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DON FILIPPO RINALDI
genuino Testimone e Interprete dello «spirito salesiano»
La beatificazione di don Rinaldi. - L’iter della causa. - Il significato che ha, per noi, questo evento. - Il percorso dell’esistenza di don Filippo. - Al vertice, nella metà del primo secolo salesiano. - La sua mirabile intraprendenza. - Cultore di «salesianità». - Autorevole Interprete della nostra interiorità apostolica. - Prototipo di «bontà pastorale» con la sua paternità. - Intercessore e Guida per tutta la Famiglia Salesiana. - Assertore del vitale messaggio di «Don Bosco-Modello».
Lettera pubblicata in ACG n. 332
Roma, 5 dicembre 1989,
58° anniversario della morte del nuovo Beato.
Cari Confratelli,
mentre ci prepariamo con intensità di preghiera e di studio alla celebrazione del prossimo CG23 vi invito a concentrare l’attenzione sulla testimonianza di «spirito salesiano» del terzo successore di Don Bosco, don Filippo Rinaldi. La sua figura storica, il suo costante riferimento al patrimonio vivo di Don Bosco e la sua rilevante incidenza sullo sviluppo della Famiglia Salesiana, apporteranno luci preziose non solo sugli importanti lavori capitolari, ma anche su tutto il crescente processo del nostro rinnovamento nella Chiesa.
Vi scrivo nel giorno anniversario (il 58°) della sua morte (5 dicembre 1931) mentre stiamo attendendo che venga fissata la data per la Beatificazione. Ormai sono verso la conclusione presso la Congregazione delle Cause dei Santi le varie procedure; in pratica, manca solo la decisione ultima del Santo Padre.
Naturalmente non è ancora possibile dare ora riferimenti definitivi, ma si può pensare con fondata previsione che la Beatificazione potrebbe aver luogo nel primo semestre del 1990.
Qualunque ne risulti essere la data, è mia convinzione che sarà per noi un evento di risonanza spirituale. Me ne sono reso personalmente conto nei contatti che ho avuto con i membri di vari Gruppi della nostra Famiglia in diverse parti del mondo. A distanza di più di mezzo secolo dalla sua morte si vede ingigantire l’importanza della sua figura: si attende uno speciale stimolo di autenticità vocazionale dal riconoscimento ufficiale della sua santità.
L’iter della Causa
Credo interesserà a tutti avere un breve ragguaglio delle tappe attraverso cui è passata la Causa di don Rinaldi: è un invito a ringraziare insieme la Provvidenza del grande dono che ci accingiamo a ricevere.
Quando morì don Rinaldi, il 5 dicembre del 1931, era già diffusa la fama della sua santità e pochi anni dopo si venne chiedendo di dare inizio ai Processi necessari. Il Consiglio generale di allora preferì una posizione di attesa; il Rettor Maggiore, don Pietro Ricaldone, così si espresse: «lasciamoci guidare dal Signore, se Lui vorrà glorificare il suo Servo ce lo dimostrerà in modo ineccepibile».1 Era come chiedere un segno dal cielo. Giunse dopo poco una risposta chiara: il miracolo in favore di suor Carla De Noni, della Congregazione della Passione di N.S.G.C., a Villanova di Mondovì.
La suora era stata gravissimamente ferita alla bocca da un proiettile proveniente da mitragliamento aereo il 20 aprile 1945. Le asportò d’un sol colpo l’osso del mento con tutti i denti inferiori, lasciando la lingua penzoloni sul petto e troncando tutte le funzioni boccali, la voce, la masticazione e la deglutizione; si credette da tutti a una morte imminente.
La Superiora Fondatrice dell’Istituto — madre Maria Lazzari, morta in concetto di santità — era stata diretta spiritualmente, per ben 25 anni, quando era professoressa di lettere nelle scuole pubbliche di Torino, da don Rinaldi; perciò invitò tutta la comunità a implorare la sua intercessione. Fu accostato alla ferita della suora un fazzoletto di don Rinaldi; essa ne sentì un certo miglioramento, ma per quasi cinquanta giorni rimase immobile, senza poter pronunciare una sola parola e senza poter ingerire nulla. Mentre si intensificavano le preghiere, pochi giorni prima della festa di S. Pietro (giugno 1945) suor Carla improvvisamente si destò da un leggero sonno, per la prima volta si alzò da sola, cominciò a parlare speditamente, a mangiare e a deglutire: la lingua era tornata alla sua sede naturale, l’osso mentoniero si era ricostruito e tutte le funzioni della bocca erano ritornate normali. Per il giorno di S. Pietro la suora faceva già scuola di canto alle ragazze del paese.
Il fatto ebbe vasta risonanza e i Superiori disposero immediatamente che si iniziasse il Processo ordinario per l’introduzione della Causa presso la curia arcivescovile di Torino (1948-1953), mentre presso la curia vescovile di Mondovì si pensò al Processo ordinario per il miracolo (1948-1949).
Lo studio successivo sulle virtù eroiche di don Rinaldi da parte della Congregazione delle Cause dei Santi a Roma andò a rilento, anche per il numero rilevante dei candidati da esaminare. Solo il 3 gennaio 1987, alla presenza del Papa Giovanni Paolo II, venne letto il decreto che riconosceva l’eroicità delle sue virtù. Il giudizio dei consultori teologi e dei cardinali era stato unanime con espressioni di peculiare stima.
Rimaneva da esaminare il miracolo. Il corrispondente Processo di Mondovì era stato totalmente positivo e le radiografie sul caso erano state inviate subito a Roma al Promotore della fede. Purtroppo — a distanza di tanti anni — non si poterono più trovare negli archivi della Congregazione delle Cause dei Santi. In mancanza di questi elementi di prova, i periti medici — in un primo incontro — si astennero nelle conclusioni da un giudizio positivo. Per fortuna la miracolata, suor Carla De Noni, è ancora viva e potè presentarsi a nuovi esami.
Le difficoltà trovate dai medici poterono essere superate ricorrendo alle moderne tecniche scientifiche: alla TAC (tomografia assiale computerizzata), alla RM (risonanza magnetica) e alla sirognatografia. Nella consulta medica furono aggiunti dei validi periti maxillofacciali, trattandosi appunto di un caso appartenente alla loro specializzazione scientifica.
I risultati delle minuziose perizie portarono la consulta dei periti medici (il 7 giugno scorso 1989) a dichiarare — con giudizio unanime e con prove da loro valutate indiscutibili — che la suddetta guarigione non si poteva spiegare naturalmente.
Merita, qui, un plauso il nostro Postulatore, don Luigi Fiora, per la costanza e l’intelligenza con cui si è impegnato a risolvere le varie difficoltà.
Dopo il giudizio positivo dei periti medici, il miracolo venne riconosciuto unanimemente dai consultori teologi, il 13 ottobre scorso 1989; si prevede che la sentenza dei teologi e dei periti medici verrà approvata dalla Congregazione dei Cardinali il prossimo 19 dicembre 1989. In una data posteriore sarà fatta la lettura del decreto sul miracolo alla presenza del Sommo Pontefice, a cui solo compete il diritto di procedere alla beatificazione e fissarne la data.
Il significato che ha, per noi, questo evento
Qualche tempo fa, quando si stava preparando il centenario della morte di Don Bosco, noi ci auguravamo che la beatificazione di don Rinaldi potesse essere inclusa nelle celebrazioni del DB88. Ora possiamo anche pensare che il ritardo di tale evento sia stato provvidenziale.
Innanzitutto, nella prossima data, l’attenzione di tutta la Famiglia Salesiana potrà concentrarsi meglio sulla figura del novello Beato per coglierne con più profitto il messaggio profetico; nell’88 sarebbe forse rimasta un po’ in ombra.
In vita egli aveva saputo ricoprire con un denso manto di umiltà un insieme di ricchezze spirituali, di creatività apostolica, di audaci iniziative, di duttilità con i tempi, di preveggenza e persino di sviluppo del carisma; la sua beatificazione può ora considerarsi quasi come il riflesso più bello e significativo dell’88, che disvelerà a tutti quanto il Signore ha voluto regalare alla nostra Famiglia nella persona del terzo successore di Don Bosco.
Il fatto, poi, che la beatificazione avvenga in prossimità dei due Capitoli Generali del ‘90 (il nostro e quello delle Figlie di Maria Ausiliatrice) — che si svolgeranno in un momento particolare del nostro rinnovamento (dopo un sessennio dall’approvazione apostolica delle Regole rielaborate) —, ci offre la straordinaria possibilità di affrontare la delicata problematica dell’educazione dei giovani alla fede con il cuore e il dinamismo della miglior fedeltà allo spirito salesiano. La garanzia della santità di don Rinaldi potrà incidere beneficamente sui capitolari.
Inoltre avremo tutti, insieme alle Volontarie di Don Bosco, l’opportunità di considerare con maggior attenzione i più ampi orizzonti della fecondità dello spirito salesiano nel secolo, a favore di tanti fedeli laici della nostra Famiglia.
C’è, in questa beatificazione, un qualcosa in più, un supplemento di significatività, che la fa oltremodo importante. La beatificazione di un nostro fratello o sorella è sempre preziosa e illuminante; ci aiuta infatti a valorizzare e ad amare meglio la vocazione salesiana e a sottolinearne alcuni aspetti. Questa di don Rinaldi, però, racchiude un significato eminente e di particolare attualità per l’identità del nostro carisma nella sua globalità: ci presenta il terzo successore di Don Bosco come custode e rivelatore del segreto dello «spirito salesiano», per l’animazione e la guida di tutta la nostra Famiglia: egli indica chiaramente ad ogni Gruppo il vincolo comune che ci unisce in essa.
La sua vita è la più bella confutazione di quella superficialità spirituale che ci minaccia oggi.
Oltre a conservare e custodire, interpretò, spiegò, diffuse e accrebbe la vitalità di tutto il patrimonio ricevuto.
Si è detto di lui che fu «lampada dalle molte luci»: ci aiuterà ad attraversare con passo sicuro l’ombrosa zona del delicato trapasso di questo scorcio di secolo.
Vorrei invitarvi a riflettere su qualche suo aspetto più caratteristico, senza pretese di affondo esauriente.
Il percorso dell’esistenza di don Filippo
Gli anni di vita di don Filippo Rinaldi sono stati 75: dal 28 maggio 1856 (Lu Monferrato) al 5 dicembre 1931 (Torino Valdocco). L’incontro con Don Bosco ha dato struttura e significato a tutta la sua esistenza.
Nella peculiare storia della vocazione del giovane Filippo si verificano delle circostanze che trascendono il cammino vocazionale ordinario e fanno pensare a un intervento speciale della Provvidenza. Eugenio Ceria, suo primo biografo, afferma esplicitamente: «È un caso assai più unico che raro, anzi l’unico che si conosca. “Post eventum” si ha ragione di dire: “digitus Dei est hic”».2
Don Bosco incontrò e confessò Filippo adolescente nel collegio da poco aperto a Mirabello Monferrato, presso Lu, il 9 luglio 1867; e da quel momento non lo perse di memoria. Nonostante che il ragazzo, per uno sgarbo ingiusto ricevuto da un assistente, avesse lasciato anzitempo il collegio, il buon padre coglieva ogni occasione per mandarlo a salutare, gli faceva scrivere, e lo invitò spesso ad andare con lui.
Può darsi che, nell’unico colloquio avuto, Don Bosco gli abbia prospettato la via del sacerdozio, a cui il ragazzo non si sentiva di aspirare, parendogli di non averne le doti, di sentirsene addirittura indegno. E così la durò per circa un decennio: «religioso, sì; sacerdote, no».
Finalmente a 21 anni, in un nuovo incontro provocato da Don Bosco nel collegio di Borgo San Martino il 22 novembre 1877, si dichiarò disponibile e accettò di incorporarsi alla originale comunità dei Figli di Maria (vocazioni tardive), aperta non senza difficoltà da Don Bosco a Sampierdarena: la dirigeva don Paolo Albera, che Filippo aveva trovato chierico assistente a Mirabello e con cui aveva stretto amicizia.
Molti anni dopo, in una nota intima di diario riferentesi a quel giorno, così si esprimeva con umiltà: «Facciano il Signore e Maria SS. che, dopo avere resistito tanto alla grazia nel passato, non abbia più ad abusarmene in avvenire. Sì, o Madre mia SS., piuttosto la morte anziché non corrispondere alla mia vocazione. Fate che col presente e coll’avvenire abbia a riparare il passato».3
Dopo un paio d’anni in cui compì studi accelerati, nel 1879-1880 potè fare il noviziato a San Benigno, avendo come maestro don Giulio Barberis.
Nei suoi posteriori passi verso il ministero sacerdotale troviamo di nuovo l’intervento straordinario di Don Bosco che lo seguiva con un interesse a prima vista inspiegabile e che lo mosse per obbedienza paterna e convincente nelle varie tappe delle ordinazioni; così il 23 dicembre 1882 divenne finalmente presbitero. «Fu Don Bosco — confessò egli — che mi tracciò la via, che mi mandò ricevere le sacre ordinazioni senza che io ne facessi cenno e domanda a lui o ad altri».4
Ci possiamo chiedere perché questo metodo insolito? che cosa muoveva la eccezionalità e la sicurezza del procedere di Don Bosco? Veramente nelle vicende vocazionali di Filippo Rinaldi e nell’agire di Don Bosco, per tutto il tempo in cui essi furono in rapporto personale, ci fu qualcosa di singolare che sfugge alle semplici vedute esteriori, ma che portò don Rinaldi ad un preciso traguardo, che è, ai nostri occhi, chiaramente provvidenziale.
Egli stesso lo confessò più tardi con convinta sincerità; dichiarò, infatti, ai Superiori maggiori (invitandoli a non parlarne durante la sua vita) che due volte — a Mirabello e a Borgo S. Martino — aveva visto il volto di Don Bosco irradiato da una luce viva, più viva di quella solare (e anche più tardi, una terza volta, verso il 1886).5
A solo nove mesi dalla ordinazione sacerdotale, quando aveva 27 anni, Don Bosco lo nominò direttore dell’opera dei «Figli di Maria» trasferita da Sampierdarena a Mathi (per un anno) e poi a Torino-S. Giovanni Evangelista. Il giovane direttore ebbe il privilegio di andare ogni settimana a riferire l’andamento della casa a Don Bosco anziano e a confessarsi da lui; fu invitato qualche volta anche alle riunioni del Consiglio generale (allora «Capitolo superiore»). Godette quindi una straordinaria confidenza da parte del Fondatore proprio negli estremi anni, dolorosi ma lucidi, della sua anzianità. Un giorno aveva chiesto al buon padre di andare in missione: «Mi rispose — affermò egli stesso, ai confratelli della sua comunità — che in missione non sarei andato; che sarei rimasto qui a mandarvi altri. Poi mi soggiunse altro che non dirò più a voi né a chicchessia».6
Considerando questi speciali rapporti di don Rinaldi con Don Bosco, viene naturale e spontaneo pensare alle grazie straordinarie con cui il Signore accompagna l’opera di un Fondatore. Anche circa varie altre persone attorno a Don Bosco, nelle prime origini salesiane, ci sono delle circostanze che non si spiegano umanamente. Pensiamo al ruolo decisivo di S. Giuseppe Cafasso, a quello del Papa Pio IX, all’incontro e formazione di determinati giovani, per esempio, Michele Rua, Giovanni Cagliero, Paolo Albera e poi di Maria Domenica Mazzarello, per non parlare di altri. Ci troviamo di fronte a una costellazione di differenziati collaboratori nella quale oggi possiamo includere, a suo modo, anche Filippo Rinaldi, in vista dell’opera da lui svolta per la permanenza dell’eredità del Fondatore.
Poco dopo la morte di Don Bosco, don Rinaldi fu inviato (autunno 1889) come Direttore in Spagna a Sarriá, dove conobbe per un paio d’anni donna Dorotea Chopitea ved. Serra, insigne e santa cooperatrice. Nell’estate del 1892 fu nominato Ispettore della penisola iberica; e si disimpegnò in questo mandato per una diecina di anni tra la sorpresa e l’ammirazione di tutti, entro e fuori la Congregazione.
Nel 1901 don Rua lo chiamò a collaborare strettamente con lui nella carica di Prefetto generale, ossia di «Vicario» del Rettor Maggiore: aveva 45 anni. C’è da notare che fino al 1923 spettava al Prefetto dirigere anche l’amministrazione centrale. Don Rinaldi disimpegnò questo ufficio, prima con don Rua e poi con don Albera, fino al 1922. Per due volte, durante questo ventennio, fece le veci del Rettor Maggiore defunto.
In una sua lettera, senza data, scrisse (presumibilmente dopo la morte di don Albera): «Ora prego il Capitolo di eleggere un Prefetto giovane. Questa è una carica che richiede molta attività e lavoro. Quando si invecchia è difficile sostenere tutta la responsabilità di un Prefetto generale dei Salesiani. La carica è creata tale e quale da Don Bosco e non si deve cambiare. Alla mia età han ceduto le armi don Alasonatti, don Rua, don Durando, don Belmonte e questo in tempi in cui la Congregazione non aveva il lavoro complesso che ci vuole oggi. Aggiungiamo che con un Rettore nuovo ci vuole un uomo nuovo che si pieghi facilmente alle nuove aspirazioni e bisogni personali. Si può aggiungere che abbiamo bisogno che nel Capitolo (ossia nel Consiglio generale) entrino giovani, ai quali uniremo se lo volete il nostro consiglio».7
Nel CGXII, il 24 aprile 1922, fu invece eletto Rettor Maggiore: aveva 66 anni. Durò in carica fino a tutto il 1931.
Al vertice, nella metà del primo secolo salesiano
Ma è utile ambientare brevemente gli anni delle alte responsabilità di don Rinaldi durante i primi decenni del secolo nella sua attività nel Consiglio generale. Per circa trent’anni egli è stato al vertice della vita salesiana, soprattutto dal 1922 al 1931 come 3° successore di Don Bosco, quando incominciava un’«epoca nuova» — come diceva lui — della vita salesiana.
Cercando d’interpretare la sua missione storica possiamo pensare legittimamente che egli disimpegnò un ruolo di peculiare rilievo; e in qualche modo ne ebbe coscienza. Così infatti scriveva alcuni mesi prima di morire: «Mi pare che da più tempo Don Bosco vada ripetendomi: t’affretta e non ti stancare dal ridire ai miei figli, ora affidàti alle tue cure, le cose che ho praticato e insegnato per divenire veri salesiani secondo il modello additatomi dall’alto ad ammaestramento della nostra Società».8
È significativo leggere in una sua circolare del 1925 alcune affermazioni che fanno risuonare ai nostri orecchi il famoso testo dell’evangelista Giovanni dove parla di ciò che «noi abbiamo udito, che abbiamo visto con i nostri occhi, che abbiamo contemplato, che abbiamo toccato con le nostre mani»; 9 scrive, infatti, ai confratelli di «aver avuto la fortuna di trattare familiarmente con Don Bosco parecchi anni, durante i quali possiamo dire d’averne respirato la santità dallo sguardo, dalle parole e dalle azioni anche minime; ... e la sua voce amorevole, indimenticabile, pronunziava la parola che, sconvolgendo i nostri precedenti ideali, avvinceva a lui indissolubilmente tutto il nostro avvenire!».10
Per capire meglio la figura di don Rinaldi, dobbiamo rifarci, anche se solo per brevi cenni, al contesto ambientale di quegli anni. È un ambiente culturale che precede di quasi un decennio il secondo grande conflitto mondiale (1939-1945), portatore di tanti cambiamenti; nell’ambito ecclesiale il contesto era caratterizzato da modalità e strutture ecclesiali ancora lontane dal Concilio Vaticano II.
Possiamo ricordare a volo d’uccello alcuni dati: la vivacità della questione sociale, la delicata crisi modernista, le battaglie coloniali, le oscillazioni dei valori economici, il flagello della prima guerra mondiale (1914-1918), la promulgazione del Codice di diritto canonico (27 maggio 1917), l’insorgere delle ideologie e dei nazionalismi, le lotte politiche, il lento risveglio dei cattolici nel sociale, le vessazioni di partiti, la sospirata realizzazione dei patti lateranensi con il concordato tra Chiesa e Stato italiano (1929) e, infine, l’ormai pericoloso avvio dei totalitarismi.
Per quanto riguarda direttamente la vita salesiana, hanno influito fortemente i seguenti fatti: innanzitutto il decreto del 24 aprile 1901 circa il Direttore-confessore, tanto sofferto in Congregazione; poi le famose «Normae secundum quas» per l’autonomia dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1901); inoltre, per vari anni, il primo conflitto mondiale che comportò ben 2.000 confratelli militarizzati (ossia quasi la metà di tutto il personale d’allora); poi la graduale elaborazione — attraverso vari Capitoli Generali — di una più dettagliata regolamentazione della vita in Congregazione, con la ristrutturazione globale delle Costituzioni in conformità al nuovo Codice di diritto canonico uscito poco prima del suo rettorato.
A questo bisogna aggiungere, dopo la prima guerra mondiale, l’afflusso di numerose vocazioni e la necessità di formarle adeguatamente.
A don Rinaldi, poi, sono toccati, dal 1922 al 1931, una serie di giubilei d’oro che gli servirono per centrare l’attenzione su elementi vitali della vita salesiana; le sue circolari ce ne ricordano parecchi; possiamo indicarne alcuni: si trattava di meditare su 50 anni di memoria e di formulare propositi! Così, ad esempio, il giubileo della fondazione dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1922), quello dell’approvazione delle Costituzioni (1924), quello delle Missioni (1925), quello dell’Opera Maria Ausiliatrice (1926), quello dei Cooperatori (1926), quello del sogno del personaggio dei dieci diamanti (1931), a cui don Rinaldi diede speciale importanza, 11 e anche il centenario del sogno dei 9 anni che si calcolava avvenuto nel 1825 e la cui significatività egli desiderava stesse al centro delle riflessioni salesiane perché conteneva in germe lo spirito delle stesse Costituzioni.12
Aggiungiamo a questi eventi due importanti beatificazioni: quella di don Giuseppe Cafasso (1925); e, soprattutto, quella di Don Bosco (1929). I due beati erano stati amici intimi per ben vent’anni; due santi eminenti, ma due santità con due missioni differenti: uno di riservatezza e formazione del clero, l’altro di creatività apostolica e di educazione cristiana della gioventù bisognosa e popolare.13
Alla luce di questi brevi cenni circa il contesto della sua vita di Superiore vediamo oggi che don Rinaldi è inserito con prospettiva di alto livello nella storia della Famiglia Salesiana e con particolare incisività. Negli anni del suo rettorato si attuava, passo a passo, il passaggio a nuove generazioni che non avevano conosciuto il Fondatore e che, quindi, non avevano ricevuto da lui, per rapporto diretto, la formazione salesiana. Eppure dovevano assimilare, custodire e sviluppare l’eredità di Don Bosco.
Don Rua ne era stato fedelissimo custode ed aveva saputo evitare con saggezza e coraggio i rischi che alcuni (fuori della Congregazione e anche in alto), prevedevano alla morte del Fondatore. Ormai però, nonostante la pregiatissima opera del primo successore, i tempi cambiavano e nascevano nuove sfide.
Il patrimonio salesiano doveva conservare la sua genuinità e, per il passaggio alle nuove generazioni, ci voleva un mediatore solidamente e attraentemente legato a Don Bosco. Si dovevano anche prevenire i pericoli che potevano derivare dalla espansione stessa della Famiglia Salesiana e dal suo incontro con culture sempre più diverse. I tempi esigevano la capacità di sviluppare le ricchezze contenute nel carisma del Fondatore, alcuni dei cui germi non avevano ancora potuto manifestarsi completamente nel primo sviluppo.
Si dovevano poi consolidare le strutture che diventavano necessariamente più complesse, senza che soffocassero l’autenticità e la semplicità dello spirito. Si affacciava, in particolare, il vasto problema della formazione, destinando ad essa un numero crescente di uomini specificamente qualificati e fedeli, e aprendo, per questo, centri validi di formazione e di studio.
A questo trapasso generazionale diedero il loro apporto non pochi confratelli eminenti per intensità spirituale e ardore apostolico; non mancarono mai uomini di lodevole tempra; d’altra parte e per fortuna, pur tra difetti, la Congregazione non fu, fino allora, mai vittima di gravi crisi. Tra i benemeriti, però, mi par di poter dire che non si vede un altro che abbia avuto l’importanza, l’efficacia e il ruolo storico di don Rinaldi.
Egli, oltre essere stato in contatto intimo con Don Bosco, aveva collaborato direttamente con don Rua e con don Albera per un ventennio; entrambi inoltre avevano lasciato alla sua responsabilità personale tanti impegni tra i più difficili e più delicati, che gli permisero di fare una larga esperienza, si può dire, in tutti i settori della vita salesiana. Sia pure con umiltà, bontà e semplicità, egli fu al vertice della Congregazione in un’ora di trapasso e ne guidò la sicura affermazione nella Chiesa. Conquistò i confratelli irradiando una santità che riproduceva gli elementi essenziali e caratteristici di quella di Don Bosco: l’interiorità apostolica, l’intraprendenza pastorale, la bontà paterna. Fece rivivere veramente davanti a tutti la figura del Padre, così da essere definito «immagine vivente» di lui; o, come affermò don Giovanni Battista Francesia: «Gli mancava di Don Bosco solo la voce, tutto il resto l’aveva».14
La delicata rielaborazione del testo della Regola di vita, dopo il Codice del 1917, lo ha portato a far riflettere i Confratelli sull’intimo legame che essa ha con l’eredità del Fondatore. Lui stesso lo ha espresso nel cinquantesimo dell’approvazione delle Costituzioni. Guardando al rifacimento del testo (pur essendo stato piuttosto giuridico), insiste sulla mediazione qualificata che le Costituzioni hanno come portatrici dello spirito del Fondatore: «sono l’anima della nostra Società, e questa fu l’anima di tutta la vita di Don Bosco; perciò la storia di esse è tutta nella vita di lui... che ne scrisse gli articoli prima nell’animo e nella vita di quelli che aveva scelto per suoi figli... Le nostre Costituzioni, modificando a quando a quando i colori delle linee secondarie, non solo non perderanno la loro luce primitiva, ma diverranno sempre più feconde di bene».15
È vero, aveva scritto un anno prima in un’altra circolare, che le nostre Costituzioni «dovettero subire col tempo parecchie variazioni, o suggerite dalle Congregazioni romane, o richieste dallo sviluppo della Pia Società, o imposte dalle leggi positive della Chiesa... Questa elasticità di adattamento a tutte le forme di bene che vanno di continuo sorgendo in seno all’umanità, è lo spirito proprio delle nostre Costituzioni... Il salesiano che le osserva puntualmente, diviene, senza quasi avvedersene, un altro Don Bosco».16 Esse «in sostanza sono le stesse di prima», «sono pervase da un soffio di quella vitalità che emana dal santo Vangelo, il quale è, appunto per questo, di tutti i tempi e sempre ricco di nuove sorgenti di vita».17
Insisteva poi sulla raccomandazione di considerare con attenzione le lettere circolari di don Rua e di don Albera (eravamo nel 1923) per una retta interpretazione dello spirito; e scriveva: «Nel Rodríguez — che era allora il testo più usato per la lettura spirituale comunitaria —troviamo spesso, unite agli ottimi ammaestramenti ascetici, molte cose che per noi non hanno importanza. Perché dunque non leggere le cose nostre, scritte con tanto puro affetto e semplicità dai nostri Padri?».18
Era il grande custode e interprete del vero «spirito salesiano»; vedeva racchiusa in esso la vitalità del futuro; perciò si preoccupò di approfondirlo, di commentarlo e di farlo studiare e documentare, assicurando così la piattaforma per il gran salto verso la maggior età di tutta la nostra Famiglia.
La sua mirabile intraprendenza
Il terzo Successore di Don Bosco è poco conosciuto tra noi. Almeno per me è stata una specie di scoperta il dedicarmi a leggere ed a riflettere sulla sua vita e sulle sue attività. Mi pare conveniente indicare, in un primo momento, il cumulo e l’importanza delle sue attività, per poi approfondire meglio il suo messaggio.
C’era da custodire e da guidare un carisma, diciamo così, «adolescente», in piena crescita; bisognava perciò coltivarlo e nutrirlo con la più genuina linfa del Fondatore.
Don Rinaldi fu avviato a questo assai presto, prima come incaricato della formazione delle vocazioni «tardive» (i «Figli di Maria»): un originale impegno di futuro, nel quale fu seguito personalmente da Don Bosco; poi fu lanciato nella penisola iberica, dove divenne primo protagonista del trapianto del carisma in un’altra cultura; infine fu posto al vertice del tutto, sia come Vicario generale che come Rettor Maggiore.
Fermiamoci un momento a contemplare ciò che ha fatto. Vedremo aprirsi davanti ai nostri occhi un panorama insospettato; in esso egli appare a volte — come qualcuno ha scritto — un «apostolo quasi clandestino».19 Averne un’idea aiuterà a non svisare la sua figura e a capire la sua missione storica.
Don Rinaldi, sotto un’apparenza di semplicità bonaria, era in realtà un uomo dinamico e creatore; con spiccata tendenza all’azione, calma e robusta; audace nelle sue iniziative, anche se guidato sempre dalla prudenza. Era difensore geloso dell’eredità ricevuta, ma non temeva la novità, quando intuiva che ad essa si applicava, sviluppandolo, lo spirito di Don Bosco. Possedeva un’intelligenza pratica particolarmente acuta. Era riservato e raccolto nel suo atteggiamento esteriore, ma si rendeva conto con occhio sicuro dell’ambiente e delle situazioni in cui viveva, e aveva il buon intuito di adattarsi e di valorizzarle per le sue iniziative. Non gli sfuggivano i cambiamenti dei tempi — in meglio o in peggio — e sapeva rispondere alle esigenze nuove che essi comportavano. Era rispettoso di tutti coloro con cui agiva, incapace di imposizioni autoritarie, ma aveva l’abilità di attrarli con la sua bontà e di farli collaboratori. Non faceva sfoggio di erudizione e di competenze specializzate, aveva anzi bassa stima di sé, ma era ricco di penetrante osservazione di inventiva e di buon senso e così, di fatto, mandò avanti con successo delle opere di ardita originalità per il tempo in cui visse, anticipatrici di futuro.
Fu, insomma, un vero realizzatore, non irruente ma intraprendente, calmo e saggio, di cui restano le opere e gli insegnamenti.
— Inviato in Spagna, la fece sua patria adottiva e «la amò — testificò Mons. Marcellino Olaechea, arcivescovo salesiano di Valencia — come se vi fosse nato».20 Ciò indica una speciale capacità di adattamento, accompagnata dalla valorizzazione delle persone, della cultura e dell’ambiente.
Si dedicò con passione a familiarizzarsi con la lingua castigliana e anche con quella catalana; acquisita una sufficiente dimestichezza con la lingua del Cervantes, volle leggere (e rileggere anche più di una volta) il Chisciotte, perché «gli insegnava molta filosofia pratica e soprattutto l’arte di comprendere e trattare gli uomini e di governarli, oltre che un mezzo per distrarsi dai problemi e di alimentare un po’ di buon umore».21
In nove anni — come ricordò don Pietro Ricaldone ai Processi — furono ben 21 le case da lui fondate: quasi un miracolo di attività e di avvedutezza nella promozione delle vocazioni e nella scelta delle persone. Alla sua partenza si eressero nella penisola iberica ben quattro Ispettorie: quella «Portoghese» e, in Spagna, la «Tarragonese» (Barcellona), la «Celtica» (Madrid) e la «Betica» (Siviglia).
Si preoccupò molto anche della presenza e crescita delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Le guidò a espandersi soprattutto in Andalusía. Avevano la sola casa di Sarriá; egli le stimolò e le aiutò in ben nove fondazioni. «Al suo arrivo a Barcellona, le suore erano 4 e le novizie 3: alla sua partenza le suore erano salite a 63 e a 31 le novizie, quasi tutte spagnuole».22
Non sembra esagerato affermare che egli fu il più grande protagonista degli inizi dell’Opera salesiana nella penisola iberica e che egli seminò in essa — cosa significativa — una solida e fedele tradizione dello spirito di Don Bosco.
A ragione Mons. Marcellino Olaechea ha potuto affermare con simpatico entusiasmo: «Se un giorno la voce infallibile della Chiesa eleverà don Rinaldi all’onore degli altari, ci sarà grande giubilo in tutta la Congregazione, ma lo si sentirà soprattutto in Spagna, in quella Spagna che egli portò nel cuore accarezzandola fino alla morte, e le cui tristi angosce previde come profeta».23
— Posto al vertice della Famiglia come Vicario del Successore di Don Bosco, non restrinse la sua azione ai soli compiti amministrativi di Prefetto generale della Congregazione salesiana. Era senz’altro, la sua, una onerosa vita di ufficio che comportava anche gravi responsabilità nei casi più difficili. Si pensi, ad esempio, ai fatti di Varazze (1907) e più tardi di Marsala (1909): la lunga e delicata azione giudiziale che seguì ai fatti di Varazze fu tutta nelle sue mani.
Che poi questo ufficio di Prefetto generale sia stato svolto da lui con senso di responsabilità ed efficienza, si può dedurre dal fatto che egli fu rieletto per tre volte, servendo due Rettori Maggiori, piuttosto diversi da lui per carattere e mentalità.
È sorprendente il numero di attività, la varietà d’interessi e le iniziative lungimiranti che egli seguì.
E tutto questo in pieno accordo e virtuosa sottomissione con il Rettor Maggiore, fosse don Rua o don Albera. Può essere illuminante quanto osserva don Ceria nella sua biografia a proposito del secondo: «Don Rinaldi, positivo e operatore, mantenendosi fino all’ultimo — per dirla con termine corrente — un dinamico, uomo cioè dalle ardite iniziative, doveva intendersi con un Superiore (don Albera) prevalentemente, diremo così, dalle idee generali e per tendenza piuttosto statico, esitante a intraprendere cose nuove, delle quali per solito valutava con acume i lati difficili e incerti»; 24 inoltre era facile a lasciarsi influenzare negativamente proprio nei confronti del suo tanto valido e umile collaboratore.
Vediamo, procedendo per brevi cenni, quali siano i principali campi dei suoi interventi al vertice della Congregazione.
Per il periodo in cui fu «Prefetto generale».
A. Un primo campo è certamente quello dei fedeli laici. Don Rinaldi dimostra qui un interesse veramente anticipatore.
■ Rinvigorì e promosse l’associazione dei Cooperatori. Se ne soleva interessare personalmente, allora, il Rettor Maggiore attraverso un delegato. Don Rinaldi percepì che le cose non si muovevano a sufficienza per mancanza di una adeguata organizzazione; insistette con don Rua per la creazione di un ufficio centrale, presieduto dal Prefetto e composto di tre consiglieri e qualche segretario, secondo il bisogno. Scelse il personale, stimolò l’azione degli Ispettori e dei Direttori, promosse diverse iniziative di formazione e di impegno apostolico, distinse chiaramente i Cooperatori dai Benefattori, stimolò l’incorporazione dei giovani che avessero compiuti i 16 anni, curò più tardi, nel 1917, una nuova edizione del Regolamento semplificando la pratica delle iscrizioni, si preoccupò che i centri locali fossero dinamicamente vivi, andò formando e completando i quadri degli animatori; diede anche, in vista di questo, speciale rilievo al «Bollettino Salesiano».
Dal 1903 al 1930 fece celebrare nove Congressi internazionali, 4 in Italia e 5 in America Latina: vale la pena notare che quello del 1920 segnò una svolta nell’organizzazione ed azione dei Cooperatori Salesiani.
La sua preoccupazione di fondo era quella di far vivere con attualità tra essi il vero spirito di Don Bosco.
■ Con gli Exallievi l’azione di Don Rinaldi fu ancor più originale e ricca di risultati, con prospettiva internazionale e mondiale. Ne ho già parlato in una Lettera circolare; 25 qui ricordo brevemente.
Si possiedono in archivio documenti che dimostrano come egli studiasse questo argomento con i laici stessi. Indisse il Congresso internazionale del 1911 a Valsalice, dove si proclamò la Federazione internazionale delle associazioni e vennero creati gli organi direttivi: era la prima Federazione internazionale di questo tipo tra tutte le istituzioni cattoliche! Da lui partì anche l’idea che gli Exallievi innalzassero a Don Bosco sulla piazza Maria Ausiliatrice un monumento, che giunse alla sua felice realizzazione nel 1920. Per l’inaugurazione egli aveva promosso tre Congressi internazionali: dei Cooperatori, degli Exallievi e delle Exallieve.
Don Rinaldi, infatti, fu l’ispiratore e l’organizzatore anche delle Exallieve: «Fin dal primo momento che prese a occuparsi dell’Oratorio femminile, vagheggiava il grandioso disegno di stringere le Exallieve delle FMA in un’Unione mondiale, novità ardita senza dubbio, ma che non lo spaventò».26 Alla prima associazione prepose la Sig.ra Felicita Gastini, figlia di quel Carlo Gastini che aveva raccolto il primo gruppo degli Antichi Alunni di Don Bosco.
■ Un altro gruppo dell’ambito femminile, che è stato oggetto delle sue cure di predilezione, è quello delle Zelatrici di Maria Ausiliatrice, che fiorì poi nell’attuale Istituto Secolare delle Volontarie di Don Bosco. Nel 1908 sceglie tra le Figlie di Maria le cosidette «Zelatrici dell’Oratorio». Nel primo congresso delle Exallieve (1911) alcune di esse propongono una associazione di Figlie di Maria «nel secolo»; più tardi (3 ottobre 1916) prepara per loro un abbozzo di statuto in 7 punti; il 20 maggio 1917 indice la prima riunione: è l’inizio ufficiale! Supera non poche difficoltà e incomprensioni; finalmente ha via libera con l’approvazione di un primo Regolamento in 18 articoli per l’«Associazione delle Zelatrici salesiane» (luglio 1918); il 26 ottobre 1919 accompagna le prime 7 professioni e, poco dopo (novembre 1920), fa eleggere tra loro un Consiglio per ammettere le nuove (autonomia laicale! 29 gennaio 1921). L’8 ottobre 1922, ricevendo da alcune di esse la rinnovazione dei voti, insiste sul loro spirito salesiano, considerandole le prime consacrate dedicate a seguire Don Bosco nella società.27
Sembra a prima vista una cosa umile, come tutti i semi, ma nasconde una genialità ecclesiale. «Qui — scrive un suo biografo — don Rinaldi arrivò a concepire ed attuare una forma nuova di vita consacrata nel mondo e a porre gli inizi di un Istituto che oggi in lui si riconosce e lo onora come ispiratore e padre. Si potrebbe dire che fu questa la sua opera più indovinata e personale».28 Nessuno pretende di affermare che abbia pensato esplicitamente a un «Istituto secolare» come lo si concepisce oggi; sarebbe una pretesa anacronistica. Ciò che, però, dobbiamo considerare sicuro è che egli intuì e percorse una via che portava alla secolarità consacrata e che nel far ciò «intese prendere un ideale inattuato di Don Bosco e dargli forma».29
■ Un’altra iniziativa laicale da ricordare è l’Unione Don Bosco fra insegnanti. Da parte di alcuni insegnanti — diretti spiritualmente da don Rinaldi — era stata avanzata, all’inizio degli anni ’20, la proposta di creare una associazione apolitica di ispirazione cristiana tra maestri e professori. Egli intuì subito il beneficio che ne sarebbe venuto sia per i membri stessi sia per l’azione educativa che avrebbero potuto svolgere nelle scuole statali. Fece sua l’iniziativa e diede vita così a una originale «Unione», di cui egli diventò il primo animatore col suo alto prestigio.30
L’iniziativa presentava tre caratteristiche che gli risultavano assai care: era associazione di laici, si proponeva l’educazione morale della gioventù, e intendeva operare secondo i criteri del Sistema educativo di Don Bosco. Anche questo tipo di associazione fu la prima del genere in Italia nell’area di ispirazione cristiana: don Rinaldi non andava certo alla ricerca di primati, ma il suo ardore apostolico gli faceva prendere volentieri delle posizioni di avanguardia.
■ Un altro campo in cui appare assai positiva la sua operosità inventiva è quello della Comunicazione sociale.
Sono pochi forse coloro che si aspettano in don Rinaldi la preoccupazione di dar vita a una grande Editrice: eppure è la realtà. Egli è il fondatore della Società Editrice Internazionale (SEI). Don Bosco aveva già avviato diverse attività editoriali a Valdocco, ma con il passar dei decenni non si era raggiunta una ordinata sistemazione generale. Don Rinaldi organizzò il settore e creò la SEI, per il cui sostegno finanziario ricorse anche ai Cooperatori e Benefattori di diverse nazioni d’Europa e d’America. Come il santo Fondatore, anche lui aveva il senso imprenditoriale di certe opere apostoliche.
Inoltre egli è stato il promotore di varie pubblicazioni e riviste; per esempio: già in Spagna il giornaletto «El Oratorio festivo», poi curò molto il «Bollettino Salesiano», fondò «Voci fraterne» e «Unione» per gli Exallievi e le Exallieve, il periodico «Maria Ausiliatrice» per la basilica di Valdocco, la rivista «Gioventù Missionaria» per le missioni. Allestì biblioteche per la gioventù; fondò circoli di cultura; favorì la «schola cantorum», le casse di Mutuo soccorso, i servizi medici gratuiti; ecc.
Ebbe l’idea di fondare anche una Rivista per la donna: è interessante considerare — vedi nota 31 — il senso di attualità con cui concepiva questo progetto di Periodico femminile.
B. Ma uno degli impegni più significativi, validi e fruttuosi fu senza dubbio la sua dedizione paterna alle Figlie di Maria Ausiliatrice.
Egli si trovò ad agire in un momento particolarmente delicato quando, per disposizione della Sede Apostolica, si stabilì l’autonomia giuridica ed amministrativa dell’Istituto, fino allora aggregato alla Società di S. Francesco di Sales. Bisognava saper intensificare la comunione nello spirito e nella missione, mentre si organizzava l’autonomia.
Egli si conquistò un generale riconoscimento di stima quando fece una buona e ragionevole divisione dei beni materiali tra le due Congregazioni, come appare dai Processi; ma soprattutto conquistò la fiducia di tutte e di tutti quando si adoperò con azione continua, paterna e profondamente spirituale perché si conservasse il comune patrimonio carismatico del Fondatore. Le deposizioni dei Processi sono unanimi ed entusiastiche a questo riguardo: le testimonianze delle FMA sono le più valide sia sulla sua santità personale, come sull’azione da lui svolta per la comunione spirituale ed apostolica delle ormai due istituzioni di Don Bosco. È, questo, un argomento che dovrebbe essere studiato esaurientemente per una visione più documentata dell’unità spirituale della nostra Famiglia (auspico che qualche persona qualificata si accinga a farlo).
Campo privilegiato dell’azione di don Rinaldi, in collaborazione con le FMA, fu l’Oratorio femminile di Valdocco da quando cominciò a lavorarvi nel 1907 col titolo di Direttore (come allora si usava) succedendo a don Francesia. Qui egli per anni profuse veramente l’ardore del suo zelo sacerdotale e la originalità delle sue iniziative educative e apostoliche. Quasi non si riesce a comprendere come egli abbia potuto svolgere tanto lavoro oltre quello che aveva come Prefetto; ma le deposizioni sono così particolareggiate, concordi ed autorevoli, che ne assicurano l’oggettività. Egli lasciava alle suore quanto era di loro competenza, ma animava, suggeriva, guidava, incoraggiava con paterno ottimismo e illuminata saggezza. In un clima di fervore condiviso si raccoglievano centinaia di ragazze e di giovani; sorgevano associazioni secondo l’età e il diverso livello spirituale: si trattava di gruppi apostolici, sociali, culturali, ricreativi, che alcune testi elencano e spiegano con profusione di dati; molteplici manifestazioni tenevano l’Oratorio in un continuo tono di mobilitazione festosa; si moltiplicavano le vocazioni (egli era confessore regolare nella basilica, due ore ogni mattino). Dalle giovani l’azione passava nelle famiglie, nel quartiere, nei posti di lavoro, nelle associazioni cattoliche diocesane. L’Oratorio non era un mondo chiuso, ma spalancato: un fermento di bene, nel quale don Rinaldi faceva entrare anche elementi del laicato cattolico per guidare veramente alla vita.
Era, questa, una grande lezione salesiana non solo per le FMA, ma anche per i confratelli. Don Rinaldi, infatti, concepiva l’Oratorio come centro vivo di iniziative culturali, sociali e religiose. Lo voleva arricchito da opportune iniziative laicali; lo auspicava collocato nelle periferie cittadine (come furono più tardi quelli del S. Paolo e di Monterosa che egli come Rettor Maggiore prediligeva a Torino). In quello maschile di Valdocco fu lui, per esempio, il fondatore del circolo «Auxilium», diventato poi famoso in Piemonte. (Al primo anno di fondazione, nel 1906, i soci vollero che egli fosse presidente; accettò, ma con la condizione di preparare dirigenti laici che avrebbero dovuto guidare l’associazione sotto la propria responsabilità).
Oltre le attività oratoriane, abbondava la sua preziosa direzione spirituale per le suore, le conferenze pedagogiche che egli andava a fare alla Casa generalizia di Nizza Monferrato, dove funzionava un fiorente Istituto Magistrale: parlava alle suore, alle ragazze dei corsi superiori, alle maestre, alle mamme. È sorprendente come abbia saputo comprendere i problemi femminili trattando, oltre che temi strettamente pedagogici, quelli del fidanzamento, del matrimonio e della vita coniugale, con una visione veramente pastorale. Seppe trasferire nel mondo femminile quella conoscenza e pratica del Sistema Preventivo, la cui piena applicazione fino allora era stata interpretata prevalentamente dal punto di vista delle opere maschili.
Ma l’apporto più grande verso le Figlie di Maria Ausiliatrice don Rinaldi lo realizzò come interprete e difensore del comune patrimonio spirituale. Suor Clelia Genghini ha deposto nei Processi: «Il periodo che intercorse fra il 1905 e il 1913, e specialmente fra il 1905 e il 1907, fu veramente cruciale. Si temeva di essere completamente sottratte alla direzione del Superiore della Società salesiana, e quindi, un po’ alla volta, allo spirito di Don Bosco... In questo periodo don Rinaldi con la sua bontà paterna, e coi suoi saggi e illuminati consigli, fu di grande conforto e di aiuto al nostro Istituto. Ne sono prova le lettere che indirizzava in quel periodo. In una sua lettera del 5 settembre 1905, diceva: “Il Signore vi illumini. State passando il momento più solenne della vostra vita. Qui non ci vuole che serenità e grazia di Dio. Io spero molto bene dai nuovi provvedimenti, se saprete inoculare in tutto lo spirito di Don Bosco”».32
Dunque: ben venga una giusta autonomia, ma nella piena comunione dello stesso spirito. «A questo fine — depose suor Teresa Graziano — don Rinaldi avvicinava con una particolare preferenza e con prudente frequenza le Superiore Maggiori, le quali, nei primi anni del suo rettorato, erano ancora domiciliate alla Casa madre di Nizza. Fu lui ad ottenere che la Casa madre venisse trasportata a Torino presso il santuario di Maria Ausiliatrice, onde le Superiore potessero partecipare più intensamente e con maggiore comodità alla vita salesiana, e ricevere più efficace e larga impronta dello spirito di Don Bosco».33
Era straordinariamente preoccupato di assicurare la più stretta comunione nell’identico prezioso patrimonio.
Egli in questa delicata circostanza fu l’uomo provvidenziale, saggio, delicato, paterno, costante e illuminato; pareva avesse ricevuto in dono dallo Spirito una speciale capacità di percezione dei tratti dell’animo femminile: incideva con delicatezza nei loro cuori in modo veramente ammirevole. La direzione spirituale, le lettere personali, i consigli alle Superiore, le molteplici forme di contatto orientativo, anche le correzioni, sono serviti a intensificare la fedeltà e l’unione.
È bello constatare la schiettezza con cui parlava o scriveva alle Superiore. Così, per esempio, in una lettera del 1915 alla benemerita Superiora generale madre Caterina Daghero dice con familiare sincerità: «Mio desiderio fu sempre quello di favorire fra di voi le idee che mi paiono veramente di Don Bosco. Mi pare che fino a un certo punto si abbia detto troppo “sono suore, sono donne, non tutto è adattabile fra di loro”. Così si lasciò correre e, senza avvedercene, diventate religiose comuni a tutte le altre. In questo caso non era necessario un Istituto femminile in più: ce ne sono già tanti!».34 Espressioni, queste, che rimandano a un clima culturale di altri tempi, soprattutto da parte di preti e di confratelli. Ma è rimarchevole — e direi profetico — il fatto che egli non abbia mai tollerato nei confronti delle Figlie di Maria Ausiliatrice — come delle religiose in generale — comportamenti meno delicati e giudizi provenienti da un certo complesso di superiorità, e, nel contempo, abbia esortato madre Daghero a custodire gelosamente la comune identità salesiana di cui la venerata Confondatrice, madre Mazzarello, fu sempre gelosa interprete e trasparenza viva.
È merito soprattutto di don Rinaldi se i due Istituti, nella legittima autonomia giuridica, hanno saputo mantenere rapporti di intensa comunione spirituale, di mutua comprensione, di solidarietà pratica e di feconda collaborazione reciproca.
È, questo, un monito profetico per noi oggi in una Chiesa caratterizzata dalla «comunione» e impegnata in una ricerca apostolica di «nuova evangelizzazione».
Quando don Rinaldi fu eletto Rettor Maggiore, considerò suo grave compito la nomina pontificia di «Delegato Apostolico» per l’Istituto delle FMA ottenuta per la prima volta dal Papa Benedetto XV nel 1917 per valido interessamento del Card. Cagliero.
Tra i molteplici servizi e orientamenti meritano un particolare ricordo le speciali Strenne d’inizio d’anno per le FMA: 1922, 1929, 1930, 1931 e 1932. (Don Rinaldi soleva dare una Strenna differente ai vari Gruppi, a volte era diversa persino tra i Salesiani: una per i Preti e un’altra per i Coadiutori). Rivolgeva tutti i suoi interventi a far sì che fossero meglio tenuti in vigore il carattere e la forma dati loro dal Fondatore senza mai chiudersi alle esigenze dei tempi.
Per il periodo in cui fu Rettor Maggiore.
Don Rinaldi, come successore di Don Bosco, lasciò nelle mani del dinamico Prefetto generale, don Pietro Ricaldone, molti impegni di carattere organizzativo ed esecutivo, per poter svolgere preminentemente il ruolo di guida e animatore: volle essere soprattutto «padre».
Non è a credere però che la sua intraprendenza fosse venuta meno. Leggendo i «Verbali del Capitolo Superiore» durante il suo rettorato si constata come egli fosse al centro del governo: molte iniziative partivano da lui e tutte erano con lui concordate, anche se nella sua umiltà lasciava volentieri agli altri le lodi della realizzazione.
— L’azione che ebbe più a cuore fu la formazione dei confratelli e l’organizzazione delle comunità formative e dei centri di studio. Durante quel decennio i Confratelli passarono da 4788 a 8836, con una crescita media di 450 all’anno, e le Case da 404 a 644.
— La beatificazione di Don Bosco (1929) fu l’occasione che egli valorizzò per tutto un concreto rinnovamento spirituale e apostolico.
— Un’impresa magnanima e concretamente ardita fu quella missionaria. Creò una specie di mobilitazione in tal senso: aprì ben sette aspirandati missionari e preparò spedizioni di eccezionali proporzioni, con l’invio in missione di giovanissimi (novizi e postnovizi!). Possiamo dire che l’impulso missionario di quegli anni diede veramente consistenza e dimensione mondiale al carisma del Fondatore, avverando così quanto Don Bosco gli aveva detto: «Tu non andrai in missione, ma manderai gli altri».
— C’è anche una iniziativa importante e di futuro che don Rinaldi Rettor Maggiore non potè condurre a termine, ma che è una ulteriore dimostrazione della sua mirabile intraprendenza: il progetto di ingrandimento della basilica di Maria Ausiliatrice a Valdocco. Fu lui che lo fece studiare e lo volle e fu la sua bontà, abilità e costanza a superare vivacissimi contrasti tra i Superiori stessi prima di prendere la decisione.35 «Bisogna preparare nella chiesa madre dell’Opera salesiana — scriveva in una lettera ai Cooperatori — una degna accoglienza al Ven. Don Bosco per il giorno che sarà, come speriamo, elevato agli onori degli altari». L’ampliamento si fece dopo la sua morte, ma egli aveva convinto pienamente, tra gli altri, l’economo generale don Fedele Giraudi da lui chiamato a far parte del Consiglio generale. Così il santuario dell’Ausiliatrice a Valdocco, centro vivo della Famiglia Salesiana del mondo, presenta a tutti, insieme alla Madonna, anche Don Bosco: sia nel monumento della piazza, sia nel suo altare in basilica. Lo dobbiamo all’amore filiale di don Rinaldi, alla sua ardita antiveggenza.
A conclusione di questa sventagliata sulla sua attività possiamo formulare un giudizio d’insieme citando il parere di un confratello assai competente e che era stato inizialmente un po’ critico verso di lui. Si tratta di don Bartolomeo Fascie che convisse con don Rinaldi per ben 15 anni come membro del Consiglio generale. Afferma: «Non pochi pensavano che, a causa della vocazione dilazionata, don Rinaldi fosse un uomo di limitata cultura e di intelligenza comune. Evidentemente non lo conoscevano. Don Rinaldi fu una delle menti veramente grandi della nostra Congregazione, un capo nato, che avrebbe potuto diventare un grande uomo di stato, se avesse scelto la carriera politica... Ultimo dei successori di Don Bosco a trattare intimamente con il Fondatore, egli era chiamato ad impersonare in se stesso lo spirito di Don Bosco, la paternità e santità, per poterle meglio istillare nei suoi figli spirituali».36
Cultore di «salesianità»
Il termine «salesianità» è in uso da alcuni anni (anche nei Capitoli Generali e nella Ratio) per indicare un insieme di aspetti inerenti al patrimonio spirituale, pedagogico, pastorale, religioso, storico della nostra vita di Salesiani di Don Bosco. Don Rinaldi non usava questo termine; parlava invece di «spirito salesiano», in un senso ampio e concreto che si riferiva di fatto al vissuto di una tradizione ininterrotta. Si tratta di una realtà inserita nel quotidiano come «esperienza di Spirito Santo» trasmessa da generazione in generazione.
Don Bosco ha lasciato le Costituzioni e altri scritti assai significativi, ma soprattutto ha forgiato testimoni vivi che sapessero curare e trasmettere questo suo patrimonio. I Successori del Fondatore e i Capitoli Generali hanno aggiunto altri scritti certamente importanti. C’è da ricordare, tra gli altri, il «Vademecum» di don Barberis per i novizi. Poi sono venute le «Memorie Biografiche» che hanno arricchito la possibilità di conoscenza del vissuto.
Tuttavia in quei primi tre decenni del secolo la letteratura della salesianità era piuttosto scarsa. Bisognava trarre la materia, diciamo così, dal proprio sacco. È sintomatico che don Rinaldi avesse coscienza di questo e che abbia assunto in proprio, per quanto gli era possibile, questo importante compito.
Lo chiamiamo «cultore», più che «maestro», per riservare questo secondo termine, tanto ricco e fondamentale, allo stesso Don Bosco, anche se si potrebbe applicarlo, in forma derivata e dipendente, pure a lui.
Aveva assimilato lo spirito del Fondatore in una forma eminente: gli era congeniale e lo esprimeva con spontanea naturalezza. Lo approfondiva costantemente con riflessioni originali.
Se pensiamo poi che le sue letture preferite erano quelle di tipo spirituale e ascetico e che tra i propositi della sua Prima Messa c’era quello di leggere ogni anno la vita di un Santo, trovando sempre in ognuno di essi — come egli confessava — qualche aspetto che serviva a illuminare lo spirito di Don Bosco,37 dobbiamo riconoscere che possedeva le doti e usava mezzi efficaci per essere cultore straordinariamente autorevole di salesianità.
Per 4 anni, come Prefetto generale, andava a fare conferenze tematiche agli studenti di teologia a Foglizzo trattando argomenti di pedagogia, di spiritualità e di vita salesiana.38 Per molti anni fece lo stesso con le Figlie di Maria Ausiliatrice. In questo si dimostrò, oltre che valido testimone, anche acuto pensatore, con «una grande mente e un grande cuore»; all’oggettività delle analisi congiungeva «la modernità delle concezioni, l’assimilazione perfetta dello spirito e del sistema di Don Bosco».39
Non era solo preoccupato di essere genuinamente fedele alle origini, ma era in pari tempo sollecito di conoscere le esigenze dei tempi; fu simultaneamente «assertore della tradizione e della modernità». Non si sentiva legato pedissequamente alla lettera, ma al vero spirito, con forza e convinzione: «La nostra missione, non dimentichiamolo, non è di essere trascinati, ma di trascinare gli altri, non di ricevere le impressioni del luogo e delle persone dove andiamo, ma di imprimere noi il nostro spirito salesiano nella formazione cristiana dei giovani e nell’ambiente che ci attornia».40
E di questo spirito si fece costante assertore, desumendo le sue affermazioni, in massima parte, dalla riflessione pacata e profonda dell’esperienza vissuta nella tradizione viva. Non ha trattato solo qualche aspetto; ha affrontato il vissuto nella sua globalità. Forse la sua è la prima riflessione generale sulla sostanza della salesianità. I confratelli e le suore ne ascoltavano le conferenze con sincero apprezzamento tanto è vero che sono giunte fino a noi, perché conservate, in vari quaderni di appunti. Fu lui, d’altra parte, che insistette presso don Ceria di scrivere su San Francesco di Sales 41 e, soprattutto, sul nostro Fondatore con il prezioso libro «Don Bosco con Dio»; a don Alberto Caviglia chiese di dedicarsi alle Opere e Scritti editi e inediti di Don Bosco.
I suoi interventi (circolari, lettere, strenne, conferenze, prediche ecc.) si può dire che hanno come nota dominante quella di «Don Bosco modello», e che il tema della «vita di famiglia» insieme a quello del «sistema preventivo» costituiscono la traduzione pratica dello spirito salesiano. «Se fosse possibile raccogliere e ordinare tutti gli ammaestramenti — scrive don Ceria — che don Rinaldi andava dispensando qua e là secondo le occasioni, si avrebbe un tesoro di dottrina ascetica».42
Il punto vitale su cui insisteva fu ognora quello della peculiare interiorità che deve caratterizzare lo spirito salesiano; si lamentava che Don Bosco in questo non fosse ancora sufficientemente conosciuto: «Badate bene — diceva negli ultimi anni agli studenti di teologia alla Crocetta — che la vera fisionomia del Padre non ce la danno le opere... la vera grandezza e giusta fisionomia di Don Bosco si potrà e si dovrà conoscere solamente dal suo intimo».43
Sarebbe lungo, qui, intrattenersi sui vari aspetti dei suoi ammaestramenti. Ci fermeremo solo su due temi più caratteristici: quello dell’«interiorità» e quello della «bontà».
Autorevole interprete della nostra «interiorità apostolica»
Don Rinaldi aveva compreso, nell’intimo contatto avuto con Don Bosco e poi nella sua esperienza personale, che l’atteggiamento costante di unione con Dio era il segreto di tutta la operosa vita e dello spirito proprio del Fondatore.
Oggi ormai non sono pochi coloro che hanno centrato l’attenzione su questo aspetto interiore di Don Bosco, ma forse nessuno lo ha fatto con la forza, la convinzione, l’insistenza e l’autorevolezza di don Rinaldi. Fu il principale messaggio che egli volle lasciare come testamento alla nostra Famiglia. Senza immersione piena in Dio non si può essere suoi apostoli. «La vita interiore — diceva — può sembrare in qualche modo estranea a noi, in quanto, come Salesiani, siamo sempre attivi e occupati. Tuttavia è proprio la cosa, la sola cosa che fa di noi dei religiosi».44
Considerava questo atteggiamento la fonte cristallina di tutto, la grazia prima, il vero segreto motore del nostro spirito; e lo affermava coraggiosamente, quasi in forma paradossale: «La nostra santità — scriveva ai confratelli — non è tanto nella pratica del sistema di vita abbracciato con la professione salesiana e neanche nella sola imitazione delle virtù del nostro Padre, ma nel far sì che la vita salesiana da noi abbracciata, che l’imitazione delle virtù paterne siano animate dallo spirito di cui viveva e con il quale esercitava le virtù Don Bosco medesimo».45
E nella Strenna speciale alle Figlie di Maria Ausiliatrice per l’anno 1931 sulla vita interiore di Don Bosco, mentre le esorta a realizzare in sè — come già aveva detto loro il Fondatore — una sintesi vitale tra l’operosità di Marta e la contemplazione di Maria, affermava che si tratta di una «vita interiore semplice, evangelica, pratica, laboriosa»; Don Bosco — si legge nella Strenna — «ha immedesimato alla massima perfezione la sua attività esterna, indefessa, assorbente, vastissima, piena di responsabilità, con una vita interiore che ebbe principio dal senso della presenza di Dio (oh! la potenza del “Dio ti vede” di mamma Margherita!) e che, un po’ per volta, diviene attuale, persistente e viva così da essere perfetta unione con Dio. In tal modo ha realizzato in sé lo stato più perfetto, che è la contemplazione operante, l’estasi dell’azione, nella quale s’è consumato fino all’ultimo, con serenità estatica, alla salvezza delle anime».
Dunque, il segreto del nostro spirito è l’unione con Dio a fondamento e al di sopra di tutto; l’impegno apostolico dinamico e creativo sgorga costantemente dall’ardore della carità verso Dio: di lì procede la famosa grazia di unità della nostra carità pastorale!
Ma cerchiamo di scoprire un po’ meglio in che modo approfondiva don Rinaldi questo segreto dell’interiorità apostolica salesiana. Ne analizziamo tre aspetti: il respiro per le anime, il lavoro apostolico indefesso, e la fedeltà quotidiana alla preghiera.
— Innanzitutto la cura di vivere davvero il motto «da mihi animas»: Don Bosco lo ha scelto per caratterizzare per tutti il nostro spirito.
L’unione con il Signore ci introduce nel cuore di Dio Padre, ricco d’amore infinito verso le «anime», ossia verso gli uomini — e soprattutto verso i giovani — in ordine alla loro evangelizzazione e salvezza. Questo atteggiamento di interiorità oggi lo si può chiamare «cuore pastorale»: è quell’unione con Dio che si traduce in amore ardente e operativo per le anime!
Considero importante interpretare, nel nostro motto, il termine «anima», non come una espressione antiquata e un po’ alienante dalla realtà delle vicissitudini della vita, bensì come l’affermazione di saper cogliere nella realtà ciò che vi è in essa di più caratteristicamente umano con i valori trascendenti della persona e con le esigenze del Vangelo, dedicandosi a coltivarli operativamente perché influiscano anche nel divenire sociale e servano a realizzare la missione salvatrice del Signore. Il termine «anima», nella nostra tradizione, sottolinea i tratti più significativi e validi della persona umana e del suo contorno sociale.
Il respiro per le anime è un’espressione «rinaldiana» dell’ardore pastorale che procede dall’unione con Dio. Il Fondatore diceva sovente ai suoi giovani: «Sapete perché Don Bosco vi vuole tanto bene? Perché avete un’anima che è tanto preziosa, e per salvare quest’anima io faccio già qualche cosa, ma il Signore ha fatto molto di più».46
Davvero il «da mihi animas» è il motto che racchiude in sintesi tutta la sua pastorale giovanile e popolare.
Vale proprio la pena riportare qui un’intera pagina di una circolare di don Rinaldi, scritta quasi alla vigilia della beatificazione del nostro Padre.
Si preoccupa di individuare lo spirito che animava Don Bosco nella pratica delle virtù. A tal fine cita un discorso del Papa Pio XI e ne commenta il contenuto: «Il Santo Padre ci addita un punto luminoso che non dobbiamo mai perdere di vista. Ma donde — ci ha detto il Papa — ha attinto Don Bosco l’energia inesauribile per bastare a tante cose? C’è il segreto ed egli stesso lo ha continuamente rivelato in un motto che assai spesso nelle opere salesiane ricorre; è la frase dettata dal cuore del Fondatore: — Da mihi animas cetera tolle —, dammi le anime e prendi tutto il resto. Ecco il segreto del suo cuore, la forza, l’ardore della sua carità: l’amore per le anime, l’amore vero, perché era il riflesso dell’amore verso N. S. Gesù Cristo e perché le anime stesse egli vedeva nel pensiero, nel cuore, nel sangue prezioso di nostro Signore; cosicché non v’era sacrificio o impresa che non osasse affrontare per guadagnare le anime così intensamente amate.
Come è bello, sublime e attraente — commenta don Rinaldi — tutto questo! Come allarga gli orizzonti del nostro apostolato e della nostra vita religiosa! Don Bosco era riuscito a perdersi tutto in Dio, in N. S. Gesù Cristo, e di là, da quella mirabile unione, si lanciò dietro le anime con gli ardori della carità medesima del Redentore divino in modo da non più vivere, né più respirare che per le anime. Oh! noi che abbiamo vissuto accanto a lui e goduto della sua familiarità veramente unica, possiamo attestare di aver ascoltato più volte, quasi in modo sensibile, questo suo respiro per le anime che erano tutta la sua vita! Qui, o miei cari, sta tutto il segreto dell’eccelsa santità e delle meravigliose opere di Don Bosco: e qui noi pure dobbiamo ora convergere tutti i nostri sforzi: dobbiamo cioè, accrescere in noi giorno per giorno, minuto per minuto, la carità verso Dio, verso N. S. Gesù Cristo, fino ad arrivare a quella beata unione che Gesù medesimo ci ha impetrata dal suo eterno Padre nella sua sacerdotale preghiera: “ut sint unum”!
Per arrivare ad essere una sol cosa con le anime, occorre prima stabilire la nostra vita in Dio di guisa che siano divini i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre opere. Allora per noi le anime non saranno altro che Gesù, e noi saremo una cosa sola per le anime, sull’esempio del nostro Padre. Allora comprenderemo in tutta la loro profondità le parole che Don Bosco ci ripeteva negli ultimi giorni della sua vita: “Io non posso più far nulla... Oh! quante anime salverà Maria Ausiliatrice per mezzo dei Salesiani!”».47 Fin qui la citazione.
Non credo si sia scritta una pagina più penetrante e più avvincente sull’interiorità apostolica salesiana: descrive il segreto per meritarsi il nome di figli di Don Bosco; tutta la nostra forza sta in questo radicamento vitale; qui si trova il nostro carisma primo. Bisognerà riprenderla, meditarla, commentarla, perché ci svela davvero il nucleo fontale del nostro spirito.
Grazie, don Rinaldi!
Giustamente ha affermato Alberto Caviglia che non si capirà mai Don Bosco Fondatore, né la sua pedagogia e il suo apostolato, se non si parte, come da principio, dall’assimilazione di questo suo spirito. È dall’ottica dell’unione con Dio che don Rinaldi poté affermare: «Per me Don Bosco è una delle più splendide personificazioni della carità ai nostri tempi. La sua vita non è altro che ardore di carità divina nella completa immolazione per il bene della gioventù e per la salvezza delle anime. “Chi ama è nato da Dio e conosce Dio”: il suo Sistema Preventivo non è altro che la carità!».48
Dei 73 anni della vita di Don Bosco, afferma ancora don Rinaldi, più di 63 li ha impiegati nel salvar le anime, soprattutto della gioventù: «Come il S. Vangelo ci presenta Gesù, fin dal suo primo ingresso nel mondo, unicamente intento a fare la volontà del suo Eterno Padre, che non era altro che la salvezza delle anime; così la vita di Don Bosco ce lo presenta in un ininterrotto apostolato per la salvezza delle anime. Provatevi a sopprimere questo filo d’oro della sua vita ed essa non avrà più consistenza alcuna: analizzatela in tutti i suoi più minuti particolari e vi balzerà sempre fuori la sintesi radiosa del “da mihi animas” e del “cetera tolle”! Riassumetela in un piccolo volume, contenente più solo i punti essenziali, e avrete tra le mani un Vangelo salesiano».49
Questo «filo d’oro» supponeva in lui un continuo esercizio di ascolto nella fede, ossia di amore contemplativo coltivato quotidianamente con vari mezzi di riferimento vivo al Signore.
— In secondo luogo, come aspetto inseparabile da questo «respiro per le anime», don Rinaldi ha insistito sul concetto salesiano di lavoro. È, il suo, una specie di commento a quell’«estasi dell’azione» che egli, ispirandosi a San Francesco di Sales, ricordò alle Figlie di Maria Ausiliatrice, nella Strenna citata, quale stato più perfetto di contemplazione operante.
Mons. Evasio Colli, conterraneo e profondo amico di don Rinaldi, nel discorso di trigesima sottolineava appunto come il suo straordinario lavoro apostolico era una modalità di «estasi»: «In questi tempi di dinamismo superficiale e stupefacente — che domina talvolta anche la vita religiosa — ... occorre rifarsi al concetto che della santità e della perfezione cristiana dava San Francesco di Sales. Lo spirito di unione con Dio è come la radice nascosta, umile, ma sempre attiva dell’albero gigantesco della vita salesiana; è come l’interno dell’edificio, che è la parte più preziosa, ma sovente più sconosciuta ai profani che si contentano di ammirare l’esterno... Da qui derivava in don Rinaldi — come in Don Bosco — la sua caratteristica calma serena e fidente, forte, e perciò anche mansueta... e per cui nelle più terribili evenienze non si sgomentava, come nei trionfi non si esaltava; sempre uguale a se stesso, serenamente vigile, sanamente ottimista... e per cui trattava con la stessa cura e con la stessa veduta soprannaturale un caso di coscienza e un affare finanziario».50
Don Rinaldi aveva imparato da Don Bosco l’importanza che ha per noi il lavoro apostolico; chi non è portato a sacrificarsi quotidianamente nel lavoro non è fatto per noi. Don Bosco è un santo dell’azione apostolica e caritativa: eccelle in questo campo in forma eminente.
Si possono comprendere allora le espressioni di gioia a cui si abbandonò don Rinaldi — cosa non abituale in lui — quando Pio XI promulgò le virtù eroiche di Don Bosco, dopo tante obiezioni e difficoltà nei Processi. Lo commosse il noto magnifico elogio del Papa: «Una delle più belle caratteristiche di Don Bosco — aveva detto Pio XI — era quella di essere presente a tutto, affaccendato in una ressa continua e assillante di affanni, tra una folla di richieste e consultazioni, ed avere lo spirito sempre altrove: sempre in alto, dove il sereno era imperturbato sempre, dove la calma era sempre dominatrice e sempre sovrana; così che in lui il lavoro era proprio effettiva preghiera e s’avverava il grande principio della vita cristiana “qui laborat, orat”».51
Nel primo incontro che don Rinaldi ebbe (come Rettor Maggiore) con Pio XI, osò chiedere la indulgenza del lavoro santificato. Non fu una richiesta improvvisata; era il risultato di un programma di vita che egli aveva visto realizzato dal Fondatore, che aveva fatto proprio e che considerava importante dovere da comunicare ai confratelli col gesto singolare e autorevole della indulgenza ecclesiale: lo chiedeva a un Papa che aveva intuito personalmente il segreto di Don Bosco.
L’udienza papale fu concessa a don Rinaldi il 6 giugno 1922; egli si era proposto di chiedere questo «favore singolarissimo, per tutti i miei amati figli, per le buone Figlie di Maria Ausiliatrice, per i rispettivi allievi ed exallievi d’ambo i sessi, per i nostri zelanti Cooperatori e Cooperatrici... uno stimolo efficace che li aiutasse ad essere ogni giorno più attivi e nel medesimo tempo più uniti al Signore. A parer mio, un mezzo molto efficace per aiutarli e spingerli tutti a ciò, sarebbe stato il concedere loro una speciale Indulgenza da lucrarsi ogniqualvolta avessero unito al lavoro, all’insegnamento, all’assistenza, e via dicendo, qualche devota invocazione... (Il Papa annuì rispondendo in sintesi che) perché l’operosità dei Salesiani sia vantaggiosa, deve andar congiunta coll’unione a Dio, deve sempre essere preceduta dalla santificazione personale... Finora le Indulgenze venivano concesse ai fedeli solo a condizione di certe pratiche devote esteriori; ma di qui innanzi i Salesiani le acquisteranno col loro lavoro medesimo, ogni volta che ad esso uniranno qualche devota invocazione, per quanto breve. In tal modo conseguiranno più facilmente la loro santificazione individuale, mediante l’abituale unione con Dio».52
Anche questa pagina di don Rinaldi è da meditare attentamente. La sua preoccupazione per l’indulgenza del lavoro, come stimolo a vivere l’identità dello spirito salesiano, ci rivela qual era il suo concetto di «lavoro». Una operosità che sia dimostrazione di interiorità apostolica, ossia di una profondità spirituale o «santificazione personale» che esorcizzi tanti atteggiamenti di superficialità; un lavoro che manifesti l’unione con Dio Salvatore come l’atteggiamento più alto e più pieno dello spirito. L’interiorità salesiana, però, è autentica se si traduce instancabilmente e creativamente in attività pastorali, per la salvezza delle anime. Un tipo di azione, dunque, che personalizza cristianamente il lavoro, evitando l’attivismo semplicemente esteriore e l’automatismo delle macchine.
Perciò insisteva sulla santificazione del «momento presente», del quotidiano; noi infatti viviamo solo nel presente e gran parte di esso è lavoro. Ricorrendo il 3° centenario della morte di San Francesco di Sales, lo presentava come «l’apostolo della santificazione del momento presente».53
Il punto sta nel non credere che il lavoro in quanto tale, per se stesso nella sua oggettività naturale, sia davvero estrinsecazione genuina del nostro spirito. Il segreto è tutto nella persona, della quale il lavoro è un frutto e che, quindi, riveste la sua stessa fisionomia spirituale. Solo la persona santificata produce un lavoro che è preghiera. È dalla persona permeata di carità pastorale che fluisce quella «grazia di unità» che realizza la sintesi vitale tra unione con Dio e lavoro. Nella citata Strenna alle Figlie di Maria Ausiliatrice don Rinaldi insiste: «Il lavoro non può sostituire la preghiera, ma bensì trasformarsi in preghiera esso pure, se si possiede la vita interiore di unione con Dio non ad intervalli, di tempo in tempo, quasi la vita interiore sia un vestito da usare solo nelle feste e durante gli esercizi di pietà, per metterlo poi accuratamente da parte prima di intraprendere le altre occupazioni». L’unione con Dio è la vera causa creatrice del lavoro santificato.
— E c’è un terzo aspetto, intimamente connesso ai due precedenti, che spiega il segreto dello spirito salesiano: è quello della preghiera, personale e comunitaria.
Un giorno a Valdocco, impressionato per l’agitarsi di certi confratelli, don Rinaldi esclamò: «È troppo! È troppo! Non possono poi pregare con calma e trarre tutto il frutto delle pratiche di pietà».54 E al Capitolo Generale XII (1922), dopo la trattazione del tema della preghiera, disse: «Non dimentichiamo che lo spirito è superiore alle norme e alle regole e che i faccendieri battagliano molto, ma concludono poco. Con una soda pietà si fanno miracoli».55
Nel suo Processo ordinario si legge che, avendo scelto un gruppo di confratelli per precisare, insieme con loro, la caratteristica del nostro spirito, uno dei presenti testimonia che egli «la espresse con queste parole: “Operosità instancabile santificata dalla preghiera e dalla unione con Dio”».56
Fu lui a propagandare in Congregazione la lettura di San Francesco di Sales (specialmente del suo famoso Trattato dell’amor di Dio) e di libri che invogliassero alla preghiera, come L’anima di ogni apostolato dello Chautard, Vita intima con Gesù di F. Macourant che lui stesso fece tradurre dal francese (con altri dello stesso autore sull’umiltà, la povertà, l’obbedienza e la castità, perché la sua dottrina si rifaceva a San Francesco di Sales), e anche varie opere del Faber.
Egli, poi, appariva chiaramente per tutti uomo di preghiera: «Era — assicura don Pietro Ricaldone — diligente e vorrei dire rigoroso con sé e con gli altri, quando si trattava di pratiche religiose... Leggeva libri di pietà, li meditava e assimilava; e la sua conversazione dimostrava quanto fosse unito con Dio».57
Nel parlare di «preghiera» ci riferiamo, qui, a quello spazio indispensabile di tempo che viene dedicato esplicitamente al dialogo con il Signore attraverso le pratiche di pietà della vita salesiana: meditazione della Parola di Dio, recita della liturgia delle ore, lettura spirituale, celebrazione dell’Eucaristia, esercizio di conversione nel sacramento della Penitenza, ecc.. È uno spazio giornaliero, al mattino e alla sera, con dei tempi forti ogni mese (ritiro mensile e trimestrale) e ogni anno (Esercizi spirituali). A questo ci sono da aggiungere le iniziative di preghiera personale, le frequenti visite al SS. Sacramento, la familiarità con Dio nutrita da continue giaculatorie, e la pratica di due devozioni privilegiate, che don Rinaldi cercava di diffondere con convinto entusiasmo, quella al S. Cuore di Gesù e quella a Maria Ausiliatrice Madre della Chiesa: le vedeva perpetuate nei due grandi santuari costruiti da Don Bosco, la basilica del S. Cuore al Castro Pretorio di Roma e quella dell’Ausiliatrice a Valdocco.
A conclusione di questo argomento sull’interiorità apostolica salesiana, penso utile riportare alcune riflessioni dell’autore della prima biografia di don Rinaldi.
Il Ceria, che — come abbiamo detto — fu da lui invitato a scrivere «Don Bosco con Dio», ci dà tutta la garanzia di interpretarne la genuina personalità: «Don Rinaldi — scrive il biografo — ci si presenta con la caratteristica d’uomo dalla vita interiore. La praticò per sé, la predicò agli altri. Era suo convincimento che a voler vivere secondo lo spirito di Don Bosco bisognasse non perdere di vista la sua vita interiore... La vita interiore è il senso spirituale che deve accompagnarci, è la presenza di Dio entro di noi, ricordato, invocato, amato... Badate bene che la vera fisionomia di Don Bosco non ce la danno le opere... La vita religiosa è vita interiore, vita dello spirito; chi vuol salvare le anime, deve avere lo spirito di Dio... Vi sono famiglie religiose che si danno solo alla vita contemplativa; ma non è possibile che vi siano famiglie religiose, le quali non debbano darsi alla vita interiore, pur essendo consacrate alle opere di apostolato... Così voleva che si studiasse Don Bosco per imitarlo nella sua vita interiore... Ecco quasi un luogo comune delle sue esortazioni, massime sull’ultimo della vita... In un colloquio familiare del 3 marzo 1930 affermava che la vita interiore di Don Bosco non era stata ancora scritta. Vi è difficoltà, perché poco manifestò del suo interno. Bisognerà cavarla fuori dai sogni, dagli scritti, dalle lettere e dalla tradizione... Volendosi parlare di lui, se ne dovrebbe parlare come Chautard parla dell’apostolo. E insisteva: Don Bosco non è conosciuto come dovrebbe esserlo neanche da noi Salesiani. Facilmente se ne travisa la figura. Don Bosco è tutto di Dio e con Dio. Se lavorava, se si metteva in azione, era unicamente per le anime: egli non vedeva che anime».58
Dopo questa citazione, credo proprio che non risulti enfatico ed esagerato affermare che don Rinaldi si erge nella nostra Famiglia come il più genuino e autorevole interprete dell’interiorità apostolica propria dello spirito di Don Bosco. Basti sottolineare che la «grazia di unità» che assicura la sintesi vitale del nostro spirito rimane illuminata da don Rinaldi con il meraviglioso approfondimento dei tre aspetti che abbiamo considerato: quello fontale della mistica del «da mihi animas», quello incarnato dell’impegno ascetico del «lavoro» quotidiano, e quello vitalizzante, personale e comunitario, della «preghiera».
È una visione chiara e fondamentale. Assimilarne e svilupparne i contenuti rimane oggi di massima attualità per noi.
Prototipo di «bontà pastorale» con la sua paternità
La «bontà», che è la seconda caratteristica dello spirito salesiano che desideriamo commentare, si è espressa in don Rinaldi come «paternità».
Preferisco usare in questo sottotitolo il termine «bontà», invece di «paternità», perchè è più ampio e comprensivo. Ad ogni modo don Rinaldi insegnava agli stessi novizi (lo ricordano ancora alcuni) che già nel noviziato dovevano imparare ad essere «padri».
C’è da notare che don Rinaldi è stato «Superiore» praticamente lungo tutto l’arco della sua vita sacerdotale, ossia dal 1883 fino alla fine, per ben 48 anni di ministero. Così, in lui, la «bontà» propria dello spirito di Don Bosco si è venuta realizzando in un esercizio paterno dell’autorità: una paternità sincera, costante, soave e forte, come espressione della predilezione salesiana per i giovani e dello spirito di famiglia in casa.
Tutti i testi che hanno deposto nei due Processi fatti a Torino sulle sue virtù sono stati unanimi e calorosi nell’affermare che la «paternità» è stata il suo atteggiamento più eminente e distintivo, e hanno parlato come se si sentissero ancora avvolti dal suo sguardo amorevole. Ognuno ricorda un sorriso, una parola incoraggiante, una accoglienza affettuosa, un tratto di comprensione di perdono e di generosità, un gesto di governo paterno, una attenzione uguale per tutti, un consiglio illuminato, una pazienza inesauribile, un colloquio rasserenante, una capacità di semplicità evangelica davanti ad ogni avvenimento. La paternità, poi, era accompagnata da un modo di fare spontaneo e bonario che annullava tutte le distanze ed andava diretta al cuore, portando dappertutto serenità e gioia. Il cuore di don Rinaldi è il felice titolo di una biografia su di lui, scritta con «intelletto d’amore» dalla Sig.na L. Larese-Cella.59
In una delle sue ultime circolari, quasi come testamento spirituale, egli ha scritto: «La tradizione più importante e vitale per noi è la paternità. Il nostro Fondatore non è stato mai altro che padre, nel senso più nobile della parola; e la santa Chiesa l’invoca nella liturgia Padre e Maestro». E continua con più alta prospettiva: «Tutta la sua vita è un trattato completo sulla “paternità”, che viene dal Padre celeste, “ex quo omnis paternitas in coelo et in terra”60 e che Don Bosco ha praticato quaggiù in grado sommo, quasi unico, verso la gioventù e verso tutti, nelle mille contingenze della vita, a sollievo di tutte le miserie temporali e spirituali, con tale decisione e sacrificio di sé, nella grandezza del suo cuore, immensurabile come l’arena del mare, facendosi tutto a tutti per guadagnare le anime giovanili e condurle a Dio. E come la sua vita non è stata altro che paternità, così la sua opera e i suoi figli non possono sussistere senza di essa... Mi pare di ritrovarmi ancora con lui vivo e rigodere della sua stupenda familiarità di sguardo, di voce, di tratto e di opere: familiaritas stupenda nimis, anche di lassù».61
Come si vede, la bontà che don Rinaldi esaltava nello spirito salesiano e che non si stancava di raccomandare ai confratelli non era solo espressione di sentimento umano e naturale verso i giovani e in casa. Essa è «bontà pastorale» che viene dall’alto; scaturisce cioè dalla paternità divina, è frutto dell’unione con Dio che traduce il «da mihi animas» in una metodologia di amicizia e comprensione. Chi vive lo spirito salesiano diviene pastoralmente «buono» (paterno e materno) verso i giovani, verso la gente e mutuamente con i fratelli e le sorelle in casa, perché sente profondamente nel suo cuore che Dio è «padre», che Dio ci ama e si dona a noi e vuole che ognuno divenga «segno e portatore» del suo amore.
Quando don Rinaldi parlava di Dio, lo presentava abitualmente come «Padre».
Questa è stata certamente la sua testimonianza più attraente. Mons. Marcellino Olaechea, basco dal temperamento forte, ha deposto nei Processi di non avere mai incontrato un sacerdote che gli «abbia dato una più alta idea della paternità amorosa di Dio».62
Qualcuno, forse, potrebbe accontentarsi semplicemente di guardare a questa paternità solo nelle relazioni di don Rinaldi con i confratelli o con le Figlie di Maria Ausiliatrice; in tal senso potrebbe riunire un’abbondante e toccante documentazione, come in parte si può vedere anche nelle biografie finora uscite.
Ma noi qui vogliamo allargare questo aspetto così caratteristico con il fine di penetrare meglio lo «spirito salesiano» e vedere perché esso comporta costitutivamente, per tutti i membri della Famiglia, una vera e percettibile «bontà pastorale» in vista dei destinatari.
Certamente la paternità testimoniata e raccomandata da don Rinaldi deve essere considerata da tutti i Direttori e Superiori (e la corrispondente «maternità» delle Direttrici e Superiore) come la peculiare modalità di esercitare l’autorità tra noi. Egli stesso lo ha affermato più volte: «Il superiore salesiano deve sapere che deve spendersi. È a disposizione di tutti, giorno e notte. Deve essere pronto di ricevere chiunque, in ogni tempo. Al primo posto la sua comunità, i suoi figli. Per essi deve lasciar da parte il suo comodo, i suoi libri, altre opere buone, persino la preghiera... Al di sopra di tutto deve essere volonteroso di ascoltare. I confratelli hanno bisogno di questo».63
Ma l’atteggiamento della «bontà» salesiana ha spazi più ampi, riferiti in primo luogo alla gioventù. Lo si deduce dalle conferenze, prediche, scritti, orientamenti vari e persino dai bigliettini da lui indirizzati filialmente alla Madonna.
Vediamone alcune componenti che ne illuminano la natura e che ne intensificano la crescita: innanzitutto l’amore ai giovani come applicazione del Sistema Preventivo, e poi l’importanza del sacramento della Penitenza, la cura dello «spirito di famiglia» in casa, e il dominio di sé nella temperanza.
— Un primo elemento fondamentale della bontà salesiana è quello che, partendo dal «da mihi animas», comporta un amore di predilezione verso la gioventù bisognosa con tale intensità che si traduce nella prassi pastorale del Sistema Preventivo. È, quindi, una bontà paterna e materna esigita dalle urgenze di salvezza dei giovani. È un esercizio pratico di carità: «Non bisogna dimenticare — ha scritto don Rinaldi — che il salesiano non è un teorico della pedagogia ma un educatore... La nostra pedagogia sta scritta nella vita salesiana»,64 e le sue pagine sono il cortile, lo studio, il refettorio, la chiesa, il dormitorio, il passeggio.
La saggezza indispensabile dell’educatore salesiano procede quotidianamente dalla «bontà pastorale» che è amore soprannaturale, come ha lasciato scritto lo stesso Don Bosco: «La pratica di questo sistema è tutta appoggiata sopra le parole di San Paolo che dice: “La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo”. Perciò soltanto il cristiano può con successo applicare il Sistema Preventivo».65
Nelle sue conferenze pedagogiche don Rinaldi insiste sulla genialità del cuore, accompagnata anche da un adeguato livello di conoscenze pedagogiche; il cuore esige che gli educatori siano amici che si fanno amare e sappiano usare i mezzi appropriati ad un ambiente giovanile (studio, sì, e religione, ma anche musica, teatro, gioco, turismo, ecc.), così da costituire insieme una vera numerosa famiglia: «La casa-famiglia fu l’ideale di Don Bosco... nell’educazione della gioventù dobbiamo dirigere la testa, il cuore e l’anima; con l’educazione esteriore difficilmente si arriva al cuore, alla testa e all’anima. Don Bosco diceva che per governare il cuore bisogna aver di mira l’interiore. È questa la caratteristica della Congregazione. Don Bosco coi suoi figli era il padre ed offriva loro interamente il suo cuore».66
Dunque, un primo elemento della bontà salesiana è la pratica dell’amore di predilezione verso i giovani con il Sistema Preventivo.
— Un secondo aspetto, assai caro al Fondatore, e ricordato insistentemente da don Rinaldi, è un esercizio di paternità spirituale realizzato attraverso l’amministrazione del sacramento della Penitenza. Lì, soprattutto, il Direttore (e i soci preti) imparano ad esercitare ed a crescere nella vera paternità. «Secondo Don Bosco l’educatore rappresenta Dio. I ragazzi hanno bisogno di sentire l’autorità divina. Questa è la ragione delle ragioni. Se voi ponete un giovane dinnanzi a questa ragione d’ordine superiore, sotto l’occhio di Dio, allora la cosa diventa semplice... Le preghiere, la S. Messa e i Sacramenti ricevuti con frequenza, sono un gran mezzo di educazione. Ma non sono un mezzo di disciplina... Quando questa frequenza non è spontanea e convinta diventa un mezzo per guastare i giovani. Vi deve essere prima la formazione alla pietà».67
Dunque: la celebrazione del sacramento della Penitenza come elemento vitalmente presente nell’opera educativa, non quale mezzo magico e disciplinare, ma come mediazione di paternità divina!
Egli insisteva in modo particolare sull’importanza che i Direttori e i Salesiani presbiteri s’impegnassero volentieri e molto nell’amministrazione di questo sacramento, che comporta per i preti un esercizio concreto di unione con Dio a favore degli altri. Lamentava l’interpretazione troppo estensiva del decreto del 1901; esso proibiva senz’altro ai Direttori di essere i confessori dei confratelli della loro casa, ma non oltre. Per questo ricordava con insistenza che l’amministrazione e la frequenza di questo sacramento forma parte viva del clima di famiglia di Don Bosco.
Anche qui ci è caro riportare una pagina assai significativa delle circolari di don Rinaldi:
«L’esercizio esteriore della paternità viene nominativamente trasmesso al direttore della casa... e Don Bosco l’ha trasmessa ai suoi direttori quasi unita all’atto e alla realtà più sublimi della rigenerazione spirituale nell’esercizio del potere divino di rimettere i peccati. Don Bosco esercitò ininterrottamente per tutta la sua vita e con speciale predilezione questo potere divino in favore dei suoi giovani. Confessarli era la sua occupazione preferita e non la cambiava con nessun’altra. Li confessava appena alzato, durante il dì, a tutte le ore, dovunque, e alla sera continuava molte volte fino a mezzanotte.
Appena s’era conquistata la confidenza d’un giovane, lo invitava subito a confessarsi, e lo sapeva fare con tanta paternità soprannaturale che il giovane non solo non sapeva rifiutare, ma ne provava gran piacere e gli apriva candidamente tutto il cuore. L’ho sperimentato io stesso...
Don Bosco con la sua parola faceva amare la confessione... in essa era il grande conquistatore dei cuori; ne sperimentava i frutti meravigliosi e gli pareva acquisito che potessero fare altrettanto i suoi successori e i direttori delle sue case...
Don Rua, avvenuto l’ordine della S. Sede, docile e ubbidiente, promulgò subito le norme precise per l’attuazione delle nuove disposizioni nelle nostre case. In tal guisa i Superiori e i Direttori cessarono dall’esercizio di questa loro paternità spirituale sopra i sudditi. Ma con il pretesto di evitare qualunque inconveniente, in un primo tempo si passò oltre il dispositivo del decreto: i Direttori si ritirarono addirittura dal confessare i giovani, cosa che non è affatto proibita a nessun sacerdote approvato, qualunque sia la carica che occupi nell’Istituto...
Miei carissimi Ispettori e Direttori, vi scongiuro nelle viscere della carità di N. S. Gesù Cristo di far rivivere in voi e intorno a voi questa tradizione della paternità spirituale, che purtroppo va spegnendosi, con grande danno delle anime giovanili e della nostra fisionomia salesiana. Rimettetevi di nuovo all’opera che, secondo la mente e il cuore di Don Bosco, dev’essere la prima e la più importante per il Direttore padre. Siate veramente padri dell’anima dei vostri giovani. Non abdicate alla vostra paternità spirituale, ma esercitatela!».68
In questa pagina si sente vibrare chiaramente la convinzione di don Rinaldi!
C’è oggi da riflettere non poco su questo aspetto che fu, tra noi, la fonte della paternità e il mezzo che assicurava quella bontà pastorale che dovrebbe distinguerci nella Chiesa. Quanta responsabilità hanno i Salesiani preti nella crescita o nella decrescita dello stile di bontà in tutta la nostra Famiglia; e quanta, tutti gli altri, nel creare un clima favorevole alla frequenza del sacramento della Riconciliazione. Urge ridonare importanza a questo sacramento da tutti coloro che vogliono vivere la bontà salesiana applicando integramente il Sistema Preventivo.
— Un terzo aspetto che assicura, difende e incrementa la bontà pastorale è lo spirito di famiglia vissuto in casa tra i confratelli e le consorelle. È frutto del comune «da mihi animas», è naturale esigenza del nostro metodo educativo, ed è compito privilegiato e costante dell’esercizio delle responsabilità proprie di chi dirige la casa.
Lo stile salesiano comporta costitutivamente la formazione di un ambiente di famiglia con «un cuor solo e un’anima sola». Pensando poi che la comunità salesiana locale è soggetto della missione, come potrà essa irradiare bontà pastorale se non vive in gioiosa comunione fraterna?
Don Rinaldi come Superiore si distinse sempre per la preoccupazione di creare famiglia in casa. Di lui giovane direttore a Sarrià (a 33 anni e nonostante la prestanza del suo sembiante) i confratelli dicevano che dimostrava più affetto di padre che autorità di superiore. Nominato ispettore in Spagna, formulò vari propositi che possono essere riassunti in questa incisiva espressione: «sarò padre!».69
Da Rettor Maggiore scriveva ai confratelli: «Don Bosco, più che una società, intendeva formare una famiglia fondata quasi unicamente sulla paternità soave, amabile, vigilante del superiore, e sull’affetto filiale, fraterno dei sudditi; anzi, pur mantenendo il principio dell’autorità e della corrispettiva sudditanza, non desiderava distinzioni, ma uguaglianza fra tutti e in tutto».70
Lo spirito di famiglia fa fiorire la comunione fraterna per il raggiungimento degli obiettivi pastorali, senza comodismo da borghesi e senza scollature individualiste: «Il bene che devono compiere i figli di Don Bosco non manca mai. Nella quasi totalità, ciascuno, oltre l’occupazione principale assegnatagli dall’obbedienza, ne ha sempre altre secondarie che da sole basterebbero ad occupare un altro confratello.
Questo pluslavoro è pressoché una caratteristica della vita salesiana, e lo si accetta con generosità... Ma non si può essere membri della nostra Società senza avere principalmente a cuore il bene della Società stessa: se i suoi membri fossero puramente individualisti, la sarebbe finita per la Società, e i membri di essa non sarebbero più altro che una massa priva della propria ragion d’esistenza».71
Dunque: una bontà condivisa in clima di famiglia unita, tutta rivolta ai destinatari e instancabilmente laboriosa nella missione comune.
— Infine, un altro aspetto che contribuisce ad assicurare la bontà pastorale in ognuno di noi è la costante ascesi del dominio di sé, ossia la cura della virtù cardinale della temperanza, nel senso spiegato da don Rinaldi nei suoi commenti al sogno dei dieci diamanti. Parlando del diamante della «temperanza» (in senso più ampio di quello di «mortificazione», indicata nel diamante del «digiuno»), diceva: «Il salesiano deve sapere frenarsi, non va con gli occhi chiusi, li apre ma non va più in là: se questo non sta bene, si ferma. Dominatore di sé anche nel gioco; misurato con il ragazzo che lo fa disperare; capace di tacere, di dissimulare, di parlare a tempo debito, di essere furbo!».72
In questa visione della temperanza, come partecipazione personale e quotidiana alla regalità battesimale su se stessi, occupa un posto privilegiato, oltre la pazienza, la fondamentale virtù della «umiltà» perché aiuta a coltivare la «mitezza» sia nel suo aspetto di mansuetudine come in quello di moderazione; essa assicura nel Salesiano quell’atteggiamento pedagogico-pastorale del farsi amare tanto raccomandato da Don Bosco e sicuramente non facile.
Riguardo all’umiltà amabile e attraente di don Rinaldi, il suo immediato successore don Pietro Ricaldone potè affermare ai Processi: «Lo abbiamo visto sempre umile nel portamento, nel parlare e nell’agire. Come già dissi, aveva un concetto bassissimo di sé, e non ricordo di averlo udito parlare di sé. Si reputò indegno ogni volta che fu promosso a qualche carica. Negli ultimi anni, quando vide che gli si affievolivano le forze, ebbe il pensiero di rinunziare alla carica e presentare le dimissioni alla S. Sede. La sua umiltà era sempre rivestita di bontà e di dolcezza. Fu sempre accogliente, e dal suo modo di agire si capiva che si considerava il servo di tutti. Aggiungo che la sua umiltà era intesa rettamente, e non gli impediva di occupare il suo posto, sia come Direttore che come Ispettore, Prefetto generale e Rettor Maggiore, col dovuto decoro. E mentre praticava egli stesso l’umiltà, e tutte le altre virtù di cui ho parlato, non tralasciava di inculcarle con amorevole e forte insistenza ai confratelli».73
Ad una novizia delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che gli chiedeva consigli per la sua formazione, don Rinaldi rispondeva: «Sii attenta alla formazione dello spirito; soprattutto all’amor proprio. Umilialo dentro di te. Devi imitare l’umiltà del Cuore di Gesù. Tutto il resto è vanità e sciocchezza. Non perdere un giorno del tuo noviziato senza progredire nello spirito di Dio, cioè: nella pietà, nella carità, nell’umiltà di cuore, nel sacrifizio, nel rinnegamento di te stessa. Fa’ scomparire Maria (— così si chiamava la novizia —), perché ci resti solo N. Signore, che ti vuole santa di mente e di cuore, di anima e di corpo».74
Dunque: don Rinaldi ci illumina, attraverso la sua incomparabile paternità sacerdotale, a saper individuare nella bontà salesiana quattro aspetti veramente indispensabili: quello dell’amore di predilezione per la gioventù nella pratica costante del Sistema Preventivo, quello del posto privilegiato da dare nell’educazione alla celebrazione viva e amata del sacramento della Penitenza, quello di un fraterno spirito di famiglia nelle comunità, e quello del costante dominio di sé per «farsi amare».
Se uniamo questi aspetti ai tre anteriori che abbiamo sottolineato trattando dell’interiorità apostolica, abbiamo un interessante quadro descrittivo delle note che caratterizzano, secondo don Rinaldi, lo spirito salesiano di Don Bosco.
Intercessore e guida per tutta la Famiglia
L’evento della beatificazione assicura tutti che don Rinaldi ci accompagna ancora dal cielo. La comunione con la Chiesa celeste rafforza così il nostro cuore nella speranza: anche il nuovo Beato è intercessore e guida!
Nella circolare scritta dopo la beatificazione di Don Bosco con il trionfale trasporto della sua salma da Valsalice a Valdocco, egli espresse la sua emozione e la sua gioia con sentite parole: gli sembrava si iniziasse una nuova epoca per la vita salesiana, caratterizzata, da una parte, dalla novità dei tempi, ma, d’altra parte, vincolata ormai — per certezza ecclesiale — con la santità del Fondatore.
Considerava questo evento come un collaudo di futuro per la nostra Famiglia: «compresi — scrive — Chi diventava Don Bosco per noi. Senza punto cessare di essere quello che per noi è stato sempre... in quell’istante era divenuto il modello sicuro della nostra vita:
— la lucerna posta sul candelabro per illuminare il mondo;
— il ministro fedele preposto dal suo e nostro Signore Gesù Cristo alla distribuzione dei suoi beni agli indigenti;
— il nostro particolare intercessore presso la Vergine Ausiliatrice...
Compresi quale doveva essere il nostro spirito, quale la vita del nostro corpo individuale e sociale... Nella basilica il suo nome era divenuto realmente indivisibile da quello della sua potente Ausiliatrice... e mi parve che una voce, dolce e paterna, già udita in altri tempi, scendesse dalla gloria a dirmi: Exemplum dedi vobis. Imitatores mei estote! Fate com’io ho fatto e allora la mia cara Congregazione sarà sempre fiorente quale m’era apparsa, quand’ero ancora in carne mortale, nella visione avuta a S. Benigno (— si tratta del sogno dei diamanti —): “la carità capisce tutto, sopporta tutto, vince tutto”: predichiamola con le parole e con i fatti... Diverrete spettacolo al mondo e agli angeli ed allora sarà gloria vostra la gloria di Dio...
Se la nuova epoca della nostra vita salesiana, testé iniziata, avrà sempre per norma gli esempi di Don Bosco; se la nostra missione educatrice si svolgerà ininterrottamente sotto la sua protezione, allora accresceremo e moltiplicheremo all’infinito... l’immenso tesoro dell’educazione cristiana come il nostro Fondatore la intendeva».75
Qualche cosa di simile (anche se di riflesso e in tono di eredità custodita e fatta fruttificare) possiamo ripetere noi oggi in riferimento alla prossima beatificazione di don Rinaldi. Noi pensiamo di trovarci oggi agli inizi di una nuova epoca della nostra vita salesiana, ripensata laboriosamente e comunitariamente durante un ventennio in fedeltà alle origini, nell’orbita del Concilio Vaticano II come risposta alle interpellanze dei tempi nuovi. Ebbene, la figura di don Rinaldi «Beato» ci avvicina straordinariamente e con attraente attualità al Fondatore; illumina e sviluppa i contenuti del suo carisma con sentimenti filiali, ancorati alla più indiscussa conoscenza del suo spirito e del suo cuore; la sua intraprendente e saggia capacità di svilupparne i germi ancora nascosti ci ammonisce che ogni dinamismo innovativo deve provenire dalla piena sintonia con il più genuino suo spirito.
La santità del nuovo Beato è collaudo di fedeltà dinamica. Ci fa capire che lo Spirito Santo ha unito in lui il passato al futuro nella crescita omogenea dello stesso carisma senza sbalzi arbitrari e devianti, senza arretramenti statici, al di sopra di tanti fugaci miraggi ideologici.
È suggestivo pensare che don Rinaldi si è fatto santo dedicandosi totalmente — e si può dire esclusivamente — a far vivere e a far crescere lo spirito di Don Bosco. È questo, penso, il più bel significato della sua vita di «superiore salesiano», ossia di testimone, di animatore e di propulsore del patrimonio ricevuto in eredità.
L’evento della sua beatificazione, poi, ci assicura che egli continua, come intercessore, la stessa funzione che esercitò durante tutta la sua vita, anche se in modo diverso; ora lo fa insieme a Don Bosco santo, a don Rua beato, a santa Maria Domenica Mazzarello e a tanti altri fratelli e sorelle glorificati.
Questo suo ruolo, però, noi lo dobbiamo interpretare riflettendo su quanto egli ci ha lasciato di ammaestramento in vita. In questo senso lo guardiamo come a guida sicura, che ci insegna ad affrontare con autenticità salesiana le esigenze proprie del progredire dei tempi.
Nel considerare la figura e il ruolo storico di don Rinaldi, avremmo potuto soffermarci su tanti altri aspetti che non abbiamo trattato; alcuni, pur importanti e anzi essenziali, ma in certo modo scontati, sono ad esempio: la centralità di vita nel Cristo, il senso della croce e l’oblatività (che potrebbe venir approfondita specialmente da alcuni Gruppi della nostra Famiglia), la devozione mariana, la sincera e forte adesione al Successore di Pietro, la dottrina sulla vita consacrata, il concetto di povertà e di amministrazione dei beni temporali, la visione dinamica e sociale dell’Oratorio, lo straordinario ardore organizzativo per le Missioni, ecc.
Noi, però, abbiamo preferito far emergere, in questa lettera, la sua intraprendenza rimasta sempre un po’ nascosta, per poi centrare l’attenzione su ciò che costituisce il messaggio più originale che ci ha lasciato.
Abbiamo creduto di trovare, in questo, la sua attualità. Abbiamo centrato lì la nostra attenzione, senza pretese di esaurirne i contenuti, ma con la gioia di poter constatare che il suo ruolo si apre sugli orizzonti di tutta la Famiglia Salesiana, facendoci ammirare in lui l’autorevole precursore che illumina e assicura una delle attuali grandi vie 76 del nostro rinnovamento postconciliare.
E lasciatemi aggiungere che, se mettendo i passi sui passi di don Rinaldi — che sono poi quelli di Don Bosco — ho fortemente insistito sulla «interiorità apostolica» come elemento vitale da animare, nutrire, portare al più alto grado possibile di maturazione personale e comunitaria, l’ho fatto perché la tentazione di mettere il piede sull’acceleratore dell’azione prescindendo dal «da mihi animas», ossia da una ininterrotta interiorità di unione con Dio Salvatore, è reale tra noi e reca gravi danni all’atteggiamento orante della carità pastorale. La grazia di unità di questo «respiro per le anime» spinge sempre simultaneamente all’orazione e al lavoro, che sono i due polmoni con cui respira il salesiano, in perfetta adesione alla volontà di Dio.
La testimonianza di don Rinaldi è un inno a questa «grazia di unità», nella quale l’intensità dei tempi dati all’orazione manda prepotentemente all’azione pastorale, e il lavoro apostolico instancabile rinvia costitutivamente all’orazione.
Infatti si legge nel documento vaticano sulla Dimensione contemplativa di ogni vita religiosa che la vera azione apostolica (quindi, non qualunque azione) è legata intrinsecamente all’atteggiamento orante: «La natura stessa dell’azione apostolica e caritativa — cito — racchiude una propria ricchezza che alimenta la unione con Dio: bisogna curarne quotidianamente la consapevolezza e l’approfondimento. Prendendone coscienza, i religiosi e le religiose santificheranno talmente le attività, da trasformarle in fonte di comunione con Dio, al cui servizio sono dedicati per nuovo e speciale titolo (LG 44)».77
Cari confratelli, i miei insistenti richiami a vincere la piaga della superficialità sarebbero parole vuote se ogni salesiano, alla scuola di don Rinaldi, non desse al «respiro per le anime» quella intensità e quegli spazi indispensabili per garantire l’autentica «grazia di unità» della carità pastorale.
Assertore del vitale messaggio di «Don Bosco-modello»
Prima di concludere, desidero invitare tutti a prepararsi, in sintonia di cuore, con sincera riconoscenza e con riflessione di fede, a questa assai significativa beatificazione. È uno speciale dono di Dio per la crescita sana e vigorosa del nostro carisma alle soglie del Terzomillennio.
Don Rinaldi beatificato interceda e guidi il nostro cammino in avanti per l’educazione alla fede di innumerevoli giovani nel mondo.
Anch’io, che ho udito — appena adolescente — la sua voce, potrei suggerire a voi qualcosa di simile a quanto scrisse lui per la beatificazione di Don Bosco. Mi immagino di vedere don Rinaldi Beato con in mano il nuovo testo delle Costituzioni; lo ammira come la «bella copia» preannunciata da Don Bosco. Aprendolo, ci indica una paginetta che dev’essergli oltremodo cara, perché descrive sinteticamente lo sforzo che ha caratterizzato tutta la sua vita; si tratta dell’articolo che propone Don Bosco quale nostro modello. Ascoltiamolo come se ce lo stesse leggendo lui:
«Il Signore ci ha donato Don Bosco come padre e maestro.
Lo studiamo e lo imitiamo, ammirando in lui uno splendido accordo di natura e di grazia. Profondamente uomo, ricco delle virtù della sua gente, egli era aperto alle realtà terrestri; profondamente uomo di Dio, ricolmo dei doni dello Spirito Santo, viveva “come se vedesse l’invisibile”.
Questi due aspetti si sono fusi in un progetto di vita fortemente unitario: il servizio dei giovani. Lo realizzò con fermezza e costanza, fra ostacoli e fatiche, con la sensibilità di un cuore generoso. “Non diede passo, non pronunciò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della gioventù. Realmente non ebbe a cuore altro che le anime”».78
Penso sia soprattutto questo che ci raccomanderà don Rinaldi nel giorno della sua beatificazione.
Chiediamogli già fin d’ora che, insieme a Don Bosco e a Madre Mazzarello, interceda per lo svolgimento dei prossimi Capitoli Generali, affinché il clima respirato dai capitolari sia quello di una forte interiorità apostolica come alle origini, così che gli orientamenti e le direttive finali risultino un prezioso stimolo per rilanciare, in Famiglia, la vera mistica salesiana del «da mihi animas» in un progetto di vita fortemente unitario.
Meditiamo e preghiamo: che ognuno faccia tesoro della magnifica testimonianza di don Rinaldi e che i contenuti di questa lettera circolare siano argomento di riflessione nei ritiri spirituali!
Porgo il mio cordiale saluto a tutti con i migliori auguri per il Natale e per l’Anno nuovo.
Vostro aff.mo nel Signore,
D. Egidio Viganò
NOTE LETTERA 43
1 Summarium della Positio super virtutibus, 1985 (in seguito si citerà: Summarium), pag. 266, n. 927
2 E. CERIA, Vita del Servo di Dio Sac. Filippo Rinaldi, SEI, Torino, pag. 38
3 CERIA, o.c., pag. 24
4 Summarium, pag. 548, doc. XIV
5 cf. CERIA, o.c., pag. 23
6 ib., pag. 46
7 ASC, 9. 132 Rinaldi
8 ACS, 26 aprile 1931, n. 56, pag. 933
9 cf. 1 Gv 1, 1
10 ACS, 24 febbraio 1925, n. 28, pag. 344-345
11 cf. ACS 300
12 cf. ACS, 24 gennaio 1924, n. 23; e 24 ottobre 1924, n. 26
13 cf. ACS, 24 aprile 1925, n. 29
14 E. CERIA, o.c., Premessa, pag. 5
15 ACS, 24 gennaio 1924, n. 23, pag. 177-187
16 ACS, 6 gennaio 1923, pag. 41ss
17 ACS, 24 luglio 1927, n. 40, pag. 573
18 ACS, 6 gennaio 1923, n. 17, pag. 45
19 D.T. DONADONI, La bontà si è fatta uomo, LDC, Torino, 1963, pag. 46
20 Summairum, pag. 365, n. 1238
21 R. FIERRO, El Siervo de Dios Don Felipe Rinaldi, 2ª ed., SEI, Madrid, 1960, pag. 76
22 L. CASTANO, Don Rinaldi, LDC, Torino 1980, pag. 78-79
23 R. FIERRO, o.c., pag. 5
24 E. CERIA, o.c., pag. 137
25 cf. ACG n. 321
26 E. CERIA, o.c., pag. 223ss
27 cf. L. CASTANO, o.c., pag. 118ss; cf. E. CERIA, o.c., pag. 216ss
28 L. CASTANO, o.c., pag. 118
29 ib., pag. 127
30 cf. E. CERIA, o.c., pag. 331ss
31 Progetto di periodico femminile (Archivio, 2971 I Ms. di D. Rinaldi, 1909).
Indole del Periodico. Unire le forze interne ed esterne delle FMA per la formazione della donna specialmente del popolo.
Sia una palestra alle maestre per esercitarsi a trattare argomenti sociali, per educare chi legge e formare chi scrive.
Deve segnare l’indirizzo che oggi deve seguire una donna influente (moralmente, intellettualmente e materialmente) per esercitare un apostolato d’educazione cristiana sociale in mezzo alle figlie del popolo.
Come attuare tale concetto col programma del Periodico:
1. articolo di fondo, 2. medaglioni moderni di donne d’azione, 3. economia domestica, 4. lavori femminili, 5. cronaca del movimento femminile sociale internazionale, 6. varietà, 7. legislazione del lavoro delle donne, 8. rivista delle riviste congeneri, 9. igiene del lavoro, 10. opportunamente esporre quei punti di dottrina cristiana che dissipano gli errori più in vista
32 Summarium, pag. 218-219, n. 756ss
33 Summarium, pag. 113, n. 338
34 Lettera a M. Caterina Daghero, 28 dicembre 1915, ASC 9. 31 Rinaldi
35 cf. E. CERIA, o.c., pag. 341ss
36 P. RINALDI, Sospinto dall’amore, LDC, Torino 1979, pag. 90-91
37 cf. E. CERIA, o.c., pag. 43
38 cf. E. VALENTINI, Don Rinaldi maestro di pedagogia e di spiritualità salesiana, Torino-Crocetta, ristampa 1965
39 ib., pag. 4-5
40 ACS, 24 ottobre 1929, n. 50. pag. 800
41 La vita religiosa negl’insegnamenti di San Francesco di Sales, cf. ACS, 24 aprile 1926, n. 34, pag. 445
42 E. CERIA, o.c., pag. 422
43 ib., pag. 439
44 P. RINALDI, o.c., pag. 91
45 ACS, 6 aprile 1929, n. 48, pag. 733-734
46 ib., pag. 735
47 ib., pag. 734-735
48 ACS, 6 gennaio 1929, n. 47, pag. 714
49 ACS, 24 ottobre 1929, n. 50, pag. 798
50 Discorso di trigesima; in Copia pubblica del Processo ordinario di Torino, vol. IV, fol. 1173ss
51 ACS, 24 febbraio 1927, n. 38: Discorso del S. Padre, pag. 555
52 ACS, 24 giugno 1922, n. 15, pag. 16-19. L’indulgenza del lavoro è stata estesa dal Papa Paolo VI (Costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina del 1º gennaio 1967) a tutti i fedeli che lo realizzano con spirito di unione con Dio. Di questa estensione noi dovremmo saper fare adeguato conto nell’attuale rilancio del Laicato.
Si legge nell’Enchiridion Indulgentiarum: «Si concede indulgenza parziale al fedele che, nel realizzare i suoi doveri e nel sopportare le difficoltà della vita, eleva con umile fiducia il suo animo a Dio — anche solo mentalmente — con qualche pia invocazione» (cf. Enchiridion Indulgentiarum, 3ª ediz., Libreria Editrice Vaticana 1986, pag. 33).
53 cf. ACS, 6 gennaio 1923, n. 17, pag. 36
54 Summarium, pag. 462, n. 1597
55 Summarium, pag. 441, n. 1524
56 Summarium, pag. 242, n. 842
57 Summarium, pag. 286, n. 1001
58 E. CERIA, o.c., pag. 437-442
59 L. LARESE CELLA, Il cuore di Don Rinaldi, LICE-R. Berruti & C., Torino 1952
60 Ef 3, 15
61 ACS, 26 aprile 1931, n. 56, p. 939-940, pag. 933
62 Summarium, pag. 363, n. 1230
63 P. RINALDI, o.c., pag. 95
64 ACS, 24 settembre 1926, n. 36, pag. 497-498
65 Regolamento per le case della Società di S. Francesco di Sales, Tipografia Salesiana, Torino 1877, pag. 3-13
66 E. VALENTINI, o.c., passim
67 ib., pag. 39
68 ACS, 26 aprile 1931, n. 56, pag. 940-942
69 cf. E. CERIA, o.c., pag. 93ss
70 ACS, 26 gennaio 1924, n. 23, pag. 179
71 ACS, 6 gennaio 1929, n. 47, pag. 710
72 ACS, aprile-giugno 1981, n. 300, pag. 17-18; cf. pag. 11-12
73 Summarium, pag. 293-294, n. 1032-1033
74 Lettera a suor Maria Lanzio, 24 marzo 1924, ASC, 9. 31 Rinaldi
75 ACS, 9 luglio 1929, n. 49, pag. 767-771
76 cf. CGS, pag. XVIII-XX
77 SCRIS, Vita religiosa: la sua dimensione contemplativa, 12 agosto 1980, n. 6
78 Cost 21