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DON BOSCO EDUCATORE
PASCUAL CHÁVEZ VILLANUEVA
Don bosco racconta
IL DEMONIO HA PAURA DELLA GENTE ALLEGRA
«Sono conosciuto in tutto il mondo come un santo che ha seminato a piene mani tanta gioia. Anzi, come ha scritto qualcuno che mi conosceva personalmente, ho fatto dell’allegria cristiana “l’undicesimo comandamento”. L’esperienza mi ha convinto che non è possibile un lavoro educativo senza questa meravigliosa spinta, questa stupenda marcia in più che è la gioia. E perché i miei ragazzi ne fossero intimamente persuasi aggiungevo. “Se volete che la vostra vita sia allegra e tranquilla, dovete procurare di starvene in grazia di Dio, poiché il cuore del giovane che è in peccato è come il mare in continua agitazione”. Ecco perché ricordavo sempre che “la gioia nasce dalla pace del cuore”. Insistevo: “Io non voglio altro dai giovani se non che si facciano buoni e che siano sempre allegri”.
qualcuno, a volte, mi presenta come l’eterno saltimbanco dei Becchi e pensa di farmi un grosso favore. Ma è un’immagine molto riduttiva del mio ideale. I giochi, le passeggiate, la banda di musica, le rappresentazioni teatrali, le feste erano un mezzo, non un fine. Io avevo in mente ciò che apertamente scrivevo ai miei ragazzi: “Uno solo è il mio desiderio: quello di vedervi felici nel tempo e nell’eternità”.
Fin da ragazzo, il gioco e l’allegria erano stati per me una forma di apostolato serio, di cui ero intimamente convinto. Per me la gioia era un elemento inseparabile dallo studio, dal lavoro e dalla pietà. un ragazzo di quei primi anni ricordando gli anni “eroici“ li descriveva così: “Pensando come si mangiava e come si dormiva, adesso ci meravigliamo d’aver allora potuto spassarcela, senza talvolta patirne e senza lamentarci. Ma eravamo felici, vivevamo d’affetto”.
Vivere e trasmettere la gioia era una forma di vita, una scelta cosciente di pedagogia in atto. Per me, il ragazzo era sempre un ragazzo, la sua esigenza profonda era la gioia, la libertà, il gioco. Trovavo naturale che io, prete per i giovani, trasmettessi loro la buona e allegra notizia contenuta nel Vangelo. E non l’avrei potuto fare con il volto arcigno e i modi scostanti e bruschi. I giovani avevano bisogno di capire che per me l’allegria era una cosa tremendamente seria! Che il cortile era la mia biblioteca, la mia cattedra dove ero al tempo stesso insegnante e allievo. Che la gioia è legge fondamentale della giovinezza.
Valorizzavo il teatro, la musica, il canto. Organizzavo nei minimi dettagli le celebri passeggiate autunnali.
Nel 1847 stampai un libro di formazione cristiana, Il Giovane Provveduto. L’avevo scritto rubando tante ore al sonno. Le prime parole che i miei ragazzi leggevano erano queste: “Il primo e principale inganno con cui il demonio suole allontanare i giovani dalla virtù è far loro venire in mente che il servire il Signore consista in una vita malinconica e lontana da ogni divertimento e piacere. Non è così, cari giovani. Io voglio insegnarvi un metodo di vita cristiana, che vi possa nel tempo stesso rendere allegri e contenti, additandovi quali siano i veri divertimenti e i veri piaceri… Tale appunto è lo scopo di questo libretto, servire al Signore e stare allegri”.
Come vedi, per me la gioia assumeva un profondo significato religioso. Nel mio stile educativo c’era una equilibrata combinazione di sacro e di profano, di natura e di grazia. I risultati non tardavano ad apparire, tanto che in alcune note autobiografiche che fui quasi obbligato a scrivere potevo asserire: “Affezionati a questa mescolanza di divozione, di trastulli, di passeggiate, ognuno mi diveniva affezionatissimo a segno, che non solamente erano ubbidientissimi ai miei comandi, ma erano ansiosi che loro affidassi qualche incombenza da compiere”.
Non mi accontentavo che i giovani fossero allegri; volevo che essi diffondessero intorno a sé questo clima di festa, di entusiasmo, di amore alla vita, Li volevo costruttori di speranza e di gioia. Missionari di altri giovani mediante l’apostolato dell’allegria. Un apostolato contagiante».