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E MARIA LO DEPOSE IN UNA MANGIATOIA
Introduzione. - Nel cuore della significatività salesiana. - Luci dalla Parola di Dio. - Le umili frontiere del Regno di Cristo. - La radicalità del dono di sé nella professione. - La povertà di Don Bosco. - Tre interventi dei Rettori Maggiori. - Il progetto evangelico della nostra Regola di vita. - Suggerimenti per uno «scrutinium paupertatis». - Conclusione: la beatitudine dei poveri in Maria.
Lettera pubblicata in ACG n. 345
Roma, 24 maggio 1993
Solennità di Maria Ausiliatrice
Cari confratelli,
forse vi meraviglierà il titolo dato a questa lettera. Non è certamente un invito a farvi pensare al Natale nel mese di luglio; è piuttosto l’intento di riprendere insieme il tema della «povertà»: esso può aiutarci a rivedere con più coraggio il nostro rinnovamento. Pensandoci bene, è questo un argomento intimamente vincolato con il nostro impegno capitolare di educare i giovani alla fede. I confratelli che mi hanno richiesto di trattare questo tema forse pensavano a un’esortazione per far reagire le nostre coscienze contro determinati abusi, senza sospettare la densità e la ricchezza spirituale dell’argomento.
Viviamo attorniati da un mondo che ama e ricerca il benessere, con modalità di vita sempre più attraenti e incalzanti, e c’è il pericolo non immaginario che ciò entri in casa, alimentando a poco a poco una mentalità di imborghesimento. Senza negare la possibilità di un simile deleterio influsso, il motivo che mi spinge a parlarvi della povertà è centrato sulla meditazione in profondità del mistero di Cristo, del suo Vangelo e del suo Regno, e della peculiare scelta evangelica di Don Bosco. Prima di fissare lo sguardo su direttive ascetiche, cerchiamo le luci di una riflessione che svegli in noi sincerità e ardore.
Pensiamo alla povertà come a un «tema generatore» della nostra indole propria. Infatti, «chiamati ad una vita intensamente evangelica, scegliamo di seguire “il Salvatore che nacque nella povertà, visse nella privazione di tutte le cose, e morì nudo in croce”». Questa citazione dell’articolo 72 delle Costituzioni è di Don Bosco nella sua Introduzione alle Regole.1
Penso sia stimolante una riflessione di questo tipo per rinnovarci nella nostra testimonianza di vita e di azione e capire con genuinità quel criterio oratoriano 2 che è per noi parametro vero di discernimento e di rinnovamento in ogni attività e presenza.
Questo ci aiuterà anche a prepararci specificamente alle grandi giornate sulla vita consacrata del Sinodo-94. D’altra parte il Magistero della Chiesa ha insistito spesso, dopo il Concilio, nel proporre il tema della povertà.3
Nel cuore della significatività salesiana
Dai tempi del Concilio Vaticano II si sono cercate tra noi delle impostazioni globali per orientare il processo di rinnovamento. Ne possiamo elencare alcune: come il «ridimensionamento»,4 l’«inserzione tra i socialmente poveri», la «formazione permanente» delle persone, la «progettazione» nelle comunità, ecc. Siamo approdati finalmente al criterio coinvolgente della significatività che include vari aspetti 5 — tra cui anche quelli anteriormente citati — in forma organica e più comprensiva. Ebbene: la povertà di cui intendiamo parlare qui è situata proprio nel cuore di questa significatività organica della nostra vita e delle nostre presenze.
Evidentemente bisogna che ci intendiamo su ciò che significa per noi il termine «povertà»; esso è piuttosto molteplice e fluttuante. Nel suo uso corrente esprime una visione sociologica; infatti con esso si suole indicare un aspetto di carenza soprattutto economica; e in tale senso appare pure marcato dalla relatività: si differenzia da una regione a un’altra o da un secolo a un altro. Oggi, poi, si parla anche di «nuove povertà» per indicare delle carenze che non si riferiscono solo all’aspetto economico, per es. i rifugiati, gli immigrati, gli emarginati, i tossicodipendenti, ecc. Si può dire che la povertà è legata alla vita dell’uomo in differenti modi; ha aspetti materiali, ma anche psicologici, morali, sociali e culturali. Ad ogni modo c’è in primo luogo il divario economico tra ricchi e poveri che è cresciuto assai e rivela l’inadeguatezza di certe strutture economiche e commerciali, aliene alla morale. La mentalità consumistica promuove l’egoismo individuale e collettivo. Si sente l’urgenza d’impegnarsi per la nascita di un nuovo ordine mondiale.
Tutto questo ha senz’altro un suo rilievo concreto più in là di una testimonianza ascetica per la sua incisività sociale; è come un «segno dei tempi» che esige il rilancio della profezia della povertà evangelica; la Chiesa si sente impegnata oggi fortemente in questo compito e lo fa in modo costante anche con la sua Dottrina sociale.
Ma come riflettere sulla povertà evangelica? Se il significato che ci interessa si riducesse solo alle carenze temporali, non sarebbe giustificabile l’intento di presentare la povertà come elemento situato nel cuore della nostra significatività.
Già durante la terza sessione del Vaticano II, nella discussione circa lo schema su «La Chiesa nel mondo oggi» (che diventò poi la costituzione Gaudium et spes), il nostro Card. Raúl Silva H. — che allora era anche il presidente della Caritas internazionale — aveva insistito sulla profonda differenza tra la «povertà evangelica» (frutto della grazia) e la «povertà socioeconomica» (conseguenza del peccato): la prima, un grande valore da sviluppare; la seconda, un disordine da combattere attraverso un processo di impegno sociale animato appunto dai dinamismi cristiani della povertà evangelica.
Anche nell’Assemblea generale di Puebla i Vescovi latinoamericani, preoccupati di offrire un criterio pastorale per la liberazione da troppo pesanti discriminazioni sociali, hanno insistito sul significato specifico della «povertà cristiana»6 come anima di una liberazione integrale in Cristo: «Nel mondo di oggi — hanno scritto — questa povertà è una sfida al materialismo e apre le porte a soluzioni alternative alla società di consumo»;7 tutti i cristiani dovrebbero sapere che «la povertà evangelica unisce l’atteggiamento di apertura fiduciosa a Dio con una vita semplice, sobria e austera che allontani la tentazione della cupidigia e dell’orgoglio», ossia dell’idolatria della ricchezza.8
La povertà nel suo significato evangelico ha non solo una valenza di profondità spirituale per la persona del discepolo di Cristo, ma anche una proiezione sociale per evangelizzare l’attuale complesso e difficile campo economico e politico; implica nientemeno che una propria visione del mondo per illuminare con il Vangelo i progetti sociali di cambiamento.
Ecco perché diciamo che essa si colloca nel cuore stesso della significatività salesiana che è il criterio globale del nostro rinnovamento. Il Papa Paolo VI ha scritto che «la testimonianza evangelica della vita religiosa manifesta chiaramente, agli occhi degli uomini, il primato dell’amore di Dio con una forza tale, di cui bisogna render grazie allo Spirito Santo».9
È una constatazione di quanto aveva già espresso il Concilio circa la significatività della vita religiosa all’interno della natura sacramentale della Chiesa: «La professione dei consigli evangelici appare come un segno che può e deve attirare efficacemente tutti i membri della Chiesa a compiere con slancio i doveri della vocazione cristiana. Poiché infatti il Popolo di Dio non ha qui città permanente, ma va in cerca della futura, lo stato religioso, che rende i suoi seguaci più liberi dalle cure terrene, meglio anche manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo mondo, meglio testimonia l’esistenza di una vita nuova ed eterna, acquistata dalla redenzione di Cristo, e meglio preannunzia la futura risurrezione e la gloria del Regno celeste».10
Luci dalla Parola di Dio
Non dobbiamo, perciò, lasciarci trarre in inganno dalla plurivalenza del termine povertà. C’è stata, al riguardo, una certa retorica che è necessario evitare per non cadere in mode populiste, più sociologiche che evangeliche. Sappiamo che i beni della terra appartengono all’ordine dei mezzi e non dei fini; sono una espressione dell’amore del Creatore verso l’uomo: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli, così che i beni creati debbono secondo un equo criterio essere partecipati a tutti, avendo come guida la giustizia e compagna la carità».11 Ogni bene, anche se di proprietà privata, porta in sé una dimensione sociale che i criteri evangelici devono saper fare emergere. Oggi la prospettiva cristiana della povertà acquista il suo significato concreto soprattutto se confrontata al dato sociale e ai comportamenti effettivi verso i poveri, oppressi soprattutto economicamente; questo esige una revisione anche del ruolo che esercitano le strutture.
Purtroppo l’egoismo umano ha introdotto nella vita della gente e dei popoli una drammatica sperequazione, manifestata in tante ingiustizie e miserie. Così diviene indispensabile rileggere e approfondire quanto afferma la Parola di Dio.
Nella S. Scrittura il tema è assai vasto, ricco e complesso; non è possibile né opportuno farne qui una sintesi adeguata. Ci basti ricordare il quadro di fondo: Dio sta dalla parte dei poveri e dei bisognosi di aiuto. L’uomo in condizione di bisogno è la misura dell’autentiticà dell’amore cristiano; i poveri costituiscono una condizione privilegiata per guidare le scelte dei credenti: «ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli — dice il Signore — l’avete fatto a me».12 Considerando questo quadro possiamo mettere in rilievo due aspetti assai chiari che illuminano la nostra meditazione circa il possesso e l’uso dei beni della terra: una «diffida» e una «beatitudine».
— La DIFFIDA: la Parola di Dio lamenta lo snaturamento della solidarietà umana a causa della cupidigia per le ricchezze. Spigoliamo alcune brevi ma incisive indicazioni.
Il salmo 48 afferma: «l’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono»! Chi concentra il suo cuore sulle ricchezze non comprende più il senso dell’affidamento dell’uomo, totale ed esclusivo, a Dio; così si irretisce sempre più nel servizio agli idoli.
Nel Vangelo vengono sferzati i ricchi: «difficilmente un ricco entrerà nel Regno dei cieli»;13 «guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione»;14 «ha colmato i poveri di beni, ha rimandato i ricchi a mani vuote».15
Vengono espressi dei giudizi severi che invitano a riflettere: il piccolo obolo della vedova in paragone con le offerte dei più abbienti;16 l’invito vocazionale a seguire Gesù rivolto a quel giovane che non lo accettò perché era molto ricco;17 l’episodio del prezioso vasetto di nardo purissimo a Betania versato sui piedi di Gesù, e l’esclamazione di Giuda: «si poteva vendere questo unguento per trecento monete d’argento, e poi distribuirle ai poveri!»18 — un autore ha osservato giustamente: «Che sarebbe la Chiesa, se la borsa dell’Iscariote fosse piena per i poveri e la casa di Betania vuota di profumo?».
Gli Apostoli hanno capito assai bene il messaggio di Gesù: di S. Giovanni ci basti ricordare quel «se uno ha di che vivere e vede un fratello bisognoso, ma non ha compassione e non lo aiuta, come fa a dire “io amo Dio”?»;19 di S. Giacomo l’affermazione sulla caducità: «Il fiore cade e la sua bellezza svanisce; così anche il ricco cadrà con le sue imprese»;20 e di S. Paolo il famoso inno della carità: «Se dò ai poveri tutti i miei averi, se offro il mio corpo alle fiamme, ma non ho amore, non mi serve a nulla».21
Negli Atti degli Apostoli c’è il drammatico episodio di Anania e Zaffira, che può far riflettere i Religiosi nella loro libera opzione di voler mettere in comune tutti i loro beni.22
Sappiamo che i beni della terra sono considerati nella Scrittura come un meraviglioso dono di Dio; sarebbe sbagliato disprezzarli; non si può prescindere da essi come mezzi per vivere e per fare del bene agli altri: è una benedizione saperli usare bene; ciò a cui va la «diffida» è l’egoismo che ammassa ricchezze rendendo ottuso il cuore e oscurando l’intelligenza: le ricchezze sogliono provocare l’eclisse di Dio.
Gesù condanna nei ricchi il meschino atteggiamento di egoismo e la mancanza di solidarietà; Egli non fa, però, una discriminazione classista; basti pensare alle sue relazioni con i pubblicani, con Zaccheo, con Giuseppe d’Arimatea, con Nicodemo, ecc. Egli insegna a saper stabilire dove ogni persona colloca il proprio tesoro, perché là sarà anche il suo cuore.23
Così il ricco e il povero secondo il Vangelo sono giudicati in definitiva dagli atteggiamenti del loro cuore. Un brillante autore ha scritto: «Ricchi o poveri, guardatevi piuttosto nella povertà, come in uno specchio; perché essa è l’immagine della vostra fondamentale delusione: essa conserva quaggiù il posto del Paradiso perduto».24
— La BEATITUDINE: la Parola di Dio si congratula con coloro che, non avendo o non bramando ricchezze, coltivano nel cuore valori più alti di religiosità, di solidarietà, di impegni di vita, di dono di sé per gli altri.
Gesù inizia il suo discorso della montagna dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli».25 Egli rapporta la condizione dei poveri alla venuta in essi del Regno, quindi di qualche cosa di grandioso che sarà tutto per loro. La considerazione del Regno di Cristo e di Dio ha, perciò, un’incisività determinante per la retta interpretazione della beatitudine dei poveri.
E questo Regno — dice il Santo Padre — «non è un concetto, una dottrina, un programma soggetto a libera elaborazione, ma è innanzitutto una persona che ha il volto e il nome di Gesù di Nazareth, immagine del Dio invisibile».26 Oggi è facile sentir parlare di Regno, quasi fosse in contrapposizione alla Chiesa, con concezioni riduttive di tipo antropocentrico che tendono a presentarlo, in pratica, come «una realtà del tutto umana e secolarizzata, in cui ciò che conta sono i programmi e le lotte per la liberazione socioeconomica, politica ed anche culturale, ma in un orizzonte chiuso al trascendente».27
Il Vangelo ci insegna, certo, che i socialmente poveri sono i preferiti da Dio: questo è il grande presupposto teologale dell’Incarnazione. Iddio privilegia la situazione concreta di povertà, più in là di preoccupazioni morali o di meriti virtuosi: facendosi uomo ha scelto questa situazione; sua mamma quando Egli nacque «Lo depose in una mangiatoia»;28 e da questa situazione tanto umile si è dedicato a salvare il mondo evangelizzando i poveri.
Il Regno di Dio, dunque, è venuto e cresce tra i poveri; nessuno che desideri farvi parte può prescindere dall’interessarsi dei poveri e imparare come loro a ricevere Cristo.
Ma, poi, bisogna approfondire ancora; il Regno nasce e cresce tra i poveri, ma non si identifica semplicemente con i socialmente poveri; tra loro è presente di fatto, purtroppo, anche il peccato che si oppone costitutivamente al Regno di Dio. Questo Regno ha la sua pienezza in Cristo-povero e da lì cresce in opposizione al male, al male di ognuno e al male di tutti.
Gesù Cristo non è solo il profeta del Regno, ma la sua pienezza; in Lui e attraverso l’opera della sua Chiesa esso si espande nel mondo intero: con la comunicazione del suo Vangelo cresce quel Regno di Cristo che alla fine dei tempi sarà consegnato al Padre come Regno definitivo di Dio. Le Beatitudini non sono solo «il manifesto di Gesù»; vanno considerate come una specie di sua «autobiografia»; per capirle rettamente bisogna guardare a Lui. E così Gesù-povero appare non solo il primo campo fecondo dove è stato seminato e da cui erompe l’amore di Dio, ma anche il modello di quell’atteggiamento profondo del cuore povero con cui si riceve e si fa crescere il Vangelo del Regno.
Insomma, la Beatitudine dei poveri si capisce con chiarezza rapportandola a Gesù Cristo; è in Lui che riceviamo con pienezza l’illuminazione della Parola di Dio, in Lui capiamo che cos’è il Regno che riempie l’anelito degli evangelicamente poveri.
Le umili frontiere del Regno di Cristo
Le frontiere del Regno sono collocate nel territorio dei poveri, e da lì si estendono a tutti. Il Concilio ci ha ricordato che «il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle Beatitudini».29
La Beatitudine della povertà è fermento per ogni società veramente umana ed è chiamata a capovolgere un ordine economico materialista. Essa appartiene intrinsecamente all’opzione cristiana di ogni battezzato ed è collocata alla base di tutta l’energia trasformatrice dell’umanità.
Non è quindi un aspetto secondario che si possa trascurare: i poveri del Signore sono i protagonisti della espansione del Regno. Nel loro cuore Cristo fa abbondare l’amore, così da far crescere in essi non semplicemente una preoccupazione ascetica di rinuncia, quanto soprattutto l’amore di solidarietà e una visione di fede nel significato totale del mondo, della società e dei beni economici, stimolando una concreta dimensione sociale di tutta la carità.
Essere evangelicamente poveri, rivolgersi ai socialmente poveri per donare loro il Vangelo, orientare l’attenzione e la solidarietà di tutti verso gli ultimi perché più bisognosi, proclamare il mistero di Cristo come sorgente sicura ed efficace di un genuino rinnovamento sociale, è difendere l’immagine di Dio scolpita in ogni uomo ed è combattere il materialismo — nelle sue varie espressioni di noncuranza della dignità delle persone — affinché la storia sia guidata non dall’egoismo e dall’odio, ma dalla carità; è invitare tutti a collaborare nella costruzione della «civiltà dell’amore», superando le grettezze dei possidenti e le metodologie della violenza.
È questo un compito immane e difficile, iniziato da Cristo e lasciato in eredità alla sua Chiesa. Ricordiamo la prima predicazione di Gesù nella sinagoga del suo paese: aperto il rotolo del profeta Isaia, lesse e commentò il passo: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio».30
Non è che Iddio benedica la miseria e la sperequazione socioeconomica; essa è e resta un male, uno scandalo. Ma una considerazione attenta, per esempio, della parabola di Lazzaro spiega il pericolo che viene dalla ricchezza: il possidente che trova in se stesso le sue sicurezze non riesce a lasciare posto a Dio e al prossimo. È un fatto indiscusso che Gesù esige dai più impegnati costruttori del suo Regno la rinuncia ai beni di questo mondo. Simon Pietro e Andrea, chiamati dal Signore, «subito, lasciate le reti, lo seguirono»; Giacomo e Giovanni, «lasciato il loro padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, lo seguirono»;31 «nel passare (Gesù) vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse “seguimi”. Egli, alzatosi, lo seguì»;32 e, infine: «chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».33
Ricordiamo la profonda riflessione di Giovanni Paolo II: «La povertà entra nella struttura interiore della stessa grazia redentrice di Gesù Cristo... La povertà evangelica schiude davanti agli occhi dell’anima umana la prospettiva dell’intero mistero nascosto da secoli nella mente di Dio. La povertà di Cristo nasconde in sé la infinita ricchezza di Dio; essa ne è anzi un’espressione infallibile. Una ricchezza, infatti, qual è la divinità stessa, non si sarebbe potuta esprimere adeguatamente in nessun bene creato. Essa può esprimersi solamente nella povertà. Perciò può essere compresa in modo giusto solamente dai poveri, dai poveri in spirito. Cristo, Uomo-Dio, è il primo di essi: Colui che “da ricco che era, si è fatto povero”, non solo è il Maestro, ma è anche il portavoce e il garante di quella povertà salvifica che corrisponde all’infinita ricchezza di Dio e all’inesauribile potenza della sua grazia».34
Perciò, quando Gesù esige questa povertà salvifica negli apostoli come costruttori del Regno, non li invita semplicemente ad imitare un determinato genere esteriore di vita, ma li prepara a partecipare alla sua stessa maniera di essere nel mistero dell’incarnazione, ossia a nutrire costantemente nel cuore gli stessi suoi sentimenti di portatore del Regno. Il cuore dei suoi più impegnati discepoli e collaboratori deve essere realisticamente distaccato da tutto ciò che non è Dio; deve restare «libero», come il suo, da tanti legami terreni. Non si può servire insieme a Dio e a mammona.35
Se la natura stessa di Dio è l’amore36 e se Gesù ha portato questo amore all’uomo perché passasse dalla morte alla vita,37 si capisce subito perché Gesù ha proclamato la Beatitudine della povertà: ha voluto sottolineare la gioia di essere evangelicamente poveri per poter avere nel cuore quell’amore che muove a dare la vita per i fratelli.38 Tagliare i molteplici lacci della cupidigia per le ricchezze è un’operazione salvifica che libera il cuore dei discepoli del Signore e lo rende aperto e generoso alla solidarietà per gli altri.
Le frontiere del Regno di Cristo sono umili, ma racchiudono in sé l’energia della salvezza. All’interno di queste frontiere si può essere poveri in differenti modi, sempre però con il Signore. È questo un pensiero da considerare con attenzione dopo il rilancio della vocazione e missione del laicato nella Chiesa.
Non dobbiamo dimenticare che Cristo è anche autore della creazione, dei beni della terra, della famiglia e della società. Lui incarnato non è venuto a cambiare le leggi inerenti alla natura umana e al creato; ha scelto come servizio fondamentale della liberazione dell’uomo dal peccato la strada del Servo di Jahvè per la redenzione. È, la sua, una vocazione storica non alternativa ai differenti impegni umani (matrimonio, economia, politica, cultura, ecc.), ma è la luce della loro verità e l’energia per la loro bontà. Certo, nel mondo opera purtroppo, e drammaticamente, anche il mistero del male; ma questo, piuttosto che squalificare l’impegno nell’ordine temporale, lo esige con peculiare intensità, in sintonia con la indispensabile missione redentrice di Cristo.
Così come, per esempio, la sua verginità non impedisce ai fedeli laici di sposarsi, ma li guida per vivere di genuina carità in famiglia; in modo analogo la sua povertà non allontana i fedeli laici dagli impegni dell’ordine temporale, ma li guida alla purificazione e al retto ordinamento del mondo economico, politico e culturale.
C’è in particolare da osservare che il contesto storico in cui viviamo oggi è costruito socioeconomicamente su scelte sbagliate, che hanno causato tante ingiustizie e che stanno incrementando quella distanza tra Nord e Sud che offende la dignità umana. Questa situazione interpella fortemente i cristiani, affinché sappiano proclamare con priorità la dimensione profetica della povertà evangelica, ossia, mettere a fuoco per tutti la Beatitudine dei poveri centrata, come abbiamo visto, sul Regno di Cristo e di Dio.
L’orizzonte di questo Regno spinge a superare la pesante immanenza del materialismo per favorire una trasformazione morale e culturale che possa smuovere l’ordine attuale.
La missione evangelizzatrice della Chiesa dovrà essere diretta in forma adeguata anche a coloro che socialmente sono «non-poveri», se si vuole seriamente la nascita di un ordine nuovo. Così appare come urgente sfida e come obiettivo reale della nuova evangelizzazione la capacità di influire cristianamente sui «non-poveri» (per es. nelle società del Nord e in molte città anche del Sud). L’opzione pastorale per la Beatitudine dei poveri diviene perciò, di fatto, non una scelta di lotta di classe contro i «ricchi», ma una sfida e un’urgenza per una evangelizzazione anche dei «non-poveri» guidata dall’ottica del Regno.
Ora, nel riflettere sul tipo peculiare di povertà proprio di noi consacrati, dobbiamo essere capaci di percepirne la singolarità nella sequela del Cristo e la sua funzione di segno e di stimolo per tutti — in ogni Paese, secondo le condizioni proprie —,39 saperla armonizzare, come luce evangelica e come stimolo cristiano di concretezza ai giovani che stiamo educando alla fede, perché siano nel mondo generosi protagonisti appunto della vocazione laicale.
Dunque: si può essere poveri secondo il Vangelo in differenti modi; la nostra scelta specifica di radicalità religiosa deve apparire nella Chiesa come segno autentico di Cristo ed essere portatrice a tutti (poveri e non-poveri) del messaggio delle Beatitudini.
La radicalità del dono di sé nella professione
Tra i discepoli di Cristo alcuni s’impegnano a seguirlo con radicalità. Così vediamo che la consacrazione religiosa comporta una testimonianza sua propria della povertà.
Vale la pena ricordare, qui, che i tre consigli evangelici professati con i voti non costituiscono tre vie parallele da sommare l’una all’altra; sono piuttosto tre aspetti complementari e concreti di un unico dono di sé a Dio, di un’unica sequela del Cristo per testimoniare il suo mistero, di un unico impegno per l’edificazione del suo Regno. Certamente ogni consiglio ha un significato proprio e dei contenuti specifici, tuttavia essi definiscono «insieme» la testimonianza della sequela del Cristo. C’è permanente e mutuo interscambio fra loro, così da poter approfondire la radicalità di ognuno di essi includendo vitalmente gli altri due. Professare i tre consigli evangelici vuol dire donare se stesso a Dio in pienezza, in radicalità, come se fosse un solo voto globale, un solo «sì», espresso in un triplice aspetto evangelico che abbraccia tutta la persona e tutta la vita.
La pratica salesiana dei consigli evangelici è centrata sull’obbedienza di Gesù come Figlio inviato alla missione del Regno; questo (ossia l’obbedienza nella missione) dà un tocco speciale alla radicalità della povertà e della castità. Ma, per la mutua circolarità dei tre, anche la povertà (e rispettivamente la castità) apporta dei tratti peculiari all’obbedienza, anzi a tutta la missione da svolgere e alla dimensione comunitaria della vita.
La povertà, in particolare, rende intimamente solleciti a seguire la scelta fatta da Dio stesso di essere povero e di evangelizzare i poveri, slega il cuore dai lacci dei beni terreni per riempirlo di amore e proclama al mondo una paradossale profezia di liberazione sconosciuta ai ricchi; ciò fa capire in che cosa consista l’originalità del Regno di Cristo: «Io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità; chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce!».40
È il grande paradosso del Vangelo; tutti i regni del mondo si costruiscono in altro modo, con molte ricchezze e violenze; quello di Cristo sorge dai poveri e sgretolerà, alla fine, tutti gli altri: ricordiamo la famosa gigantesca statua del sogno di Nabucodonosor, ridotta a pezzi dalla pietra staccata dalla montagna senza alcuna congiura e senza pianificazioni di conquistatori potenti.41
Guardare alla vita consacrata dall’angolatura della povertà obbliga ad essere molto concreti nell’obbedienza a Dio, a dare dimensione storica e quotidiana al genere di vita delle persone e delle comunità; a qualificare le presenze, a scegliere i destinatari, ad animare l’identità più genuina alla missione da realizzare. Se dal Fondatore abbiamo ereditato una «esperienza di Spirito Santo» che è legata in tanti modi con la povertà, ciò vorrà dire che un esame di coscienza sulla nostra maniera di vivere la testimonianza evangelica della povertà ci aiuterà a migliorare tutto il processo di rinnovamento e ad approfondire il criterio di significatività con cui guidarlo.
La società attuale è, o tende ad essere, a seconda dei luoghi e dei gruppi, una società di consumo; il benessere costituisce in genere una delle principali aspirazioni dei cittadini. Questa mentalità rende omaggio a determinati idoli che detronizzano il vero Dio e intensificano un po’ ovunque una vincente mentalità materialista. Sarebbe deleterio che i consacrati offrissero alla gente e ai giovani una qualsiasi controtestimonianza nel possesso e nell’uso dei beni temporali.
Paolo VI ha ricordato esplicitamente che i contemporanei interrogano con particolare insistenza i Religiosi proprio su questo punto: «In una civiltà e in un mondo contrassegnati da un prodigioso movimento di crescita materiale quasi indefinita, quale testimonianza offrirebbe un religioso che si lasciasse trascinare da una ricerca sfrenata delle proprie comodità, e trovasse normale concedersi senza discernimento né ritegno tutto ciò che gli viene proposto? Mentre, per molti, è aumentato il pericolo di essere invischiati nella seducente sicurezza del possedere, del sapere e del potere, l’appello di Dio vi colloca al vertice della coscienza cristiana: ricordare cioè agli uomini che il loro progresso vero e totale consiste nel rispondere alla loro vocazione di “partecipare come figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini”».42
La consacrazione salesiana ci colloca in questo ambito di sequela radicale, mentre ci invita ad essere molto concreti nella sua testimonianza; più che di ragioni, si nutre del modello e delle opzioni del Fondatore.
La povertà di Don Bosco
«Il Signore ci ha donato Don Bosco come padre e maestro. Lo studiamo e lo imitiamo, ammirando in lui uno splendido accordo di natura e di grazia».43 Lo Spirito del Signore ha intessuto tutta la sua vita su un ordito di povertà reale, abbracciata con consapevolezza evangelica, amata come un tesoro per la santità e piena di dinamismo in vista di uno speciale apostolato a favore dei poveri.
La sua è stata una testimonianza assai chiara e originale. Incominciamo ricordando le commoventi parole che gli diresse Mamma Margherita prima di entrare in seminario: «Ritieni bene: sono nata in povertà, sono vissuta in povertà, voglio morire in povertà. Anzi te lo protesto: se tu ti risolvessi allo stato di prete secolare e per sventura diventassi ricco, io non verrò a farti una sola visita: ricordalo bene!».44
Le circostanze storiche della sua fanciullezza ai Becchi, e poi la sua giovinezza a Chieri, lo hanno marcato esistenzialmente e gli hanno fatto capire che il Signore lo guidava esplicitamente a fare una scelta vocazionale tutta rivolta ai poveri per l’animazione e la difesa della loro fede cristiana. Di fatto l’impostazione della sua attività apostolica è subito diretta alla gioventù bisognosa e il suo tipo di povertà sarà sempre accompagnato da una straordinaria fiducia nella Provvidenza per cercare con mille iniziative i mezzi necessari per la loro educazione. Quindi una povertà intraprendente, intessuta di lavoro indefesso, lanciata a iniziative anche grandiose, ma sempre fedele alla Beatitudine del Vangelo. Quando la Marchesa di Barolo gli offrì un’occupazione che gli assicurava la sussistenza ma che lo allontanava dai giovani poveri, egli rifiutò decisamente: «Dio mi ha sempre aiutato e mi aiuterà anche per l’avvenire».45
Bisogna dire che il suo stile di povertà apostolica si differenzia da altri tipi di povertà testimoniati anche da santi o in altri Istituti religiosi: «Visse la povertà come distacco del cuore e generoso servizio ai fratelli, con uno stile austero, industrioso e ricco di iniziative».46
La povertà evangelica può essere manifestata, come dicevamo, in differenti modi. Quella di Don Bosco fu una povertà evangelica attiva e creativa; legata al lavoro e allo spirito di iniziativa. Egli si muoveva, e anche si umiliava, nella ricerca dei mezzi necessari ai suoi progetti di promozione (basti pensare ai contenuti delle sue innumerevoli lettere e all’audacia delle sue imprese), considerava un bene la capacità organizzativa; per certe attività desiderava essere all’avanguardia del progresso; era convinto che per l’educazione dei giovani poveri e per difendere la fede del popolo bisognava saper ottenere e usare mezzi adeguati ed efficienti; lo stesso Papa Leone XIII, pur essendo Don Bosco già avanti negli anni, con acciacchi e anche con debiti, lo chiamò per affidargli la costruzione della basilica del Sacro Cuore al Castro Pretorio in Roma, proprio perché apprezzava in lui questo suo tipo di povertà intraprendente.
Giustamente don Rua ha scritto di lui: «Il nostro venerato Padre visse povero fino al termine della sua vita, e nutriva un amore eroico alla povertà volontaria. Godeva quando toccavagli soffrire la penuria delle cose necessarie. Apparve evidente il suo distacco dai beni della terra, poiché avendo avuto tra mano immenso danaro, non si vide mai in lui minima sollecitudine di procurarsi qualche soddisfazione temporale. Ei soleva dire: la povertà bisogna averla nel cuore per praticarla. E Dio lo ricompensò largamente della sua fiducia e della sua povertà, sicché riuscì ad intraprendere opere che i prìncipi stessi non avrebbero osato, e a condurle felicemente a termine».47
Nel fondare la Congregazione Don Bosco ha voluto che questo tipo di povertà fosse conservato e praticato dai suoi. Una povertà industriosa, senza disprezzo dei beni, anzi con intelligente iniziativa per metterli al servizio della promozione dei più poveri e mai per circondarsi di comodità e di quiete. Lui, Fondatore, di estrazione umile e indigente, in tempi di strettezze economiche e culturali per gran parte della gente, ha voluto una Congregazione anch’essa sostanzialmente di stampo popolare, con membri votati al lavoro, esperti di sacrificio e di rinunce, aperti con magnanimità a coraggiose imprese apostoliche e missionarie, testimoni di una povertà dinamica, radicata nella piena fiducia dell’intervento della Provvidenza.
Una povertà evangelica un po’ originale, ma autentica ed esigente, anche se in forma differente, per esempio, da quella di S. Giuseppe Cottolengo.
Ascoltiamo il nostro Padre nella saggezza del suo linguaggio piano e rapportato spontaneamente al vissuto: «La povertà è la nostra fortuna, è la benedizione di Dio! Anzi preghiamo il Signore a mantenerci in povertà volontaria. Gesù Cristo non incominciò da una mangiatoia? Chi è ricco ama starsene in riposo, quindi l’amore alle proprie comodità e soddisfazioni, e la vita oziosa. Lo spirito di sacrificio si spegne. Leggete la storia ecclesiastica e troverete infiniti esempi, dai quali risulta che l’abbondanza dei beni temporali fu sempre la causa della perdita di intere comunità, le quali, per non aver conservato fedelmente il loro spirito di povertà, caddero nel colmo delle disgrazie. Quelle invece che si mantennero povere, fiorirono meravigliosamente. Chi è povero pensa a Dio e ricorre a Lui e vi assicuro che Dio provvede sempre il necessario, il poco e il molto. Non dubitate: i mezzi materiali non ci mancheranno mai in proporzione dei nostri bisogni e di quelli dei nostri giovani».48
Possiamo ricordare anche la sua insistenza sul motto «lavoro e temperanza» così ben collocato a sostegno del manto nel famoso sogno del personaggio dei dieci diamanti.49
Soprattutto conviene che meditiamo ciò che ci ha lasciato scritto nel suo Testamento spirituale: «La nostra Congregazione deve sempre gloriarsi del voto di povertà. Essa ha davanti un lieto avvenire preparato dalla divina Provvidenza, e la sua gloria sarà duratura fino a tanto che si osserveranno fedelmente le nostre Regole. Quando cominceranno tra noi le comodità o le agiatezze, la nostra pia Società ha compiuto il suo corso. Il mondo ci riceverà sempre con piacere fino a tanto che le nostre sollecitudini saranno dirette agli “indigeni”, ai fanciulli più poveri, più pericolanti della società. Questa è per noi la vera agiatezza che nessuno invidierà e niuno verrà a rapirci».50
La povertà di Don Bosco non è solo un chiaro dato di fatto nella sua persona, ma è anche una scelta per la sua missione: un progetto concreto lasciato in eredità spirituale alla sua Congregazione.
Tre interventi dei Rettori Maggiori
La Società salesiana è cresciuta rapidamente nel tempo, con particolare intensità in alcuni momenti storici e con delicati problemi di rinnovamento nel dopo Concilio. Possiamo individuare tre di questi momenti:
— una prima occasione, a principio del secolo, con don Rua;
— una seconda, dopo la prima guerra mondiale, durante il rettorato di don Rinaldi e poi di don Ricaldone, che videro una straordinaria esplosione di crescita;
— e, infine, la situazione del postconcilio con don Ricceri, nel delicato e travagliato periodo dell’inizio del processo di rinnovamento.
Può risultare interessante osservare che in questi tre momenti, diciamo così, strategici, i Successori di Don Bosco sono intevenuti in forma preoccupata e approfondita sul tema della povertà appunto per assicurare l’identità nell’evolversi della Congregazione.
Con don Rua si passò da 773 confratelli a 4.372, da 57 case a 345, da 10 nazioni in cui si era presenti a 29. Con don Ricaldone, continuando lo slancio iniziato durante il rettorato di don Rinaldi, i confratelli passarono da 8.954 a 16.364, e le case da 646 a 1.071. Con don Ricceri si è iniziata la laboriosa impresa dell’entrata della Congregazione nell’orbita del Vaticano II, anche sotto la sollecitazione delle difficoltà del «’68». Tutti e tre hanno scritto, come dicevo, una importante lettera circolare sulla povertà; la consideravano un tema vitale per assicurare, nella pratica, il collegamento con le origini.
Don Rua, primo Successore di Don Bosco (1888-1910), ha concluso simbolicamente questa sua circolare il 31 gennaio 1907, a 19 anni dalla morte del Fondatore: nell’anniversario del «gran lutto» pensava «che da questa data memorabile ne verrebbe alla (sua) parola una particolare efficacia, e che non si potrebbe meglio celebrare l’anniversario della morte di Don Bosco che col richiamarne in vigore lo spirito e col promettere d’imitarne le virtù».51
Il primo Successore era convinto che il suo incitamento avrebbe avuto «una particolare importanza per l’argomento» trattato. E lo confermerà nella circolare seguente constatando che molti confratelli «non contenti di udire una passeggera lettura, espressero il desiderio di averne una copia per leggerla e meditarla a loro bell’agio. Ed io mi diedi premura di ordinarne la ristampa e la spedizione a ciascuna casa».52
Don Ricaldone, quarto Successore di Don Bosco (1932-1951), si era preoccupato di dare vita a una vera collana di letture salesiane; alcune volte le sue circolari costituivano il commento alla Strenna dell’anno. Così fu nel 1936 con la Strenna sulla povertà. Volle finire, anch’egli simbolicamente, questo suo lungo lavoro nell’umile casetta dei Becchi, «vero tempio della povertà salesiana», feconda radice del grande albero della Congregazione; alla casetta si sono sempre recati in devoto pellegrinaggio tanti confratelli, e a ragione la si può chiamare «la Betlemme salesiana». Lì c’è da meditare e da commuoversi: «baciando quelle povere muraglie ognuno si sente legato da più forte amore al Padre, e tutti partono col proposito di voler essere sempre più degni di lui. Ora più che mai si è convinti che, solo calcando le orme della sua povertà, si potranno raggiungere le vette della sua grandezza, e mietere i copiosi manipoli del suo apostolato».53
È una «casetta-simbolo», che può far pensare in qualche modo alla «mangiatoia» di Betlemme. La trattazione del tema da parte di don Ricaldone è ampia, sia negli aspetti evangelici e spirituali sia in quelli pratici e ascetici; essi illuminano concretamente il nostro voto di povertà.
Don Ricceri, sesto Successore di Don Bosco (1965-1977), redasse la sua lettera circolare La nostra Povertà oggi poco dopo la chiusura del Concilio, agli inizi dei grandi impegni del rinnovamento; la scrisse proprio nel 1968, l’anno delle numerose contestazioni. Si trattava di tradurre in pratica gli orientamenti del Vaticano II. Noi siamo, scriveva, i «volontari della povertà»; «la povertà ci fa liberi»; «la Congregazione è nata nella povertà, è cresciuta con la povertà, è sorta per i poveri»; «l’ateismo esplicito è nato nei paesi dell’opulenza»; la povertà evangelica porta con sé «la sconfessione del primato dell’economia e della capacità dei beni temporali a soddisfare il cuore dell’uomo». Don Ricceri fa un forte richiamo al lavoro salesiano, allo spirito missionario e al senso fraterno della solidarietà. Passa poi a considerazioni pratiche e ad esemplificazioni concrete, invitando a non fidarsi di una retorica pauperista assai incoerente nella testimonianza di vita: «Diciamolo con franchezza: oggi il virus del benessere entra per molte vie nelle nostre comunità, la vita si imborghesisce e si cercano giustificazioni che però non convincono: e questo anche da parte di chi dovrebbe vigilare, intervenire e provvedere. Intanto il male si allarga a macchia d’olio, il livello religioso si abbassa, si fa sempre più strada quel comodismo che sfocia in laicismo pratico». E accompagna la circolare con uno schema di «scrutinium paupertatis» per invitare a un attento esame di coscienza sulla pratica del voto.54
Le esortazioni di don Ricceri hanno poi avuto modo di essere approfondite e valorizzate nei lavori dello storico Capitolo Generale Speciale (1971), con un prezioso documento in tre capitoli che ha dato al processo di rinnovamento orientamenti profondi e aggiornati, insieme a stimoli operativi assai concreti.55
Questi brevi accenni dovrebbero invogliare ogni confratello a rileggere documenti tanto significativi che fanno parte del patrimonio spirituale della vita della Congregazione.
A me sembra doveroso aggiungere qui qualche riflessione speciale sulla lettera di don Rua: la si può considerare un suo capolavoro; fu ripubblicata come omaggio speciale da don Ziggiotti nel 1957, cinquantesimo della sua prima pubblicazione. Essa manifesta una solenne promessa a Don Bosco di conservare intatto lo spirito delle origini. Don Rua trepidava per la sua responsabilità di successore. «Per dire tutta la verità — scrive a cuore aperto — feci al nostro buon Padre solenni promesse. Poiché mi vedeva costretto a raccogliere la sua eredità e a mettermi a capo di quella Congregazione, che è la più grande delle sue opere, e che gli costò tante fatiche e sacrifizi, gli promisi che nulla avrei risparmiato per conservare, per quanto stava in me, intatto il suo spirito, i suoi insegnamenti e le più minute tradizioni della sua famiglia».56
La riflessione sulla povertà veniva ad essere per lui il metro pratico per misurare la fedeltà. L’aveva sperimentato per lunghi anni, da quando aveva deciso di stare con Don Bosco; li chiamavano «tempi eroici» e bisognava avere una virtù straordinaria per conservarsi fedeli «e per resistere ai pressanti inviti che ci si facevano per abbandonarlo, e ciò per l’estrema povertà in cui si viveva».57 Don Rua riconosce che «la pratica della povertà imponeva gravi sacrifici, come noi stessi ne abbiamo fatto le mille volte l’esperienza. Non è perciò a stupire se la povertà sia sempre il punto più importante e nel tempo stesso più delicato della vita religiosa, se ella sia come la pietra di paragone per distinguere una comunità fiorente da una rilassata, un religioso zelante da uno negligente. Essa sarà purtroppo lo scoglio contro cui andranno a rompere tanti magnanimi proponimenti, tante vocazioni che avevano del meraviglioso nel loro nascere e nel loro sviluppo».58
Per dar fondamento alle sue riflessioni, don Rua ricorre, oltre che al Vangelo del Signore, ad autorevoli testimoni della fede. Con S. Bernardo ricorda che «il Figlio di Dio, non trovando in cielo la povertà, che abbonda sulla terra — quantunque non stimata — ne è così innamorato che, disceso dal cielo, la vuole abbracciare per insegnarci quanto sia preziosa».
Ricorda S. Francesco d’Assisi e S. Ignazio di Loyola; fa meditare le profonde parole di S. Tommaso d’Aquino che «il primo fondamento per arrivare alla perfezione della carità, si è la povertà volontaria, per cui uno viva senza nulla possedere di proprio».
Propone l’esempio del «nostro» S. Francesco di Sales, il quale «quantunque fosse vescovo e come tale dovesse tenere un certo decoro esteriore, pure egli aveva per le ricchezze un santo terrore», e faceva osservare «che non solamente i poveri sono evangelizzati, ma sono i poveri stessi che evangelizzano».
Ricorda che S. Ambrogio «chiama la povertà madre e nutrice della virtù»; e che S. Vincenzo Ferreri, parlando dell’efficacia dell’apostolato «assicura che non vi riuscirà quel religioso che non mette sotto i piedi le cose terrene, non pratica la vera povertà, perché, spaventato d’ogni incomodo, non avrà la forza di sopportare le privazioni che porta seco la povertà nell’esercizio dell’apostolato».
E, infine, con Sant’Alfonso de’ Liguori critica quel religioso che, dopo aver fatto la professione, s’attacca a piccole cose; esse «saranno come altrettanti sassolini che mette nei suoi calzari: che meraviglia se non può più camminare nella via della perfezione?».
Insiste poi su aspetti concreti della pratica della povertà responsabilizzando la coscienza di ognuno e, in modo speciale, quella degli Ispettori e dei Direttori. Si può dire che questa lettera di don Rua, alla distanza quasi di un secolo, conserva tutta la sua forza e la sua freschezza. Rimane pur sempre attuale quel suo sfogo paterno: «Non sono certamente i Salesiani desiderosi di menar una vita comoda che intraprenderanno opere veramente fruttuose, che andranno in mezzo agli ‘indigeni’ del Mato Grosso o nella Terra del Fuoco, o si metteranno al servizio di poveri lebbrosi. Questo sarà sempre il vanto di coloro che osserveranno generosamente la povertà».59
Il progetto evangelico della nostra Regola di vita
Oggi la sensibilità a favore dei poveri è divenuta un «segno dei tempi» che sfida la missione della Chiesa e stimola i processi di cambiamento sociale. Prescindere da questa sensibilità sarebbe come emarginarsi dal futuro. Essa costituisce uno speciale criterio di attualità che appartiene indissolubilmente alla nuova evangelizzazione e che risulta assai benefico per il rinnovamento della vita religiosa perché aiuta a rivedere gli stili di convivenza e a qualificare meglio gli impegni apostolici.
Tuttavia bisogna pure prendere atto che ci sono state, al riguardo, anche talune visioni distorte che potrebbero incidere negativamente sull’identità della missione salesiana. Perciò è utile confrontarsi con una attenta lettura della Regola di vita. In essa possiamo rispecchiare la nostra sensibilità a favore dei poveri come un elemento costitutivo della significatività del nostro genere di vita e delle nostre presenze, al di dentro di un equilibrio organico di tutti i valori d’identità. La Regola non è un insieme di disquisizioni astratte, ma la descrizione di un’esperienza evangelica di vita vissuta.
La prima cosa da sottolineare è che la Regola concentra la nostra attenzione su Don Bosco come «modello».60 È vero che sono cambiati i tempi e che c’è oggi una sensibilità sociale molto più sviluppata che nel secolo scorso, però gli atteggiamenti, le scelte di fondo e i criteri da seguire rimangono sempre quelli dell’Oratorio di Valdocco;61 come Don Bosco, anche noi oggi contempliamo e imitiamo la fede di Maria, la sua umiltà di vita e la sua sollecitudine per i poveri;62 una scelta educativa a loro favore, con una peculiare solerzia «materna».
La Regola ci assicura che la natura e missione della nostra Congregazione si rapportano al progetto apostolico del Fondatore,63 con un coraggioso e variegato impegno educativo soprattutto a favore dei giovani poveri e dei ceti popolari.64 Questo nostro impegno è situato nel cuore stesso della Chiesa 65 che oggi invita tutti i fedeli a intensificare operativamente un amore preferenziale per i più bisognosi. D’altra parte è questo un aspetto di attualità che ci rende «intimamente solidali con il mondo e con la storia».66
Le situazioni dei popoli sono differenti nei vari continenti. Nei paesi del benessere, oltre all’urgenza di evangelizzare i «non-poveri», si presentano nuove povertà allarmanti. Nelle nazioni dell’Est europeo c’è una situazione speciale di nuova evangelizzazione e un’urgenza di rinascita e di ristrutturazione della stessa vita religiosa. Nel cosiddetto «terzo mondo» si è aggravata la condizione di ingiustizia sociale con interpellanze concrete alla nostra missione soprattutto da parte della gioventù. Non è possibile, qui, sviluppare le molteplici esigenze delle singole situazioni; ci interessa propriamente orientare una lettura più impegnata della nostra Regola di vita.
Noi professiamo una specifica forma di vita religiosa al seguito di Cristo povero,67 così che la pratica dei consigli evangelici sia vissuta chiaramente nello spirito delle Beatitudini,68 testimoniato come segno della forza della risurrezione.69 Questo peculiare aspetto è sviluppato nelle Costituzioni, soprattutto negli articoli dal 72 al 79; vi invito a rimeditarli per approfondire personalmente e comunitariamente la nostra fedeltà alla professione emessa con sincera generosità.
Bisogna riconoscere che una lettura della Regola dall’ottica della povertà ci fa spaziare su orizzonti concreti della nostra significatività e della nostra responsabilità nella missione. Ci limitiamo qui a presentare, in forma sintetica, il rapporto che c’è, nella Regola, tra la povertà evangelica e gli elementi portanti di tutto il nostro progetto di vita.
Il prezioso Commento70 del 1986, fatto alle Costituzioni rinnovate, afferma: «Possiamo dire che il piano generale delle Costituzioni è ispirato al fondamentale articolo terzo: la struttura e l’articolazione delle parti e dei capitoli è stata impostata in modo da offrire una trattazione organica che evidenzi immediatamente l’unità della nostra vocazione».71
Ebbene: secondo quest’ottica è importante riconoscere che la nostra povertà evangelica è vitalmente presente in tutto, anche se non è evidentemente il tutto; essa caratterizza l’intera fisionomia salesiana, ma deve armonizzarsi con vari altri tratti significativi e coinvolgenti.
L’articolo terzo parla di «consacrazione», di «missione», di «comunità», di «consigli evangelici». È interessante riflettere come, in ognuno di questi elementi, va incorporata dinamicamente la povertà professata.
Innanzitutto essa è intrinsecamente legata alla consacrazione; non si identifica con essa né, tanto meno, la esaurisce; viene piuttosto caratterizzata da essa, mentre la concretizza nella pratica attraverso una mutua circolarità. La consacrazione, infatti, comporta una alleanza con il Signore che esige un cuore ripieno di carità pastorale: «da mihi animas». «Ho promesso a Dio — ci dice Don Bosco — che fin l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani»;72 il Sistema Preventivo è «un amore che si dona gratuitamente, attingendo alla carità di Dio».73
D’altra parte, la nostra sensibilità verso i poveri è legata alla vitalità della consacrazione; mossa innanzitutto da una convinta preoccupazione e visione del Regno di Cristo, ma alimentata di fatto dal contatto e impegno concreto con i poveri quali prediletti da Dio, «sacramento vivo» del Signore che soffre ed ha tanti bisogni: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare». La grazia di unità fa crescere insieme i due poli di Dio e dei bisognosi.
La nostra povertà è poi concretamente collocata nella missione, anche se non la determina in modo univoco ed escludente. La missione, infatti, è di per sé più ampia, intimamente legata alla scelta educativa; le Costituzioni descrivono i vari aspetti che la compongono, in tal forma che essa «dà a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto, specifica il compito che abbiamo nella Chiesa e determina il posto che occupiamo tra le famiglie religiose».74
L’esperienza di Valdocco ci assicura che proprio la missione tra i giovani più bisognosi ha dato il suo tono peculiare a tutto il carisma, alla sua originalità spirituale e alla sua metodologia pedagogica. La dedizione alla gioventù povera assicura l’autenticità della nostra missione in cui diveniamo segni e portatori dell’amore di Cristo.
La pratica della nostra povertà, poi, è incarnata nella comunità. È, sì, personale, ma vissuta quotidianamente in comunione fraterna: una convivenza di famiglia che cura di esprimersi nella koinonia dei beni. Il mettere in comune i beni aiuta molto a costruire la comunità anche affettivamente; non c’è comunità religiosa, semplice e austera, senza questo segno. Tuttavia è bene osservare che la comunione fraterna ha anche altri valori e aspetti che abbelliscono la stessa povertà e le danno quel volto di famiglia così caro a Don Bosco.
Infine, la povertà è evidentemente uno dei tre consigli evangelici che, come abbiamo visto, concorre insieme agli altri due a dare un tono unitario alla pienezza e radicalità del dono di sé a Dio totalmente amato e ai giovani bisognosi ai quali Egli ci invia. È chiaro, però, che anche gli altri due consigli apportano valori e influssi specifici differenti, che incidono pure sul modo stesso di vivere e applicare la sensibilità verso i poveri con amore di castità e in docilità organica con la missione della Congregazione.
Davvero la povertà, rapportata agli elementi costitutivi del nostro progetto evangelico, apporta luci all’organicità del progetto ed evita interpretazioni distorte, mentre irrobustisce l’intero patrimonio dell’identità.
Anche se la povertà non costituisce, in se stessa, il criterio unico di rinnovamento, è però collocata, come abbiamo detto, nel cuore stesso della significatività; ed è proprio essa che esige, nell’ambito della grazia di unità, gli altri importanti aspetti della nostra consacrazione apostolica. Diremo che la considerazione della povertà apporta, senz’altro, un valore determinante al nostro rinnovamento; anche se da sola è insufficiente. La visione d’insieme della Regola descrive, infatti, la totalità del carisma di Don Bosco; essa è la carta d’identità dell’intero progetto di vita salesiana, con vari altri criteri organicamente connessi che ormai da anni ci stanno avviando al futuro.
C’è un altro aspetto da considerare: quello dell’articolo 7 sul nostro essere solidali con il mondo e con la storia. Oggi infatti la sensibilità verso i nostri destinatari esige una visione più concreta delle situazioni umane di abbandono, di emarginazione e di ingiustizia sociale. Il Signore stesso ci interpella attraverso di esse; divengono, quindi, anch’esse uno stimolo di rinnovamento. Ci troviamo di fronte a un criterio di discernimento evangelico che rende necessaria la revisione delle nostre presenze per una qualità pastorale più attuale e più in consonanza con le scelte del Fondatore.75 Siccome la missione, con la sua scelta dell’azione educativa, ci impegna in un progetto di promozione integrale dell’uomo76 rivolgendoci anche a tanti «non-poveri», dovremo curare di più la nostra competenza nella Dottrina sociale della Chiesa e saperla comunicare come elemento indispensabile in ogni coscienza cristiana che vive il Vangelo con attualità. La povertà religiosa deve alimentare nel nostro cuore una specie di parentela spirituale con i poveri77 per offrire a loro e agli altri quei valori educativi che li avvicinino alla ricerca di una liberazione integrale.
Don Bosco, già ai suoi tempi, «ha visto con chiarezza la portata sociale della sua opera».78 Ecco perché «partecipiamo in qualità di religiosi alla testimonianza e all’impegno della Chiesa per la giustizia e la pace. Rimanendo indipendenti da ogni ideologia e politica di partito, rifiutiamo tutto ciò che favorisce la miseria, l’ingiustizia e la violenza, e cooperiamo con quanti costruiscono una società più degna dell’uomo».79
A ragione il CG23 ha indicato tra i nodi dell’educazione alla fede «la dimensione sociale della carità»,80 che noi abbiamo cercato di approfondire e di attualizzare nelle due Strenne degli anni 1991 e 1992.81
Bisogna, dunque, riconoscere che la nostra Regola di vita fa emergere l’innesto vitale della povertà religiosa in tutto il carisma di Don Bosco, incidendo fortemente sulla sua identità e ricevendo da esso una peculiare modalità di visione del mondo, di stile di vita e di impegno di azione.
Suggerimenti per uno «scrutinium paupertatis»
Siamo invitati dalla Regola a fare periodicamente una verifica circa la testimonianza della nostra pratica salesiana della povertà evangelica,82 indicando anche quegli aspetti ascetici che caratterizzano ogni confratello e le singole comunità. Si riferiscono a una prassi di vita; siamo invitati a metterli in pratica, consapevoli che così percorriamo la «via che conduce all’Amore».83
La verifica, mentre assicura la fedeltà a una ben definita professione religiosa che abbiamo emesso liberamente e in forma pubblica ed ecclesiale, illumina e purifica tutto un modo di pensare, di progettare e di operare in fiduciosa dipendenza da Dio e in gioiosa solidarietà con i destinatari. Alcune norme pratiche, anche piccole, hanno un valore di segno; la loro eventuale trascuratezza può incidere negativamente sul tutto: «la fedeltà all’impegno preso con la professione religiosa è una risposta sempre rinnovata alla speciale alleanza che il Signore ha sancito con noi».84
Converrà che la verifica da realizzare parta dalla visione globale delle esigenze della povertà evangelica nel nostro carisma, così come abbiamo tentato di esporre nelle pagine precedenti. La verifica dovrebbe avere come obiettivo quello di curare e di promuovere una maggior sensibilità evangelica nel nostro processo di rinnovamento. C’è in Congregazione, per grazia di Dio, un senso concreto della povertà con esempi personali e comunitari anche ammirevoli: iniziative generose a favore dei giovani poveri, slancio in nuovi impegni missionari, rilancio dell’oratorio nei quartieri popolari più bisognosi, varie presenze per i ragazzi della strada e per i giovani a rischio, solidarietà con le Ispettorie dell’Est-Europa e del terzo mondo, ecc. Però ci sono anche continui pericoli che esigono costante e sincera verifica.
I principali aspetti da considerare dovrebbero essere i seguenti: il distacco evangelico, la comunione fraterna, la testimonianza religiosa, l’amministrazione dei beni temporali, l’impegno operativo. E ciò riguardo sia alla persona di ogni confratello sia alla testimonianza delle singole comunità, non solo in ciascuna casa ma anche nella globalità dell’Ispettoria e di tutta la Congregazione.
Proviamo a suggerire alcuni contenuti.
— Il distacco evangelico. C’è da verificare se il distacco dai beni promana dalla pienezza di sintonia con il Vangelo. Quindi si tratta innanzitutto di curare di più l’interiorità con cui si vive la Beatitudine dei poveri: ossia, di coltivare un tipo di ascolto della Parola di Dio e di meditazione orante che si centri sulla scelta fatta dal Signore nel mistero dell’Incarnazione, dalla mangiatoia alla croce. È l’approfondimento di quella libertà del cuore che procede dalla consapevolezza che l’egoismo è la prima radice di ogni schiavitù e ingiustizia: solo «la verità vi farà liberi», ha detto il Signore.85
Noi siamo «poveri al seguito di Gesù Cristo»; vogliamo essere liberi come Lui che, per la pienezza del suo amore, è il modello supremo di vera libertà: Egli è assolutamente libero perché totalmente povero. L’amore di carità è ciò che dona la libertà dalla schiavitù delle passioni, dalle deviazioni dell’intelligenza e dalle meschinità dell’egoismo.
Il senso primo e fondamentale della vera liberazione è questa dimensione soteriologica della libertà. L’egoismo e il peccato, infatti, sono sempre fonte di oppressione, di disordine e di idolatria dei beni: portano a prescindere da Dio avviando a un amore disordinato di sé e delle creature. L’esperienza ci insegna che ogni materialismo alimenta una falsa emancipazione della libertà.
Chi non prega e non medita, il confratello che non ha il cuore ripieno del «da mihi animas», non capirà le Beatitudini.
Il Signore ci ha dato un comandamento nuovo di amore al prossimo e di volontà di giustizia che è situato al di là di ogni ideologia ed è contrario ai metodi di violenza. Ciò è assai importante per noi Salesiani che nell’impegno sociale abbiamo fatto, con Don Bosco, la scelta educativa: una missione evangelizzatrice e salvifica che nella carità preferenziale per i poveri si dedica a comunicare loro le verità del Vangelo; essa per noi va unita a una concreta promozione umana che, pur riconoscendo la complessità dei problemi, guarda al primato delle persone sulle strutture. Dunque, è bene verificare il tipo di meditazione e di preghiera che alimenta l’ardore del «da mihi animas», facendo sì che cresca in noi l’atteggiamento cosciente e operativo di scelta dei poveri nell’impegno educativo.86
Don Bosco ha dato una testimonianza continua di tale atteggiamento, sia con una filiale e quotidiana fiducia nella Provvidenza, sia con una vita di «lavoro e temperanza». L’art. 18 delle Costituzioni descrive le esigenze di questo aspetto concreto; l’interiorità del salesiano si traduce in un operoso e sacrificato modo di vivere: «Il lavoro e la temperanza faranno fiorire la Congregazione; la ricerca delle comodità e delle agiatezze ne sarà invece la morte. (Il salesiano) accetta le esigenze quotidiane e le rinunce della vita apostolica: è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo, ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime».
Il suo è un vivere di Provvidenza alla Don Bosco, perché non attende che tutto piova dal cielo, ma con «zelo» la rincorre cercando il necessario per vivere ed operare, certo di trovarla se si mantiene «evangelicamente libero».87
— La comunione fraterna. La nostra povertà evangelica è un valore importante che aiuta di fatto e quotidianamente a costruire la comunità. Quali beni si mettono in comune? La risposta è semplice: tutti, eccetto il patrimonio di famiglia portato in Congregazione o ereditato.88 La Regola ci dice: «Sull’esempio dei primi cristiani mettiamo in comune i beni materiali: i frutti del nostro lavoro, i doni che riceviamo e quanto percepiamo da pensioni, sussidi e assicurazioni. Offriamo anche i nostri talenti e le nostre energie ed esperienze».89 La messa in comune dei beni regola anche l’uso degli strumenti di lavoro, i mezzi di trasporto,90 i diritti di autore;91 comporta il modesto arredo della propria camera perché non diventi il rifugio di un piccolo borghese;92 si riferisce anche al saper assumere con fraternità «i lavori e i servizi della casa».93
C’è, poi, la solidarietà con le altre case e con l’Ispettoria.94 La solidarietà in Congregazione invita tutti ad apportare aiuti concreti alle numerose opere missionarie e alle bisognose presenze del cosiddetto «Don Bosco-est». Abbiamo visto degli esempi ammirevoli al riguardo, però si potrebbe fare certamente di più se crescesse in ogni casa e in ciascuna Ispettoria un senso rinnovato di solidarietà. Ci sono dei tempi forti lungo l’anno, come l’Avvento e la Quaresima, che potrebbero stimolare l’iniziativa di particolari privazioni e risparmi atti ad aumentare le possibilità di comunione nei beni temporali.
Il Codice di Diritto canonico95 parla anche di destinare, nella misura delle proprie possibilità, qualcosa dei propri beni per le necessità della Chiesa e per soccorrere i bisognosi. C’è quel verbo: «destinare»! Quindi non aspettare alla fine dell’esercizio se per caso avanza qualche cosa, ma in anticipo già «destinare», mettendo in preventivo! È un criterio da avere presente anche per la solidarietà salesiana.
E non ci si ferma a condividere i beni materiali: «in clima di mutua confidenza e di quotidiano perdono — dicono le Costituzioni — si prova la gioia di condividere tutto»;96 infatti, «ci comunichiamo gioie e dolori e condividiamo corresponsabilmente esperienze e progetti apostolici».97
Il CG21 insisteva su questa totalità di comunione: «povertà è piena comunicazione di tutto quello che si ha, di tutto quello che si è e di tutto quello che si fa».98
Chiude bene questo elenco di doni messi in comune la frase: «nella comunità il bene di ciascuno diventa il bene di tutti».99 E la comunità si fa carico di provvedere quanto occorrerà a ciascun socio sia in tempo di salute sia in quello di malattia.
— La testimonianza religiosa. L’essenza della povertà evangelica è radicata senz’altro nel distacco del cuore, ma per facilitarne l’autenticità e difenderne la concretezza la vita religiosa lungo i secoli ha strutturato una varietà di modi per viverla nella pratica; così anche la nostra Congregazione ha delle sue modalità peculiari descritte nella Regola di vita.
È un insieme di norme concrete, anche piccole, che manifestano pubblicamente (nell’ordine della «significatività») l’atteggiamento evangelico del cuore: «la sobrietà nel cibo e nelle bevande, la semplicità degli abiti (ricordare Cost. 62), l’uso moderato delle vacanze e dei divertimenti, e l’astenersi dal fumare (una nostra caratteristica!) come forma di temperanza salesiana e di testimonianza nel proprio lavoro educativo».100 Essere «educatori consacrati» ha un suo stile salesiano anche nel decoro specifico dell’abito, nella dignità dell’aspetto esteriore e di determinate modalità di convivenza.
Si tratta di una metodologia ascetica professata esplicitamente dopo averne accettate le esigenze. I segni dei tempi oggi interpellano i Religiosi sulla dimensione profetica della loro testimonianza: in modo speciale anche in fatto di povertà. I valori evangelici che noi viviamo, oltre che essere a beneficio dei destinatari, devono mostrarsi loro accessibili, cioè sono destinati ad essere per loro «segni» leggibili. In particolare «la testimonianza della povertà aiuta i giovani a superare l’istinto del possesso egoistico».101
Questa nostra prassi è illuminata dall’art. 77 delle Costituzioni: attenzione alle condizioni dell’ambiente in cui si vive; vita semplice e frugale in abitazioni modeste; rendere evidente a tutti le finalità di servizio dei mezzi richiesti dal nostro lavoro; curare la scelta di attività e l’ubicazione di opere che rispondano alle necessità dei bisognosi; privilegiare strutture materiali ispirate a criteri di semplicità e funzionalità.
C’è, poi, da osservare accuratamente un principio di prassi comune a tutte le forme di vita religiosa, che è quello della dipendenza amministrativa: «Con il voto di povertà — dicono le Costituzioni — ci impegniamo a non usare e a non disporre dei beni materiali senza il consenso del legittimo superiore».102 È quanto ricorda a tutti i Religiosi lo stesso Codice di Diritto canonico: «Il consiglio evangelico della povertà, ad imitazione di Cristo che essendo ricco si è fatto povero per noi, oltre ad una vita povera di fatto e di spirito da condursi in operosa sobrietà che non indulga alle ricchezze terrene, comporta la limitazione e la dipendenza nell’usare e nel disporre dei beni, secondo il diritto proprio dei singoli Istituti».103 La verifica qui dev’essere attenta da parte di ognuno, e il Direttore e l’Ispettore sapranno guidare i confratelli alla sincerità e all’osservanza.
Il Codice di Diritto canonico specifica: «Tutto ciò che un religioso acquista con la propria industria o a motivo dell’Istituto, rimane acquisito per l’Istituto stesso. Ciò che riceve come pensione, sussidio, assicurazione, a qualunque titolo, rimane acquisito dall’Istituto, a meno che il diritto proprio non disponga diversamente»104 I sotterfugi o una dipendenza camuffata aprono la strada a un graduale declino nell’ardore di adesione al carisma del Fondatore.
Conviene ricordare che la Chiesa oggi permette che il religioso possa vivere in pieno il distacco anche dai suoi beni patrimoniali: «Le Congregazioni religiose nelle loro Costituzioni possono permettere che i loro membri rinuncino ai beni patrimoniali acquistati o da acquistare».105 La nostra Regola accoglie questa indicazione e precisa che si può fare la rinuncia «dopo seria riflessione»106 e «dopo almeno dieci anni dalla professione perpetua e con il consenso del Rettor Maggiore, secondo le norme prescritte dalle leggi civili del proprio paese».107
— L’amministrazione dei beni temporali. Ci si riferisce qui anche all’aspetto strutturale nelle case, nelle Ispettorie — e nella Congregazione — in cui deve intervenire tutto un tipo di amministrazione, che ha certamente le sue leggi proprie, ma che è animato e guidato da un senso vivo della fiducia nella Provvidenza. La Regola dedica due interi capitoli, uno nelle Costituzioni108 e l’altro nei Regolamenti generali.109 In questo servizio operano direttamente gli economi ispettoriali e locali — e quello generale — «sotto la direzione e il controllo dei relativi Superiori e Consigli».110
È conveniente rileggere insieme gli articoli di questi due testi; essi danno delle indicazioni precise per rimanere fedeli, anche nella indispensabile organizzazione delle strutture, ai criteri vocazionali della professione salesiana.
Oggi quello dell’«economo» è un servizio sempre più complesso e delicato — in vista delle crescenti leggi civili al riguardo — che richiede una non facile armonia tra competenza e virtù e un continuo aggiornamento anche con riunioni specifiche. Dimostriamo ai confratelli economi di essere loro grati per i preziosi servizi che prestano a tutti.
Nella parte economica del Direttorio ispettoriale dovrebbero essere presenti delle norme che «stabiliscono per le comunità dell’Ispettoria un livello di vita modesto e di reale uguaglianza».111
L’amministrazione va regolata anche dal buon senso di famiglia. Ed è proprio della nostra tradizione salesiana vivere la povertà in spirito di famiglia.
Conviene ricordare che i beni immobili necessari per le «finalità di servizio» devono essere conservati con cura ricorrendo anche a una manutenzione adeguata, che faccia risparmiare e conservare in efficienza gli strumenti di lavoro, mentre quelli non necessari vanno alienati con oculatezza.
Riguardo ai beni mobili c’è da distinguere tra attrezzature necessarie e quelle superflue per saper prescindere da queste ultime.
In quanto, poi, al denaro, ai titoli obbligazionari e simili, è importante tenere in conto il divieto di permanente capitalizzazione, evitando qualsiasi speculazione o altro.
Don Rinaldi nel dicembre del 1930, parlando ai confratelli dell’Oratorio per l’esercizio della buona morte, ricordava una conferenza di Don Bosco sulla povertà dai toni duri e severi, mentre contemporaneamente «le scuole di Tipografia apprestavano i locali più grandiosi che fossero in Torino per stabilimenti congeneri». E commentava: «Non dobbiamo confondere la povertà interiore dei Salesiani e la povertà personale di ciascuno, coi bisogni dell’Opera salesiana esterna, bisogni i quali esigono che Don Bosco sia ognora all’avanguardia del progresso secondo l’espressione usata da lui col futuro Pio XI».112
— L’impegno operativo. Qui entriamo in un campo sociale più vasto. Innanzitutto c’è da coltivare la sensibilità apostolica verso i poveri sforzandosi «di essere vicini a loro, di sollevarne l’indigenza, facendo nostre le loro legittime aspirazioni ad una società più umana». Don Bosco ci dice: «ricordatevi bene che quello che abbiamo non è nostro, ma dei poveri; guai a noi se non ne faremo buon uso».113
Ma poi c’è da attivare la significatività salesiana nella revisione e progettazione delle presenze. Da parte dell’Ispettore con il suo Consiglio, urge saper fare un graduale e coraggioso discernimento affinché «la scelta delle attività e l’ubicazione delle opere rispondano alle necessità dei bisognosi».114
Un aspetto assai importante del nostro impegno operativo, in quest’ora di nuova evangelizzazione, si riferisce al rinnovamento della nostra missione nell’educazione dei giovani alla fede. L’attuale stato di sperequazione tra ricchi e poveri è divenuto sorgente di modi differenti di pensare il rinnovamento della società. I tempi esigono da noi una «nuova educazione» per cui sappiamo formare i giovani «a prendere coscienza del loro ruolo in vista della trasformazione cristiana della vita sociale».115
L’Episcopato latinoamericano a Puebla, come abbiamo visto, considera la povertà cristiana come un forte valore evangelico capace, se è capito e assunto dai fedeli, di suscitare delle alternative vincenti alle interpretazioni di tipo solo economicista che hanno guidato finora le forze sociali del mondo. La dottrina della Chiesa sul significato dei beni materiali e sul loro giusto uso, secondo la destinazione universale voluta dal Creatore, ha bisogno di un sostrato di formazione cristiana in tutti i fedeli, soprattutto nei giovani. Ecco allora un impegno operativo su cui riflettere in comunità: come educhiamo i giovani a capire la dimensione sociale della carità attraverso la povertà evangelica; come li formiamo alle responsabilità morali, professionali e sociali;116 come comunichiamo loro la Dottrina sociale della Chiesa.
Siamo chiamati ad «accompagnare i giovani alla conoscenza adeguata della complessa realtà sociopolitica».117 L’educazione, poi, non può fermarsi alla semplice conoscenza, ma deve iniziare i giovani a qualche tipo concreto di solidarietà dove facciano esperienza del dono di sé ai più bisognosi.
Varrà la pena di condividere questo impegno operativo con i laici della Famiglia Salesiana e con i collaboratori delle varie opere, perché così anch’essi scoprano con più chiarezza il significato specifico della loro vocazione e missione cristiana appunto per «permeare e perfezionare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico».118
La beatitudine dei poveri in Maria
Maria, piena di grazia, è, dopo Gesù, il modello più ammirevole dello spirito delle Beatitudini. È stata sempre inondata di gioia nel cuore, anche se ha sofferto molto: «una spada (le) trafiggerà l’anima».119 Sempre felice, «beata», poiché sempre «povera».
A Betlemme è stata Lei a deporre in una mangiatoia il bambino Gesù. Non si dice che l’abbia fatto con raccapriccio, né suo né di Giuseppe, bensì nella gioia della maternità, intensificata dalla sorprendente visita degli umili pastori ai quali l’angelo del Signore, annunziando il grande evento di salvezza, aveva dato come segno: «troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».120
Portando il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore nel tempio, ha recato con sé l’offerta sacrificale dei poveri121 e anche qui ha ammirato le manifestazioni di Dio.
E tutto ciò che aveva ascoltato prima dai pastori e, ora, dagli anziani Simeone ed Anna non lo dimenticherà mai: «serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore».122 È una meditazione che non le fa passare per la mente neppure il sospetto che debba cambiare per nulla il suo genere di vita e il suo ambiente di umile condizione sociale; li considerava una scelta esplicita di Dio; si sentiva incaricata, insieme a Giuseppe, di far crescere ed educare Gesù nella povertà.
Nazareth era di per sé un paese insignificante;123 Giuseppe sostentava la famigliola con il suo mestiere di falegname; egli era giusto e sperimentava con Maria la beatitudine dei poveri nella speranza del Regno.
La scelta fatta da Dio nella persona di Maria e in quella di Giuseppe a Nazaret manifesta chiaramente il cammino che voleva seguire nel suo progetto divino di salvezza; infatti nell’Incarnazione il Figlio «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà».124
Nel momento poi della massima povertà umana di Gesù Cristo, nudo e agonizzante sulla croce, Maria riceve in testamento non beni temporali, ma la maternità universale per la salvezza del mondo. Così, essendo la «serva del Signore», inchiodato ora nella più suprema povertà, diviene Madre di tutti nella novità pasquale; ad essa parteciperà in pienezza con la sua assunzione al cielo.
E da lì, lungo i secoli, Maria ha esercitato questa maternità privilegiando i poveri; possiamo pensare, per esempio negli ultimi tempi, a Guadalupe, a Lourdes, a Fatima, dove si è manifestata a dei poveri. E se poi guardiamo al nostro carisma, vediamo che Essa si è andata a cercare ai Becchi («la Betlemme salesiana»), in un focolare umile, quel Giovannino povero, che cresceva e veniva educato in un ambiente fermentato dalla speranza del Regno.
Maria è apparsa prima di Cristo sull’orizzonte della storia della salvezza; Essa lo ha preceduto anche come profezia di povertà. Così anche oggi continua a precedere e ad accompagnare. Il suo cuore di «povera di Jahvè» è rispecchiato chiaramente nel suo Magnificat, che noi recitiamo e cantiamo spesso con commozione.
In occasione dell’anno mariano 1987-1988 il Papa Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptoris Mater, afferma che la Chiesa in obbedienza a Cristo percorre sul modello di Maria questo cammino: «Il suo amore di preferenza per i poveri è inscritto mirabilmente nel Magnificat. Il Dio dell’Alleanza, cantato nell’esultanza del suo spirito dalla Vergine di Nazaret, è insieme Colui che “rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili; ricolma di beni gli affamati, e rimanda i ricchi a mani vuote; disperde i superbi e conserva la sua misericordia per coloro che lo temono”. La Chiesa, pertanto, è consapevole che si deve salvaguardare accuratamente l’importanza che “i poveri” e “l’opzione in favore dei poveri” hanno nella parola del Dio vivo. Si tratta di temi e problemi organicamente connessi col senso cristiano della libertà e della liberazione. Totalmente dipendente da Dio e tutta orientata verso di Lui per lo slancio della sua fede, Maria, accanto a suo Figlio, è l’icona più perfetta della libertà e della liberazione dell’umanità e del cosmo. È a Lei che la Chiesa, di cui Ella è madre e modello, deve guardare per comprendere il senso della propria missione nella sua pienezza».125
Noi oggi stiamo vivendo un’ora storica di cambio epocale che ci impegna in una nuova evangelizzazione, abbiamo fatto come Congregazione un solenne atto di affidamento a Maria perché ci accompagnasse, come alle origini, quale Madre e Maestra. È Lei che «ha indicato a Don Bosco il suo campo di azione tra i giovani e l’ha costantemente guidato e sostenuto specialmente nella fondazione della nostra Società».126 Le chiediamo di aiutarci ad edificare il Regno di Cristo e ad essere efficaci evangelizzatori ed educatori in questi tempi nuovi, testimoniando e comunicando ai giovani e ai ceti popolari il grande messaggio della povertà evangelica.
Per sua intercessione e guida Don Bosco educatore, povero e intraprendente, sia sempre il nostro modello!
Porgo fraternamente a tutti un cordiale saluto.
Con affetto nel Signore,
D. Egidio Viganò
NOTE LETTERA 56
1 Introduzione Costituzioni 1875; cf. Cost e Reg, Ed. SDB 1984, pag. 221
3 Può risultare utile ricordare qui, in nota, alcuni documenti più significativi del Magistero:
– LG, soprattutto il n. 44;
– PC, n. 2, 5 e soprattutto 13;
– ES, II, n. 23, 24;
– ET, n. 16-22;
– EN, n. 69;
– RD, n. 4, 5, 6, 9-10, 12;
– Religiosi e promozione umana, della Congregazione per la Vita consacrata: n. 4;
– Codice di Diritto canonico, c. 600, 640;
– Elementi essenziali dell’insegnamento della Chiesa sulla vita religiosa, della Congregazione per la Vita consacrata, cf. III, n. 20;
– Direttive sulla formazione negli Istituti Religiosi, della Congregazione per la Vita consacrata: n. 14; ecc.
5 cf. ACG 340, pag. 34 e ss
6 cf. Puebla n. 1141-1152
7 Puebla n. 1152
8 Puebla n. 1149
12 Mt 25, 40
13 Mt 19, 23
14 Lc 6, 24
15 Lc 1, 53
16 cf. Mc 12, 42
17 cf. Mt 19, 22
18 cf. Gv 12, 1 ss
19 1 Gv 3, 17
20 Gc 1, 11
21 1 Co 13, 3
23 cf. Lc 12, 34
24 BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Verona 1971, pag. 71
25 Mt 5, 3
26 Redemptoris missio 18
27 ib. 17
28 Lc 2, 7
29 LG 31
30 Lc 4, 18
31 Mc 1, 16-20
32 Mc 2, 14
33 Lc 14, 33
34 RD 12
35 cf. Lc 16, 13
36 cf. 1 Gv 4, 8-16
37 cf. 1 Gv 3, 14
38 cf. 1 Gv 3, 16
39 cf. LG 44
40 Gv 18, 37
42 ET 19
43 Cost 21
44 MB I, 296
45 Memorie dell’Oratorio, LAS, Roma 1991, pag. 132
46 Cost 73
47 RUA, Lettere circolari di Don Michele Rua ai Salesiani, Ed. Dir. Gen. Opere Salesiane, Torino 1965, pag. 435
48 MB VI, 328-329
49 cf. ACS 300, pag. 3-37 e 22-24
50 Cost e Reg pag. 257, cf. MB XVII, 272
51 RUA, Lettere circolari, o.c. pag. 430
52 ib. pag. 449
53 RICALDONE, I voti, LDC 1952, vol. 1, pag. 202
54 cf. ACS 253, pag. 3-68
55 cf. CGS, Doc. 11: La povertà salesiana oggi, n. 577-623
56 RUA, Lettere circolari, o.c. pag. 431
57 ib. pag 445
58 ib. pag. 432
59 RUA, Lettere circolari, o.c. pag. 438
60 cf. Cost 21
61 cf. Cost 40
62 cf. Cost 92
64 cf. Cost 24, 33, 41
67 cf. Cost 60
68 cf. Cost 62
69 cf. Cost 63
70 Il Progetto di vita dei Salesiani di Don Bosco, Ed. SDB, Roma 1986
71 o.c. pag. 63
76 cf. Cost 31 e 32
77 cf. Cost 78 e 79
78 Cost 33; cf. anche art. 73
80 cf. CG23 203-214
81 cf. commento del Rettor Maggiore: 1991, La Nuova Evangelizzazione impegna ad approfondire e testimoniare la dimensione sociale della carità; 1992, La Dottrina sociale della Chiesa è strumento necessario di educazione
82 cf. Reg 65
85 Gv 8, 32
86 Un documento che può servire ad approfondire questa riflessione è l’istruzione Libertatis conscientia della Congregazione per la Dottrina della fede, del 22 marzo 1986
95 can. 640
98 CG21 40
100 Reg 55
101 Cost 73
102 Cost 74
103 Diritto canonico, can. 600
104 ib. can. 668 § 3; cf. Cost 76
105 PC 13
106 Cost 74
107 Reg 53
108 Cost cap. 14
109 Reg cap. 13
110 Cost 190
111 Reg 58
112 cf. MB XIV, 549-550
116 cf. Cost 33
117 CG23 210
118 AA 5 e 7
119 Lc 2, 35
120 Lc 12, 12
121 secondo Lc 12, 8
122 Lc 2, 19
123 cf. Gv 1, 46
124 2 Cor 8, 9