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DON BOSCO EDUCATORE
PASCUAL CHÁVEZ VILLANUEVA
DON BOSCO RACCONTA
I RAGAZZI MANCANO PIÙ PER VIVACITÀ CHE PER CATTIVERIA
Grazie anche alla presenza materna di mia madre nella antica casa Pinardi (dove ebbe inizio l’opera salesiana) c’era questo schietto stile di rapporti umani, fatto di calore paziente, di comprensione e correzione, in perfetto stile di famiglia. Con tanti in casa, la disciplina era necessaria perché il tutto non sfociasse in una baraonda incontrollata. Disciplina ridotta al minimo, ma “patti chiari e amicizia lunga” come lei, nella sua innata saggezza popolana, condensava le sue conclusioni.
Passati molti anni e con alle spalle un’esperienza ricca di buoni risultati, potevo affermare che “presso i ragazzi è castigo quello che si fa servire per tale”. Volevo far capire che un castigo deve servire per migliorare le cose e non peggiorarle. Una breve sottrazione di affetto, un’occhiata triste, un atteggiamento più riservato e serio, una parolina all’orecchio detta con dolcezza e pazienza, erano mezzi di cui mi servivo per correggere e arginare possibili comportamenti sbagliati.
Tra i ragazzi accettati non tutti erano come Domenico Savio. Capitò un giorno che un povero assistente, forse non era molto accetto dai grandi, perse la pazienza e finì per distribuire alcuni sonori ceffoni nel tentativo di imporsi. Si era creato un clima di sorda resistenza che poteva sfociare da un momento all’altro in una pericolosa forma di insubordinazione incontrollata. Tutti aspettavano che io mi pronunciassi; lo feci dopo le preghiere della sera, al momento della “buona-notte”. Con il volto molto serio presi a dire qual era il nostro stile di educazione, manifestai la delusione provata al sapere che uno di loro fosse stato trattato così duramente e che da parte sua avesse commesso una mancanza grave di rispetto e di obbedienza verso chi era incaricato di mantenere la disciplina. Messe le cose in chiaro, terminai: “Da una parte non ci siano mai più villanie, dall’altra mai più violenze”. Avevo dato il classico colpo, uno alla botte e un altro al cerchio. Poi feci una pausa, il mio volto si aprì al sorriso e ripresi il mio dire: “Vorrei per l’affetto che porto a tutti fare anche l’impossibile… Mi rincresce per le botte che avete prese, ma queste non ve le posso proprio levare”. Ero riuscito a rompere il ghiaccio; tutti risero, attesi che si facesse nuovamente silenzio e augurai a tutti la buona notte.
L’esperienza mi insegnava che è molto più facile irritarsi, minacciare che tentare di persuadere con le buone maniere. Era un tira-molla che a volte sfiancava, ma sapevo che certi temperamenti difficili, ribelli e scontrosi li potevo vincere solo con la carità, la pazienza e la mansuetudine. In pratica, si lasciavano solo piegare dalla bontà, dal cuore che dialoga, che corregge con amore e delicatezza. I ragazzi in genere sbagliano più per leggerezza che per malizia. E certi educatori, spinti dalla fretta eccessiva o impazienza, commettevano sbagli più gravi che non le mancanze degli stessi ragazzi. Non raramente mi accorgevo che alcuni che nulla perdonavano agli altri erano molto sensibili e pronti a scusare se stessi. E quando si usano due pesi e due misure in forma arbitraria gli educatori finiscono per commettere sbagli ed errori madornali. Ricordavo spesso ai miei salesiani che i ragazzi sono dei “piccoli psicologi” quando giudicano i loro educatori, maestri e assistenti e la forma, il tono e l’imprudenza con cui approfittano della loro autorità. Desideravo sempre che i miei cari salesiani sapessero attendere il momento opportuno per fare la dovuta correzione; mai, spinti dalla collera o dalla vendetta. E che non dimenticassero mai che i ragazzi, i giovani bisogna conquistarli uno per uno, giorno per giorno, per indirizzarli al Signore perché Egli solo sa disegnare in essi il suo volto divino. E che sempre portassero con sé, i miei cari salesiani, una medicina indispensabile e infallibile (anche se non la si trova in nessuna farmacia): prima di dire di sì al Signore, i giovani vogliono e pretendono che altri dica di sì ai loro giochi e ai loro sogni.
Da tempo avevo adottato un metodo infallibile per educare al bene: stare sempre in mezzo ai ragazzi. Volevo i miei salesiani “educatori da cortile”. Aperti al dialogo, creativi, vigilanti ma non sospettosi, presenti ma non soffocanti, accoglienti e allegri, amici veri.
Era ciò che io definivo l’assistenza: una presenza qualificata, mai neutra, sempre propositiva; una assistenza che era attesa accogliente, una presenza attiva e qualificata. Un modo di essere-con-i-giovani, al loro fianco. “Essere nel cortile”, per condividere con i ragazzi sogni e speranze, per costruire assieme un futuro più bello e degno, senza barriere di diffidenze. Il cortile, come luogo “sacro” di amicizia e di incontro dove nasce la confidenza cordiale, dove l’educatore è sceso dalla cattedra, non ha più in mano il diario di classe, dove non vale tanto per i titoli di studio raggiunti, quanto per quel che è, per i valori che esprime, per gli ideali che lo animano.
Il giovane, anche il più ribelle, si lascia influenzare solo dalla bontà e dalla pazienza. Per questo suggerivo ai miei salesiani: “Più che testa di superiore conviene avere cuore di padre”.