STRENNA 2010
di Pascual Chávez Villanueva
I L VANGELO AI GIOVANI
L’APPARENTE SCONFITTA
La morte è la compagna dell’amore, quella che apre la porta e permette di arrivare a Colui che si ama (sant’Agostino).
Passione e morte di Gesù - unitamente alla sua risurrezione - costituiscono il centro della fede cristiana, il mistero pasquale. Storicamente certo perché appare in tutti i vangeli e negli altri libri del Nuovo Testamento. Afferma il filosofo non credente, Ernst Bloch, “la nascita in una grotta e la morte su una croce non sono cose che si inventano”: a nessuno piacerebbe attribuire qualcosa del genere al Fondatore della propria religione, se non si trattasse di una realtà autentica. Ma la domanda che noi cristiani ci poniamo da venti secoli è sempre la stessa: “Perché il Figlio di Dio, è morto in Croce?”. La Rivelazione biblica offre una risposta che, a prima vista, può sembrare scomoda e persino sconcertante. Anzitutto viene sottolineata la sua necessità: “Era necessario (ἔδει) che il Cristo patisse. La forma verbale greca appare in moltissimi testi del NT che parlano della morte di Gesù (Mc 8,31; Mt 16,21; Lc 9,22). Tale necessità, che riflette una convinzione della Chiesa primitiva, appare tanto nei racconti evangelici (Lc 17,25; Lc22,37; Gv 3,14), quanto nella ‘rilettura pasquale’ della morte del Signore, la cui espressione più breve compare nelle parole del Compagno sconosciuto dei discepoli di Emmaus: “Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26). A prima vista questo tema sembra contrastare con l’immagine che abbiamo di un Dio onnipotente; ma più ancora se lo consideriamo come il Dio /Amore: non poteva “risparmiare” a suo Figlio questa umiliazione, questa sofferenza?
Possiamo parlare di tre livelli. Un livello, per così dire, universale: era necessario che Gesù morisse, per assumere in pieno la condizione umana; se no, sarebbe apparsa non autentica la sua incarnazione: “Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe” (Eb 2,14).
Però non tutti gli esseri umani muoiono assassinati su una croce; per questo, tale “necessità universale” non esaurisce tutta la profondità della prospettiva biblica. Occorre parlare di un secondo “livello”, che potremmo chiamare particolare: Gesù è attorniato solo da un piccolo gruppo di uomini e donne che hanno dato la vita per una causa, rimanendo coerenti fino alla morte, che secondo i criteri dell’egoismo umano è diventata necessaria nei loro confronti. Si tratta di persone di provenienza e mentalità molto diverse, ma accomunati da questa coerenza radicale. Un testo biblico riflette questo livello: “È conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!” (Gv 11,49b-50).
Ma se vogliamo essere fedeli alla Rivelazione, c’è indiscutibilmente un terzo livello in cui Gesù non è accompagnato da tutta l’umanità e nemmeno da una élite di eroi; un livello che possiamo chiamare unico, dove ritroviamo solo Gesù che fa la volontà del Padre. Il testo evangelico più impressionante al riguardo è quello dell’orto del Getzemani: “Abbà/Padre! Tutto è possibile a te; allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36; cfr. Mt 26, 39.42.44; Lc 22,41-44).
Torniamo a porci la domanda iniziale: Perché è stato necessario che Gesù morisse? I testi del NT rispondono: perché è l’espressione, oltre ogni comprensione umana, dell’amore del Padre. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16). “Se Dio… non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?” (Rm 8, 31b-32). Nell’Annunzio Pasquale, troviamo una bellissima sintesi, in una frase diretta al Padre: “Per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo Figlio!”. E questo ci porta al nucleo stesso del Mistero Pasquale: nella morte di Gesù troviamo la rivelazione definitiva di un Dio che è Amore (1Gv 4,8.16), e riscopriamo che l’autentico significato della passione di Gesù non è sofferenza e morte, ma la passione dell’amore. La ‘passione’ di Gesù non comincia alla vigilia della sua morte, ma abbraccia tutta la sua vita; anzi, è il motivo della sua Incarnazione e allo stesso tempo è la ragione ultima della sua obbedienza filiale: quel che Gesù vuole maggiormente, come Figlio, è fare la volontà del Padre. Nella morte di Gesù troviamo la passione di un Dio appassionato. Don Bosco comprese perfettamente il senso autentico della passione di Gesù: fu un appassionato di Dio e dei giovani. Non troviamo mai in lui tracce di un possibile ascetismo “masochista” che valorizza la sofferenza per se stessa. Egli ha invece vissuto in pienezza la passione dell’amore di Dio per i suoi ragazzi, soprattutto i più poveri, cercando di realizzare la volontà di Dio in tutta la sua radicalità e accogliendo tutti i dolori e le sofferenze (non solo fisiche), conseguenza di questa missione: fino a diventare un “abito logoro” (come lo descrisse uno dei medici, alla fine della vita). Don Bosco fece diventare realtà, nel suo senso più autentico, quel che afferma san Paolo: “Do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24) e in essa “questa porzione la più delicata e la più preziosa” che è la gioventù (cfr. Costituzioni sdb 1); e invita pure noi a condividere questa Passione di Gesù, nella realizzazione della Missione Salesiana.
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Passione, morte e risurrezione di Gesù costituiscono il centro della fede cristiana, il mistero pasquale.
Gesù al Getzemani (El Greco, 1541-1614)