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DON BOSCO EDUCATORE
PASCUAL CHÁVEZ VILLANUEVA
DON BOSCO RACCONTA
QUANDO VI DO TUTTO,
VUOL DIRE CHE NULLA RISERBO PER ME
Era il giorno di Pasqua quando finalmente potevo dire ai miei ragazzi: “Abbiamo una casa”. In verità, era una tettoia bassa e insufficiente, ma era nostra! Avevamo finito di girovagare per Torino, in un “precariato” spossante, carico di incomprensioni e diffidenze. La data è troppo importante per poterla dimenticare: 12 aprile 1846! Avevo trent’anni, da cinque ero prete. Vedevo le cose in una prospettiva illuminata dalla fiducia nella Provvidenza. Mi buttai a capofitto nel lavoro: mi arrampicavo sulle impalcature traballanti degli edifici in costruzione per andare a trovare i miei ragazzi, entravo nelle officine, nei negozi: a tutti rivolgevo una parola di amicizia, scherzavo con loro. Mi preoccupavo della loro salute fisica; parlavo con i loro padroni, spesso troppo disumani. Era un rapporto di amicizia e di reciproca fiducia che instauravo con tutti. L’educazione non è cosa di un giorno solo, esige pazienza e tanta speranza.
Come sai, luglio è un mese molto caldo a Torino. Ma a Valdocco è soffocante. Tutto si svolse in maniera inaspettata. Stava per concludersi una domenica densa di tante attività. All’improvviso, stramazzai a terra. Un fiotto di sangue inzuppò la polvere e l’erba del prato. Poi persi i sensi. Quando rinvenni, mi accorsi di trovarmi a letto: c’era tanta gente attorno, poi giunse un dottore. Vista la gravità del caso mi obbligò al riposo assoluto. Trascorsi una settimana mentre le mie forze fisiche diminuivano sempre più. Mi sentivo spossato, in un continuo dormiveglia.
Ricordo di aver visto il dottore che scuoteva il capo, impotente e diceva: “Forse non passerà la notte”. Il giorno dopo, quasi per incanto, mi svegliai. Poi, a poco a poco, ricuperai le forze. Il mio pensiero era sempre rivolto ai miei ragazzi. Dove si trovavano? Sarebbero ancora ritornati a Valdocco?. Un’altra settimana. Poi fu domenica. Appoggiandomi a un bastone, scesi alla tettoia. Udivo voci, grida di gioia, La testa ciondolava per la spossatezza. Mi si fece incontro un prete che mi dava una mano. Mi raccontò dei tanti sacrifici che i ragazzi avevano fatto perché, dicevano. “Don Bosco non può morire”. Compresi che essi avevano strappato un vero miracolo. Poi i più grandi mi presero, mi obbligarono a sedermi su un seggiolone e mi portarono in trionfo. Molti piangevano di contentezza. Mi si stringevano attorno. Quando si fece silenzio, dissi loro: “Miei cari: avete pregato e fatto tanti sacrifici perché ricuperassi la salute. Grazie. Io vi debbo la vita. Ebbene: vi prometto che la vivrò tutta per voi”. Non potei dire altro perché anch’io ero commosso. Ma da quel giorno mi sentii consacrato alla causa dei giovani per sempre. La lezione più bella e più convincente me l’avevano data i ragazzi!
Seduto su quel rustico seggiolone, attorniato da tanti ragazzi avevo votato la mia vita ai giovani. E così continuai. Ma c’è una risposta che diedi loro in forma ancora più chiara e convinta.
Era il 31 dicembre 1859: festa di fine d’anno. Pur nella cronica povertà di Valdocco, ci si scambiavano piccoli regali, come si fa in famiglia: un’immaginetta, un pezzo di matita, una gomma, una caramella, un quaderno… Piccole cose, ma date col cuore. Dopo le preghiere della sera, diedi la buona-notte, rivolgendo loro qualche breve parola. Anch’io volevo regalare qualcosa a questi giovani. Dissi: «Miei cari figlioli: voi sapete quanto vi amo nel Signore, e come io mi sia tutto consacrato a farvi quel bene maggiore che potrò. Quel poco di scienza, quel poco di esperienza che ho acquistato, quanto sono e quanto posseggo desidero impiegare a vostro servizio. In qualunque giorno e per qualunque cosa fate pure capitale su di me, ma specialmente nelle cose dell’anima. Per parte mia, per strenna vi do tutto me stesso; sarà cosa meschina, ma quando vi do tutto, vuol dire che nulla riserbo per me». Da quella domenica di fine luglio quando avevo fatto quella solenne promessa di donare tutta la mia vita per i giovani, erano ormai trascorsi 13 anni; Valdocco era una famiglia ingrandita. C’erano già varie centinaia di ragazzi che studiavano o imparavano un mestiere. Volevo che essi capissero che il mio stare con loro: era frutto di una scelta irrevocabile. Non avrei mai tradito la fiducia che i giovani riponevano in me, e più tardi nei miei salesiani. Quando dicevo loro: “Nulla riserbo per me” era come se dicessi: non penso più a me stesso, mi dono totalmente a ciascuno di voi, non mi appartengo più, appartengo solo a voi, sono vostro per sempre, non ho più nulla di mio. Ecco rivelato il mio segreto. Con i ragazzi sono sempre stato guidato da queste decisioni, da queste scelte. Non son mai tornato indietro. I giovani, io non li ho mai traditi!
Di lettere ne ho scritte migliaia. Ma se dovessi sceglierne una che mi è nata dal cuore, ecco sceglierei quella che ho scritto ai miei Salesiani, e con loro ai professori e allievi di Lanzo Torinese.
Ecco alcuni brani: Lasciate che ve lo dica e nessuno si offenda: voi siete tutti ladri; lo dico e lo ripeto, voi mi avete rubato tutto. Quando io fui a Lanzo, voi mi avete incantato colla vostra benevolenza ed amorevolezza, mi avete legate le facoltà della mente colla vostra pietà. Mi rimaneva ancora questo povero cuore, di cui già mi avevate rubati gli affetti per intero. Ora la vostra lettera segnata da 200 mani amiche e carissime hanno preso possesso di tutto questo cuore, cui nulla è più rimasto, se non un vivo desiderio di amarvi nel Signore, di farvi del bene, salvare l’anima di tutti.
Questo era il mio stile di parlare e scrivere ai giovani: con il cuore in mano, senza fronzoli inutili, usando parole sincere e dicendo cose in cui veramente credevo. Da buon contadino avevo imparato a onorare la parola data. E la mia parola era questa: “Ho promesso a Dio che fin l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani”.
So che il mio secondo successore, don Paolo Albera scrisse una bellissima circolare in cui dice una cosa vera: “Don Bosco ci educava amando, attraendo, conquistando e trasformando”. C’è una sequenza di verbi che si arricchiscono tra loro, sono tutti e quattro importanti, uno richiama l’altro. Il “mio Paolino” aveva capito la lezione: l’amore attrae, l’attrazione diventa conquista, e questa finisce per trasformare.
Il mio programma, semplice e lineare, è espresso in una frase che è un impegno serio e radicale: “Per questi giovani farei qualunque sacrificio, anche il mio sangue darei volentieri per salvarli”.Non era parole dette tanto per dirle; era il programma della mia vita!
Gennaio 1888. Anche sul letto di morte, in quel turbinio in cui si affastellano ricordi, affetti, preoccupazioni, timori e speranze ebbi ancora la forza di trasmettere a un caro salesiano don Bonetti un mio ultimo messaggio che condensa praticamente tutta la mia vita: “Dì ai giovani che io li attendo tutti in Paradiso”. Era il mio testamento, l’ultimo desiderio che esprimevo nel rantolo dell’agonia. I giovani li avevo amati proprio sino alla fine! E li volevo con me, per sempre, anche in Paradiso.