LA SPIRITUALITÀ SALESIANA
PASCUAL CHÁVEZ VILLANUEVA
PER ME DIO È SEMPRE STATO UN BUON PAPÁ
Una premessa necessaria
Tra le molte cose che ho scritto, invano troverai un mio diario spirituale, una descrizione del mio itinerario intimo, un’autobiografia come specchio della mia spiritualità. Non era il mio stile.
Forse per quel naturale riserbo che è proprio dei contadini, probabilmente per la formazione che avevo ricevuta non mi sentivo portato ad aprirmi, certamente perché preferivo conservare nel mio cuore il ricordo di tante esperienze, di lotte e di conquiste apostoliche, anziché manifestarle in pubblico.
Per questo non troverai nei miei libri e nelle mie conversazioni né confidenze né testimonianze del mio personale rapporto con Dio e con il suo mistero.
Eppure, ti posso assicurare che tutta la mia esistenza è nata, cresciuta e si è sviluppata in un intimo contatto con il soprannaturale. Se il mondo è stato il mio banco di prova, la fede è stata la mia risposta di credente. Ero solito affermare: «In mezzo alle prove più dure ci vuole gran fede in Dio».
Questo lo dicevo agli altri. Per primo, a me stesso.
Le certezze che mi hanno sorretto
Mi ha sempre guidato una certezza: in ogni cosa ho sempre sentito una garanzia dall’alto. Pur nella consapevolezza dei miei limiti, sentivo bruciare nel mio cuore l’ardore del servo biblico, la vocazione del profeta che sa di non potersi sottrarre ai voleri divini. Anche se, quando parlavo dei miei “sogni” non ho mai usato il termine biblico di “annunciazione”, pure ho sempre ritenuto che fossero autentici avvertimenti dell’alto da valutare con prudente umiltà e fiducioso ascolto. Quando, negli anni della mia piena maturità rileggevo la mia esperienza apostolica, provavo in me una specie di vertigine, di stupore evangelico che mi faceva esclamare: «Ero un povero prete, solo, abbandonato da tutti, assai peggio che solo, perché dispregiato e perseguitato; avevo un vago pensiero di fare del bene… Sembrava allora un sogno il pensiero del povero prete, eppure Iddio realizzò, compì i desideri di quel poveretto. Come si siano fatte le cose, io appena saprei dirvelo. Non me ne so dare ragione io stesso. Questo io so, che Dio lo voleva».
E incoraggiavo i miei primi Salesiani, che avevo tirato su da ragazzi: «Il Signore aspetta da voi cose grandi: io le vedo chiaramente… Dio ha incominciato e continuerà le sue opere, alle quali tutti voi avrete parte… Il Signore fu Colui che incominciò le cose. Egli stesso diede loro l’avviamento e l’incremento che hanno. Egli col volgere degli anni le sosterrà. Egli le condurrà a compimento. Iddio è pronto a fare queste grandi cose… Una sola cosa Egli richiede da noi: che noi non ci rendiamo indegni di tanta sua bontà e misericordia».
Mi lasciavo guidare da una frase raccolta tante volte dalle labbra di mia madre: «Siamo nelle mani del Signore, il quale è il più buono dei padri che veglia di continuo al nostro bene, e sa ciò che è meglio per noi e quello che non è».
Occorreva una buona dose di fede, di coraggio e di abbandono alla Provvidenza del Signore; questa non mi mancava, anche se verso la fine della vita confesserò: «Se io avessi avuto cento volte più fede, avrei fatto cento volte più di quello che ho fatto».
Affrontavo la vita con tutte le sfide che essa mi presentava con serena e filiale fiducia nel Signore. Ai miei ragazzi scrivevo già nel 1847 in quel libro di preghiere e di formazione cristiana che avevo intitolato Il Giovane Provveduto e che si stava rivelando un autentico bestseller indovinato nello stile e nel contenuto: «Non sei al mondo solamente per godere, per farti ricco, per mangiare, bere e dormire, come fanno le bestie, ma il tuo fine si è di amare il tuo Dio». Descrivevo il cristiano come «un viaggiatore in cammino verso il Cielo». Per me, il Signore e il Cielo sostanzialmente si equivalevano. Infatti volevo i miei giovani «felici nel tempo e nell’eternità». Quando parlavo di Dio come «Padre misericordioso e provvidente» la mia preghiera cambiava di tono: in genere, era una preghiera semplice e cordiale la mia, senza eccessive inflessioni di voce. Ma quando pronunciavo le parole Padre nostro le dicevo con un accento che – e me lo riferivano con molta semplicità i presenti – tradiva un insolito trasporto del cuore. Avevo pianto la morte di mio papà Francesco con quell’innocente e straziante dolore che è capace di manifestare solo un bambino che non ha ancora compiuto due anni d’età. Quella morte mi aveva introdotto nel mistero di un Dio che non abbandona mai i suoi figli. E sin dai primi anni di vita mi rapportai con Lui come un padre buono e misericordioso. Suggerivo sempre: «Mettiamo la nostra confidenza in Dio e andiamo avanti». La mia fiducia mi faceva dire: «Per ottenere un buon risultato quando si è senza mezzi, bisogna mettersi all’opera con la più intera fiducia nel Signore».
Un impegno per sempre
Ti voglio svelare qualcosa del mio mondo intimo. Forse è uno dei rarissimi sprazzi di luce in cui ho rivelato me stesso. Lo faccio con le mie stesse parole scritte nel 1854. «Quando mi sono dato a questa parte di sacro ministero intesi consacrare ogni mia fatica alla maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime, intesi adoperarmi per fare buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del Cielo. Dio mi aiuti di poter continuare fino all’ultimo respiro di mia vita. Così sia».
Sono parole impegnative che sono diventate il programma definitivo della mia intera esistenza, cui non sono mai venuto meno. Tanto è vero che, nella presentazione del libro Il Giovane Provveduto, potevo fare un’affermazione molto coraggiosa, ma soprattutto vera: «Miei cari, io vi amo tutti di cuore, e basta che siate giovani, perché io vi ami assai, e vi posso accertare che troverete libri propostivi da persone di gran lunga più virtuose e più dotte di me, ma difficilmente potrete trovare chi più di me vi ami in Gesù Cristo, e che desideri la vostra vera felicità».
Mi stavo impegnando per sempre alla causa dei giovani, anche se storicamente vivevo un momento di grande incertezza. Poco prima (siamo a luglio 1846) avevo sofferto un collasso fisico che mi aveva portato alle soglie della morte; poi, dopo un breve periodo di convalescenza trascorso ai Becchi, ero tornato a Torino. Là c’era stato un dialogo teso e difficile con la buona Marchesa Barolo. Ebbene, son contento di poter ripetere oggi la mia netta presa di posizione di allora fatta alla generosa benefattrice (che mi amava come il figlio che non aveva mai avuto), il mio “sì” ufficiale e definitivo, il mio “credo” a favore dei giovani. Proprio oggi, quando vedo la Congregazione dilatata e presente in oltre 130 nazioni: «La mia vita è consacrata al bene della gioventù. La ringrazio delle profferte che mi fa, ma non posso allontanarmi dalla via che la divina Provvidenza mi ha tracciato». E senza nessun appoggio umano mi ero abbandonato «a quello che Dio avrebbe disposto di me».
Mi fidavo di Dio, Colui che era sempre stato il mio buon “papà”.