosa di inusuale però è proprio così. E non è solo permesso, ma auspicato dal comitato responsabile delle Nazioni Unite, perché l’opera salesiana è un importante elemento generatore di convivenza, socialità, educazione e formazione.
Ho incontrato una Valdocco del secolo XXI
Ecco il perché.
Arrivando nella città di Kakuma, alla frontiera del sofferente Sud Sudan, oggi insanguinato da terribili conflitti tribali interni, ci si trova in mezzo alla popolazione Turkana. Sono 340mila persone che vivono in questa zona nord est del Kenia, arida e arroventata. Attraversato il letto di un fiume totalmente inaridito, si arriva al campo dei rifugiati delle Nazioni Unite. In questo campo si incontrano le più svariate razze e tribù, le più diverse abitudini e confessioni religiose. In mezzo a questa “Babele” umana, i nostri fratelli salesiani continuano ad essere per molti di essi, ciò che fu don Bosco per i giovani di Valdocco. Qui ho incontrato un’altra Valdocco del secolo XXI e con lineamenti totalmente africani.
Più di 250 giovani frequentano ogni giorno la scuola di formazione professionale, dove operano alcuni istruttori e gli stessi salesiani, per imparare un mestiere: falegnameria, impianti elettrici, elettronica, ebanisteria, amministrazione, segreteria, ecc. Professioni semplici che possono permettere a questi giovani di vivere dignitosamente quando lasceranno il campo, una volta ristabilite condizioni di pace e di sopravvivenza nei luoghi dove vogliono stabilirsi.
Ogni giorno, viene anche provvisto il cibo per questo giovani e per molti altri. Gli alimenti sono forniti in gran parte dalle Nazioni Unite che garantisce tutti questi servizi. Abbiamo mangiato con loro: enormi piatti di riso conditi da tanta gioia e da grandi sorrisi.
Mi mostravano i loro laboratori e quello che stavano imparando. La stragrande maggioranza di loro erano per lo più giovani adulti.
Sentii che quella casa era una vera e propria scuola di vita. Imparare un mestiere è importante, ma molto di più vale ciò che imparano ogni giorno: vivere insieme nella diversità, in pace e concordia, unire gli sforzi per un medesimo fine, rispettare le opinioni, le espressioni culturali e religiose.
Ho avuto l'opportunità di salutare la responsabile delle Nazioni Unite per quanto riguarda l’opera salesiana. Era venuta a unirsi a noi e condividere il piatto di riso. Sono stato molto felice di sentire dalle sue labbra che valuta e stima tantissimo la presenza dei nostri fratelli e questa collaborazione tra Nazioni Unite e Congregazione Salesiana in questo angolo di mondo.
Andare al di là del fiume in secca
L’ho ringraziata per averci permesso di lavorare in mezzo a quei giovani, non con una funzione semplicemente assistenziale o per la sopravvivenza, come poteva essere all’inizio, ma in preparazione per la vita e la costruzioni di una speranza concreta per un futuro più o meno prossimo.
E mi è piaciuta molto l’atmosfera gioiosa della casa e dell'ambiente. I giovani si sentono davvero a casa nelle molte ore che la frequentano. E non siamo soli, anche se i salesiani sono gli unici non rifugiati a poter risiedere nel campo. È stato bello sentire la vicinanza del giovane vescovo, che ci ha assicurato completa sintonia e collaborazione, con noi e con una comunità di religiose con le quali condividiamo da anni la missione in mezzo ai Turkana.
Il sogno è fondare una seconda comunità salesiana, non più nel campo profughi ma nel territorio Turkana, al di là del letto in secca del fiume e poter così sviluppare meglio la scuola professionale in estensione e livello, per servire anche i giovani della regione Turkana.
La comunità gestisce anche una parrocchia per i cattolici nel campo profughi e altri nove centri religiosi in questo vasto territorio. E in questa cura della fede per le persone che la chiedono e si preoccupano della loro fede nel Signore Gesù. Si sente davvero che la Pasqua si è realizzata anche nel campo profughi, perché Gesù è risorto per tutti e specialmente per gli ultimi, i più poveri, gli sfollati, i respinti e gli ignorati di questo mondo.
Sono tornato con il cuore pieno di gioia per aver toccato con le mie mani, in mezzo a tanta povertà, una commovente umanità e la presenza reale del Dio Amore.
Vi auguro tutto il bene possibile, ma soprattutto che non perdiate mai la sensibilità per i giovani, le donne e gli uomini come questi, che ci hanno accolto come amici e fratelli.