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DON BOSCO EDUCATORE
PASCUAL CHÁVEZ VILLANUEVA
DON BOSCO RACCONTA
TOCCA AI CATTIVI TREMARE DINANZI AI BUONI
E NON AI BUONI TREMARE DINANZI AI CATTIVI
Ero un ragazzino vivace e attento che, col permesso della mamma, andavo nelle varie sagre paesane ove si presentavano i saltimbanchi e i prestigiatori. Mi mettevo sempre in prima fila, gli occhi fissi sui loro movimenti con cui cercavano di distrarre gli spettatori. A poco a poco riuscivo a scoprire i loro trucchi; arrivato a casa li ripetevo per ore e ore. Ma spesso le mosse non producevano l’effetto desiderato. Non è stato facile camminare su quella benedetta corda sottesa tra due alberi? Quanti capitomboli, quante ginocchia sbucciate! E quante volte mi veniva voglia di buttare tutto all’aria… Poi riprendevo, sudato, stanco, a volte anche deluso. Poi, un po’ alla volta, riuscivo a equilibrarmi; sentivo la pianta dei piedi scalzi aderire alla corda; diventava un tutt’uno con i passi e allora mi sbizzarrivo contento a ripetere e a inventare altri movimenti. Ecco perché, quando parlavo ai ragazzi, dicevo loro: “Teniamoci alle cose facili, ma facciamole con perseveranza”. Ecco: la mia pedagogia terra-terra, frutto di tante vittorie e altrettante sconfitte, con quella testardaggine che era una mia caratteristica più marcata.
Così è nato il mio stile di educare, senza paroloni difficili, senza grandi schemi ideologici, senza rimandi a tanti autori illustri. Così è nata la mia pedagogia: imparata sui prati dei Becchi, più tardi per le strade di Chieri, più tardi ancora nelle carceri, nelle piazze, nei vicoli di Valdocco. Una pedagogia costruita in un cortile.
Coraggio lo dimostrai alcuni anni dopo quando giunto a Chieri per continuare gli studi fui accolto dall’insegnante, davanti a tutta la scolaresca, con una frase per nulla entusiasmante: “Questo ragazzo o è una grossa talpa o un gran talento”. C’era da sentirsi impacciati all’estremo; ricordo che me la cavai con queste parole: “Qualcosa di mezzo, signore: sono un povero giovane che desidera fare il suo dovere e progredire negli studi”.
Poi c’era quel benedetto sogno fatto quando avevo 9-10 anni (sogno che si era ripetuto altre volte ancora!) che mi martellava e il desiderio di diventare prete per i ragazzi diventava sempre più forte… E allora feci una cosa che non mi andava proprio a genio, anzi ottenni dal mio carattere una stupenda vittoria, una vera conquista; cioè, tendere la mano per chiedere un aiuto, un qualcosa pur di realizzare il mio sogno. Confesserò più tardi a qualche salesiano: “Tu non sai quanto mi sia costato chiedere l’elemosina”. Col mio temperamento orgoglioso, non era certo facile arrivare all’umiltà di dover chiedere. Il mio coraggio era alimentato da una grande fiducia nella Provvidenza; e anche questo l’avevo imparato da mia madre. Alla sua scuola avevo imparato una regola che mi guidava ovunque: “Quando incontro una difficoltà, faccio come chi trova la strada sbarrata da un grosso macigno; se non posso toglierlo, ci giro attorno”.
E ti assicuro: di grossi macigni ne trovai molti sul mio cammino. Te ne accenno brevemente alcuni.
Il 1860, per esempio, fu un anno tipicamente difficile. Era morto don Cafasso, il mio amico, confessore e direttore spirituale: quanto mi mancava la sua presenza, il suo consiglio e anche il suo aiuto economico.
Poi, da parte del governo, sopraggiunsero gravi difficoltà, autentici “macigni”: perquisizioni mirate e devastanti a Valdocco, come se fossi un delinquente! I miei ragazzi vivevano nel terrore, mentre guardie armate entravano in ogni dove. Le perquisizioni continuavano creando un clima di paura e di incertezza. Chiesi per iscritto udienza al ministro degli Interni Luigi Farini. Ebbi il fegato di dirgli con umile fermezza: “Per i miei ragazzi esigo giustizia e riparazione di onore affinché loro non venga a mancare il pane della vita”. So che rischiavo grosso perché questi uomini di governo erano anticlericali, ma non mi mancò il coraggio necessario. E così a poco a poco le perquisizioni cessarono.
Non mi diedi mai per vinto! Dicevo ai ragazzi: “Il coraggio dei cattivi non è fatto che dalla paura degli altri. Siate coraggiosi e vedrete abbassare le ali”. Una benefattrice francese mi aveva inviato da Lione un’immaginetta con una frase che non avevo mai scordato perché mi serviva da guida: “Sii con Dio come il passerotto che sente tremare il ramo eppure continua a cantare, sapendo di aver le ali”. Non era solo un’espressione poetica, ma un atto di coraggiosa fiducia nella Provvidenza del Signore, perché solo Lui “è il padrone dei nostri cuori”.
Al momento di partire per le vacanze, ero solito parlare così ai miei ragazzi: “Siate uomini e non frasche! Fronte alta, passo franco nel servizio di Dio, in famiglia e fuori, in chiesa e in piazza. Che cos’è il rispetto umano? Un mostro di carta pesta che non morde. Che cosa sono le petulanti parole dei cattivi? Bolle di sapone che svaporano in un istante. Non curiamoci degli avversari e dei loro scherni. Ricordatevi che scienza senza coscienza non è che la rovina dell’anima”. E soggiungevo: “Nulla al mondo ci deve spaventare. Agite oggi in modo che non dobbiate arrossire domani”..
Non mi stancavo di inculcare nelle loro testoline: “Date gloria a Dio con la vostra condotta, consolazione ai vostri parenti e ai vostri superiori. Altrimenti un giovane poltrone, indisciplinato, sarà un giovane disgraziato, sarà un giovane di peso ai suoi genitori, di peso ai suoi superiori, sarà di peso a se stesso”.
Da Valdocco sarebbero usciti i futuri “buoni cittadini e onesti cristiani” di cui il mondo aveva tanto bisogno.