2004|it|11: I frutti del sistema preventivo: Renato e Sigmund


Shape4 Shape2 Shape3 Shape1 SANTITÀ GIOVANILE

di Pascual Chávez Villanueva



I FRUTTI

DEL SISTEMA PREVENTIVO


RENATO

E SIGMUND


Ed ecco, per i lettori, altri due frutti del sistema di Don Bosco, che per quest’anno sono gli ultimi. Ma lascio la consegna a tutti di scovarne altri – certamnete ce ne sono – e di farli conoscere. Vi presento dunque Renato Scalandri, di di Torino e Sigmund Ocasion, filippino di Mandaluyong .


R


enato (1919-1944) frequentò il liceo classico salesiano di Valsalice, vivamente ammirato per la letizia costante, la serietà dell’impegno, l’entusiasmo nell’attività, la santità della vita. Testimoniò la sua fede con tanta convinzione che si guadagnò la stima anche di chi non condivideva il suo credo. Chiamato alle armi come sottotenente degli Alpini, nel 1943 fu deportato in Germania e il 22 aprile 1944 fu colpito a morte, proprio per il suo impegno di servizio e di fede. Sepolto con gli onori militari nel cimitero del campo, la sua salma fu portata in Italia solo nel ‘67. Ora riposa accanto ai genitori a Sangano. Era un ragazzo come tanti: cuore grande, approccio solare, sorriso limpido. Buono, gentile, simpatico, allegro, servizievole, studioso, affettuoso... gli aggettivi potrebbero continuare. Gli piaceva la bicicletta e la montagna, amava la gente, la parrocchia e i giovani, tanto da commuoversi quando incontrava ragazzi infelici, soli, senza chi si curasse di loro. A Valsalice è ricordato come “il migliore degli alunni”. Aveva la parola fluida e la mente ricca di idee. Un giovane vivo. Un giovane santo! “Si sentiva in lui la purezza dell’anima, la fede cristallina, il giocondo ottimismo della sua fiorente giovinezza... Era avvincente e convincente, forza motrice della nostra parrocchia”, dice una ragazza di Sangano. Sentiva la responsabilità, aveva il senso del dovere, ed esigeva da amici e collaboratori lo stesso atteggiamento. Se qualche animatore dimenticava di seguire un ragazzo, assente alle riunioni, lo interpellava: “Ti manca uno del gruppo e non te ne preoccupi? Potrebbe essere ammalato, o in crisi … Non possiamo lasciare che si perda nessuno”. Soleva ripetere che non si può essere cristiani veri se non si è uomini veri. Anche in guerra si mostrò preciso e deciso, e portò nell’ambiente dei commilitoni l’ardore della sua anima cristallina. Organizzava incontri di cultura e di preghiera, avvicinava con la sua amicizia contagiosa tanti giovani che sentivano il richiamo del suo ideale. Dopo l’armistizio, nel 1943, fu deportato in Germania, al campo di Luckenwalde poi in Polonia a Przemyls. Non si perse d’animo: studiava storia, meditava libri di spiritualità, tenne anche un diario e iniziò a scrivere un libro. Ma soprattutto continuò il suo apostolato: consolava, consigliava, sollevava il morale, aiutava chi ne aveva bisogno. Il 21 aprile 1944, disse al cappellano del campo, don Mario Besnate, salesiano: “Don... se dovessi morire in prigionia ti assicuro che non ho nessun rancore contro i tedeschi; li ho perdonati”. Il giorno dopo volle recarsi nel campo accanto a portare le ostie e visitare un malato. Presentò il lasciapassare alla sentinella che lo stracciò senza nemmeno guardarlo, ingiungendogli di rientrare subito nel suo alloggiamento. Renato si girò per obbedire e quella gli sparò a bruciapelo alle spalle.


S


igmund è del 76. Oggi avrebbe 28 anni. Unico maschio di una nidiata di quattro figli, Sieg crebbe in una meravigliosa famiglia. Fin dalle elementari frequentò il Don Bosco di Mandaluyong. Oltre a essere vicino a casa, i genitori pensavano che la scuola salesiana avrebbe offerto buone fondamenta umane, morali e spirituali. Lì Sigmund ricevette vari attestati di eccellenza in religione e un premio come la persona più simpatica. Era socio del club “Amici di Domenico Savio” e del gruppo “Apostoli dei Compagni”, e partecipava alla scuola per animatori. Nel 1992 la famiglia si trasferì in Canada. Sigmund impressionò i professori di Toronto per il suo rendimento e i compagni per la sua bontà e disponibilità. Fece presto a diventare un leader. Tra le altre cose si distinse come “un impressionate giocatore di pallacanestro”, tanto che fu preso nella squadra del Duke, e ne divenne il giocatore migliore. Ma la vita non era facile in Canada, e Sigmund decise di... aiutare la baracca: “Mamma, distribuirò giornali nella zona per aiutarti nelle spese”. “Buona idea, figlio mio, ma sei sicuro di non vergognartene?”. “Perché dovrei?”. Per contribuire poi alle spese universitarie lavorò in un “fast food” e fece il lavapiatti in una casa per anziani. Conseguita la laurea, a 22 anni, trovò lavoro come analista di materiali, dimostrando serietà, competenza e decisione. Il presidente della compagnia lo chiamava “Grande Persona” e “Piccolo Presidente”. E quando sembrava che si avviasse a una vita di successo economico e sociale, ecco all’improvviso la malattia. Rientrando dall’ufficio una sera (nel febbraio 2000), Sigmund sentì un dolore lancinante allo stomaco. Tumore al colon. Trepidazione, lacrime, preghiere... E l’operazione. Poi l’ansia dell’attesa. Il verdetto del primario chirurgo non lasciò speranze: “Purtroppo è in metastasi”. Il male precipitò. Un salesiano venne per il sacramento degli infermi. Era sereno. La sua grande fede lo portava a consolare i suoi, invece che a lamentarsi. Non si è mai disperato quando i dolori lo dilaniavano. Tutti, medici, infermieri/e e pazienti, lo chiamavano “ragazzo speciale”, e le visite non finivano mai. Credeva fermamente che Dio avesse una finalità per la sua sofferenza. Nel notiziario salesiano del Canada (giugno 2000), don Giuseppe Occhio scrisse: “Oggi, 14 giugno, celebrerò la messa di trigesima per il riposo dell’anima di Sigmund Ocasion. Tre mesi fa, ha scoperto di avere un tumore terminale. Ho avuto il privilegio di essere molto vicino a lui e alla famiglia fino alla sua morte. È stato una esempio luminoso del successo della spiritualità salesiana: la sua serenità, coraggio e pace fino al momento della morte mi hanno fatto pensare a Domenico Savio”.



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