401-450|it|436 Un passato che illumina il nostro presente: in dialogo con don Paolo Albera

1. LETTERA DEL RETTOR MAGGIORE



Un passato che illumina il nostro presente

IN DIALOGO CON DON PAOLO ALBERA



Roma, 24 giugno 2021

Natività di San Giovanni Battista




Miei cari Confratelli,

ricorre in questo anno 2021 il primo centenario della morte di don Paolo Albera (1845-1921), secondo successore di don Bosco alla guida della Pia Società di San Francesco di Sales.

Il desiderio di rivolgermi a ciascuno di voi per ricordare insieme questo importante anniversario, mi ha dato l’opportunità di studiare e conoscere meglio quel grande Rettor Maggiore, forse un po’ trascurato a causa della fama del suo predecessore (don Michele Rua) e del suo successore (don Filippo Rinaldi).

Mi sono lasciato interpellare soprattutto dalla luce di quel passato in cui don Albera ha speso la propria vita, che irradia testimonianza e forza e offre non poche provocazioni per il nostro presente: un “oggi” di Congregazione che viviamo alla luce del Capitolo Generale 28, il primo che non ha raggiunto la conclusione programmata, a causa della pandemia di COVID-19, che ancora affligge il nostro mondo.

Come ho scritto in una precedente occasione, il tempo del rettorato di don Paolo Albera fu il più difficile e drammatico vissuto dalla Congregazione. In quel periodo, infatti, ebbe luogo la prima guerra mondiale, che causò milioni di morti e vide più di 2.000 salesiani inviati in guerra, 80 dei quali persero la vita1. Il terribile conflitto impedì anche la celebrazione del Capitolo Generale previsto in quegli anni.

Posso dirvi, cari Confratelli, che la figura di don Paolo Albera mi ha entusiasmato. Soprattutto credo di aver trovato molti elementi che stimolano il dialogo fra il nostro tempo e il suo, permettendo a quel passato di sfidarci oggi con quelle che, all’epoca, furono determinazioni coraggiose e chiare per la Congregazione.

La bibliografia su don Albera è molto ricca. Ho voluto includerla alla fine di questa lettera, insieme ad altri studi e testi su temi specifici, che aiutano ad approfondire la conoscenza e lo spirito del grande Rettor Maggiore2.



1. SALESIANO DELLA “PRIMA ORA”


    1. Da ragazzo che ha respirato l’“aria di Valdocco” a Successore di Don Bosco


Don Paolo Albera è stato uno dei “salesiani della prima ora”, uno tra coloro che hanno potuto conoscere di persona e in profondità don Bosco, vivere con lui, crescere con lui e maturare al suo fianco, oltre a vederlo in azione. Don Albera ha respirato l’aria di Valdocco accanto a don Bosco, insieme a Michele Rua, a Giovanni Cagliero e ad altri salesiani. Ha esportato questa “aria di Valdocco” a Mirabello, dove fu inviato insieme al primo direttore di quella casa, don Rua, come assistente e studente di filosofia e teologia.

In seguito, in età più matura e dopo essere stato direttore a Genova, divenne anche testimone e protagonista dello sviluppo dell’opera salesiana oltre i confini del Piemonte, prima in Liguria e poi in Francia.

A don Albera fu affidata la responsabilità di essere “direttore spirituale” della Congregazione e, poi, quella di Rettor Maggiore: secondo successore di don Bosco. In questo servizio di responsabilità – viaggiando in nave, a cavallo, in carrozza, in treno e in automobile – ha visto espandersi lo spirito di don Bosco: da Torino all’America, alla Terra Santa, al Nord Europa, fino alle prime presenze in Africa.

Don Albera fu testimone oculare del passaggio dal secolo XIX al secolo XX: un momento molto delicato per la Congregazione salesiana, per la Chiesa e per il mondo. Un tempo difficile, come ho già ricordato, soprattutto a causa della prima guerra mondiale, che colpì buona parte del mondo; una tragedia di cui don Albera fu testimone dall’inizio alla fine.


    1. Che cosa ha significato per don Albera essere uno dei primi salesiani? Alcuni scorci della sua vita


Tutto ebbe inizio con la proposta di ammissione a Valdocco. Era il 1858, e Paolo Albera aveva 13 anni. Don Abrate, suo parroco, che già conosceva don Bosco dagli inizi dell’Oratorio nella chiesa di San Francesco d’Assisi, lo presentò senza preamboli: «Prendilo con te». Il giovane Michele Rua, braccio destro di don Bosco all’età di ventun anni, dopo aver parlato con Paolo, confermò: «Puoi riceverlo senza problemi...».

Nell’Oratorio regnava il clima sereno di una vivace comunità giovanile ancora molto segnata dallo stile di santità lasciato da Domenico Savio, morto il 9 marzo 1857. In questo ambiente il giovane Paolo Albera incontrò anche Michele Magone, del quale divenne compagno e amico.

Mi ha profondamente commosso leggere che, un anno e mezzo dopo il suo arrivo a Valdocco, Paolo fu ammesso, per esplicito desiderio di don Bosco stesso, nella nascente Congregazione salesiana, fondata nel dicembre 1859. L’adolescente Albera non aveva ancora 15 anni ed era uno studente del primo corso di retorica.

Insieme al primo manoscritto delle Costituzioni inviato all’arcivescovo Luigi Fransoni, c’è una lettera di accompagnamento, che riporta i nomi di coloro che presero parte all’inizio di quella fondazione: don Bosco, don Vittorio Alasonatti, il giovane prete Angelo Savio e il diacono Michele Rua, insieme ad altri 19 giovani “chierici”, a due coadiutori e al ragazzo Paolo Albera. Personalmente sento che questa “foto di gruppo”, che possiamo facilmente immaginare, colpisce il cuore di ciascuno di noi, salesiani di oggi, perché stiamo “toccando con mano” le nostre umili origini.

Nella lettera i primi salesiani dicevano: «Noi sottoscritti, unicamente mossi dal desiderio di assicurarci la nostra eterna salute, ci siamo uniti a far vita comune a fine di poter con maggior comodità attendere a quelle cose, che riguardano la gloria di Dio e la salute delle anime. Per conservare l’unità di spirito, di disciplina e mettere in pratica mezzi conosciuti utili allo scopo proposto, abbiamo formulato alcune regole a guisa di Società Religiosa, che escludendo ogni massima relativa alla politica, tenda unicamente a santificare i suoi membri, specialmente coll’esercizio della carità verso il prossimo»3. A partire da questo momento la vita di Paolo Albera sarà inseparabilmente unita a quella di Don Bosco.


A Mirabello con don Rua

Paolo Albera continua la sua formazione e gli studi a Valdocco e il 13 ottobre 1863 viene inviato insieme ad altri giovani confratelli a fondare la nuova comunità di Mirabello.

Non è irrilevante fermarsi ad analizzare la composizione di quella giovane comunità, che indubbiamente trasmette la piena fiducia e il coraggio di don Bosco nell’affidare alle mani di quei confratelli una nuova e delicata missione. A capo della comunità c’era Michele Rua: un giovane salesiano, sacerdote da soli due anni e unico prete del gruppo; all’epoca aveva ventisei anni. Tutti gli altri erano chiamati, nel linguaggio abituale dell’epoca, salesiani “chierici”: «Il prefetto Francesco Provera (ventisei anni), il direttore spirituale Giovanni Bonetti (venticinque anni), gli assistenti Francesco Cerruti (diciannove anni), Paolo Albera e Francesco Dalmazzo (entrambi di diciotto anni)»4. C’era, infine, un fatto molto bello, voluto da don Bosco: quella prima e giovanissima comunità era accompagnata anche dalla madre di Michele Rua, la signora Giovanna Maria. Poco tempo dopo, altri quattro giovani dell’Oratorio di Valdocco si unirono al gruppo iniziale per aiutare nella missione.

Furono per Paolo Albera cinque anni di intensa vita salesiana: mentre studiava filosofia e teologia presso il Seminario di Casale Monferrato, a 14 km da Mirabello, allo stesso tempo assumeva i compiti e le responsabilità di educatore in mezzo ai ragazzi. Poiché le nuove leggi sull’istruzione richiedevano titoli di abilitazione all’insegnamento, nell’ottobre del 1864 Paolo sostenne gli esami necessari e divenne insegnante di educazione superiore. Nello stesso anno entrò nella comunità un altro giovane salesiano: Luigi Lasagna, grande amico di Paolo, che sarebbe poi diventato missionario in Uruguay. Nominato vescovo per gli indios del Brasile, sarebbe morto nel 1895 in un incidente ferroviario.

Giunse il momento in cui il giovane Albera e altri dovevano essere ammessi agli “ordini minori”. In questo passaggio la secolare rivalità tra il clero diocesano e altre forme di servizio nella Chiesa (in questo caso, un’altra giovane congregazione) divenne tristemente evidente. Il nuovo arcivescovo di Torino, succeduto a mons. Fransoni, non era così convinto che i ragazzi di don Bosco che manifestavano i segni della vocazione dovessero rimanere con lui. E dal momento che c’era carenza di sacerdoti, l’arcivescovo pretendeva che questi giovani entrassero a far parte del clero diocesano. Don Bosco dovette ricordare, tra i vari argomenti, che un gran numero di seminaristi diocesani dell’epoca proveniva dagli istituti salesiani di Valdocco e di Lanzo Torinese. Questi argomenti permisero, non senza difficoltà, a Paolo Albera, Giuseppe Costamagna e Francesco Dalmazzo di ricevere gli ordini minori e poi il suddiaconato rimanendo con don Bosco.


Di nuovo a Valdocco

Erano tempi difficili e travagliati. Già nel 1855 erano state emanate leggi anticlericali. Negli anni successivi l’esercito piemontese aveva occupato quasi tutta la Penisola, fino all’unità d’Italia proclamata nel 1861. Il processo di unificazione del Paese si sarebbe concluso il 20 settembre 1870 con la presa di Roma, che segnò la fine dello Stato pontificio e portò alla sospensione del Concilio Vaticano I, iniziato l’anno precedente. In questo contesto, complesso e in movimento, si colloca la storia che stiamo ripercorrendo.

Nel 1865 l’Oratorio di Valdocco era insieme un “seminario”, un collegio e una serie di laboratori, e il numero dei giovani che lo frequentavano (circa settecento) cresceva insieme ai debiti. In quell’anno don Alasonatti, l’economo, muore. La Basilica di Maria Ausiliatrice è in costruzione. Le Letture Cattoliche hanno 12.000 abbonati e il lavoro che richiedono è enorme. Don Bosco si reca spesso a Roma per l’approvazione della Congregazione e in qualche modo il lavoro e la responsabilità sulle sue spalle si rivelano eccessivi. Di fronte a questa situazione, don Rua viene richiamato da Mirabello per sostenere don Bosco.

Il giovane Albera è ordinato sacerdote a Casale il 2 agosto 1868. Il 9 giugno dello stesso anno era stata consacrata la Basilica di Maria Ausiliatrice. Sempre nello stesso anno don Bosco chiede a don Albera di tornare a Valdocco per essere il “prefetto degli esterni”. Così Paolo torna a Torino per collaborare con don Rua, esausto e malato. Don Bosco gli affida i seminaristi e le relazioni esterne: accettazione degli studenti, rapporti con le loro famiglie e altre persone, fino a quando, il 27 agosto 1871, arriva a don Rua una lettera da Roma in cui don Bosco scrive: «La casa di Genova è finita, che Albera faccia i bagagli!».

A proposito di quel periodo, don Albera stesso scrive: «L’anno della consacrazione del Santuario di Maria Ausiliatrice ritornai a Torino, e per altri quattro anni potei godere l’intimità di don Bosco e attingere dal suo gran cuore quei preziosi ammaestramenti che erano tanto più efficaci su di noi, quanto meglio li vedevano già messi in pratica da lui nella sua condotta giornaliera»5.


Direttore a Sampierdarena (Genova)

Dopo quei quattro anni don Albera sarà il fondatore e direttore della casa di Marassi (1871-1872), che poi i salesiani lasceranno per trasferirsi a Sampierdarena, per avere uno spazio più ampio a disposizione (Marassi e Sampierdarena sono quartieri di Genova). Lasciate che vi racconti queste vicende in modo più disteso.

A partire dal 1858 i giovani dell’Oratorio di Valdocco aspettavano ogni anno le passeggiate autunnali organizzate da don Bosco. Nel 1864 ricevettero una grande promessa: avrebbero visto il mare a Genova! Lì, dalla fine del 1856, don Bosco aveva incontrato benefattori e divulgatori delle Letture Cattoliche. Ora per il nostro Padre, accolto calorosamente dall’arcivescovo mons. Andrea Charvaz, si avverava un sogno: i Salesiani avrebbero avuto un posto a Genova.

La nuova comunità era composta da sei Salesiani: don Albera, 26 anni, in testa, 2 seminaristi e 3 insegnanti di laboratorio. Nel congedarli il 26 ottobre 1871, don Bosco chiede se hanno bisogno di qualcosa. Albera ha 500 lire per il pagamento dell’affitto. «Mio caro Paolino, non c’è bisogno di così tanto denaro. La Divina Provvidenza vive anche a Genova... Apri un ospizio per i giovani più poveri e abbandonati», e dà loro il necessario per il viaggio. All’arrivo non c’era nessuno ad aspettarli... e non c’era niente in casa. Ma la Provvidenza non tardò a manifestarsi. Alla fine di novembre aprirono laboratori di sartoria, calzoleria e falegnameria per circa quaranta giovani. E il 3 dicembre arrivò la tanto sospirata visita: don Bosco in persona.

I salesiani rimasero quasi un anno a Marassi; qui don Albera era responsabile di un orfanotrofio e allo stesso tempo preparava i ragazzi a diventare sarti, calzolai e falegnami. Nel novembre del 1872 iniziò la presenza a Sampierdarena, e la formazione professionale continuò, estendendosi alle specialità di legatori, meccanici, tipografi e compositori per tipografie.

Il 14 novembre 1875 è un giorno particolarmente significativo e commovente. Come molti di noi sicuramente ricordano, è la data della prima spedizione missionaria preparata da don Bosco e diretta in Argentina, dove giungerà avendo toccato qualche giorno prima la terra dell’Uruguay, secondo la rotta stabilita dalla compagnia di navigazione. Tre giorni prima della partenza, nella Basilica di Maria Ausiliatrice, aveva avuto luogo la celebrazione liturgica di commiato. Il giovane direttore della casa di Genova, don Albera, accompagna don Bosco sul ponte della nave per dare l’ultimo saluto ai salesiani che saranno i primi missionari della nostra Congregazione. Mi piace ricordare che da quel tempo fino ad oggi, mentre stiamo preparando la 152a spedizione missionaria, senza interruzione, anche in tempo di guerra, i missionari salesiani (e spesso le nostre sorelle Figlie di Maria Ausiliatrice) sono stati pionieri, portando il Vangelo nei luoghi più remoti. In alcuni anni ci sono stati anche due invii di missionari.

Un’ultima annotazione: nella tipografia di Sampierdarena, mentre era direttore don Albera, il 10 agosto 1878 fu stampato il primo numero del Bollettino Salesiano. La stampa della rivista continuò in quella sede fino al 1882.


Ispettore in Francia (1881-1892): il “piccolo don Bosco”

Questo divenne don Albera a partire dall’ottobre 1881, quando don Bosco lo inviò a Marsiglia come primo ispettore delle case salesiane di Francia. Lì trovò una situazione difficile, poiché l’anno prima era stata promulgata la legge di espulsione delle congregazioni non autorizzate. Tuttavia, senza scoraggiarsi, i salesiani trovarono il modo di non essere espulsi e di rimanere, dichiarandosi “società di beneficenza”. Quando Albera arrivò, in Francia c’erano quattro case. In dieci anni fondò altre dieci case e svolse un servizio splendido, facendosi apprezzare sia dai confratelli sia da tanti laici, che parlarono magnificamente di lui. La sua gentilezza e semplicità di modi, il suo sorriso, il suo tratto aperto e cordiale, la sua profonda spiritualità conquistarono il cuore dei giovani, così come la fiducia e l’affetto dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

In tutto questo percorso, don Bosco fu sempre molto presente nella vita e nel cuore di don Albera. Era noto l’affetto che don Bosco nutriva per lui; in una lettera, ad esempio, gli confidava: «La mia salute da qualche tempo viene meno ogni giorno, ma mentre ti scrivo mi sembra di stare perfettamente bene. Credo che questo sia l’effetto del grande piacere con cui ti scrivo». A testimonianza di questa benevolenza non ci sono solo le lettere. Infatti, don Bosco visitò più volte don Albera per sostenerlo nella missione, per incoraggiare i salesiani e i giovani, per tenere conferenze e per cercare aiuti finanziari in varie città.

Nella visita del 1884 don Bosco era malato e sofferente. Il dottor Combal gli fece un consulto approfondito: «Il suo organismo è come un vestito logorato dall’uso quotidiano, l’unico rimedio è il riposo». Nel mese di febbraio 1885 in Francia si diffuse una voce allarmante: si diceva che don Bosco fosse morto. Era solo un falso allarme; ma nel gennaio 1888 era un fatto sicuro che don Bosco fosse gravemente malato. Così il 12 gennaio don Albera arriva a Torino. Non sa se restare o ripartire... Don Bosco lo aiuta a decidere: «Tu fai il tuo dovere andando. Dio sia con te! Pregherò per te. Ti benedico con tutto il mio cuore». Don Cerruti promette di tenerlo informato. Qualche giorno dopo il ritorno in Francia, don Albera ricevette un telegramma nel quale si diceva che don Bosco stava morendo. In realtà, quando lo lesse, don Bosco era già morto. In ogni modo, ebbe il tempo necessario per organizzare il proprio viaggio, essere presente al funerale e dare l’addio al caro Padre.

Quello che è certo, riguardo agli anni trascorsi in Francia, è che in don Albera si prolunga la presenza di don Bosco: lo chiamavano “le petit don Bosco”. Un ex allievo dell’Oratorio San Leone di Marsiglia ha testimoniato: «I suoi modi modesti e umili, il suo sorriso costante, il suo modo gentile di trattarci, ci davano coraggio». Non c’era momento che non fosse tra i ragazzi. Li visitava nella sala da pranzo e nella cappella. Parlava poco, ma la sua presenza bastava a suscitare rispetto... Partecipava spesso alle riunioni settimanali delle Compagnie di San Luigi e del Santissimo Sacramento, e le sue parole erano uno stimolo alla pietà e alla virtù.


Direttore spirituale della Congregazione salesiana (1892-1910)

Il 29 agosto 1892, durante il VI Capitolo Generale, don Paolo Albera fu eletto all’unanimità “catechista generale”, cioè direttore spirituale della Congregazione, in sostituzione di don Giovanni Bonetti, morto improvvisamente l’anno prima. Ricoprirà questo ruolo per diciotto anni. Durante questo periodo curerà particolarmente la formazione dei giovani salesiani attraverso incontri personali, esercizi spirituali e colloqui. Il 12 ottobre 1893, insieme a mons. Cagliero, al Rettor Maggiore don Rua e a don Barberis, si reca a Londra per assistere alla consacrazione della chiesa del Sacro Cuore. Un aneddoto interessante inquadra bene la sua personalità: dopo un imprevisto che ebbero sul treno, scrisse nel suo diario: «Bisogna imparare l’inglese».

Vale anche la pena ricordare che nel 1895 don Albera accompagna don Rua nel suo viaggio in Terra Santa, e nello stesso anno partecipa al I Congresso Internazionale dei Cooperatori a Bologna. È interessante menzionare questi due fatti, perché nel suo diario, nella sua magnifica e classica scrittura, don Albera ha delineato un autoritratto che mi commuove personalmente per la trasparenza e finezza spirituale nel parlare di se stesso, dei suoi sentimenti e dei suoi difetti. Nel manoscritto, alla data del 31 dicembre 1895, si legge: «Il 1895 si getta nell’eternità. Per me è stato ricco di gioie e di dolori. Ho potuto rivedere la casa di Marsiglia, dove ho lasciato in gran parte il mio cuore. Di là sono andato in Terra Santa e sono stato edificato dalla compagnia di don Rua. Quale pietà, spirito di sacrificio e di mortificazione! Quale zelo per la salute delle anime; e soprattutto quale uguaglianza di umore! Ho visto Betlemme, Gerusalemme, Nazaret: quali dolci ricordi! Ho potuto prendere parte al Congresso di Bologna. Ne conservo un ricordo indimenticabile… Ho potuto predicare esercizi alle suore in Francia. Questo ha fatto bene alla mia anima. Ho potuto occuparmi degli ordinandi e sono stato ben più soddisfatto degli anni precedenti… Ho scritto qualche pagina su mons. Lasagna e si è avuto la bontà di apprezzarle. Ma anche l’anno 1895 finisce senza che mi sia corretto dei miei difetti più gravi. Il mio orgoglio è tuttora al più altro grado. Il mio carattere è tuttora difficile anche con don Rua. La mia pietà è sempre superficiale e non esercita una grande influenza sulla condotta, sulle mie azioni che sono tutte ancora umane e poco degne di un religioso. La mia carità è capricciosa e piena di parzialità. Non sono mortificato negli occhi, nel gusto, nelle parole… Le malattie sono assai aumentate: potrei morire da un momento all’altro nello stato in cui sono: non è un’idea, è la realtà, e ne sono consapevole. Voglio mettermi nel nuovo anno a vivere meglio, per morire meglio. Mi ricordo di aver diretto due miei confratelli che hanno fatto voto di schiavitù a Maria. Mi hanno edificato col loro zelo, con la loro devozione. Il loro sangue ha sigillato il loro impegno, ed io che ho avuto l’aria di essere il loro maestro e direttore in tutto questo, non sono nulla… Maria, madre mia, non permettete che abbia l’onta di riconoscermi inferiore in virtù ai miei subalterni: datemi un grande amore per voi»6.

Mi piace pensare che chiunque leggerà questa pagina capirà molto della finezza spirituale di don Paolo Albera e quanto egli fosse esigente con se stesso. In verità, le testimonianze di altri su di lui sono molto più elogiative rispetto a quello che egli scrive di sé, poiché le sue qualità erano evidenti. La sua finezza e delicatezza erano riconosciute da tutti.


L’America da cima a fondo

Don Bosco raccontò che in uno dei suoi sogni missionari aveva attraversato l’America da Valparaiso ed era arrivato a Pechino... Nell’anno 1900 si celebrava il giubileo d’argento del primo invio missionario e cresceva l’attesa che don Rua visitasse le ispettorie americane; ma sarebbe stato don Albera, che allora aveva 55 anni, ad essere inviato a suo nome.

«Nel gennaio del 1900, don Rua annunciò il giubileo dell’arrivo dei primi missionari salesiani in America e il grande bene che era stato fatto in quei 25 anni dai Salesiani e dalle Figlie di Maria Ausiliatrice nel Nuovo Mondo. In questa occasione, non potendo egli stesso recarsi in America per celebrare la festa con i confratelli missionari, decise di mandare qualcuno a rappresentarlo. Dato che i primi due nominati, don Marenco e don Barberis, per vari motivi non poterono accettare l’impegno, don Rua chiese a don Albera di sostituirli. Così dal 7 agosto 1900 all’11 aprile 1903 don Albera visitò le 215 presenze dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice in Uruguay, Paraguay, Argentina, Brasile, Cile, Perù, Bolivia, Ecuador, Colombia, Venezuela, America Centrale, Messico e Stati Uniti»7.

Per quasi tre anni don Albera andò di casa in casa: incontri personali e di gruppo, celebrazioni liturgiche, ricevimenti gioiosi e atti formali, esercitando il suo ministero sacerdotale, predicando esercizi spirituali, tenendo conferenze a comunità e associazioni, specialmente nelle case di formazione dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Entusiasmò con don Bosco e portò conforto, come in Ecuador dopo la persecuzione religiosa, o in seguito all’esilio, alla febbre gialla e alla guerriglia in Colombia e Venezuela. Viaggiando in treno, in barca, in carrozza, a cavallo, a piedi..., attraversò città e foreste, tempeste di neve, mari in tempesta e piogge torrenziali, adattandosi ai diversi climi, freddi o caldi, alle diverse altitudini, mettendo a rischio la propria salute precaria, sperimentando persino una quarantena nell’isola di Flores. Passava da una repubblica all’altra, con la tonaca o senza, come in Messico, constatando come l’Oratorio di Valdocco fosse il modello riprodotto nel fervore della vita spirituale, nella proposta pedagogica, nell’attività evangelizzatrice... Questo era il suo programma abituale, confortato dalla cordialità con cui veniva accolto.

In quegli anni don Albera incoraggiò nuove fondazioni e accettò diverse richieste da parte dei vescovi di inviare salesiani. Presiedette eventi come il I Capitolo sudamericano dei direttori salesiani, che vide la partecipazione di 44 direttori, due vescovi, quattro ispettori. Concluse la sua visita assistendo all’ordinazione di 15 sacerdoti, che celebrarono la Messa a mezzanotte tra il 1900 e il 1901, quando don Rua consacrò la Famiglia Salesiana al Sacro Cuore di Gesù.

La sua esperienza personale può essere riassunta da queste parole di una delle sue lettere: «Qui mi sento quasi meglio, anche se il modo di vivere è così diverso da quello europeo. Sono sempre in viaggio e non ho tempo per scrivere... I confratelli mi riempiono delle attenzioni più delicate...».

Una caratteristica permanente di don Albera, evidente ovunque – sia a Sampierdarena, sia in Francia o nella visita di oltre due anni e mezzo in America – era il suo modo semplice di “essere un altro don Bosco”. Nella lunga visita di cui stiamo parlando, don Albera si è speso per entusiasmare la Famiglia Salesiana e, in particolare, i Salesiani Cooperatori.

La sua preoccupazione era quella di don Bosco per i suoi giovani: la salvezza di ognuno. Molte sono le testimonianze che dichiarano come la sua presenza, le sue parole, il suo sorriso sereno e sobrio abbiano lasciato l’immagine di un padre che portava in sé l’impronta di don Bosco.

Il 18 marzo 1903 don Albera iniziò il viaggio di ritorno a Valdocco, dove arrivò l’11 aprile. Tutto l’Oratorio ringraziò con il canto del Te Deum. Si può dire che il sogno di don Bosco era diventato realtà.


Rettor Maggiore (1910-1921)

E arrivò il momento che non aveva mai desiderato e che avrebbe volentieri evitato, se solo avesse potuto. Il 16 agosto 1910, nell’XI Capitolo Generale, don Paolo Albera fu eletto Rettor Maggiore al primo scrutinio e con ampia maggioranza: «Scoppiò un caloroso applauso e tutti sorsero in piedi a rendere il primo omaggio al secondo successore di don Bosco, mentre il nuovo eletto scoppiava in pianto… “Vi ringrazio dell’attestato di fiducia e di stima che mi avete dato, ma temo che presto dovrete fare un’altra elezione!”»8. In realtà don Albera non si riteneva adatto. Quella sera scrisse nel proprio taccuino: «Questo è un giorno molto infelice per me. Sono stato eletto Rettor Maggiore della Pia Società di S. Francesco di Sales. Quale responsabilità sulle mie spalle!... Ho pianto molto specialmente davanti alla tomba di don Bosco»9. Nella prima lettera circolare ai Salesiani ricordava ancora: «Appena mi fu permesso, corsi a gettarmi ai piedi del nostro Ven. Padre, lamentandomi fortemente con lui perch’avesse lasciato cadere in sì misere mani il timone della navicella salesiana»10.

Don Eugenio Ceria, negli Annali della Società Salesiana11, ha rivelato alcuni passaggi del diario intimo di don Albera. Pochi giorni dopo la morte di don Rua, Albera scriveva: «Parlo molto con don Rinaldi. Desidero con tutto il cuore che sia eletto Rettore Maggiore della nostra Congregazione. Pregherò lo Spirito Santo perché ci conceda questa grazia». Riferendosi al momento delle votazioni, don Ceria nota come risuonassero nell’assemblea i nomi di don Albera e don Rinaldi. E aggiunge che il primo sembrava più preoccupato, mentre il secondo appariva molto tranquillo. Alla fine, il numero di voti era di 46 a favore di don Albera contro i 19 a favore di don Rinaldi. Questi era calmo perché era certo che la “profezia” di don Bosco, fatta il 22 novembre 1877, si sarebbe avverata. Don Rinaldi, infatti, era convinto che in quel giorno don Bosco avesse profetizzato la nomina di don Albera come suo secondo successore. Per questa ragione don Rinaldi aveva conservato quella profezia in una busta sigillata, sicuro che si sarebbe compiuta. E, di fatto, si era appena compiuta12.

Terminato il Capitolo generale, don Albera iniziò il suo servizio come una vera animazione della Congregazione, proseguendo il modello di governo inaugurato da don Rua e perfezionandolo gradualmente in vari aspetti13. La prima parte del suo rettorato fu la più dinamica, caratterizzata da numerosi viaggi, da incontri e dalla partecipazione ad eventi. Parleremo di molte di queste realtà nella seconda parte di questa lettera, facendo riferimento a vari aspetti della sua animazione e alla loro rilevanza per noi oggi.

Don Albera assicurò ogni anno le spedizioni missionarie, in fedeltà a don Bosco e come fece anche don Rua. Prese parte a molti congressi, come ad esempio il I Congresso Internazionale degli Exallievi Salesiani a Valsalice (1911), con più di mille partecipanti, o il V Congresso degli Oratori Festivi e Scuole Religiose (1911). Si prese molta cura della giovane Famiglia Salesiana e fu innovatore mediante scelte e decisioni per le case salesiane, in particolare attraverso l’opzione preferenziale per gli orfani durante il periodo della guerra e almeno per il decennio successivo. Proprio in occasione della prima guerra mondiale la posizione di don Albera e della Congregazione manifesta un grande interesse. Egli si prese cura con grande paternità dei Salesiani chiamati al fronte, fino alla serena conclusione della propria vita14. Don Rinaldi scrisse un ampio necrologio su don Albera in cui, come bilancio del suo rettorato, ricordò: «Il Signore gli diede la consolazione di veder benedette le sue fatiche, nel numero dei soci aumentato durante il suo Rettorato di 705, nonostante i vuoti causati dalla guerra, nel numero delle case aumentato di 103, nelle nuove missioni aperte in Africa (nel Congo Belga), in Asia (nella Cina e nell’Assam), nel Chaco Paraguayo»15.



2. UN PASSATO CHE ILLUMINA IL NOSTRO PRESENTE


All’inizio di questa seconda parte, che si pone in dialogo con la vita e il servizio di don Paolo Albera come Rettor Maggiore, desidero condividere con voi, cari Confratelli, ciò che mi ha spinto in modo speciale a scrivervi questa lettera.

La mia intenzione non è, evidentemente, quella di uno storico: non lo sono e, da questo punto di vista, non potrei aggiungere molto alle eccellenti pubblicazioni che già esistono. L’intenzione che dichiaro è un’altra: alla luce della vita di don Albera e delle sue lettere circolari, ho cercato di scoprire quegli elementi – scegliendo solo alcuni tra i molti contributi che egli ha dato negli undici anni di servizio come Rettor Maggiore – che hanno una grande forza per illuminare, orientare e provocare riflessioni per il nostro presente.

Per quanto impensabile possa sembrare, ciò che don Albera ha vissuto e deciso stimola un ricco dialogo con il nostro presente; la realtà nella quale egli è vissuto così come l’animazione e il governo da lui esercitati più di un secolo fa hanno ricche analogie con il nostro presente e con alcune delle linee programmatiche che abbiamo indicato per l’attuale sessennio dopo il Capitolo Generale 28.


2.1. Alla scuola di Don Bosco


«Salesiano di Don Bosco per sempre. Un sessennio per crescere nell’identità salesiana»

(CG28, Linea programmatica 1)


Leggendo gli scritti di don Albera, impressiona il suo grande amore a don Bosco: «L’unica cosa necessaria per divenire suo degno figlio era d’imitarlo in tutto: perciò, sull’esempio dei numerosi fratelli anziani, i quali già riproducevano in sé stessi il modo di pensare, di parlare e di agire del Padre, mi sforzai di fare anch’io altrettanto. Ed oggi, alla distanza di oltre mezzo secolo, ripeto pure a voi, che gli siete figli come me, e che a me figlio più anziano siete stati da lui affidati: imitiamo don Bosco nell’acquisto della nostra perfezione religiosa, nell’educare e santificare la gioventù, nel trattare col prossimo, nel fare del bene a tutti»16.

Egli ricorda, nella lettera circolare Sulla disciplina religiosa17, come lui e un piccolo gruppo di ragazzi fossero stati “alla scuola di don Bosco”: «Così poco a poco ci andavamo formando alla sua scuola tanto più che i suoi insegnamenti avevano un’irresistibile attrattiva sui nostri animi ammirati dello splendore delle sue virtù»18. In questa parte della lettera don Albera racconta come quel piccolo gruppo si sentisse fortunato ad avere accesso alle confidenze di don Bosco, come fossero orgogliosi di essere stati scelti da lui per seguire i suoi ideali, come fossero incoraggiati nel vedere che diventavano sempre più numerosi, e come tutto questo insieme di sentimenti «rendeva ognor più generosi i nostri propositi e più stabile la nostra volontà di rimanere sempre con lui, e di seguirlo ovunque»19.

È molto significativo leggere nel suo scritto che «già oltre cinquant’anni passarono da quei tempi fortunati, ma il tempo trascorso non valse a cancellare dai nostri cuori l’impressione che in noi lasciava la parola di don Bosco»20. Molti anni dopo quelle esperienze, come Rettor Maggiore, ormai uomo maturo, don Albera continua ad esprimere con l’amore di un bambino o di un adolescente una profonda gratitudine a don Bosco, che sentiva Padre e al quale credeva di dovere tutto: «Quando penso al giorno in cui, fanciullo di tredici anni, venni caritatevolmente accolto da don Bosco nell’Oratorio, m’invade un fremito di commozione, e a una a una mi si fanno alla mente le grazie pressoché innumerevoli, che il Signore mi riserbava alla scuola di questo dolcissimo Padre! Ma, con me, quanti debbono ripetere: “Di tutto siamo debitori al venerabile don Bosco! La nostra educazione, la nostra istruzione, e, non pochi, la stessa vocazione al sacerdozio, la dobbiamo alle paterne sollecitudini di quell’uomo di Dio, che nutriva per i suoi figli spirituali santo e insuperabile affetto”»21.

Si potrebbero aggiungere molte altre testimonianze riguardo alla fedeltà di don Albera a don Bosco, ma, per non dilungarmi troppo, mi limito a riportare il magnifico ritratto che, alla sua morte, ne fece don Rinaldi: «Si formò prima e sempre alla scuola di don Bosco, del quale studiava gelosamente tutti gli insegnamenti… La grandezza della figura morale di don Albera, come Rettor Maggiore dei Salesiani, sta tutta nel fermo proposito di calcar fedelmente, senza restrizioni e senza alcun sottinteso, le orme di don Bosco e di don Rua. Questa è la vera gloria degli undici anni del suo rettorato»22.

Queste testimonianze mostrano con quanta insistenza e convinzione don Albera parlava della necessità di conoscere don Bosco, di studiare con amore la sua vita e i suoi scritti, di farlo conoscere e di parlarne ai giovani.

Con le parole di oggi direi che in questo “ci giochiamo” la nostra fedeltà carismatica e la nostra stessa identità di Salesiani di Don Bosco. Nel recente Capitolo Generale 28, facendo riferimento al fatto che abbiamo davanti a noi un sessennio molto propizio per crescere nell’identità salesiana, ho scritto alcune parole di forte richiamo, dicendo che «la nostra Galilea per l’incontro con il Signore oggi, come Salesiani di Don Bosco, passa per Valdocco, gli inizi di Valdocco, anche fragili, ma con quella forza e passione della frase: “frate o non frate resto con don Bosco”, che il giovane Giovanni Cagliero espresse con tanto ardore ed entusiasmo giovanile. Valdocco è, infatti, l’atmosfera spirituale e apostolica nella quale ciascuno di noi respira l’aria dello Spirito, dove alimentiamo e rafforziamo la nostra identità carismatica. È il luogo della “trasfigurazione” per ogni salesiano che, prendendosi cura di tutti gli elementi della nostra spiritualità, potrà contribuire a rendere ciascuna delle nostre case un’autentica Valdocco, dove sia possibile incontrare faccia a faccia, nella vita quotidiana, il nostro Signore Gesù Cristo»23.

Per questo motivo dico che in questo rischiamo molto. È in gioco la nostra identità carismatica. Essere impregnati dello spirito di don Bosco, o essere più o meno a lui indifferenti, non è qualcosa di banale. Rivolgere lo sguardo a don Bosco come garanzia di fedeltà al Signore ispirata dallo Spirito Santo è decisivo, perché è nel contemplare don Bosco che scopriamo, salesianamente parlando, il nostro “codice genetico”. E come il carisma si è sviluppato in lui, così deve svilupparsi in noi, se scegliamo la via della fedeltà. L’articolo 21 delle nostre Costituzioni presenta don Bosco come nostro modello: «Il Signore ci ha donato don Bosco come padre e maestro. Lo studiamo e lo imitiamo, ammirando in lui uno splendido accordo di natura e di grazia». Sono sicuro che don Paolo Albera, che tanto ha parlato ai suoi salesiani del fascino e dell’attrattiva esercitati su di lui da parte di don Bosco, sarebbe in totale accordo con queste bellissime dichiarazioni delle nostre Costituzioni.

L’incontro con don Bosco, come fu per i giovani Rua, Francesia, Cagliero, Albera e tanti altri, così è stato determinante nella nostra vita fino ad oggi; almeno per molti di noi. La sua figura e la sua personalità, la sua fede in Dio e nel Signore Gesù Cristo, così come il suo amore per i suoi ragazzi, sono stati e continuano ad essere fonte di ispirazione. Il nostro incontro con lui, sicuramente attraverso le mediazioni più inaspettate, è stato una grazia, e conoscerlo – a volte un poco, a volte un po’ di più – fino ad amarlo, ci ha segnato profondamente. Per noi, come afferma l’articolo delle Costituzioni che ho appena citato, don Bosco è un “padre”: espressione che non solo ci parla di amore, di affetto, di ammirazione, ma che orienta il nostro sguardo a don Bosco come fondatore; a don Bosco che ha iniziato questa affascinante esperienza spirituale che è il carisma salesiano, che portiamo nel cuore e del quale siamo parte. Egli stesso diceva: «Chiamatemi padre e sarò felice»24. «In qualsiasi parte vi troverete ricordate che qui a Torino avete un Padre che vi ama nel Signore»25.

Cerchiamo di conoscere e ammirare questo Padre, mentre viviamo il nostro essere Salesiani di Don Bosco (SDB) in un rapporto vitale con lui, sentendoci felici, sperimentando un crescente senso di pienezza nella nostra vita, facendo sì che la nostra vita, la vita di ciascuno, nonostante i limiti e le povertà personali, ci renda “don Bosco oggi” per ogni giovane che la Divina Provvidenza pone sul cammino della nostra vita.

E impegniamoci a studiare il nostro Padre – cosa sulla quale don Albera insisteva già solo ventidue anni dopo la morte di don Bosco –, perché non possiamo ignorare né sottovalutare la distanza cronologica e culturale che ci separa da lui.

La consapevolezza di questa esigenza e la conoscenza della nostra Congregazione mi hanno portato ad affermare, nelle linee programmatiche del sessennio dopo il CG28, che questo tempo dovrà essere caratterizzato da «un profondo lavoro in Congregazione per crescere nella profondità carismatica, nell’identità salesiana, in tutte le fasi della vita, con un impegno serio in ogni ispettoria e in ogni comunità salesiana, per giungere a dire come don Bosco: “Ho promesso a Dio che fin l’ultimo respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani”»26.


2.2. «Come ci amava Don Bosco»27


La pedagogia della bontà. «Vivere il “sacramento salesiano” della presenza»

(CG 28, Linea programmatica 3)


Don Albera, nella lettera circolare sugli oratori, le missioni e le vocazioni, riferisce che don Rua disse un giorno a un Salesiano che stava inviando ad aprire un oratorio festivo: «Colà non v’è nulla, neppure il terreno e il locale per radunare i giovani, ma l’Oratorio festivo è in te: se sei vero figlio di don Bosco, troverai bene dove poterlo piantare e far crescere in albero magnifico e ricco di bei frutti». Prosegue don Albera: «E così fu, perché in pochi mesi sorgeva bello e spazioso l’Oratorio, gremito da centinaia di giovani, i più grandi dei quali erano divenuti in breve gli apostoli dei più piccoli»28.

Inizio con questa citazione su don Rua non tanto per riferirmi all’Oratorio salesiano – anche se è un tema meravigliosamente carismatico, nel quale don Bosco, don Rua, don Albera e altri, naturalmente, hanno creduto tanto – quanto per mostrare il grande valore che ha il fatto di portare nel nostro cuore tutta la forza di un educatore, tutta la passione educativa di un pastore, tutta la pedagogia della bontà e della dolcezza, che ci permette di vivere come vero “sacramento salesiano” la nostra presenza in mezzo ai ragazzi e ai giovani.

Molte sono le pagine nelle quali don Albera racconta come il nostro Padre don Bosco amasse i suoi ragazzi. Offro alcune “pennellate” tra le tante che si potrebbero scegliere: «L’amore di don Bosco per noi era qualche cosa di singolarmente superiore a qualunque altro affetto: ci avvolgeva tutti e interamente quasi in un’atmosfera di contentezza e di felicità, da cui erano bandite pene, tristezze, malinconie… Oh! Era l’amore suo che attirava, conquistava e trasformava i nostri cuori… Tutto in lui aveva per noi una potente attrazione: il suo sguardo penetrante e talora più efficace di una predica; il semplice muover del capo; il sorriso che gli fioriva perenne sulle labbra, sempre nuovo e variatissimo, e pur sempre calmo; la flessione della bocca, come quando si vuol parlare senza pronunziar le parole»29.

Nella lettera che sto citando don Albera fa notare ai salesiani che è necessario amare i giovani e, come fa molte volte e abbondantemente in altri suoi scritti, ricorda la propria esperienza di vita accanto a don Bosco. Ad esempio, scrive: «Ancor adesso mi sembra di provare tutta la soavità di questa sua predilezione verso di me giovinetto: mi sentivo come fatto prigioniero da una potenza affettiva che mi alimentava i pensieri, le parole e le azioni, ma non saprei descrivere meglio questo stato dell’animo mio, ch’era pure quello de’ miei compagni d’allora… sentivo di essere amato in un modo non mai provato prima, che non aveva nulla da fare neppur con l’amore vivissimo che mi portavano i miei indimenticabili genitori»30.

Nella Lettera XXVII Sulla dolcezza, rivolta specialmente agli ispettori e ai direttori per incoraggiarli a distinguersi nelle loro relazioni con gli altri non solo per la carità ma anche per la dolcezza, don Albera non esita a dire che questa ha «una importanza capitale, ed è la nota caratteristica dello spirito di don Bosco»31. Nelle pagine iniziali della lettera compie un lungo percorso, riferendosi sia allo sforzo necessario per coltivare e dominare il proprio carattere, sia agli esempi della vita di alcuni santi, fino a colui che è il nostro modello, don Bosco. Nel sogno dei nove anni a Giovanni Bosco viene chiesto di praticare la dolcezza. La Signora del sogno gli sarebbe stata vicina e «gli avrebbe insegnato il modo più efficace per correggere e rendere migliori quei monelli». Commenta don Albera: «Tutti sappiamo come questo mezzo non fosse altro che la dolcezza; e don Bosco ne fu tanto persuaso, che subito cominciò a praticarla con ardore, e ne divenne un vero modello»32. E conclude: «Persuadiamoci bene di questo: secondo le idee del nostro Venerabile, il vero segreto per guadagnare i cuori, la qualità caratteristica del salesiano, consiste nella pratica della dolcezza»33.

Il Santo Padre, nel messaggio che ha rivolto per iscritto ai partecipanti al Capitolo Generale 28 – comunicando all’ultimo momento l’impossibilità ad essere presente, come avrebbe voluto, a causa del blocco territoriale imposto dalla pandemia di COVID-19 – ci consegna parole ed espressioni proprie di chi conosce bene coloro ai quali sta scrivendo e ci “provoca” a tornare sempre alle nostre origini a Valdocco. Il Papa ci ha parlato della «opzione Valdocco» e del «carisma della presenza», che umilmente mi permetto di chiamare sacramento salesiano della presenza, perché – ne sono convinto – si tratta per noi di un “luogo teologico” di incontro con Dio attraverso la nostra presenza in mezzo ai giovani. Ebbene, il Santo Padre ci dice che «prima delle cose da fare, il salesiano è il ricordo vivente di una presenza dove disponibilità, ascolto, gioia e dedizione sono le note essenziali per risvegliare i processi. La gratuità della presenza salva la Congregazione da ogni ossessione attivista e da ogni riduzionismo tecnico-funzionale. La prima chiamata è quella di essere una presenza gioiosa e libera in mezzo ai giovani»34.

Ci troviamo certamente in sintonia con questo linguaggio, fatto di parole che toccano il nostro cuore di apostoli ed educatori, ma parlano di una realtà che è molto più di una naturale predisposizione a stare in mezzo ai giovani. Quando dico “sacramento salesiano della presenza”, non mi riferisco solo all’essere fisicamente presente – cosa che ritengo in ogni caso necessaria – e nemmeno all’avere ed esercitare una simpatia naturale o coltivata e colta (che è anche necessaria), ma soprattutto al fatto di vivere questa presenza gentile e dolce come elemento essenziale della nostra spiritualità. L’affetto, la delicatezza, la gentilezza, “l’amorevolezza” – parola italiana che riassume tutto questo in una sola espressione – è, soprattutto, un segno dell’amore di Dio per i giovani attraverso la nostra persona. È il frutto della carità pastorale, è l’amore autentico e vero dell’educatore che è amico, fratello, padre, è l’amore che si manifesta nella presenza con un vero clima familiare, nella generosità del servizio e del sacrificio a favore dei nostri ragazzi e giovani. È una presenza che si concretizza nell’ascolto attento e paziente, nella padronanza di noi stessi e anche nei nostri sforzi per non rovinare mai in un momento ciò che si sta costruendo con tanta fatica. È l’espressione di una vera mistica e spiritualità salesiana: il contenuto di queste due parole non deve spaventarci. È certamente un mezzo e una via magnifica per l’educazione e l’evangelizzazione dei giovani.

La presenza salesiana in mezzo ai giovani non è complicata, non è rigida. Accettiamo di interessarci a ciò che interessa loro; siamo felici che essi possano esprimersi in modo spontaneo, essendo se stessi. La nostra è una presenza affettiva ed efficace (e non solo a parole), una presenza da educatore e da amico, che sa essere vicino, che sa parlare al cuore in modo personale e unico. Le parole che ci hanno rivolto i giovani che hanno partecipato al Capitolo Generale 28 continuano a risuonare in me con una forza che non mi lascia indifferente ogni volta che le leggo. Vi invito, cari Confratelli, a rileggerle ancora e ancora: «C’è in noi un forte desiderio di realizzazione spirituale e personale. Vogliamo camminare verso la crescita spirituale e personale, e vogliamo farlo con voi, Salesiani… Vorremmo che foste voi a guidarci, dentro la nostra realtà, con amore… Salesiani, non dimenticatevi di noi, giovani, perché non abbiamo dimenticato voi e il carisma che ci avete insegnato… Avete il nostro cuore nelle vostre mani. Prendetevi cura di questo prezioso tesoro»35. Certamente, cari Confratelli, è un privilegio percepire e ascoltare il battito del cuore della vita dei nostri giovani, e sentir nascere e crescere dentro di noi, nel nostro cuore, quel sentimento che ci fa dire come don Bosco: «Qui con voi mi trovo bene».

L’oratorio, la scuola, il gruppo giovanile sono in te, in ogni cuore salesiano, quando si vive mossi interiormente da questa forte convinzione: sono loro la nostra eredità; sono loro, i giovani, che ci salvano. E, con la dolcezza di Francesco di Sales, non abbiamo altro modo di aiutarli se non quello di essere in mezzo a loro, presenti tra loro con un vero cuore di educatori e pastori. In questo modo diventerà realtà l’espressione: «l’educazione è cosa di cuore e Dio solo ne è il padrone»36.


2.3. Lo spirito di pietà37


«Una Congregazione dove è urgente il “Da mihi animas cetera tolle”»

(CG28, Linea programmatica 2)


Trovo molto significativo che la seconda lettera circolare di don Paolo Albera come Rettor Maggiore sia dedicata allo spirito di pietà. La scrive il 15 maggio 1911. In quegli anni la Congregazione si trovava in un momento particolarmente delicato della sua storia. Gli anni del rettorato di don Rua erano stati anni di grande espansione geografica e di crescita numerica. Erano tempi in cui i salesiani vivevano un grande entusiasmo, realizzavano grandi iniziative ed erano impegnati in un’attività straripante, ma anche esposti a rischi e a pericoli.

In questa lettera don Albera ci offre una panoramica di ciò che intende per “spirito di pietà”: la sua natura e la sua necessità per la vita cristiana e religiosa, per la fecondità apostolica, per la resistenza e la sopportazione nelle prove, per la perseveranza nella vocazione, per la pratica del sistema preventivo, ecc. Ma in particolare, con la grande sensibilità della guida spirituale, don Albera mette in guardia dall’attivismo incontrollato e dai suoi pericoli: «Parlandovi con il cuore alla mano, vi confesso che non posso difendermi dal doloroso pensiero e dal timore che questa vantata attività dei salesiani, questo zelo che sembrò finora inaccessibile ad ogni scoraggiamento, questo caldo entusiasmo che fu fin qui sostenuto da continui felici successi, abbiano a venir meno un giorno ove non siano fecondati, purificati e santificati da una vera e soda pietà»38.

Don Albera riconosce che, insieme alla grazia di Dio e con la protezione di Maria Ausiliatrice, furono l’instancabile lavoro e l’ammirevole energia di don Bosco, di don Rua, di monsignor Cagliero e «di tanti altri loro figliuoli» a portare alla rapida diffusione delle opere salesiane in Europa e in America. Oltre a questo, mostra apprezzamento e riconoscenza per la testimonianza di molti confratelli – sacerdoti, chierici e coadiutori – che sono veri modelli di spirito di pietà e sono ammirati da tutti; «ma pur troppo debbo aggiungere, et flens dico, che v’hanno pure Salesiani che su questo punto lasciano molto a desiderare. Pur troppo ne vanno sprovvisti alcuni, che, quando erano novizi, avevano edificato tutti i compagni con il loro fervore. Più non si direbbero figli di don Bosco certuni, che le pratiche religiose considerano quale un peso insopportabile, adoperano ogni industria per esentarsene, e dànno ovunque il triste spettacolo della loro rilassatezza e indifferenza […]. Che strana contraddizione! Vivono in casa religiosa, seguono in molte cose la comunità, lavorano forse anche secondo i nostri regolamenti, ma intanto in realtà più non sono religiosi»39.

Il cardinale Agostino Richelmy, durante la visita che fece al CG XI appena dopo l’elezione di don Albera come Rettor Maggiore, li ammonì: «Il mondo ammira la vostra prodigiosa operosità, ma la Chiesa e Dio ammirano la vostra santità»40. Non dobbiamo dimenticare che il «sacro fuoco della pietà» e l’«ininterrotta unione con Dio» erano «la nota caratteristica di Don Bosco»41.

Vi confesso, cari Confratelli, che sono rimasto profondamente colpito quando ho letto questa lettera di diciotto pagine di un Rettor Maggiore che, all’inizio del suo servizio, era così fortemente preoccupato per la mancanza di autenticità della vita di una parte dei salesiani in quel momento. E non ho dubbi che don Albera sapesse bene di che cosa stesse parlando, essendo stato per diciotto anni direttore spirituale della Congregazione.

Penso che in tutta la storia della nostra Congregazione (e sicuramente anche nella maggior parte delle congregazioni religiose) sia una costante l’insistenza ad essere molto attenti all’autenticità della vita consacrata – per usare il linguaggio di oggi. Infatti, il venir meno di questa autenticità mette tutto a serio rischio. In vari nostri Capitoli Generali42 e in moltissimi scritti dei Rettori Maggiori43 questa è stata la grande insistenza, e a volte una preoccupazione simile a quella presentata da don Albera. Mi sembra importante ricordare che questo costante richiamo deve aiutarci a vigilare per continuare ad essere molto autentici nel vivere la nostra vita di pastori consacrati al bene dei giovani, con quella dedizione che chiediamo anche come frutto del CG28. Parlando dell’identità carismatica ho ricordato che c’è molto in gioco. Non meno importante è l’aspetto a cui mi riferisco ora. Discutiamo e ci sforziamo tanto per incontrare i giovani ed essere accettati da loro con mille “industrie e ingegnerie” di ultima generazione; facciamo piani strategici di ogni tipo, parliamo di progetti 4.0 simili al percorso sviluppato dalle aziende tecnologiche. Non tolgo il minimo valore al nostro sforzo di vivere con grande attualità e al ritmo dei giovani. Tuttavia, voglio dire con don Albera, che mi accompagna in questa riflessione: nemmeno la più grande simpatia e le migliori doti naturali possono sostituire la profondità di vita, l’interiorità, l’essere uomini di Dio che, quasi senza pretenderlo, raggiungono in profondità il cuore dei giovani. Don Albera dice questo riferendosi a don Bosco e all’attrazione che ha risvegliato in lui e nei primi Salesiani: «Da questa singolare attrazione scaturiva l’opera conquistatrice dei nostri cuori. L’attrattiva si può esercitare talvolta anche con semplici qualità naturali di mente e di cuore, di tratto e di portamento, le quali rendono simpatico chi le possiede; ma una simile attrattiva dopo un po’di tempo si affievolisce fino a scomparire affatto, se pure non lascia il posto a inesplicabili avversioni e contrasti. Non così ci attraeva don Bosco: in lui i molteplici doni naturali erano resi soprannaturali dalla santità della sua vita, e in questa santità era tutto il segreto di quella sua attrazione che conquistava per sempre e trasformava i cuori»44.

Il fascino esercitato da don Bosco non deriva solo dal fatto che egli fu certamente un “uomo di Dio”, un grande carismatico, suscitato dallo Spirito per il bene della gioventù nella Chiesa e nel mondo, ma anche dal fatto che visse sempre come un semplice sacerdote, fondatore di una Congregazione giovanissima e povera; che cominciò la propria opera con un piccolo gruppo di giovani, conservando e alimentando sempre la passione per il bene dei suoi ragazzi; e che, man mano che sviluppava la sua opera, riconosceva e ribadiva con crescente certezza che era la Provvidenza a guidarlo.

Il medesimo e unico Spirito di Dio che ha ispirato don Bosco è presente oggi. Dal punto di vista della fede non abbiamo dubbi che è questa presenza dello Spirito il fondamento della nostra speranza e che è possibile continuare ad essere fedeli al Signore Gesù attraverso la fedeltà a don Bosco e alla sua missione. È lo Spirito che ci unisce a don Bosco e che, quindi, fonda la nostra comunione nella salesianità. È Lui che vuole aiutarci, sotto lo stesso impulso, ad essere «con don Bosco e con i tempi» (don Albera) ovvero ad essere «con don Bosco oggi».

Ma la presenza dello Spirito non è qualcosa di statico, estraneo al nostro divenire. Al contrario, è un invito permanente, rivolto alla nostra libertà, a prestare attenzione e a collaborare continuamente. È la docilità alla Sua chiamata che rende efficace la Sua presenza, perché altrimenti potremmo facilmente «resistere allo Spirito» o «spegnere lo Spirito» (cf. At 7,51; 1Ts 5,19). Per questa ragione abbiamo bisogno, come ricordava don Albera, di tornare allo Spirito. Il nostro Da mihi animas cetera tolle ci conduce a percorrere il cammino che ci porta ad essere anche oggi uomini profondamente spirituali, uomini di fede profonda, che vibrano in Dio con ciò che ci offre ogni giorno per essere ciascuno totalmente e tutto per i giovani.

«Viviamo in un tempo che ama l’effimero», scriveva nel 1989 don Egidio Viganò nelle sue riflessioni sulla grazia di unità45. Analizzando con occhio attento ciò che accadeva in quegli anni, in cui si accentuavano l’effimero, le mode ideologiche, il miraggio di fronte alle meraviglie tecnologiche e il dinamismo dell’efficienza, don Viganò ci avverte della necessità della profondità e dell’interiorità nello Spirito. Il linguaggio di don Albera è differente, ma ci avverte degli stessi rischi. E se questa era la situazione trentadue anni fa, possiamo constatare che il nostro tempo presente ha incrementato ancor più alcune di queste tendenze.

La nostra vocazione è affascinante se ci porta a innamorarci veramente del Signore per lo sviluppo del Regno. Come discepoli e persone consacrate, dobbiamo essere per gli altri “segni e portatori” non solo dell’amore di Dio per i giovani (Cost. 2), ma soprattutto della potenza dello Spirito del Signore nella nostra vita, nella loro vita e nella vita di tutti. E questo, ci dice don Viganò, è possibile solo se «ci esercitiamo quotidianamente a guardare in profondità»46.

Credo che possiamo riconoscere, anche per esperienza personale e comunitaria, che la nostra spiritualità di vita attiva non è facile, nel senso che non è qualcosa che si acquisisce una volta per tutte, ma richiede una laboriosa ed esigente crescita nell’interiorità apostolica, che è stata, è e sarà la garanzia della nostra autenticità spirituale. I pericoli reali, quotidiani, quasi impercettibili, di lasciarci trasportare da uno sguardo orizzontale, di vederci sommersi in un’azione che di per sé sfocia in un attivismo asfissiante, di esaurirci in lavori e sforzi organizzativi e manageriali, e tante altre realtà che conosciamo: tutto questo è come un “attentato contro la vita nello Spirito”. Ricordando don Viganò, voglio ribadire queste certezze: l’interiorità apostolica è come la quintessenza del nostro essere Salesiani di Don Bosco per il mondo di oggi. Il segreto di essa è la grazia di unità. E solo alimentando tale unità interiore diminuisce il pericolo di rimanere preda della superficialità spirituale47.

Non ho dubbi che, in sostanza, il richiamo di don Albera alla pietà e l’invito di don Viganò all’interiorità si riferiscano alla stessa cosa. Si tratta, oggi, di dare qualità all’autenticità della nostra vita come Salesiani di Don Bosco, per dare una risposta concreta alla domanda urgente: «Quali salesiani per i giovani di oggi?».

Il Da mihi animas cetera tolle che portò il ragazzo Domenico Savio a capire che lì, con don Bosco, c’era un «negozio» di anime e non di denaro, è l’espressione che meglio esprime lo zelo e la carità pastorale di don Bosco e anche la nostra. Guardando don Bosco apprendiamo la sua profonda spiritualità, la sua fede solida e fiduciosa, la certezza che Dio è presente in mezzo ai giovani e la necessità di coltivare una robusta vita interiore. La radice profonda della spiritualità di don Bosco fu sempre la sua unione con Dio, la sua vita interiore e il suo dialogo con il Signore. «Non ci sono dubbi che in don Bosco la santità rifulge nelle sue opere, ma è certamente vero che le opere sono solo un’espressione della sua fede. Non sono le opere realizzate che fanno di don Bosco un santo […] ma è una fede ravvivata dalla carità operativa che lo fa santo»48. Quando è vissuta in questo modo, come è avvenuto in don Bosco e come deve avvenire per noi oggi, allora la nostra presenza tra i giovani, il nostro andare incontro a loro, il nostro ripetere oggi la promessa che anche l’ultimo respiro della nostra vita sarà per loro, tutto, assolutamente tutto, sarà intriso di quella pedagogia della grazia, dell’anima e del soprannaturale che è contenuta e che siamo chiamati a vivere nel Da mihi animas cetera tolle.


2.4. Il dramma della guerra (1914-1918)


L’opzione per i ragazzi e i giovani più poveri: gli orfani

«Priorità assoluta per i giovani, i poveri e i più abbandonati e indifesi»

(CG28, Linea programmatica 5)


Durante il rettorato di don Albera la prova più dura fu la Grande Guerra. La prima guerra mondiale causò la partenza per il fronte di quasi la metà dei confratelli, con molte opere requisite e trasformate in caserme e ospedali. In quella situazione di emergenza, don Albera si prodigò per far accogliere nelle case salesiane, anche a prezzo di grossi sacrifici, orfani di guerra e rifugiati. C’era in lui, infatti, la preoccupazione di continuare ad ogni costo l’attività delle opere salesiane, anzi, di incrementarne alcune, come gli oratori e gli orfanotrofi. Invitava i confratelli all’austerità e all’invocazione a Maria con il titolo di Ausiliatrice, secondo la tradizione salesiana dell’implorazione alla “Madonna dei tempi difficili”. Don Bosco, infatti, riconosceva sempre l’ispirazione e il sostegno dell’Ausiliatrice; per questo non si lasciava scoraggiare dalle opposizioni e dalle difficoltà incontrate.

Il 24 maggio 1915 l’Italia entra in guerra e il coinvolgimento della Congregazione diventa totale, essendo la maggior parte dei confratelli di nazionalità italiana. Nella lettera mensile che segue questo grave fatto, il Rettor Maggiore invita a pregare per coloro che si trovano sotto le armi e a fare «tre giorni di digiuno stretto», «per ottenere che siano scampati da qualsiasi disgrazia»49. Chiede inoltre di non anticipare la chiusura dell’anno scolastico, come molti auspicavano, per non aggiungere oneri ulteriori alle famiglie già in difficoltà per la partenza dei loro giovani nelle schiere dell’esercito. Don Albera, quindi, richiama fortemente all’austerità come segno di solidarietà con i poveri e allo slancio apostolico nel raccogliere tutti i ragazzi che si trovassero abbandonati.

Quando poi il conflitto si protrae oltre le previsioni, don Albera mantiene, come linea direttrice, l’invito a tenere gli occhi fissi su don Bosco («imitiamo Don Bosco nell’acquisto della nostra perfezione religiosa, nell’educare e santificare la gioventù, nel trattare col prossimo, nel fare del bene a tutti»50), esorta allo spirito di sacrificio e allo zelo ardente coloro che sono rimasti nelle opere, e auspica che s’accenda «una santa gara di addossarsi quei pesi e quelle fatiche, non leggere certamente, che sono indispensabili per riempire i vuoti lasciati soprattutto nella scuola e nell’assistenza, da coloro che la guerra tolse dai nostri istituti»51.

Invita gli ispettori alla creatività: «La conoscenza della vostra ispettoria vi suggerirà qualche altro pratico provvedimento; ebbene studiatelo, secondo lo spirito di don Bosco, in relazione alle attuali circostanze e poi mandatemelo, non più tardi del 20 agosto. I vostri progetti, ben circostanziati […] saranno esaminati ponderatamente dal Capitolo Superiore, il quale, fatte le opportune osservazioni, ve li restituirà per la vostra esecuzione»52. Come si può constatare, il governo della Congregazione appare sempre più oculato e centralizzato secondo chiare linee di condotta e di salvaguardia del carisma. A mio avviso questo “stile alla don Albera” è anzitutto espressione dell’autorevolezza di chi conosce la priorità carismatica della missione e vuole che tutti le siano fedeli.

Forse è proprio questo sprone perfettivo e operativo il carattere più tipico e dinamico della posizione assunta da don Albera e dal suo Consiglio di fronte agli eventi, quello che maggiormente ispira i confratelli ad azioni eroiche, sia al fronte che nelle case. Queste parole di esortazione sono magnifiche: «Spingete la barca in alto mare, cioè slanciatevi con ardore nel vasto campo della perfezione, non limitate le vostre fatiche a ciò ch’è strettamente necessario, siate grandiosi nelle vostre aspirazioni, quando si tratta della gloria di Dio e della salvezza delle anime; allontanatevi dalla spiaggia che tanto restringe i vostri orizzonti, e vedrete quanto abbondante sarà la pesca delle anime […]. In questo il motto dell’apostolo zelante sarà quello stesso del valoroso soldato: coraggio, avanti!»53.

Durante il difficile periodo della prima guerra mondiale, la paternità spirituale di don Albera si esplicitò in una sollecitudine affettuosa per i confratelli impegnati sul fronte e per i giovani ancora accuditi nelle case salesiane. Ne abbiamo testimonianza dalle lettere circolari che mensilmente inviava a tutti i confratelli impegnati nel servizio militare54 e dalle risposte sollecite che mandava a ciascun confratello che gli scrivesse55. Fu certamente un periodo di prova tremenda per il Rettor Maggiore e per la giovane Congregazione salesiana, un’esperienza di angoscia e smarrimento senza misura, che divenne uno spartiacque della storia di un gruppo di convinti religiosi educatori, così come di tutta la storia contemporanea.

Ritengo particolarmente necessario richiamare alcuni tratti della figura di don Albera e del suo buon lavoro in quegli anni, perché esprime un modo di agire in una “situazione limite”. Oltre a sottolineare, come ho appena fatto, la sua particolare attenzione ai confratelli che erano al fronte, c’è un altro aspetto che considero di grande forza e importanza carismatica. Mi riferisco al fatto che nelle situazioni più drammatiche ed estreme, don Albera non ha esitato un minuto a far capire a tutta la Congregazione che c’era una priorità nella missione salesiana del momento: l’attenzione ai ragazzi e ai giovani orfani, che erano i più poveri dei poveri, avendo perso almeno uno dei genitori, spesso entrambi.

Don Albera non si accontentò di continuare a svolgere l’attività ordinaria. Non rimase ad aspettare che le nuvole scure di quegli anni si diradassero, ma attivò con forza eccezionale le migliori energie di quelle povere case e di quei Salesiani decimati, che in esse continuarono la missione. Metto in evidenza questo fatto perché ha molto a che vedere con l’opzione prioritaria per i poveri che chiediamo anche oggi a tutta la Congregazione in tutto il mondo.

Un primo intervento speciale era stato realizzato alcuni mesi prima dell’entrata in guerra dell’Italia, a seguito del terribile terremoto dell’Abruzzo del 13 gennaio 1915. Don Albera scrisse ai confratelli: «Chiniamo la fronte ai divini voleri e preghiamo anche per le tante vittime di questo cataclisma. Ma il cuore mi dice che don Bosco e don Rua non sarebbero contenti di questo solo, e perciò mi dispongo a ricoverar, nei limiti della carità che il Signore ci manda, una parte degli orfanelli superstiti»56. Dopo questo appello, i salesiani si diedero immediatamente da fare e accolsero centinaia di orfani in varie case in Italia.

Come ho già ricordato, quando, il 24 maggio 1915, anche l’Italia entrò in guerra, centinaia di giovani salesiani furono arruolati. Come c’era da aspettarsi, anche il numero di morti tra i civili si moltiplicava e contemporaneamente aumentava il numero di orfani causati dalla guerra. Con ferma determinazione don Albera scrisse: «Fidando nella Divina Provvidenza, nella carità delle anime generose e nell’appoggio delle autorità, ho deciso di aprire un apposito istituto per giovanetti dagli otto ai dodici anni, che si trovano abbandonati, o perché orfani di madre e con il padre sotto le armi, o perché abbiano perduto il padre in guerra»57.

Come abbiamo parlato della singolarità dell’Oratorio, così è necessario fare un accenno all’orfanotrofio come spazio educativo molto salesiano, particolarmente in quel momento. Si potrebbe considerare l’orfanotrofio un’istituzione educativa d’altri tempi, ma esso rivela in modo straordinario il cuore oratoriano. Gli orfani di ogni guerra, specialmente delle nazioni sconfitte, sono vittime due volte: hanno perso i genitori in circostanze violente e la loro patria non ha i mezzi per prendersene cura.

Papa Benedetto XV aveva attirato su questo problema l’attenzione di tutti, sia delle nazioni vincitrici che delle Chiese locali e delle congregazioni, con risposte diversificate. Don Albera, a nome dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice, si impegna personalmente ad alleviare questa piaga; si aprono così orfanotrofi accoglienti anche nel Centro Europa devastato dalla guerra. Nell’ultimo anno di guerra comunica ai Salesiani chiamati al fronte: «Ho subito disposto che nell’Oratorio venissero ospitati quasi cento fanciulli profughi dai 12 ai 14 anni: in pari tempo ho fatto appello a tutti i direttori delle nostre case d’Italia perché vi accogliessero il maggior numero di giovani»58.

Ho fatto riferimento a questo aspetto della vita di don Paolo Albera e del suo servizio come Rettor Maggiore perché tocca direttamente un elemento essenziale del nostro carisma, che è l’opzione per i giovani e, tra questi, i più poveri e abbandonati (Cost. 2). Come potete immaginare, cari Confratelli, ripercorrere i nostri Capitoli Generali e l’insegnamento dei Rettori Maggiori su questo argomento richiederebbe molto tempo e una lunga lettera59. Penso che quanto ho detto sia sufficiente a mostrare che nella Congregazione l’attenzione per i giovani più poveri e abbandonati c’è sempre stata e coincide con la costante preoccupazione di essere fedeli al Signore nella fedeltà carismatica a don Bosco. Tuttavia, a mio parere, emerge con una forza singolare la decisione e la fermezza con cui don Albera ha affrontato questa priorità.

Ebbene, gli orfani della prima guerra mondiale sono per noi oggi gli orfani di alcune delle guerre di oggi, come in Siria, sono le vittime della guerriglia nel continente africano e in America Latina. Gli orfani di allora sono per noi oggi i bambini di strada di molte delle nazioni dove il carisma di don Bosco ha messo radici. Sono anche quei minori immigrati che arrivano da soli in terre sconosciute senza alcuna protezione. Sono tutti quei bambini e quei giovani che senza dubbio, come Salesiani, abbiamo nel cuore e che ci feriscono nel profondo per la loro condizione. E chiedo, cari Confratelli, che continuino a ferirci. Non abituiamoci alle situazioni di orfanezza del nostro XXI secolo. Ecco perché, nella quinta linea programmatica della nostra Congregazione per questo sessennio dopo il CG28, vi ho chiesto di dare priorità assoluta ai giovani, ai poveri e ai più abbandonati e indifesi: «Sono convinto che assumere questa prospettiva come irrinunciabile, sarà molto significativo in tutta la Congregazione, e in tutti i contesti, culture e continenti. Oggi ci sono molte povertà giovanili che reclamano da parte dell’intera famiglia umana e senza dubbio da noi salesiani in modo particolare, un’attenzione urgente. In effetti, la storia della nostra Congregazione è caratterizzata da chiamate ad andare incontro ai giovani più poveri. “Come figli di don Bosco, abbiamo assunto un impegno storico per servire i giovani poveri”»60. Proprio per questo ho rivolto l’appello a guardare i nostri giovani, i giovani del mondo e delle nostre presenze, quelli che conosciamo e quelli che dobbiamo andare a cercare, fino a conoscere con grande rispetto le loro storie di vita, le loro angosce e i loro dolori, le loro stesse vite, così spesso piene di tragedie. Questi sono oggi i “nostri orfani”, che hanno tanto in comune, anche se non lo sanno, con quelli delle grandi guerre. Per loro dobbiamo esserci.


2.5. Siate tutti missionari61


La forte sollecitazione di don Albera è “sorella” dell’invito rivolto a tutta la Congregazione dopo il CG28 e ci ricorda: «È l’ora di una maggiore generosità nella Congregazione.

Una Congregazione universale e missionaria»

(CG 28, Linea programmatica 7)


Una delle caratteristiche del servizio di don Albera come Rettor Maggiore fu la sua grande preoccupazione, animazione e impegno per le missioni, che considerava essenziali per il carisma di don Bosco.

È molto significativo ciò che scrive già nella sua prima lettera alla Congregazione, del 25 gennaio 1911: «Mi sorprende il timore che venga meno fra noi lo zelo ardente dei nostri primi missionari, e che noi non corrispondiamo completamente ai disegni di Dio sulla nostra umile Congregazione. Vedo purtroppo ogni giorno diminuire le domande di andare nelle missioni, e perciò mi si ripercuotono nella mente quasi colpi di martello le parole: tene quod habes»62. Alla sua grande sensibilità, nella fedeltà a don Bosco e a don Rua, si deve aggiungere il fatto che in occasione della sua visita in America per conto del Rettor Maggiore, egli stesso ha potuto conoscere la bella e incipiente realtà delle missioni, soprattutto in Patagonia, nella Terra del Fuoco, nel Mato Grosso e a Méndez e Gualaquiza.

Durante il rettorato di don Albera più di 450 salesiani partirono per le missioni. Solo un anno, il 1915, a causa della guerra, la spedizione missionaria fu sospesa.

Nel 1913 fu completata la 47a spedizione. Il 31 maggio di quell’anno, don Albera aveva inviato una lettera circolare a tutti i salesiani per incoraggiarli a venire in aiuto delle missioni: «Non vi sarà difficile perciò, o carissimi Confratelli, comprendere il grave peso che incombe al vostro Rettor Maggiore per provvedere di personale sicuro e zelante, e di mezzi materiali queste Missioni. Anzi i bisogni così di personale come di mezzi, si fanno sempre più sensibili, ed io sento la necessità di far appello al cuor vostro, o buoni Confratelli, per aiuto. Sì, vogliate ancor voi dividere con me un tanto peso, prendendo grandemente a cuore le nostre Missioni, primieramente colla preghiera e poi con l’opera»63.

Il risultato fu che in quell’anno più di 70 salesiani componevano la 47ª spedizione. Insieme ai Salesiani, furono inviate in missione anche 52 Figlie di Maria Ausiliatrice.

Ripercorrendo la biografia di don Albera, si può vedere come egli si preoccupasse molto, mentre era a Torino o di ritorno da alcuni dei suoi viaggi, dei preparativi per la spedizione missionaria annuale. Riporto come esempio il resoconto di alcuni invii: «Il commiato avvenne l’11 ottobre 1910 nella chiesa di Maria Ausiliatrice. Abbracciò uno ad uno i cento missionari partenti, lasciando a ciascuno un ricordo personale»64. Lo stesso accadde nel 1911, quando, «dopo la funzione di commiato di cinquanta missionari destinati specialmente alla Cina e al Congo, don Albera partì per l’Austria, la Polonia e l’Ucraina»65. Nell’ottobre 1912 salutò e benedisse la nuova spedizione missionaria. Ne faceva parte il giovane Ignazio Canazei, che sarà poi successore del vescovo e martire Luigi Versiglia come vicario apostolico di Shiuchow (Shaoguan). Nel 1929 Canazei stesso raccontò: «Prima di partire per la Cina, don Albera ci invitò ad assistere alla santa Messa che egli stesso avrebbe celebrata nella cappella di don Bosco. Dopo, egli paternamente ci rivolse la parola. Dicendo fra l’altro: “Voi ora partite per le missioni. Al principio troverete molte difficoltà, ma coll’andar del tempo vi impratichirete della lingua, dei costumi, conoscerete molta gente e, dopo una decina di anni, il nuovo paese diventerà per voi una seconda patria”»66. Qualcosa di simile si potrebbe riferire di ogni spedizione missionaria.

Tutto questo dimostra come, per fedeltà a don Bosco, le missioni furono per don Albera un elemento carismatico essenziale e irrinunciabile. Così – è la mia conclusione –, con lo stesso criterio di fedeltà a don Bosco e al suo carisma, devono continuare ad essere per noi oggi.

Nella già citata lettera circolare del 31 maggio 1913 intitolata Gli Oratori festivi - Le missioni - Le vocazioni, don Albera dedica alcune splendide pagine per ricordare ai salesiani che cosa significassero le missioni per don Bosco, come le portasse nella mente e nel cuore. Allo stesso tempo rivolge un appello a prendere «grandemente a cuore le nostre missioni, primieramente colla preghiera e poi con l’opera» e invita ad arricchirsi «delle virtù del missionario, che debbono essere una pietà profonda ed un grande spirito di sacrificio per tutta la vita e non solo per alcuni anni»67. In questa lettera don Albera dichiara inoltre come l’Oratorio festivo debba essere il cuore e la vita della Congregazione, perché lo era per don Bosco: «Le missioni tra i popoli selvaggi furono mai sempre l’aspirazione più ardente del cuore di don Bosco, né temo errare dicendo che Maria SS. Ausiliatrice fino dalle prime sue materne manifestazioni gliene aveva concessa, giovanetto ancora, una chiara intuizione… Egli ne parlava continuamente a noi suoi primi figli, che pieni di meraviglia ci sentivamo trasportati da santo entusiasmo; descriveva, con la chiara precisione dell’esploratore, regioni lontane, immense foreste dalla flora e fauna misteriose, fiumi maestosi, tribù bellicose… e poi paesi e città nuove, sorgenti come per incanto là dove prima regnava la solitudine e la morte»68. Per don Bosco «le missioni erano l’argomento prediletto dei suoi discorsi, e sapeva infondere nei cuori tale un vivo desiderio di diventar missionari che sembravaci la cosa più naturale del mondo»69.

Cari Confratelli, nelle linee programmatiche del nostro CG28 ho sottolineato fortemente la dimensione missionaria della nostra Congregazione. È chiaro che ci troviamo in un tempo che richiede maggiore generosità da tutti noi, giacché «la realtà missionaria della nostra Congregazione continua a interpellarci e a presentarci delle belle sfide, le missioni ci spingono in avanti e ci fanno sognare bei sogni che diventano realtà»70.

Credo di poter dire che l’animazione missionaria nella nostra Congregazione è una delle dimensioni che ogni Rettor Maggiore, nella nostra storia fino ad oggi, ha assunto con vero amore. Non c’è stato un solo anno – con l’eccezione del 1915, a cui ho già fatto riferimento – in cui, man mano che ogni spedizione missionaria maturava, non ci sia stato un grande sforzo per aiutare le varie Chiese locali e le ispettorie con la presenza di nuovi salesiani, che si sono offerti per dare il meglio di sé ovunque sono stati inviati. Non possiamo dimenticare che la Congregazione è presente oggi in 134 nazioni perché i missionari da tante parti del mondo e da tanti decenni hanno mosso i primi passi affinché il carisma di don Bosco si radicasse in ogni nazione e regione.

Oggi come ieri, come ho fatto in questi sette anni e come hanno fatto i miei predecessori, continuo a invitare i confratelli ad essere generosi, specialmente coloro che sentono una particolare chiamata del Signore («Andate, dunque, e fate discepoli tutti i popoli...», Mt 28,19) nella vocazione che tutti viviamo come Salesiani di Don Bosco. Don Paolo Albera è un buono specchio in cui guardare la grandezza e il valore della dimensione missionaria e delle missioni nella nostra Congregazione.

Credo di poter affermare, senza timore di sbagliarmi, che la Congregazione continua ad essere vigile, attenta e sempre pronta per l’annuncio del Vangelo ai popoli che non lo conoscono (Cost. 6), convinta che «ravvisiamo nel lavoro missionario un lineamento essenziale della nostra Congregazione» (Cost. 30). Proprio per questo, in totale armonia e dialogo con lo spirito che don Albera ci ha ricordato, ho proposto alla fine del Capitolo Generale 28: «A tutta la Congregazione [chiedo] di concretizzare quest’ora di generosità assumendo in modo naturale la disponibilità di Confratelli di tutte le ispettorie […] per servizi internazionali, nuove fondazioni, nuove frontiere che vogliamo raggiungere»71.



3. LA MADONNA E DON BOSCO72


Non potrei concludere questa lettera senza fare un riferimento, anche se breve, alla Madonna, il grande Amore di don Bosco, e alla profonda devozione e convinzione di don Albera in riferimento al grande dono che noi Salesiani e la Famiglia Salesiana abbiamo nei confronti della «potente nostra Protettrice»73. Nella circolare che prende spunto dal cinquantenario della consacrazione del santuario di Maria Ausiliatrice74, don Albera scrive con la consueta umiltà: «Senza dubbio altre penne, ben meglio temprate della mia, tesseranno in ogni lingua e in ogni metro le lodi della Madonna di don Bosco». Tuttavia, egli sa che «non è permesso al Rettor Maggiore dei Salesiani di rimanere in silenzio» quando si tratta di unire la propria voce a quella di tanti figli di don Bosco nella lode riconoscente alla Madre di Dio. Per questo conclude: «Voglia Maria Santissima Ausiliatrice guidare la mia penna, perch’io scriva cose meno indegne di Lei»75.

La lettera è piena della convinzione che l’Ausiliatrice è anzitutto la Madonna di don Bosco e che, come Salesiani, abbiamo un dovere di gratitudine «verso la celeste nostra Regina, per i grandi ed innumerevoli benefizi che volle così generosamente largirci»76.

Don Albera evidenzia che lo svolgersi della vita di don Bosco, «figlio d’un umile contadino dei Becchi», rimane «un enigma inesplicabile» se non viene compreso e gustato nella fede, che sa vedervi sempre all’opera la mano onnipotente della Provvidenza Divina. E con tutta sicurezza afferma: «Don Bosco non poté certo avere alcun dubbio riguardo al continuo intervento di Dio e della Santissima Vergine Ausiliatrice nelle svariate vicende della sua laboriosissima vita»77. Dopo il sogno dei nove anni, «fu la Madre di Dio che lo guidò in tutti gli eventi più importanti della sua carriera, che fece di lui un sacerdote dotto e zelante, che lo preparò ad essere il Padre degli orfani, il Maestro d’innumerevoli ministri dell’altare, uno dei più grandi educatori della gioventù, e infine il Fondatore d’una nuova Società religiosa, che doveva avere la missione di propagare per ogni dove il suo spirito e la divozione a Lei sotto il bel titolo di Maria Ausiliatrice»78.

Penso che si possa dire, cari Confratelli, che il brano appena citato è un riassunto perfetto e completo della vita di don Bosco e del posto che in essa ha avuto la Madonna. Lei fu il suo valido sostegno, Lei lo guidò in tutta la sua esistenza. Alla fine, durante l’Eucaristia celebrata nel 1887 nella chiesa del Sacro Cuore a Roma il giorno dopo che fu consacrata, l’anziano don Bosco, molto compromesso nella salute e colmo di emozione e di lacrime, capisce qual è stato il filo che ha accompagnato tutta la sua vita: «Lei ha fatto tutto».

Come figli di don Bosco, noi esprimiamo il nostro amore e la nostra devozione alla Madonna tutti i giorni nella preghiera mattutina di affidamento a Maria Ausiliatrice: una preghiera voluta da don Rua già nel 1894 e che, come scrive don Albera, «tornò a tutti sommamente gradita, e che in breve e con molta facilità fu appresa a memoria»79. Così fino ai nostri giorni.


Cari Confratelli, concludo questa lettera, scritta facendo riferimento a don Albera e in dialogo con lui, ribadendo con profonda convinzione che il nostro amore e la nostra devozione alla Madre del Signore, all’Ausiliatrice, non è qualcosa di opzionale nel nostro carisma.

Mi permetto di dichiarare con tutta franchezza e consapevolezza: se uno di noi non ama la Madonna e non prova nulla nei suoi confronti, se non ha il desiderio di vivere tutte le sue giornate sotto la protezione e la presenza della Mamma del Cielo, se non ha un fuoco nel cuore che lo porta a voler mostrare e trasmettere questo suo amore ai ragazzi, ai giovani e al popolo di Dio che incontra tutti giorni, allora non sarà un Salesiano di Don Bosco.

«Crediamo che Maria è presente tra noi e continua la sua “missione di Madre della Chiesa e Ausiliatrice dei cristiani”. Ci affidiamo a Lei, umile serva in cui il Signore ha fatto grande cose, per diventare tra i giovani testimoni dell’amore inesauribile del suo Figlio» (Cost. 8).

Chiediamo al Signore che la Madonna Ausiliatrice, che ha sempre guidato e sostenuto don Bosco, continui ad accompagnare la nostra Congregazione e la bella Famiglia Salesiana, per il bene della Chiesa e per continuare a rispondere, in fedeltà alla chiamata che lo Spirito Santo ci ha rivolto in don Bosco, ai bisogni della Chiesa e del mondo intero. Nella consapevolezza che non siamo nati da solo progetto umano, ma dall’iniziativa di Dio, che ci ha affidato la porzione più preziosa della società: i giovani e, tra questi, i più poveri e abbandonati.

La nostra devozione e il nostro amore alla Madre del Signore siano la nostra garanzia per una vita bella, piena e felice, nella fedeltà, come discepoli del suo Figlio Amato.





Don Ángel Fernández Artime

Rettor Maggiore




APPENDICE


Cari Confratelli,

la mia lettera, come avete visto, non è un lavoro accademico di ricerca, come quelli prodotti dalle nostre università, ma una lettera di animazione fraterna. Essa esprime il mio forte desiderio che rimangano nella memoria di tutti la grande figura di don Paolo Albera, i suoi meriti nella Congregazione a favore della missione salesiana e dell’educazione-evangelizzazione dei giovani, e tutto ciò che egli ci trasmette, anche grazie alla lettura attuale che possiamo fare della sua opera e del suo pensiero. Da parte mia ho cercato di mettere in luce e di offrire alla vostra riflessione solo alcuni aspetti, che hanno più a che fare con le linee programmatiche del sessennio.

Nell’intento di stimolare una migliore conoscenza, aggiungo alla lettera questa appendice con una ricca bibliografia su don Paolo Albera, curata da alcuni dei nostri specialisti, che ringrazio per la collaborazione. Lo faccio perché lo considero un “atto di giustizia” verso il secondo successore di don Bosco. Non ho dubbi che più di un confratello, vedendo tutto quello che è stato scritto su di lui, sarà incoraggiato a leggere qualcosa di interessante per la propria vita.



BIBLIOGRAFIA SU DON PAOLO ALBERA


(a cura di Marco Bay, aggiornata al 24.06.2021. Riferimenti tratti dai contributi di A. Park, A. Giraudo, J. Boenzi, S. Zimniak e altri)


SCRITTI DI DON PAOLO ALBERA


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Albera Paolo (a cura di), Pratiche di pietà in uso nelle case salesiane, Torino, 1916.

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Albera Paolo, L’abbé Joseph Ronchail: allocution prononcée le jour de ses funérailles dans la chapelle de l’France, 6 avril 1898, Paris, Imprimerie Salésienne, 1898.

Albera Paolo, Lettere circolari ai Salesiani militari [32 lettere circolari a stampa dal 19 marzo 1916 al 24 dicembre 1918], in Archivio Salesiano Centrale E223.

Albera Paolo, Lettere circolari di Don Paolo Albera ai Salesiani, Torino, SEI, 1922.

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Albera Paolo, Mons. Luigi Lasagna vescovo titolare di Tripoli, superiore delle missioni salesiane dell’Uruguay e del Brasile: discorso funebre detto nella chiesa di Maria Ausiliatrice il 4 dicembre 1895, Torino, Tipografia Salesiana, 1895.

Albera Paolo, Mons. Luigi Lasagna: memorie biografiche, S. Benigno Canavese, Scuola Tipografica Salesiana, 1900.

Gli oratori festivi e le scuole di religione. Eco del V Congresso tenutosi in Torino il 17-18 maggio 1911. Relazione, proposte e studi compilati d’ordine del presidente del V Congresso delle Opere omonime, il reverendissimo D. Paolo Albera, Rettor Maggiore della Pia Società Salesiana del Ven. D. Bosco, S.A.I.D. – Buona Stampa, Torino 1911.


BIOGRAFIE


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Albera Paolo, Don Rua in Palestina, in “Bollettino Salesiano” 19 (giugno 1895) 151-157.

Albera Paolo, Il Missionario Cattolico!, in “Bollettino Salesiano” 48 (gennaio 1923), 18.

Gusmano Calogero, Il rappresentante del successore di Don Bosco in America, in “Bollettino Salesiano” (novembre 1900), 303-307; 24 (dicembre 1900), 336-339; 25 (gennaio 1901), 9-14; (febbraio 1901), 44-45; (marzo 1901), 66-68; (aprile 1901), 96-99; (maggio 1901), 123-124; (giugno 1901), 149-156; (agosto 1901), 216-219; (settembre 1901), 245-247; (ottobre 1901), 277-279; (dicembre 1901), 242-245; 26 (febbraio 1902), 42-44; (aprile 1902), 101-104; (maggio 1902), 150; (luglio 1902), 204-205; (agosto 1902), 230-233; (dicembre 1902), 361-263; 27 (febbraio 1903), 48-50; (marzo 1903), 71-81; (aprile 1903), 103-107; (maggio 1903), 136-140; (settembre 1903), 265-271; (ottobre 1903), 295-297; (novembre 1903), 329-334; (dicembre 1903), 357-359; 28 (gennaio 1904), 13-15; (febbraio 1904), 43-44; (marzo 1904), 76-79; (aprile 1904), 104-111; (maggio 1904), 138-141; (agosto 1904), 232-237; (settembre 1904), 267-270; (novembre 1904), 334-336; (dicembre 1904), 361-364; 29 (gennaio 1905), 17-20; (febbraio 1905), 43.46; (marzo 1905), 73-76; (maggio 1905), 137-141; (giugno 1905), 170-173; (luglio 1905), 198-202; (agosto 1905), 228-231.

Il “piccolo don Bosco” Don Albera, in “Bollettino Salesiano” 145 (gennaio 2021), 28-31.

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TESI


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COMMEMORAZIONI


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ASC. ALCUNI INEDITI DI RILIEVO e FONTI IN ARCHIVIO


B0250102 ; B0250109 ; B0250210 ; B0250222.

B0320101-105, Notes confidentielles prises pour le bien de mon âme, ms autografo P. Albera 1893-1899.

B0320106-109, Notes seful for my soul, ms P. Albera 1902-1910.

B0330103; B0330109, Per le memorie di D. Paolo Albera [1923], ms G. Barberis.

B0330314, D. Paolo Albera. Ricordi personali, ms G. B. Grosso.

B040-B046: Lettere dei Salesiani sotto le armi (1915-1918) da Accame Pierino a… Zuretti Giovanni.

B0480111, Tutto per Gesù: Istruzioni per gli Esercizi Spirituali, ms aut. P. Albera, 4-6.

D868, Verbali del Capitolo Superiore (1859-69), 9-10.

D869, Verbali delle riunioni capitolari 1884-1904, 15-16.

E444, Circolari di D. Paolo Albera ai Salesiani sotto le armi durante la guerra 1915-1918 [circolari a stampa, numerate dal n. 1 (19 marzo 1916) al n. 32 (24 dicembre 1918)].


DON ALBERA NELL’EPISTOLARIO DI D. BOSCO [E(m)]


E(m): Bosco Giovanni, Epistolario. Introduzione, testi critici e note a cura di Francesco Motto. Voll. I-IX, Roma, LAS 1991-2021.

Lett. N. 1164. Al vescovo di Casale Monferrato, Pietro Maria Ferrè Torino, 14 marzo [18]68 Problemi di dimissorie del chierico Paolo Albera – richiesta di commendatizia per ottenere la dispensa di età per l’ordinazione del chierico Secondo Merlone – trasmette documento legale di costituzione del patrimonio ecclesiastico per il chierico Fagnano, in E(m) II, 512.

Lett. N. 1616. Alla contessa Geronima De Camilli *Torino, Io marzo 1872 Ha ricevuto a Varazze la sua offerta, parte della quale ha consegnato a don Albera per l’Ospizio di Marassi – assicura preghiere secondo le sue intenzioni, in E(m) III, 403.

Lett. N. 1868. Alla contessa Carlotta Callori *Sampierdarena, 26 novembre [18]73 La informa che ha ricevuto la sua lettera con il sussidio in esso contenuto per il riscatto di un chierico dal servizio militare – la ringrazia assicurando preghiere e ricompensa dal Signore – saluti da don Albera – sarà presto di ritorno, in E(m) IV, 181.

Lett. N. 2462. A don Giovanni Battista Francesia Roma, 12 [gennaio 18]77 Racconta l’udienza avuta col S. Padre il quale manda l’apostolica benedizione a lui ed a – don Albera – importanza dei Figli di Maria per le missioni, in E(m) V, 294.

Lett. N. 3395. Alla signora Luigia Pavese Dufour [Sampierdarena], 14 aprile [18]81 Ringraziamento per l’offerta che consegnerà a don Albera che deve saldare debiti con il panettiere, in E(m) VI, 336.

Lett. N. 3522. A don Giuseppe Bologna Torino, 28 [ottobre 1881] Chiede notizie delle suore, dell’ospizio, del curato e del nuovo personale – attende una lettera da don Albera, in E(m) VII, 446.

Lett. N. 3576. A don Paolo Albera *Torino, 7 [gennaio 18]82 Chiede di scrivere a due benefattori per assicurarli di aver pregato per loro — comunica a don Bologna che tratterà di persona la proposta Pirondi — annuncia sua prossima visita, in E(m) VIII, 51.

Lett. N. 3761. A don Paolo Albera *Torino, 26 novembre [18]82 Invia lettere da leggere e distribuire — saluti a don Bologna, i confratelli e benefattori — riceverà da don Caglierò le nonne relative ad alcuni salesiani in partenza per la Spagna, in E(m) VIII, 220.

Lett. N. 3768. A don Paolo Albera Torino, 4 dicembre [18]82 Lo autorizza a ritenere la somma offerta da madame Fabre — chiede un aiuto per la casa di Saint-Cyr — prega di trasmettere ima letterina ad ima benefattrice e di ringraziare personalmente le altre benefattrici — saluti ai confratelli, in E(m) VIII, 226.

Lett. N. 3808. A don Giuseppe Bologna *Varazze, 5 febbraio 1883 Prega di avvisare la signorina Abatucci del suo viaggio al Torrione e a Menthon — avvisi don Albera di preparare visite e denaro, in E(m) VIII, 266.

Lett. N. 3822. A don Paolo Albera *Lione, 16 apr[ile 18]83 Comunica la sua partenza per Parigi con il relativo indirizzo presso la contessa Combaud, in E(m) VIII, 279.

Lett. N. 4117. A don Paolo Albera *Torino, 15 nov[embre 18]84 Comunica di aver scritto ad alcune persone secondo l’accordo preso – saluta confratelli ed allievi – temendo lo scoppio del colera anche per l’anno successivo chiede loro un comportamento virtuoso e la frequenza dei sacramenti, in E(m) IX, 222.


ALTRI RIFERIMENTI


Atti del primo capitolo americano della Pia Società Salesiana. (Preceduti dal messaggio di D. Paolo Albera), Buenos Aires (Almago), Collegio Pio IX di Arti e Mestieri, 1902.

Barberis Giulio, Lettere a don Paolo Albera e a don Calogero Gusmano durante la loro visita alle case d’America (1900-1903). Introduzione, testo critico e note a cura di Brenno Casali. (= ISS – Fonti, Serie seconda, 8). Roma, LAS, 1998.

Congresso dei cooperatori salesiani in buenos aires, 1900, Actas del segundo congreso de cooperadores salesianos celebrado en Buenos Aires los dias 19-21 noviembre de 1900 [por E. Lamarca, J. Vespignani, L.A. Pons, F. Bourdieu, P. Albera...], Buenos Aires, Escuela Tip. Salesiana del Colegio Pio IX, 1902.

Crispolti Filippo, Due giubilei e un museo salesiano; discorso letto nell’Oratorio Salesiano di Torino, Torino, SEI, 1918.

I funerali di don Albera. Imponente dimostrazione di cordoglio in La Stampa (Torino, 31 Ottobre 1921), 3.

Il cinquantenario d’un Santuario e la messa d’oro del successore di don Bosco in La Stampa (Torino, 10 Giugno 1918), 1.

Il sacerdote Paolo Albera eletto successore di don Rua in La Stampa (Torino, 17 Agosto 1910), 3.

Il salesiano sotto le armi, Torino, Scuola Tipografica Salesiana, 1939.

La morte di don Paolo Albera superiore dei Salesiani in La Stampa (Torino, 30 Ottobre 1921), 3.

Lemoyne Giovanni Battista, L’Arcivescovo vuole in Seminario il ch. Paolo Albera (MB VIII, cap. LXXXIII, 1002-1008).

Lemoyne Giovanni Battista, Uno spiacevole incontro di Don Albera coll’Arcivescovo (MB IX, cap. XLIX, 623-629).

Un grandioso funerale a Torino. Il trasporto e la tumulazione della salma di Don Albera secondo successore di Don Bosco in La Stampa (Torino, 1 Novembre 1921), 2.

1 Sicuramente più dolorosa fu la seconda guerra mondiale, che distrusse gran parte dell’Europa e colpì in modo violentissimo anche il Giappone. Uno scontro bellico che, secondo le stime più realistiche, ha lasciato dietro di sé una scia di circa 60.000.000 milioni di morti.

2 Mi riferisco al recente libro di Aldo Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale (LAS, Roma 2021), come anche alla tesi dottorale del sig. Paolo Vaschetto, salesiano coadiutore. Inoltre, faccio riferimento al testo di Jesús Graciliano González Miguel, Los once primeros capítulos generales de la Congregación Salesiana (CCS, Madrid 2021) e a Stanisław Zimniak, Don Paolo Albera (1845-1921) secondo successore di don Giovanni Bosco. Cenno biografico, in «Ricerche storiche salesiane», Anno XL, 1 (76), 2021, 137-144. Infine, condivido su don Albera la stessa visione di don Manuel Pérez, salesiano del Centro Salesiano di Formazione Permanente di Quito, in Ecuador.

3 Giovanni Bosco, Epistolario, I 406 citato in Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 17.

4 Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 21.

5 Si veda la lettera XXXV del 18 ottobre 1920 in Lettere circolari di Don Albera, Direzione Generale delle Opere Salesiane, Torino 1965, 362-363.

6 Cf. ASC B0320101, Notes confidentielles prises pour le bien de mon âme, ms autografo P. Albera 1893-1899 del 31.12.1895 citato in Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 58-59.

7 Jesús Graciliano González, Los once primeros capítulos generales de la Congregación Salesiana, CCS, Madrid 2021, 337.

8 Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 92.

9 Ibid., 93.

10 Lettere circolari di Don Paolo Albera ai Salesiani, 13.

11 Eugenio Ceria, Annali della Società Salesiana, vol. IV. Il rettorato di don Paolo Albera 1910-1921, 2-3, citato in González, Los once primeros capítulos generales, 350.

12 BS 1910, 267-268, citato in Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 93 e anche in Morand Wirth, Da Don Bosco ai nostri giorni, LAS, Roma 2000, 311.

13 Cf. Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 94.

14 Cf. Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale,118-128.

15 ACS 9, 310-311 citato in Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 127-128.

16 Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 132.

17 Lettere circolari di Don Paolo Albera ai salesiani, 57ss.

18 Ibid., 59.

19 Ibidem.

20 Ibidem.

21 BS 1921, 1, citato in Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 123.

22 Citato in Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 127.

23 CG28, 19.

24 MB XVIII, 175.

25 MB XI, 387.

26 CG28, 20-21.

27 Lettere circolari di Don Paolo Albera ai salesiani (lettera su ‘Don Bosco nostro modello…’), 373.

28 Lettere circolari di Don Paolo Albera ai salesiani (lettera ‘Gli Oratori festivi - Le missioni - Le vocazioni’), 129.

29 Lettere circolari di Don Paolo Albera ai salesiani (lettera su ‘Don Bosco nostro modello…’), 373.

30 Ibidem.

31 Ibid., 307.

32 Ibid., 316.

33 Ibid., 317.

34 CG28, 25.

35 CG28, 26.

36 MB XVI, 447. Cf. Pietro Braido, Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, LAS, Roma 1992, 340.

37 Lettere circolari di Don Paolo Albera ai salesiani, (seconda lettera, ‘Sullo spirito di pietà’), 26 ss.

38 Ibid., 29.

39 Ibid., 32-33.

40 Jesús Graciliano González, XI Capitolo Generale della Pia Società Salesiana presieduto da don Paolo Albera (1910), CCS, Madrid 2020, 25, n. 182.

41 Lettere circolari di Don Paolo Albera ai salesiani, 36.

42 Cf. CG20 (1972). Sullo “spirito di pietà” degli SDB e in don Bosco, nei numeri 103, 134, 521, 532, 546 etc. Cf. CG23, Educare i giovani alla fede, Roma 1990. Sulla pietà e Dio nella vita del salesiano, vedi i numeri 7, 139, 176, 219, 220. Cf. CG26, “Da mihi animas cetera tolle”, Roma 2008. Sull'identità carismatica e la passione apostolica, nei numeri 3, 6, 19-22.

43 Cf. Egidio Viganò, Interioridad apostólica, CCS, Madrid 1990, 169 (prima edizione presso Ediciones Don Bosco Argentina, Buenos Aires 1989). Cf. Egidio Viganò, Non secondo la carne ma nello spirito, Ed. FMA, Roma 1978. Sulla interiorità p. 41; 66; 152. Cf. L’Esortazione «Vita Consecrata»: stimoli al nostro cammino postcapitolare, in Juan Edmundo Vecchi, Educatori appassionati esperti e consacrati per i giovani. Lettere circolari ai salesiani di don Juan E. Vecchi, LAS, Roma 2013, 114-122. Vedere la spiritualità come una esigenza prioritaria; cf. Pascual Chávez Villanueva, Lettere circolari ai salesiani, LAS, Roma 2021, 54.

44 Lettere circolari di Don Paolo Albera ai salesiani, 374.

45 Egidio Viganò, Interioridad apostólica, CCS, Madrid 1990, 169.

46 Egidio Viganò, Interioridad apostólica, 12.

47 Ibidem.

48 Chávez, Lettere circolari ai salesiani, 1299.

49 ASC, E212, n. 117 (24 maggio 1915), citato in Leonardo Tullini, Esperienza bellica e identità salesiana nella Grande Guerra: tratti di spiritualità nella corrispondenza dei Salesiani militari con D. Paolo Albera e altri superiori (1915-1918) [dottorato], UPS, Roma 2007, 117.

50 Lettere circolari di Don Paolo Albera ai salesiani, 360.

51 Ibid., 183-184.

52 Ibid., 212.

53 Ibid., 239.

54 Le lettere circolari ai salesiani soldati inviate dal Rettor Maggiore don Paolo Albera tra il 19 marzo 1916 e il 24 dicembre 1918 furono 32.

55 L’Archivio Salesiano Centrale conserva circa 3390 tra lettere e cartoline postali militari indirizzate a don Paolo Albera o ad altri membri del Capitolo superiore da parte di 791 Salesiani soldati.

56 Lettere circolari di Don Paolo Albera ai salesiani, 171 citato in Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 106.

57 BS 1916, 131 citato in Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 112-113.

58 Lm n. 22… cf. ASC E444, Lettere mensili ai salesiani soldati (1916-1918), citato in Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 115.

59 Don Pascual Chávez V., infatti, fa riferimento varie volte, nelle sue lettere, alla predilezione per i più poveri: cf. Chávez, Lettere circolari ai salesiani, 156, 349, 503, 609-613, 614, 735, 987, 1106. Si veda anche "Si commosse per loro". Nuove povertà, missione salesiana e significatività in Vecchi, Educatori appassionati… Lettere circolari ai Salesiani, 166-192.

60 CG28, p. 36.

61 Lettere circolari di Don Paolo Albera ai salesiani, 135.

62 Ibidem.

63 Ibidem.

64 Giraudo, Don Paolo Albera maestro di vita spirituale, 95

65 Ibid., 97-98.

66 Ibid., 99.

67 Lettere circolari di Don Paolo Albera ai salesiani, 135.

68 Ibid., 132-133.

69 Ibid., 133.

70 CG28, 47.

71 Ibidem.

72 Lettere circolari di Don Paolo Albera ai salesiani, 283.

73 Ibidem.

74 Ibid. È la lettera numero XXIV che ha come titolo “Sul Cinquantenario della Consacrazione del Santuario di Maria Ausiliatrice”, 282-299.

75 Ibid., 283.

76 Ibidem.

77 Ibid., 284.

78 Ibidem.

79 Ibid., 289-290.

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