Lettera pubblicata in ACG n. 316


Lettera pubblicata in ACG n. 316

27.


ATTUALITÀ E FORZA DEL VATICANO II



Introduzione. - Clima di Pentecoste. - Vent’anni di accelerazione storica. - Il ministero profetico di due Papi. - Perché la crisi? - Rilancio conciliare. - Originalità pastorale. - Centralità del Mistero. - Custodia dell’identità. - Impegno per la santità. - Comunione e pluriformità. - Dono per i giovani. - Conclusione.



Città del Vaticano, 8 dicembre 1985


Cari Confratelli,


vi scrivo dal Sinodo Straordinario dei Vescovi. Sto pensando a voi, alla nostra Famiglia, ai giovani.

Sono tante le ricchezze di vita, gli orientamenti di azione, le speranze di futuro percepite nel Sinodo, che non posso non commentarle con voi a vantaggio della comune santificazione e del comune apostolato.

Questa volta ho partecipato alle assemblee sinodali insieme alla Superiora Generale delle FMA, madre Marinella Castagno e a vari benemeriti confratelli: due cardinali, S.Em. Castillo e S.Em. Obando, tre arcivescovi, S.Ecc. Gottardi, S.Ecc. Rivera-Damas e S.Ecc. Santos, e un perito collaboratore del Segretario speciale, don Luigi Bogliolo. Eravamo otto! Ci siamo trovati più volte per scambiarci reciproche impressioni e valutazioni e per condividere insieme la gioia di tradurre in servizio altamente responsabile il grande ideale di amore nutrito dal nostro padre Don Bosco verso la Chiesa.



1 Clima di Pentecoste

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I padri sinodali hanno constatato con gioia e gratitudine l’aria fresca di un clima pentecostale portata da una speciale presenza dello Spirito del Signore. Lo si è sperimentato con intensità, con intima soddisfazione, e non senza meraviglia: Vescovi di tante nazioni, di culture diverse, di vari colori, provenienti da situazioni sociali, politiche, pastorali molto differenti, pur esprimendo i problemi e le preoccupazioni più svariate e a volte quasi opposte, convergevano ammirevolmente sui grandi principi vitali e sui fondamentali criteri di azione proposti dal Vaticano II per i tempi nuovi.

La Chiesa non è davvero una vedova che va pellegrina sulla terra in pianto e in lutto; Essa è la Sposa sempre giovane dello Spirito Santo, da cui riceve opportuna freschezza, gioia di cuore, energie di materna fecondità.

L’esperienza di questo clima sinodale è valsa ad amplificare gli orizzonti della mente, acuire il senso ecclesiale, individuare meglio le più urgenti priorità, accostare i problemi con la saggezza di chi ha per orizzonte la sollecitudine della Chiesa universale. Si aveva come l’impressione di star guardando l’uomo, la sua problematica, la sua storia, da un osservatorio elevato ad altezze più che umane.

Per chi aveva partecipato al Concilio, questo Sinodo è stato una densa e genuina riattualizzazione della sua dimensione pentecostale: con la stessa prospettiva di avvento; con i medesimi impegni di speranza; con l’identica sensazione di essere stati lanciati in un’orbita inedita, al fine — esaltante — di evangelizzare la cultura emergente di questa nuova epoca dell’umanità.

Alcuni dei grandi protagonisti del Concilio, ormai avanzati negli anni, sono intervenuti con lucidità e vigore a parlare del valore profetico del Vaticano II, della sua vitalità dovuta all’irruzione dello Spirito Santo in questo scorcio del secolo 20°. Vitalità che non si ferma agli steccati alzati dai nostri problemi e che si colloca al di sopra del divenire di pochi decenni umani, per presentare la Chiesa di oggi come uno scrigno di miracoli aperto agli orizzonti del presente e dell’avvenire e per invitare i suoi figli a passare dalla paura e dall’ansietà alla gioia e alla speranza.

Uno di questi testimoni del Concilio, il Card. Marty, ha potuto esclamare con commozione: «nella mia vecchiaia confido ai più giovani il grande tesoro del Vaticano II»!

Anche il Santo Padre ha ricordato che l’aver partecipato al Concilio è stata una straordinaria grazia del Signore che ha coinvolto i partecipanti ad assumere un impegno sacro: quello di dedicare la propria vita a farlo conoscere e a tradurlo in pratica.

Pensavo tra me che il suo pontificato si caratterizza precisamente per questo vasto compito, purtroppo non sempre ben compreso.



2 Vent’anni di accelerazione storica

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Il Sinodo è stato convocato in occasione del ventennale della chiusura del Concilio Vaticano II. Oggi vent’anni sono molti. Si dice che, in tempi di tanta accelerazione, ogni cinque o dieci anni si cambia secolo. Dunque, la problematica umana è assai mutata dai tempi del Concilio; sono apparsi nuovi segni dei tempi; secondo qualcuno, ci si troverebbe già «altrove», magari in attesa di un... Vaticano III.

In questo «altrove», dopo vent’anni, c’è una parte di verità: nuovi problemi, nuovi progressi, maturazione e sviluppo di valori allora solo seminali, ottiche ecclesiali differenti, conquiste scientifiche. Ma purtroppo c’è anche della superficialità: quella di considerare un evento pentecostale alla semplice stregua del divenire umano. Manca la visione storica di che cosa rappresenta la celebrazione di un Concilio Ecumenico nei secoli; si dimentica la considerazione specifica dell’aspetto escatologico della Chiesa riunita in Concilio; non si fa l’analisi del «balzo in avanti» fatto dal Vaticano II: esso non è stato solo l’avvenimento congiunturale di un quinquennio; è stato invece il coraggioso lancio della Chiesa in un’orbita nuova. Orbita con immense distanze da percorrere, progettata appunto per accompagnare e illuminare l’attuale divenire dell’uomo.

Lo Spirito Santo, genio creatore e sorgente inesauribile della giovinezza della Chiesa, non lancia semi in una zolla per lasciarli perire, ma li cura e li fa crescere fino a pienezza. Trattandosi di un Concilio, solo dopo numerosi decenni, e non dopo due appena, si potrà percepire e valutare quanto Iddio ha regalato al mondo con il Vaticano II!

Nel Sinodo è apparso chiaro che i Pastori sono unanimemente convinti della piena attualità del Vaticano II, senza escludere quanto v’è stato in esso di limite umano e quanto di nuovo si sia imposto in seguito alla riflessione pastorale. Dopo un ventennio l’aspetto «pentecostale» del Vaticano II è pienamente vivo e appare come un evento salvifico ancora in stato di germoglio, avviato verso una promettente crescita.

Il Sinodo chiede a tutta la Chiesa di conoscerlo meglio, di studiarlo organicamente, di entrare in sintonia con il suo spirito.



3 Il ministero profetico di due Papi

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In tale senso è bello far memoria dei due grandi Papi che lo hanno realizzato: Giovanni XXIII che l’ha voluto e iniziato, e Paolo VI che l’ha condotto a termine, promuovendo poi l’avvio della sua applicazione pratica.

L’animo pastorale di Papa Giovanni brilla nella famosa allocuzione introduttiva dell’11 ottobre 1962, dove egli mette in rilievo l’urgenza di fare un «balzo in avanti» nel modo di rendere presente e incisivo il patrimonio della fede in un’epoca di svolta.

L’acutezza di discernimento di Paolo VI resta invece scolpita nella memorabile allocuzione conclusiva del 7 dicembre 1965 sulla svolta «umanista» del Concilio: la Chiesa si è rivolta — non deviata — verso l’uomo, nel cui volto si deve ravvisare quello di Cristo, Figlio del Padre e Figlio dell’Uomo; un umanesimo, quindi, che si fa cristianesimo; un cristianesimo autenticamente teocentrico, in tal modo però «da poter enunciare che per conoscere Dio bisogna conoscere l’Uomo».

Questa orbita di Papa Giovanni e di Paolo VI, che esprime il movimento rinnovatore di tutto il Concilio, è quella che percorre oggi e che percorrerà anche domani la Chiesa.

Sarebbe dunque uscire fuori orbita volersi situare «altrove», con poca visione ecclesiale. Si può dire che i due grandi Papi del Vaticano II concentrano nel loro stesso nome la benemerenza conciliare che li caratterizza: il nome «Giovanni» ricorda la genialità dell’amore pastorale; il nome «Paolo», invece, l’acutezza di riflessione sulla verità salvifica e l’intrepidezza nel proclamarla.

Il merito di entrambi è interpretato e continuato con fedeltà e vigore dall’attuale loro successore che ha voluto appunto riunire espressivamente nel suo nome programmatico di «Giovanni-Paolo» (composto con bella intuizione da Papa Luciani) le caratteristiche complementari dei due grandi artefici e guide del Concilio.

Abbiamo un Successore di Pietro che ci guida nell’orbita giusta, tracciata da ciò che lo Spirito ha detto alle Chiese.



4 Perché la crisi?

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Le valutazioni del ventennio trascorso hanno messo in luce molti positivi aspetti di crescita nella Chiesa. Sono noti e qui non intendo enumerarli. Noi ne abbiamo vissuto un’esperienza progressiva attraverso i Capitoli Generali, che ci hanno portato alla rielaborazione della nostra Regola di vita.

Ho avuto l’opportunità di fare un intervento nel Sinodo, a nome dell’Unione dei Superiori Generali, con l’intento di far vedere che consideriamo più significativa la somma degli aspetti positivi che non quella dei negativi, pur sentendo oggi il grave peso di non pochi elementi problematici.1

Mi sembra tuttavia utile, per un discernimento di conversione, offrire alla vostra riflessione alcuni punti negativi, ricordati dalle Conferenze episcopali dei cinque continenti.

Si è presentata in aula una panoramica intimamente vincolata con le vicissitudini socioculturali dei vari Paesi. Due osservazioni di fondo da tenere in conto, su cui hanno concordato unanimemente i Sinodali, sono: primo, che i gravi problemi postconciliari vissuti dalla Chiesa in questo ventennio non derivano dal Concilio, ma costituiscono altrettante prove che esso fu tempestivo e indispensabile; secondo, che la crisi sperimentata non è un crepuscolo della Chiesa e della sua missione (anche se dovesse comportare il tramonto della civiltà occidentale), ma al contrario è l’aurora di un suo rinnovato cominciamento storico.

L’enumerazione delle difficoltà, dei contrattempi, delle ambiguità, delle deviazioni, dei pericoli e dei problemi sorti in questi anni sono serviti nel Sinodo per formulare più realisticamente dei propositi d’impegno.

Scelgo alcuni di questi punti, che anche a noi possono suggerire un buon esame di coscienza.

— La conoscenza superficiale del Vaticano II ne ha danneggiato l’applicazione: una lettura troppo «giornalistica» dei suoi documenti, il loro uso settoriale e riduttivo, l’approccio soggettivistico per adattare i testi alla propria mentalità con una precomprensione (progressista o integrista) che ne ha manipolato il significato genuino e oggettivo. Ossia, nel fondo, una sottile carenza di conversione della propria mentalità alla precisa visione rinnovatrice del Concilio.

— Certi atteggiamenti di sufficienza razionalista in varie persone influenti, che pure hanno guardato con simpatia il Vaticano II, ne hanno offuscato i valori. Si possono percepire tali atteggiamenti a due livelli. Il primo prescinde dalla «Fede» nella lettura del divenire umano, identificando in pratica la Rivelazione con i segni dei tempi, dimenticando l’aspetto di mistero e di sacramento della Chiesa. Il secondo prescinde dal Magistero della Chiesa e dalla sua Tradizione nella lettura della Parola di Dio, non considerando l’intimo e indissolubile vincolo esistente tra Rivelazione, Tradizione e Magistero. Tali atteggiamenti hanno portato gravi pericoli nel Popolo di Dio con plagi ideologici e con interpretazioni arbitrarie.

— Il complesso d’inferiorità di fronte al processo di secolarizzazione ha aperto le porte al secolarismo. I valori della secolarizzazione sono stati percepiti e giudicati con l’ottica di chi vuol apparire «alla moda»; a poco a poco se ne è travisata l’autenticità e si è toccato un pericoloso appiattimento della fede e della morale. C’è stata dell’ottusità spirituale, della mancanza di coraggio nel discernere l’urgenza di una contestazione evangelica. Si è vista così ingigantire una paurosa decadenza della morale cristiana; l’affanno del sentirsi alla moda prima che del testimoniare la verità; e la perdita d’identità delle vocazioni specifiche e dei loro ruoli: prete, consacrato, laico.

— La dimenticanza della vocazione fondamentale che hanno tutti alla santità ha fatto affievolire la coscienza della sua indispensabilità. Il Signore ha insegnato nel mistero dell’incarnazione che il vero amore è inseparabile dalla «kénosi» (ossia, dallo svuotamento di sé). Inoltre ha proclamato con la sua Pasqua che senza Croce non c’è vittoria sul male. Anche in questi vent’anni, attraverso le vicissitudini della presenza della Chiesa nel mondo, si è fatto sentire visibilmente e in molte nazioni che la missione redentrice è inseparabile dalla persecuzione e dalla sofferenza. È necessario ripensare la santità come meta di ogni pastorale; meta che non è raggiungibile senza una concreta metodologia ascetica e un Calvario.

— La perdita del senso del sacro e della densità teologale della liturgia ha inciso negativamente sulla vera dimensione «sacramentale» della Chiesa. Tale grave difetto si è mosso in due direzioni. La prima è quella di un oscuramento della espressività e della dignità artistica dei simboli, poiché si sono banalizzate le celebrazioni, i segni, gli abiti, la musica, i testi, si è manipolata la delicata natura del sacro fatta per aprire lo spirito alla trascendenza e per partecipare vitalmente agli eventi salvifici di Gesù Cristo. Tanta arbitrarietà ha compromesso l’aspetto pubblico e ufficiale della liturgia come azione di tutta la Chiesa.

Un’altra direzione insufficiente è stata quella di dedicare un’attenzione quasi esclusiva al rinnovamento esterno dell’aspetto simbolico, alla introduzione di nuovi segni, alla giusta sollecitudine per una più oggettiva inculturazione liturgica, al miglioramento delle componenti rituali, quasi che tutto consistesse solo in questo. Non si è data sempre, purtroppo, l’indispensabile priorità all’aspetto di introduzione al mistero (= mistagogia) proprio della liturgia, al suo senso di adorazione, alla riattualizzazione del sacrificio della croce, all’unicità del sacerdozio di Cristo che, risuscitato, è presente nella celebrazione attraverso uomini, riti e cose e che realizza personalmente ora la vera mediazione tra Dio e l’uomo. Tutto questo comporta il grave pericolo di emarginare il mistero, di presentare una Chiesa svuotata di Cristo, di ridurre l’Eucaristia a un banchetto simbolico di semplice fraternità umana.

Considerando anche solo questi aspetti negativi ci si sente richiamati a tornare al Vaticano II con maggiore attenzione e fedeltà, guardando ai suoi contenuti come a luce profetica data alla Chiesa precisamente per questa ora, che sarà lunga, di trasformazione. Per reagire positivamente alle vicende sfortunate dello scorso ventennio il Sinodo invita a togliere la polvere dai documenti conciliari e a rileggerli nell’organicità del loro significato globale.



5 Rilancio conciliare

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Il lavoro sinodale si è svolto in tre momenti complementari: memoria dell’evento conciliare; valutazione degli elementi positivi e negativi sperimentati in questi venti anni; proposito ben definito e magnanimo di rilanciare una più operativa conoscenza dei contenuti conciliari. I Vescovi ci propongono nuove mete da raggiungere come ulteriore e crescente realizzazione del Concilio.

Dopo questi venti anni si apre una stagione più temperata e più favorevole. Anche la promulgazione del nuovo Codice di Diritto Canonico sta a indicare una migliore chiarezza e più concreti orientamenti pratici.

Questo Codice assicura una saggezza metodologica; esige una certa Disciplina (con la maiuscola, per non travisarne l’alto significato pastorale); sconvolge in qualche modo la precettistica canonica antecedente; si presenta come una guida normativa, permeata dalla ecclesiologia del Vaticano II.

Il rilancio operativo del Concilio comporta, però, una condizione previa: lo studio dei testi con assimilazione profonda dello spirito del Concilio. Lo studio dei documenti deve essere organico e non settoriale; ha bisogno di fondarsi sui principi portanti delle quattro Costituzioni; ed è indispensabile che non separi mai la «lettera» dallo «spirito».

Lo «spirito» del Concilio è più ampio e più incisivo del significato materiale dei testi; ma non è interpretazione arbitraria, né soggettiva visione avvenirista. Esso sta in un orientamento globale, in una sensibilità pastorale che procede oggettivamente dalle varie componenti (anche più in là dei testi) proprie dell’evento conciliare; ma deve tuttavia potersi riscontrare nella lettera stessa dei documenti. Sicché si dovrà anche affermare che non si può parlare di «spirito» senza una sua controprova nella «lettera». Come ha detto il Card. Daneels: «le affermazioni della lettera dei testi vanno lette nello spirito del Concilio; ma questo spirito non si percepisce senza la lettura attenta delle parole dei testi. Ossia: né una interpretazione meramente legalista, né un appello vago a uno spirito che vi si sovrapporrebbe per stravolgerne il genuino significato».

Il Sinodo ha auspicato che la Sede Apostolica promuova, ad uso di tutte le Chiese particolari, un «Compendio di formulazioni sintetiche della dottrina cattolica» (circa la fede e la morale), che serva di base a tutti i catechismi dei fedeli. Ha raccomandato insistentemente di curare la formazione intellettuale dei candidati ai ministeri perché si formino una mentalità dottrinale in esplicita sintonia con i principi conciliari. Ha insistito sulla responsabilità dei vescovi come autentici maestri della fede. Ha ricordato ai teologi il loro compito di approfondire e di esporre la dottrina «della Chiesa», e non teorie che ne indeboliscano il patrimonio o che prescindano dalla funzione magisteriale. Ha ricordato a tutti che nel Concilio stesso si è testimoniata una ammirevole comunione tra tutti i suoi membri (Padri di differenti mentalità e periti di varie scuole teologiche) facendo convergere la libertà nell’unità e facendo esprimere l’unità in una legittima pluriformità.

Nel Sinodo si è anche ricordato, riportando la famosa espressione di un filosofo, che come Iddio non ha creato il migliore mondo possibile, così non si deve pensare che il Vaticano II sia il miglior Concilio possibile e abbia anche previsto i segni dei tempi che sarebbero emersi in seguito. È chiaro e pacifico che ha avuto dei limiti di varia natura. Ciò che il Sinodo ha inteso affermare è che anche le novità apparse negli anni successivi trovano nel Concilio una criteriologia evangelica di discernimento, che a tutt’oggi conserva la sua tempestività profetica e resta pienamente attuale. Si tratta della sua ottica pastorale, espressione di saggezza in questa svolta epocale.



6 Originalità «pastorale»

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Il Vaticano II ha restituito profondità, freschezza di originalità, realismo di dialogo storico, ricerca di interdisciplinarietà e preoccupazione di capacità metodologica alla dimensione «pastorale» del magistero della Chiesa, «il cui carattere — ha detto Papa Giovanni — è preminentemente pastorale».

Nel Sinodo si è ripetuto più volte l’importanza di questo aspetto nel ruolo del magistero e nella presentazione della dottrina della fede.

Tale insistente sottolineatura è venuta a sconvolgere un modo troppo statico e astratto di considerare le verità di fede, ed ha provocato un salto di qualità negli sforzi teologici, forse anche con alcune esagerazioni pericolose, eccessive o riduttive, ma orientate a dare maggiore rilevanza al carattere salvifico della verità rivelata.

La «Gaudium et Spes» è chiamata «Costituzione pastorale», perché «sulla base di principi dottrinali intende esporre l’atteggiamento della Chiesa in rapporto al mondo e agli uomini d’oggi».2 Non è solo il testo di questa Costituzione, bensì tutto il Concilio che riscopre l’originalità del carattere pastorale. Rileggiamo le chiare affermazioni di Papa Giovanni nel definire lo scopo del Vaticano II: «Il nostro dovere non è soltanto di custodire il tesoro prezioso (della dottrina cattolica), come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige: ...lo spirito cristiano, cattolico e apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze; è necessario che questa dottrina, certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, e altra cosa è la forma con cui le sue verità vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata. Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione».3

C’è qui una visione assai coraggiosa per un concreto e delicato rinnovamento.

Non è che si insinui un dissidio o una differenza di livello fra «dottrina» e «pastorale», quasi che l’una tenda a estromettere un po’ l’altra; si afferma piuttosto una mutua interazione e complementarità, per cui la dottrina deve presentarsi come attuale verità salvifica, e la pastorale come un approccio al mondo e come un dialogo con l’uomo: dialogo che non sia superficiale o sentimentale, bensì sostanziato di dottrina e di forza dogmatica. L’originalità pastorale proclamata dal Concilio non solo non prescinde dal dogma, ma ne esprime il vero significato confermandone l’indispensabilità e l’incidenza nella vita. Infatti il dogma, appunto perché è la verità di un evento salvifico, deve essere capito e amato anche dall’uomo d’oggi: è un dono di Dio proprio per lui. Una dottrina sviluppata senza prospettiva pastorale tradirebbe insomma la natura sua propria, di verità fatta per l’uomo e necessaria per la sua salvezza.

D’altronde, l’autentica pastorale non muta il dogma, e meno ancora ne prescinde, ma si nutre continuamente di esso, lo contempla, lo assimila, lo ringiovanisce. Il Vaticano II ha voluto, in fondo, proprio questo: rivisitare il deposito dottrinale della Chiesa per ripensare pastoralmente le verità salvifiche in questo trapasso culturale bisognoso di nuova evangelizzazione.

Tale originalità rende particolarmente attuale tutto il Concilio; non lo presenta come definitore di sola ortodossia, bensì come straordinaria proposta dialogica e profetica. Esso è il grande dono dello Spirito Santo al nostro secolo, presenta la dottrina della fede in forma nuova e più utile al mondo in evoluzione; ripropone l’integrità del deposito cattolico rivestendolo con accenti di novità assai incisivi; non definisce questa o quella verità, ma cerca il modo di presentare all’uomo d’oggi la totalità del patrimonio della fede. Non si trova nel Concilio nessuna nuova definizione dogmatica e neppure una qualche condanna di un nuovo errore.

Come ha detto acutamente il Card. Garrone, il Concilio ha fatto emergere la più genuina caratteristica della fede cristiana, quella di presentarsi con un costante carattere di novità: «nihil novi et omnia nova» (tutto è novità, anche se nel Concilio non c’è una nuova definizione)!

Ecco il gran rinnovamento proclamato dal carattere «pastorale» del Vaticano II.

Questo aspetto porta per noi delle conseguenze non indifferenti. La nostra è una vocazione tutta permeata dalla carità pastorale, che ci fa evangelizzatori dei giovani nell’area della educazione.

L’educazione fa parte del vasto mondo della cultura dove, purtroppo, si riscontra oggi una grave frattura e separazione dal Vangelo. L’educazione esige, già da sé, non poche qualifiche pedagogiche e una costante e intelligente attenzione all’evoluzione culturale. Ma se si vuole educare evangelizzando, ossia facendo davvero «pastorale», bisogna assumere anche le molteplici esigenze di una evangelizzazione «nuova». Tali esigenze sono indicate appunto dal Vaticano II che auspica una pastorale fatta di precisione nella fede, sicurezza e fedeltà di dottrina, percezione dell’attualità, senso dialogico e genialità di comunicazione.



7 Centralità del «Mistero»

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La preoccupazione prima e più profonda del Sinodo è stata quella di dare priorità assoluta alla visione conciliare della Chiesa come «mistero».

In vent’anni sono prosperate alcune interpretazioni ideologizzanti e qualche atteggiamento superficiale e di moda che — in un modo o nell’altro — hanno preteso di anteporsi alla natura genuina e alla missione storica della Chiesa come Popolo di Dio. Si sono udite nel Sinodo varie testimonianze, sia da zone più colpite dalla secolarizzazione, sia da continenti dove ferve il processo di liberazione, e sia da regioni più sensibili alla inculturazione.

Si è considerato un pericolo veramente grave il presentare la Chiesa quasi svuotata del mistero di Cristo, centro vivo in cui brilla e da cui si effonde la pienezza dell’amore del Padre del Figlio e dello Spirito Santo.

Cristo è la vera luce delle genti («Lumen Gentium»!); la sua Pasqua sta al centro della liturgia celebrata dalla Chiesa pellegrina nella storia per crescere come Suo Corpo; la Sua incarnazione lega intimamente e definitivamente tra loro il divino e l’umano.

La priorità del mistero, così fortemente riaffermata, non ha però portato il Sinodo a privilegiare una trascendenza verticale a scapito della linea conciliare che celebra la presenza e il servizio della Chiesa nel mondo. Al contrario! Proprio l’approfondita considerazione del mistero di Cristo esige una ancor più chiara e generosa sollecitudine della Chiesa verso l’uomo, i suoi bisogni, le sue difficoltà, le sue oppressioni, le sue ansie. Ma il mistero esige un tipo di presenza e una modalità di missione che non può confondersi con progetti storici dei pensatori o dei politici, né si propone quale alternativa immanente a nessuna attività e professione umana (né culturale, né economica, né politica). Non si tratta di una missione semplicemente temporale, con prospettiva solo orizzontale; si tratta invece di originalissima inserzione «pastorale», che è iniziativa dell’amore di Dio per la salvezza integrale dell’uomo.

Quanto più la Chiesa si preoccupa dell’uomo, tanto più lo deve fare secondo la peculiare missione che profluisce dalla sua carità pastorale.

Il volgersi decisamente verso l’uomo porta con sé i complessi problemi dell’incarnazione che potrebbero facilmente introdurre delle deviazioni. Di qui l’indispensabile quotidiana custodia che i fedeli debbono avere dell’identità pastorale strettamente consona con un’azione di Chiesa.



8 Custodia dell’identità

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Per assicurare tale verifica e crescere costantemente in essa è indispensabile attingere di continuo alle sorgenti del mistero. Queste fonti sono due: la Parola di Dio e la Liturgia.

Ecco dunque l’importanza di ascoltare assiduamente, innanzitutto, la Parola di Dio secondo le indicazioni conciliari della Dei Verbum sulla rivelazione divina e la sua trasmissione nei secoli. A questa Parola è dovuta «l’obbedienza della fede».4

Qui viene da ricordare la fondamentale importanza della Tradizione e il ruolo indispensabile del Magistero dato in dono da Cristo alla sua Chiesa per assicurarle autenticità di interpretazione: non al di sopra della Parola stessa, ma al suo servizio. «È chiaro che la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, — dice il Concilio —, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che non possono indipendentemente sussistere, e che tutti insieme, ciascuno secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime».5

Quanto alla Liturgia, bisogna dire che l’Eucaristia ne è l’espressione suprema. Essa genera ogni giorno la Chiesa come Corpo di Cristo nella storia. Essa è la inesauribile fonte dell’autentica carità pastorale.

Inoltre, il sacramento della Penitenza rappresenta il costante sforzo di rettifica e conversione. Non è possibile conservare e crescere nella identità cristiana e realizzare attività genuinamente pastorali nel mondo senza distorsioni temporaliste, se non si fa un costante confronto con Cristo, in personale partecipazione al sacramento della conversione e della riconciliazione.

Se non si attinge costantemente alle sorgenti della Parola di Dio e della Liturgia, si fiacca e si stravolge troppo facilmente l’originalità propria della missione della Chiesa.

Il Sinodo ha messo appunto questo titolo al suo «Messaggio» e alla sua «Relazione finale»: «La Chiesa, sotto la guida della Parola di Dio e con la celebrazione dei misteri di Cristo, si inserisce nel mondo per salvarlo».



9 Impegno per la santità

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L’importanza data dal Sinodo al «mistero» della Chiesa porta con sé una più attenta considerazione della natura «sacramentale» della Chiesa stessa: il mistero diviene sacramento nel Popolo di Dio, in ognuno di noi. È necessario esprimere esistenzialmente, nella nostra vita e nel suo quotidiano, le ricchezze dell’amore di carità portate da Cristo nel mondo. Le celebrazioni dei sette sacramenti e di tutta la liturgia devono trasformare noi stessi in «Sacramento di salvezza» tra gli uomini. Ciò che è Cristo per il mondo, devono esserlo tutti i suoi discepoli nella propria vita d’ogni giorno.

Ecco perché il Sinodo ha lanciato con estrema urgenza un forte appello alla santità: il mistero deve farsi sacramento nella santità dei cristiani. Urge ricuperare il concetto di «santità» facendolo rientrare nel divenire quotidiano; bisogna chiarire il significato concreto del Battesimo come vocazione alla santità per tutti; 6 la santità va considerata come espressione di «normalità» cristiana piuttosto che di eroica «eccezione».

L’applicazione del Vaticano II esige con veemenza in questi anni un genuino impegno di santità; il mondo ha bisogno di testimonianze sulla presenza salvifica di Dio, sulla insostituibilità del sacro, sulla centralità dell’adorazione e della dimensione contemplativa, sulla necessità della preghiera, sulla importanza della conversione e penitenza, sui valori della donazione di sé nel sacrificio, sugli ideali di carità e giustizia, sulla trascendenza divina nei propri impegni umani, sulla inseparabilità del mistero della croce da quello della creazione e dell’incarnazione.

Questo ardente appello a una santità nel quotidiano, che è vocazione e compito di tutti i fedeli, ha bisogno di modelli: quelli classici di ieri e quelli vivi di oggi.

Le figure di Maria, degli Apostoli, dei Martiri, delle Vergini e dei Confessori nei differenti stati di vita, devono essere rilette come modelli di condotta per oggi. In tempi difficili, in ore di trasformazione e in vista del futuro da costruire, si addice meglio ai cristiani saper testimoniare una santità per i tempi nuovi che non arruolarsi nei caduchi entusiasmi di mode temporaliste.

Il Sinodo sottolinea in modo particolare il ruolo che, al riguardo, compete con urgenza ai membri degli Istituti di vita consacrata. Tutto il Popolo di Dio attende di poter percepire da essi, con chiarezza e senza appiattimenti secolaristi, che testimonino «in modo splendido e singolare che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini».7

Dobbiamo recepire, cari confratelli, questo appello del Sinodo, ricordando che la proclamazione delle beatitudini è «speciale missione dei Religiosi nella Chiesa di oggi», come un invito a testimoniare pubblicamente (senza palliativi) e con coraggio (senza complessi) il progetto evangelico che abbiamo professato in qualità di Salesiani di Don Bosco.

Sappiamo ormai con chiarezza e con certezza ciò che la Chiesa richiede da noi oggi.

Lo Spirito del Signore, che ha regalato ai nostri tempi il dono prezioso del Concilio e che ci ha visitati e accompagnati nel nostro intenso lavoro degli ultimi tre Capitoli Generali, ci chiede, attraverso questo Sinodo Straordinario, di dedicarci con tutte le forze a vivere quotidianamente ciò che abbiamo promesso. Rileggiamo con attenzione la circolare su «Don Bosco Santo» scritta per ricordare il 50° della sua canonizzazione.8 Ci farà del bene.

La Chiesa indica decisamente questa rotta da seguire: non abbiamo altra strada o altra orbita da percorrere.

Io sono ormai intimamente convinto che solo se ci dedichiamo con sincerità e costanza a tale impegno avrà ancora un senso attuale il carisma di Don Bosco per i giovani. Durante il Sinodo ho pensato spesso che unicamente al di dentro di questa lealtà ecclesiale si apriranno orizzonti veri e fecondi alla nostra vocazione.



10 Comunione e pluriformità

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Nell’approfondire il mistero della Chiesa il Sinodo ha attribuito centrale e fondamentale importanza alla realtà della «comunione». Un tema derivato dal mistero trinitario e dalla dottrina ecclesiale del Corpo mistico di Cristo. Sebbene la comunione comporti aspetti istituzionali e criteri umani di organizzazione, spetta non già primariamente alla sociologia bensì propriamente alla teologia indicarne i vari contenuti e determinarne le esatte conseguenze. In questa linea si è approfondita la modalità peculiare e atipica della collegialità nella Chiesa, la sua proiezione sulle Conferenze episcopali, sui criteri di partecipazione, di corresponsabilità, di decentramento e di sussidiarietà. Nel confrontare mutuamente la Chiesa universale con le Chiese particolari si è individuato con chiarezza il principio teologico della varietà e pluriformità nella comunione dell’unica Chiesa di Cristo, senza indulgere ai pericoli di un pluralismo dissolvitore.

È utile sottolineare questo aspetto perché esso si riflette, anche se parzialmente e in forma analogica, sulla vita decentrata e pluriforme della nostra Congregazione presente ormai nelle differenti culture dei vari continenti.

L’ottica per considerare le relazioni delle Chiese particolari con la Chiesa universale parte dall’unità del mistero presente nella Chiesa Cattolica: un solo Cristo, un solo Spirito, un solo Battesimo, una sola Eucaristia, un solo Collegio episcopale in comunione gerarchica con il Papa. Questa unità è vissuta, però, nella pluriformità dei carismi, nella diversità dei ministeri, nella molteplicità delle persone, nella varietà dei luoghi dove le comunità celebrano la liturgia, nelle differenze pastorali con cui i singoli Vescovi guidano tante comunità di culture svariate.

La misura dell’autenticità di una Chiesa particolare si desume dai valori di unità propri della Chiesa universale: «la Chiesa una e universale è veramente presente in tutte le Chiese particolari — dice il testo sinodale —, ed esse sono formate ad immagine della Chiesa universale, in tal modo che la Chiesa Cattolica, una e unica, esiste nelle Chiese particolari e a partire da esse».9

La pluriformità ecclesiale, che rappresenta vitalità e ricchezza, è costruita sui valori di unità e di unicità propri del mistero di Cristo presente nella Chiesa Cattolica, fondata sul ministero di Pietro e degli Apostoli.

Il pluralismo, invece, parte da una ottica rovesciata (ossia dal particolare verso l’universale) e porta con sé il pericolo delle distorsioni, delle separazioni, dei provincialismi, dei nazionalismi fino ad arrivare allo scisma. L’ottica centrifuga del pluralismo erige le differenze culturali a parametro di giudizio per adattare, magari cambiandoli persino nei loro contenuti, i valori di unità presenti nella Chiesa universale.

Quando si parla dell’indispensabile processo di «inculturazione» si deve escludere sia l’adeguarsi semplicemente al mondo quasi che i suoi segni dei tempi coincidessero con la Rivelazione, sia l’arroccarsi in chiusure quasi che il deposito della fede si identificasse con la forma culturale con cui è stato espresso finora. La pastorale della Chiesa cerca sempre una comunione viva e fedele, rimanendo aperta a tutti i valori umani, così da assumerli e da difenderli in ogni nazione.

Nella comunione ecclesiale, le differenze ministeriali e carismatiche non indicano un maggiore o minore grado di dignità, bensì una particolare ed esigente funzione di servizio e di testimonianza; e le differenze di forma e di riti rafforzano e abbelliscono l’unità con la varietà e i molteplici apporti delle culture umane intese quale convocazione armoniosa dei popoli nell’unica Famiglia di Dio.

L’attuale grande sfida per l’inculturazione della fede, in questa svolta dell’umanità, è di saper penetrare i nuclei vitali delle culture partendo dall’unità del Vangelo, e tenendo conto dei dinamismi di accelerazione della storia; essi favoriscono «il sorgere di un formidabile complesso di nuovi problemi, che stimola ad analisi e a sintesi nuove».10

È più urgente che mai l’inventiva pastorale di una «nuova evangelizzazione», capace di superare le crescenti distanze tra le civiltà umane e la fede cristiana, impregnando di Vangelo tutte le culture, senza asservirsi ad alcuna.11

Alla luce di questi criteri conciliari ricordati nel Sinodo possiamo capire e realizzare meglio quanto dicono per noi le Costituzioni: «Il carisma del Fondatore è principio di unità della Congregazione e, per la sua fecondità, è all’origine dei modi diversi di vivere l’unica vocazione salesiana. La formazione è dunque allo stesso tempo unitaria nei contenuti essenziali e diversificata nelle espressioni concrete: accoglie e sviluppa tutto ciò che di vero, di nobile, di giusto le varie culture contengono».12



11 Dono per i giovani

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Nel Sinodo i giovani sono stati fortemente presenti non solo per l’interesse che hanno prestato e per le lunghe e commoventi veglie di preghiera che hanno fatto per il felice esito di questo evento ecclesiale, ma anche perché sovente i Padri sinodali e lo stesso Santo Padre si sono riferiti ad essi come ai migliori portatori della grazia del Vaticano II verso il terzo millennio.

Il cardinale Edoardo Pironio ha voluto sottolineare, nel suo intervento in aula, la felice coincidenza dello svolgimento del Sinodo con l’«anno internazionale della gioventù». Il Sinodo doveva, perciò, guardare in modo preferenziale ai giovani. Sono essi — diceva il cardinale — i principali protagonisti di una desiderata costruzione della nuova civiltà della verità e dell’amore.

È stato fatto notare da alcuni Vescovi che in varie regioni vi sono giovani che non conoscono la Chiesa e non ne sono attratti perché Essa non appare loro come il «Corpo di Cristo»: nutrono simpatia per Gesù quasi in contrasto con la Chiesa. In tante regioni incombe il grave pericolo di una insufficiente evangelizzazione delle nuove generazioni; eppure la gioventù costituisce la parte numericamente più grande di tanti popoli.

Si è anche preso atto che sono sorti dei movimenti spirituali e apostolici che hanno attratto la gioventù e che, se ben inseriti nella pastorale delle Chiese particolari, stanno aprendo nuovi orizzonti di speranze.

Nel documento conclusivo il Sinodo afferma esplicitamente: «Il Concilio considera i giovani come speranza della Chiesa (cf. GE 2). Questo Sinodo si rivolge ad essi con predilezione e grande fiducia; attende molto dalla loro generosa dedizione; li esorta assai intensamente a prendere parte attiva alla missione della Chiesa assumendo e promuovendo con dinamica operosità l’eredità del Concilio».13

Ecco un appello sinodale che dobbiamo considerare rivolto particolarmente a noi, cari confratelli, che siamo chiamati ad essere «missionari dei giovani». Sentiamoci interpellati a divenire validi trasmettitori delle ricchezze conciliari alla gioventù di oggi.

Amplifichiamo i nostri orizzonti pastorali e orientiamo l’attenzione e gli ideali dei giovani verso i grandi temi del Vaticano II, così come li ha rilanciati il Sinodo. È necessario che noi per primi intuiamo e approfondiamo il significato pentecostale del Concilio, per poi trasmetterlo a loro: è la grande orbita del percorso ecclesiale nei prossimi decenni. All’aurora di una nuova epoca storica, il Concilio è la grande profezia della Chiesa che, nello Spirito, diviene Madre e Maestra di una nuova evangelizzazione per l’umanità. Non sono, queste, semplici parole altisonanti, ma la grande «grazia» fatta dal Signore al nostro secolo per un nuovo cominciamento cristiano.

Se fosse tra noi Don Bosco ne gioirebbe immensamente e concentrerebbe tutta la sua carità pastorale, la sua genialità pedagogica e il suo instancabile spirito d’iniziativa in questa grande impresa ecclesiale tra i giovani. Noi siamo gli eredi della sua missione. Mettiamoci di buona volontà a realizzarla.

Ricordiamo le parole dell’antico profeta: «Egli (il Signore) dà energia a chi è affaticato e rende forte il debole. Perfino i giovani si stancano, anche i più forti vacillano e cadono; ma tutti quelli che confidano nel Signore ricevono forze sempre nuove: camminano senza affannarsi, corrono senza stancarsi, volano con ali di aquila».14

Voglio porre fine a queste riflessioni rivolgendo lo sguardo e il cuore alla Vergine Ausiliatrice, Madre della Chiesa.

Il Vaticano II si è concluso un 8 dicembre, festa dell’Immacolata; questo Sinodo straordinario si conclude anche in questo 8 dicembre, in cui noi ricordiamo il primo anniversario della promulgazione delle nostre Costituzioni rinnovate secondo il Vaticano II.

L’8 dicembre è data memorabile sia nel primo inizio della nostra missione come in tante altre iniziative e doni per la nostra Famiglia.

Ebbene: questa lettera, pensata e scritta appunto nel clima della festa dell’Immacolata, serva a tutti noi per sottolineare l’aspetto mariano tanto del Concilio come di questo Sinodo e per ravvisare nei rispettivi documenti un appello di Maria, Sposa dello Spirito Santo e Regina degli Apostoli, che ci invita a rilanciare conciliarmente il carisma di Don Bosco tra i giovani di oggi in una Chiesa che, alla luce della Parola di Dio e celebrando i misteri di Cristo, si inserisce nel mondo per salvarlo.

Ripetiamo con il Papa la sua bella preghiera di questo 8 dicembre in piazza di Spagna: «A te, o Madre, affidiamo con immensa fiducia i frutti ed i risultati del Sinodo! Rendi efficace nelle anime, mediante la tua intercessione, il messaggio del Sinodo, cosicché possano essere raggiunti i suoi scopi ed il rinnovamento conciliare possa essere riscoperto con lealtà, approfondito con fedeltà, realizzato con coraggio, presentato e diffuso con entusiasmo e credibilità».15

Che questa preghiera, cari confratelli, si traduca per tutti in azione: i giovani attendono da noi il regalo del Concilio!

Un cordiale saluto ad ognuno con i migliori auguri di bene.

Vostro aff.mo in Don Bosco,

D. Egidio Viganò


NOTE LETTERA 27


1 cf. ACG 316, pag. 70ss

2 cf. GS, nota 1

3 Allocuzione dell’11 ottobre 1962

4 cf. Rm 16, 26

5 DV 10

6 LG cap. 5º

7 LG 31

8 cf. ACS n. 310, ottobre-dicembre 1983

9 Relazione finale, II, C 2

10 GS 5

11 cf. EN 20

12 Cost 100

13 Relazione finale, II, C 6

14 Is 40, 30-31

15 Osservatore Romano, 10 dicembre 1985