LETTERA DEL RETTOR MAGGIORE
PASCUAL CHÁVEZ
«E GESÙ CRESCEVA IN SAPIENZA, ETÀ E GRAZIA» (Lc 2,52)
Un’esperienza
indimenticabile. – LA STRENNA 2006. – 1.
Rischi e minacce che pesano sulla famiglia oggi. –
Un ambiente culturale contrario alla famiglia. – Una facile
‘soluzione’, il divorzio. – Privatizzazione del matrimonio. –
False aspettative sul matrimonio. – Fattori economici e
consumistici nella vita familiare. - 2.
La famiglia, cammino di umanizzazione del Figlio di Dio. – 3. Vita
di famiglia e carisma salesiano. – 3.1
“In principio era la madre”. –
3.1.1 Breve rassegna biografica. a) Fino al trasferimento a Valdocco
(dal 1788 al 1846). – b) Dieci anni con Don Bosco (dal 1846 al
1856). – 3.1.2 Profilo spirituale di Mamma Margherita. – a) Donna
forte. – b) Educatrice ‘salesiana’. – Efficace catechista. –
d) Prima cooperatrice. – 3.2
Valdocco, “una famiglia che educa”. 4.
La famiglia come missione. – 4.1
“Famiglia, diventa ciò che sei”.
- Cellula della società. –
Santuario della vita. – Annunciatrice del vangelo della vita. –
Scuola di impegno sociale. – 4.2
“Famiglia, credi in ciò che sei”.
– 5. Applicazioni pastorali e
pedagogiche. – Ecco dunque le mie
indicazioni. – Alcuni suggerimenti pratici. – Conclusione:
una leggenda di sapore sapienziale.
1
Gennaio 2006
Solennità della
Maternità Divina di Maria
Carissimi
confratelli,
vi scrivo all’inizio del Nuovo Anno,
solennità della Maternità Divina di Maria, e vi auguro un tempo di
grazia che ci faccia crescere “in età, sapienza e grazia davanti a
Dio e agli uomini”, come Gesù.
Per capire
adeguatamente il ruolo materno di Maria nei confronti del suo figlio
Gesù in tutta la sua ricchezza e profondità, dobbiamo partire dal
mistero centrale della nostra fede: l’Incarnazione del Figlio di
Dio che – con parole di Paolo – “umiliò se stesso, prendendo
la condizione di servo e rendendosi simile agli uomini” (Fil
2,7).
Questa radicale umanità dell’Emmanuele
(Dio-con-noi),
Gesù Cristo, implica un tratto essenziale dell’uomo: la storicità,
il fatto che l’essere umano è in divenire, “si va realizzando”
lungo la vita, e non è mai un essere già “finito”. Tale
caratteristica si trova presente anche in Gesù, di cui dice il
vangelo di Luca che «cresceva in
sapienza, età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini»
(Lc 2,52).
Questa prospettiva proietta una luce meravigliosa su Maria, che –
insieme a Giuseppe – ha avuto la missione di “educare” Gesù,
di aiutarlo a sviluppare le potenzialità del suo essere umano, in
forma simile a quanto fa ogni mamma con i suoi figli. Certo il caso
di Gesù è unico, perché il suo nucleo più profondo, che
costituisce il suo essere eterno, è quello di essere Figlio del
Padre Celeste. Ebbene, questa filiazione divina andò sviluppandosi
umanamente in lui grazie all’azione educativa di Maria e, senza
dubbio, di Giuseppe, che svolse la figura paterna dentro la Santa
Famiglia di Nazareth, un ruolo indispensabile, insieme a quello della
madre, per la maturazione piena di un uomo.
Ecco, cari
confratelli, la missione più preziosa della famiglia: aiutare i
figli a raggiungere la piena statura umana, quella del Cristo.
Purtroppo questa realtà della famiglia oggi si trova a dover
affrontare una sfida gigantesca, vale a dire, recuperare la sua
natura e la sua missione. Questo spiega il perché della Strenna
2006, che qui vi presento. Ma prima vorrei condividere con voi
un’esperienza indimenticabile.
Un’esperienza
indimenticabile Anche se in questi
ultimi tre mesi, dal momento dell’ultima mia lettera circolare, ci
sono stati tanti avvenimenti che potrei condividere con voi, tra gli
altri quelli del Simposium
della Vita Consacrata e della Plenaria
della Congregazione della Vita Consacrata, cui ho partecipato, e il
Sinodo sulla Eucaristia, preferisco parlarvi di un altro evento, che
mi ha toccato profondamente.
Il 12 novembre 2005 ho
vissuto una delle esperienze più belle e significative non soltanto
della mia vita salesiana, ma di tutta la mia esistenza umana. Mi ero
recato a Valdocco, tra l’altro, per la ricognizione del corpo di
Don Bosco e devo dire che qualsiasi mia aspettativa è stata
assolutamente superata.
Avevo chiesto all’Ispettore e al
Rettore della Basilica che, prima dell’atto ufficiale, con la
presenza delle autorità competenti e di alcuni SDB e FMA, potessi
restare da solo con Don Bosco, sostare davanti al suo corpo, per
pregare.
Così sono sceso alla Cappella delle Reliquie e
sin dal primo momento quando contemplai il corpo del mio amato Padre
fuori dell’urna, che solitamente lo conserva e lo espone alla
venerazione dei fedeli, ho sentito una profonda emozione.
Con
grande riverenza mi sono avvicinato e mi sono messo ai suoi piedi, in
modo da vederlo completamente. La prima cosa che mi colpì fu una
sensazione tanto speciale, quella di non trovarmi davanti alle
spoglie mortali di un essere amato, ma davanti a un vivente. Così
traspariva dal suo volto sereno e sorridente. Mi sembrava sentirlo
dire ai suoi ragazzi dell’Oratorio di Valdocco: “Don Bosco non
morrà del tutto mentre viva in voi”.
Portavo con me
tante persone e situazioni della Congregazione, della Famiglia
Salesiana e dei giovani che mi stanno a cuore. Mentre ne parlavo a
Don Bosco e gliele affidavo, la mia preghiera è diventata pure un
lungo rendimento di grazie.
Pensando che dal 1929 il corpo
di Don Bosco era stato collocato in quell’urna conosciuta da noi,
senza che fosse stata mai aperta, mi sembrava di essere chiamato in
quel momento storico di grazia ad impersonare tutti i Salesiani, i
membri della Famiglia Salesiana, i giovani, i collaboratori laici,
insomma tutti quanti in qualche maniera si identificano con Don
Bosco, per dirgli il nostro grazie dal profondo del cuore per tutto
quel che è stato, per tutto quel che ha fatto, per tutto quel che ci
ha comunicato.
Siamo infatti milioni di persone che, in
tutti i cinque continenti, abbiamo fatto nostri i suoi sogni, le sue
convinzioni, il suo progetto apostolico, il suo dinamismo
spirituale.
Quando contemplavo il suo volto sereno e
sorridente, mi dicevo: «ma, come sei riuscito a raggiungere tanto
senza che la vita ti rubasse la gioia, la pace, l’energia? Non so
quante cose saranno passate per la tua mente, ma sono certo d’una
cosa, che sempre saranno stati Dio e i giovani ad occuparla: così,
inseparabilmente Dio e i giovani, come due poli attorno ai quali ha
girato la tua vita, sentendoti inviato da Lui a loro e da loro a
Lui»
Più lo contemplavo e più volevo incarnarlo e far
sì che tutti i Salesiani lo incarnassero. E volevo avere la sua
mente, il suo cuore, le sue mani, i suoi piedi, per contemplare la
realtà come lui l’ha contemplata dalla prospettiva di Dio e dei
giovani, per immaginare con creatività e generosità le iniziative
da portare avanti, le risposte da dare alle attese e ai bisogni dei
giovani oggi, per avere l’operosità e l’intraprendenza che
caratterizzarono la sua vita spesa sino all’ultimo respiro per
loro; per mettermi in cammino – missionario dei giovani – ed
andarli a trovare per le strade e i suburbi di Torino, immagine di
tutte le strade e i suburbi del mondo.
All’improvviso
sentii i passi delle persone che scendevano. Mi resi conto che il
tempo era volato. Le ho salutate e abbiamo incominciato con grande
devozione la ricognizione, al termine della quale abbiamo preso una
decisione per una migliore conservazione del corpo di Don Bosco. Devo
testimoniare l’estrema cura con cui i confratelli avevano sistemato
il corpo nel 1929. Infatti tutto era stato finemente preparato e
decorato: dal lettuccio ricamato al camice ed amitto intessuti dalle
Figlie di Maria Ausiliatrice, alla ricchissima pianeta con cui fu
rivestito, dono del Papa Benedetto XV a don Paolo Albera. Al termine
di tutto sono stato invitato a prendere in mano la sua testa, che ho
baciata, a nome di tutti, con gratitudine e riverenza, e ho data da
baciare alle persone presenti.
LA
STRENNA 2006
Adesso che vi
ho aperto il mio cuore, vi offro il commento alla Strenna di
quest’anno.
«La sfida della vita – diceva il
Papa Giovanni Paolo II, di venerata memoria, nel suo ultimo
intervento al Corpo Diplomatico nel gennaio 2005 – ha luogo al
contempo in quello che è propriamente il sacrario della vita: la
famiglia. Essa è oggi sovente
minacciata da fattori sociali e culturali che fanno pressione su di
essa, rendendone difficile la stabilità; ma in alcuni Paesi essa è
minacciata anche da una legislazione, che ne intacca – talvolta
anche direttamente – la struttura naturale, la quale è e può
essere esclusivamente quella di una unione tra un uomo e una donna
fondata sul matrimonio. Non si lasci – proseguiva il Papa – che
la famiglia, fonte feconda della vita e presupposto primordiale ed
imprescindibile della felicità individuale degli sposi, della
formazione dei figli e del benessere sociale, venga minata da leggi
dettate da una visione restrittiva ed innaturale dell’uomo.
Prevalga un sentire giusto e alto e puro dell’amore umano, che
nella famiglia trova una sua espressione fondamentale ed esemplare».
[1]
Raccogliendo
dal Papa l’invito a difendere la vita, attraverso la famiglia, e
prendendo occasione dei 150 anni dalla morte di Mamma Margherita,
madre della famiglia educativa creata da Don Bosco a Valdocco, ho
pensato di invitare la Famiglia Salesiana a rinnovare l’impegno per
Assicurare una speciale
attenzione alla famiglia,
che
è culla della vita e dell’amore e luogo primario di
umanizzazione.
Se l’uomo è
la via della Chiesa, la famiglia è la “via dell’uomo”,
l’ambito naturale in cui l’uomo si apre alla vita e all’esistenza
sociale. Essa è il luogo di un forte coinvolgimento affettivo, il
contesto in cui si realizza il riconoscimento personale. Luogo
privilegiato di umanizzazione e mezzo di socializzazione religiosa,
assicura la stabilità necessaria alla crescita armonica dei figli e
alla missione educativa dei genitori nei loro confronti.
Credendo
nella sua importanza strategica per il futuro dell’umanità e della
Chiesa, Giovanni Paolo II fece della famiglia uno dei punti
prioritari del suo programma pastorale per la Chiesa agli inizi del
terzo millennio: «Un’attenzione speciale, poi, deve essere
assicurata alla pastorale della famiglia, tanto più necessaria in un
momento storico come il presente, che sta registrando una crisi
diffusa e radicale di questa fondamentale istituzione… Occorre fare
in modo che, attraverso un’educazione evangelica sempre più
completa, le famiglie cristiane offrano un esempio convincente della
possibilità di un matrimonio vissuto in modo pienamente conforme al
disegno di Dio e alle vere esigenze della persona umana: di quella
dei coniugi, e soprattutto di quella più fragile dei figli».
[2]
1.
Rischi e minacce che pesano sulla famiglia oggi
Il
pensiero di Giovanni Paolo II è stato ripreso dal Papa Benedetto XVI
che, nei suoi interventi, ha parlato della famiglia come di una
«questione nevralgica, che richiede la nostra più grande attenzione
pastorale»; (essa) «è profondamente radicata nel cuore delle
giovani generazioni e si fa carico di molteplici problemi, offrendo
sostegno e rimedio a situazioni altrimenti disperate. E tuttavia…
la famiglia è esposta, nell’attuale clima culturale, a molti
rischi e minacce che tutti conosciamo. Alla fragilità e instabilità
interna si assomma infatti la tendenza, diffusa nella società e
nella cultura, a contestare il carattere unico e la missione propria
della famiglia fondata sul matrimonio».
[3]
q
Un ambiente culturale contrario alla
famiglia
Oggi, con una
certa facilità e superficialità vengono proposte e presentate
presunte “alternative” alla famiglia, qualificata come
“tradizionale”. L’attenzione si dirige così dal problema del
divorzio a quello delle “coppie di fatto”, dal trattamento
dell’infertilità femminile alla procreazione medicalmente
assistita, dall’aborto alla ricerca e manipolazione delle cellule
staminali ricavate dagli embrioni, dal problema della pillola
contraccettiva a quello della pillola del giorno dopo, che è pure
abortiva. La legalizzazione dell’aborto si è praticamente diffusa
in quasi tutto il mondo. Accade anche che si conferiscano alle coppie
effimere, che non vogliono impegnarsi formalmente nel matrimonio
neppure civile, i diritti e i vantaggi di una vera famiglia. Tale è
il caso dell’ufficializzazione delle “unioni di fatto”,
comprese le coppie omosessuali, che talvolta pretendono perfino il
diritto all’adozione, sollevando in tal modo problemi molto gravi
di ordine psicologico, sociale e giuridico.
Il
volto – la realtà – della famiglia è dunque cambiato. A quanto
detto sopra si deve aggiungere la marcata preferenza per una forma di
crescente “privatizzazione” e la tendenza ad una riduzione delle
dimensioni della famiglia che, passando dal modello di “famiglia
plurigenerazionale” a quello di “famiglia nucleare”, riduce
questa alla realtà di papà, mamma ed un solo figlio. Più grave
ancora è il fatto che buona parte dell’opinione pubblica non
riconosca più nella famiglia, fondata sul matrimonio, la cellula
fondamentale della società ed un bene di cui non si può fare a
meno.
q Una
facile ‘soluzione’, il divorzio
Tenendo
conto di questo clima culturale, presente soprattutto nelle società
occidentali, mi pare opportuno richiamare un brano del Vangelo in cui
Gesù parla del matrimonio: “E avvicinatisi dei farisei, per
metterlo alla prova, gli domandarono: «È lecito ad un marito
ripudiare la propria moglie?». Ma egli rispose loro: «Che cosa vi
ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso
di
scrivere un atto di ripudio e di rimandarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per
voi questa norma. Ma all’inizio della creazione Dio
li creò maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e
sua madre e i due saranno una carne sola.
Sicché non sono più due, ma una sola carne. L’uomo dunque non
separi ciò che Dio ha congiunto»” (Mc
10, 2-9).
Si tratta, a mio avviso, di un testo molto
illuminante, perché si riferisce al tema del matrimonio in quanto
origine e base della famiglia, ma soprattutto perché ci fa vedere la
forma di ragionare di Gesù. Egli non si lascia intrappolare nelle
reti del legalismo, su ciò che è permesso e ciò che è proibito,
ma si colloca di fronte al progetto originario del Creatore, e
nessuno meglio di Lui conosceva qual era il disegno originale di Dio.
È in questo progetto che troviamo la “Buona Novella” della
famiglia.
Pur riconoscendo che ci sono anche tante
famiglie, le quali vivono il valore di una unione ferma e fedele,
tuttavia dobbiamo constatare che la precarietà del legame coniugale
è una delle caratteristiche del mondo contemporaneo. Essa non
risparmia nessun continente e può essere constatata ad ogni livello
sociale. Spesso tale prassi rende fragile la famiglia e compromette
la missione educativa dei genitori. Tale precarietà non curata, anzi
accettata come “un dato di fatto” conduce spesso alla scelta
della separazione e del divorzio, che vengono considerati come
l’unica via d’uscita davanti alle crisi verificatesi.
Questa
mentalità indebolisce gli sposi e rende più rischiosa la loro
fragilità personale. L’ “arrendersi” senza lottare è troppo
frequente. Una giusta comprensione del valore del matrimonio ed una
fede ferma potrebbero invece aiutare a superare con coraggio e
dignità anche le difficoltà più serie.
Del divorzio
infatti si deve dire che non è solamente una questione di tipo
giuridico. Non è una “crisi” che passa. Esso incide
profondamente nell’esperienza umana. È un problema di relazione, e
di relazione distrutta. Esso segna per sempre ogni membro della
comunità familiare. È causa di impoverimento economico, affettivo e
umano. E questo impoverimento tocca particolarmente la donna e i
figli. A tutto ciò si aggiungono poi i costi sociali, che sono
sempre particolarmente elevati.
Vorrei far notare che
sono diversi gli elementi che concorrono all’incremento attuale dei
divorzi, pur con sfumature e componenti diverse a seconda dei vari
paesi. È da tenere presente innanzitutto la cultura dell’ambiente,
sempre più secolarizzata, nella quale emergono, come elementi
caratterizzanti, una falsa concezione della libertà, la paura
dell’impegno, la pratica della coabitazione, la “banalizzazione
del sesso”, secondo l’espressione di Giovanni Paolo II, nonché
le ristrettezze economiche, che talvolta sono una concausa di tali
separazioni. Stili di vita, mode, spettacoli, teleromanzi, mettendo
in dubbio il valore del matrimonio e diffondendo l’idea che il dono
reciproco degli sposi fino alla morte sia qualcosa di impossibile,
rendono fragile l’istituzione familiare, ne fanno scadere la stima
e giungono al punto di squalificarla a vantaggio di altri “modelli”
di pseudo-famiglia.
q
Privatizzazione del matrimonio
Tra
i fenomeni cui assistiamo c’è da rilevare, inoltre, l’affermarsi
di un individualismo radicale, che si manifesta in numerose sfere
dell’attività umana: nella vita economica, nella concorrenza
spietata, nella competizione sociale, nel disprezzo degli emarginati
e in molti altri campi. Questo individualismo non favorisce
certamente il dono generoso, fedele e permanente di sé. E,
sicuramente, non è un abito culturale che possa favorire la
soluzione delle crisi nel matrimonio.
Succede che le
autorità statali, responsabili del bene comune e della coesione
sociale, alimentino esse stesse questo individualismo, permettendogli
una piena espressione attraverso apposite leggi (come, per esempio,
nel caso dei PACS “patti civili di solidarietà”), che si
presentano come alternative, almeno implicite, al matrimonio. Peggio
ancora quando si tratta di unioni omosessuali, per di più
pretendendo il diritto di adottare dei bambini. Così facendo, questi
legislatori e questi governi rendono precaria nella mentalità
comune l’istituzione del matrimonio e contribuiscono inoltre a
creare problemi che sono incapaci di risolvere. In tal modo accade
che il matrimonio, molto spesso, non è più considerato come un bene
per la società, e la sua “privatizzazione” contribuisce a
ridurre o addirittura ad eliminare il suo valore pubblico.
Questa
ideologia sociale di pseudo-libertà spinge l’individuo ad agire in
primo luogo secondo i suoi interessi, la sua utilità. L’impegno
assunto nei confronti del coniuge prende l’andamento di un semplice
contratto, rivedibile indefinitamente; la parola data non ha che un
valore limitato nel tempo; non si risponde dei propri atti, se non
davanti a se stessi.
q
False aspettative sul
matrimonio
Bisogna anche
constatare che molti giovani si formano una concezione idealista o
addirittura erronea della coppia, come il luogo di una felicità
senza nuvole, del compimento dei propri desideri senza prezzo da
pagare. Possono arrivare così ad un conflitto latente tra il
desiderio di fusione con l’altro e quello di proteggere la propria
libertà.
Un misconoscimento crescente della bellezza
della coppia umana autentica, della ricchezza della differenza e
della complementarità uomo/donna conduce ad una accresciuta
confusione sulla identità sessuale, confusione portata al culmine
nell’ideologia femminista detta del “gender” (genere). Questa
confusione complica l’assunzione dei ruoli e la ripartizione dei
compiti all’interno del focolare. Conduce ad una rinegoziazione di
questi ruoli, tanto permanente quanto estenuante. D’altra parte, le
condizioni attuali dell’attività professionale dei due coniugi
riducono i tempi vissuti in comune e la comunicazione nella famiglia.
E tutto questo impoverisce le capacità di dialogo tra gli sposi.
Troppo spesso, quando sopravviene la crisi, le coppie si
ritrovano da sole a doverla risolvere. Non hanno nessuno che possa
ascoltarle e illuminarle, cosa che forse permetterebbe di evitare una
decisione irreversibile. Questa mancanza di aiuto fa sì che la
coppia rimanga chiusa nel suo problema, non vedendo più se non la
separazione o addirittura il divorzio come soluzione al proprio
sconforto. Come non pensare invece che molte di queste crisi hanno un
carattere transitorio e potrebbero essere facilmente superate, se la
coppia avesse il sostegno di una comunità umana ed
ecclesiale?
q Fattori
economici e consumistici nella vita familiare
I
fattori economici, nella loro grande complessità, influiscono pure
fortemente nella configurazione del modello familiare, nella
determinazione dei suoi valori, nella organizzazione del suo
funzionamento, nella definizione dello stesso progetto familiare. Gli
introiti che si vogliono assicurare, le spese che si considerano
indispensabili per soddisfare i bisogni o i livelli di benessere che
si pretendono di raggiungere o mantenere, la mancanza di risorse o
persino la mancanza di lavoro che colpiscono tanto i genitori come i
figli, condizionano e, in certa misura, determinano gran parte della
vita delle famiglie. Basterebbe pensare ai cosiddetti “amigados”,
che non sono propriamente dei conviventi, ma solo dei poveri senza
risorse per la celebrazione di un matrimonio. Altra situazione
preoccupante è quella degli emigranti, costretti a lasciare il paese
e la famiglia in cerca di lavoro e di mezzi di sostentamento,
situazione che non raramente per la prolungata lontananza o altre
motivazioni causa l’abbandono e il disfacimento della stessa
famiglia che si è lasciata.
Hanno ugualmente un’origine
economica i meccanismi che creano il clima di consumismo in cui si
trovano sommerse le famiglie. Da questa prospettiva si definiscono
sovente i parametri di felicità, generando frustrazione ed
emarginazione. Sono economici pure i fattori che determinano una
realtà tanto importante come è quella dello spazio familiare, vale
a dire la misura delle case e la possibilità di accedere ad esse.
Sono infine i fattori economici a condizionare le possibilità
educative e le prospettive di futuro dei figli.
Davanti a
questa realtà non si può non avere un profondo senso di compassione
per quello che è o dovrebbe essere la culla della vita e dell’amore
e la scuola di umanizzazione.
2.
La famiglia, cammino di umanizzazione del Figlio di
Dio
L’incarnazione del
Figlio di Dio, nato da donna, nato sotto la legge per riscattare
coloro che erano sotto la legge e dare loro il potere di diventare
figli di Dio (cfr. Gal
4,4-5), non è stata un evento legato solamente al momento della
nascita, ma ha abbracciato tutto l’arco della vita umana di Gesù,
fino alla morte di croce, come confessa l’apostolo Paolo (cfr. Fil
2,8). Il Concilio Vaticano II si
esprimeva dicendo che il Figlio di Dio ha lavorato con mani d’uomo
ed ha amato con cuore d’uomo (cfr. GS
22). La sua umanità non è stata
dunque un ostacolo per rivelare la sua divinità, anzi è stata il
sacramento che gli è servito per manifestare Dio e renderlo visibile
e raggiungibile. È bello contemplare un Dio che ha voluto così bene
all’uomo, da farlo diventare strada per arrivare a Lui. Proprio per
questo la strada della Chiesa è l’uomo, che essa deve amare,
servire ed aiutare a raggiungere la sua pienezza di vita.
Ma
proprio perché voleva incarnarsi, Dio ha dovuto cercarsi prima una
famiglia, una madre (cfr. Lc
1,26-38) e un padre (cfr. Mt
1,18-25). Se nel grembo verginale di Maria Dio si è fatto uomo, nel
seno della famiglia di Nazareth il Dio incarnato ha imparato ad
diventare uomo. Per nascere, Dio ha avuto bisogno di una madre; per
crescere e diventare uomo, Dio ha avuto bisogno di una famiglia.
Maria non è stata solo Colei che ha partorito Gesù; da vera mamma,
accanto a Giuseppe, è riuscita a fare della casa di Nazareth un
focolare di “umanizzazione” del Figlio di Dio (cfr. Lc
2,51-52).
L’incarnazione del Figlio di Dio, appunto
perché autentica, ha assunto pienamente le modalità dello sviluppo
naturale di ogni creatura umana, che ha bisogno di una famiglia che
l’accoglie, che l’accompagna, che l’ama e che collabora con lei
nello sviluppo di tutte le sue dimensioni umane, quelle che la
rendono veramente “persona” umana. Tutto ciò nella scoperta di
un progetto di vita, che permette di capire come sviluppare le
proprie risorse e trovare senso e successo nella vita.
Questa
necessaria e immancabile funzione educatrice che ogni famiglia deve
offrire ai suoi membri, nel caso della Famiglia di Nazareth trova la
sua testimonianza in una pagina del vangelo di Luca. È
l’episodio che si riferisce al ritrovamento di Gesù nel tempio:
«Al vederlo restarono stupiti e sua
madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo
padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Ed egli rispose: “Perché
mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre
mio?”. Ma essi non compresero le sue parole. Partì dunque con loro
e tornò a Nazareth e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte
queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e
grazia, davanti a Dio e davanti agli uomini»
(Lc 2,
48-52).
In questa pagina troviamo tre indicazioni preziose
su quanto la famiglia è chiamata a fare nei confronti dei figli,
affinché diventino “veri cittadini e buoni cristiani”. In tal
senso questa potrebbe considerarsi una indovinata rilettura salesiana
del principio dell’incarnazione in un progetto educativo.
Innanzitutto, non è indifferente che Giuseppe e Maria
abbiano portato Gesù al Tempio nell’età in cui il figlio deve
imparare ad inserirsi a pieno titolo nella vita del suo popolo,
facendo proprie le tradizioni che hanno alimentato e sostenuto la
fede dei genitori: la famiglia di Gesù l’ha introdotto
all’obbedienza della legge e alla pratica della fede, anche se i
suoi genitori sapevano che il loro era Figlio di Dio. L’origine
divina di Gesù non lo ha sottratto all’obbligo, universale in
Israele, di osservare la legge di Dio; il Figlio di Dio ha imparato
ad essere uomo imparando ad obbedire agli uomini.
È da
rilevare, inoltre, l’atteggiamento rispettoso dei genitori davanti
al figlio che, da solo, cerca la volontà di Dio sulla propria vita.
La risposta di Gesù ha quasi un tono di meraviglia, come a dire: «Ma
come, voi mi avete insegnato a chiamare Dio Abba, Papà, e a cercare
sempre la sua volontà, e proprio oggi e qui, a casa Sua, nel giorno
del “Bar Mitzvá”, quando sono diventato a pieno titolo “figlio
della Legge” per vivere d’ora in poi compiendo il disegno del
Padre, mi domandate dove mi trovavo, perché ho fatto così?» (cfr.
Lc 2,49).
Non ancora maggiorenne, Gesù ricorda ai genitori che sono stati loro
a insegnargli che Dio e le sue cose precedono pure la famiglia e la
sua cura.
Infine, notiamo che l’incomprensione dei
genitori non è ostacolo all’obbedienza del figlio, che torna con
loro a Nazareth; Gesù si sottomette all’autorità dei genitori che
non riescono più a capirlo. E così, conclude l’evangelista,
mentre Maria “serbava tutte queste cose nel suo cuore” (Lc
2,51), Gesù “cresceva in età, sapienza e grazia davanti a Dio e
agli uomini” (Lc
2,52). Ecco l’elogio più grande della capacità educativa di
Giuseppe e Maria. Ecco cosa significa in pratica fare di una
famiglia, casa e scuola, “culla della vita e dell’amore e luogo
primario di umanizzazione”.
È in famiglia che Gesù ha
imparato l’obbedienza alla legge e si è immerso nella cultura di
un popolo; è in famiglia che Gesù ha mostrato di volere dare a Dio
il primo posto e di occuparsi in primo luogo delle cose di Dio; è
alla vita di famiglia che Gesù, cosciente de essere figlio di Dio, è
ritornato per crescere, come uomo, davanti agli uomini, “in età,
sapienza e grazia”. Il figlio di Dio poté venire alla vita
nascendo da una madre vergine, senza contare per questo su una
famiglia, ma senza di essa non poté crescere e maturare come uomo!
Una vergine concepì il figlio di Dio; una famiglia l’umanizzò.
Mi
domando se si potrebbe dire di più sul valore sacrosanto della
famiglia!
3.
Vita di famiglia e carisma salesiano
Per
noi, figli di Don Bosco, la famiglia non può sembrare un tema
estraneo alla nostra vita e alla nostra missione. Da educatori
conosciamo bene l’ importanza di creare un clima di famiglia per
l’educazione di bambini e ragazzi, di adolescenti e di giovani. A
tale scopo l’ambiente migliore è proprio quello che si rifà al
modello base della famiglia: quello che riproduce “l’esperienza
della casa”, dove i sentimenti, gli atteggiamenti, gli ideali, i
valori sono comunicati vitalmente, sovente con un linguaggio non
verbale e soprattutto non sistematico, ma non meno efficace e
costante. La rinomata espressione di Don Bosco “l’educazione è
cosa di cuore”
[4] ha la sua traduzione
operativa nel compito di aprire le porte del cuore dei nostri ragazzi
affinché essi possano accogliere e custodire le nostre proposte
educative.
Per noi, Famiglia salesiana, vivere in
famiglia non è semplicemente una scelta pastorale strategica, oggi
tanto urgente, ma è una modalità di realizzare il nostro carisma e
un obiettivo da privilegiare nella nostra missione apostolica. Come
tratto carismatico caratteristico, noi Salesiani e Membri della
Famiglia Salesiana viviamo lo spirito di famiglia; come missione
prioritaria, condividiamo con le famiglie, che ci affidano i figli,
il compito di educarli ed evangelizzarli; come opzione metodologica
educativa, lavoriamo ricreando nei nostri ambienti lo spirito di
famiglia.
3.1 “In
principio era la madre”
[5]
Margherita
Occhiena è stata “la prima educatrice e maestra di ‘pedagogia’”
[6] di Don Bosco. «È a
tutti noto – diceva Giovanni Paolo II agli educatori impegnati nel
mondo della scuola riuniti a Torino nel 1988 – quale
importanza abbia avuto Mamma Margherita nella vita di san Giovanni
Bosco. Non solo ha lasciato nell’Oratorio di Valdocco quel
caratteristico “senso di famiglia” che sussiste ancor oggi, ma ha
saputo forgiare il cuore di Giovannino a quella bontà e a quella
amorevolezza che lo faranno l’amico e il padre dei suoi poveri
giovani».
[7]
3.1.1
Breve
rassegna biografica
Convinto
anch’io del ruolo decisivo svolto da Mamma Margherita nella
formazione umana e cristiana di Don Bosco, come pure nella creazione
dell’ambiente educativo, ‘familiare’, di Valdocco, mi sembra
doveroso ricordare qui, anche se brevemente, la sua vita e abbozzare
il suo profilo spirituale.
a)
Fino al trasferimento a Valdocco (dal 1788 al 1846)
Nata
a Serra di Capriglio, frazione del piccolo paese della provincia di
Asti, il 1° aprile 1788, da Melchiorre Occhiena e Domenica Bassone,
Margherita fu battezzata il giorno stesso della sua nascita; i suoi
genitori erano contadini un po’ agiati, proprietari della loro casa
e dei terreni adiacenti.
Capriglio non aveva scuola,
quindi Margherita non imparò a leggere e a scrivere. Illetterata,
però, non significa ignorante: seppe acquisire un’eminente
saggezza ascoltando con cuore sveglio nella chiesa parrocchiale le
prediche, i catechismi e, più ancora, conformandovi la sua
esperienza quotidiana, che non fu sempre bella e serena. Scrive don
Lemoyne, autore nel 1886 della prima ‘biografia’ scritta di Mamma
Margherita: «Dalla natura era stata fornita di una risolutezza di
volontà che, coadiuvata da uno squisito buon senso e dalla grazia
divina, doveva farla riuscire vincitrice di tutti quegli ostacoli
spirituali e materiali che avrebbe incontrati nel corso della vita…
Retta nella sua coscienza, nei suoi affetti, nei suoi pensieri,
sicura nei suoi giudizi intorno agli uomini e alle cose, spigliata
nei suoi modi, franca nel suo parlare, non sapeva che cosa fosse
esitare… Questa franchezza fu una salvaguardia alla sua virtù,
perché unita ad una prudenza che non le lasciava porre il piede in
fallo»
[8] .
A due
chilometri da Capriglio, sulla collina di fronte, nei ‘Becchi’,
frazione di Morialdo e di Castelnuovo d’Asti, viveva Francesco
Bosco; giovane contadino di 27 anni, vedovo, che aveva a suo carico
un ragazzino di tre anni, Antonio, la chiese in sposa. Sposatasi il 6
giugno 1812, Margherita Bosco si trasferì alla cascina Biglione. La
piccola famiglia non tardò a ingrandirsi. L’8 aprile 1813 nacque
un primo figlio, che fu chiamato Giuseppe, e due anni dopo, il 16
agosto 1815, un secondo, che fu chiamato Giovanni Melchiorre: il
futuro San Giovanni Bosco.
Alla morte improvvisa di
Francesco, compiuti appena i 33 anni, Margherita, a 29 anni, divenne
capo della famiglia - tre figli e la nonna paterna - e responsabile
della gestione agricola. Poco dopo essere rimasta vedova, ricevette
la proposta di un matrimonio molto vantaggioso: i bambini sarebbero
stati affidati a un tutore. Rifiutò nettamente: «Dio mi ha dato un
marito e me lo ha tolto. Morendo egli mi affidò tre figli, e io
sarei madre crudele se li abbandonassi nel momento in cui hanno
maggior bisogno di me».
Ormai è soprattutto a questi
figli che ella si dedicherà per svolgere il suo compito di
educatrice. In questo compito, Margherita manifesterà le sue doti
eccezionali: la sua fede, la sua virtù, il suo saper fare, la sua
saggezza di contadina piemontese e di vera cristiana ripiena di
Spirito Santo.
Sapeva adattarsi a ciascuno dei figli.
Antonio aveva perso la mamma all’età di tre anni e suo papà
all’età di nove; adolescente irritabile, giovane brontolone, a
partire dai 18 anni divenne intrattabile, scivolando spesso nella
violenza. Margherita si sentì qualche volta chiamare “matrigna”,
mentre lo trattava sempre come un figlio, con una pazienza infinita.
Però sapeva anche essere giusta e forte: per la pace in casa, per il
bene di Giuseppe e di Giovanni, prese le decisioni dolorose che
s’imponevano. Alla fine del 1830 procedette alla divisione dei
beni, casa e terreni. Antonio, rimasto solo, non tardò a sposarsi e
ebbe sette figli. Pienamente riconciliato con i suoi, sarà un buon
padre di famiglia, molto stimato, e un cristiano fedele.
Giuseppe,
di cinque anni più giovane, era dolce, conciliante e tranquillo.
Inseparabile dal fratello Giovanni, ne subiva senza gelosia
l’ascendente. Adorava sua madre; e durante i lunghi anni di studio
di Giovanni sarà il figlio obbediente e laborioso sul quale ella
potrà appoggiarsi. Anch’egli si sposerà giovane, a 20 anni, con
una ragazza del paese, Maria Colosso, dalla quale avrà dieci
figli.
Giovanni voleva studiare. Mamma Margherita, che
intendeva favorirlo in questo suo desiderio, trovò l’opposizione
decisa di Antonio. Con il cuore straziato, lo mandò allora a
lavorare per venti mesi come garzone alla cascina della famiglia
Moglia (1828-1829). Solo dopo che Antonio ebbe acquistato la sua
autonomia, Mamma Margherita ebbe la possibilità di mandare Giovanni
alla scuola pubblica a Castelnuovo (1831), e poi a Chieri, dove
passerà dieci anni (1831-1841): quattro alla scuola pubblica e sei
al seminario maggiore. Fu quello per Margherita un periodo finalmente
tranquillo, felice, pieno di speranza, in cui ella diventava nonna
dei figli di Antonio e di Giuseppe.
Don Bosco, a 70 e più
anni, ricorderà il tono imperioso con il quale Mamma Margherita,
quando nel 1834 lui dovette decidere concretamente il suo avvenire,
gli aveva detto: «Senti, Giovanni. Non ho nulla da dirti per ciò
che riguarda la tua vocazione, se non di seguirla come Dio te la
ispira. Non preoccuparti per me. Da te non aspetto niente. E ritieni
bene questo: sono nata in povertà, sono vissuta in povertà, voglio
morire in povertà. Anzi te lo protesto: se tu per sventura
diventassi un prete ricco, non verrò a farti una sola visita».
[9]
Il 26
ottobre 1835, all’età di 20 anni, Giovanni vestì l’abito
clericale a Castelnuovo, nella chiesa parrocchiale. Da quel giorno,
ci confida Don Bosco, «mia madre mi teneva lo sguardo addosso... La
sera precedente alla partenza, mi chiamò a sé e mi fece questo
memorando discorso: “Giovanni mio, tu hai vestito l’abito
sacerdotale; io ne provo tutta la consolazione che una madre può
provare per la fortuna di suo figlio. Ma ricordati che non è l’abito
che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Se mai tu venissi
a dubitare di tua vocazione, ah per carità! non disonorare questo
abito. Deponilo tosto. Amo meglio di avere un povero contadino che un
figlio prete trascurato nei suoi doveri”».
[10]
Giovanni
fu ordinato sacerdote a Torino il sabato 5 giugno 1841. Il giorno
seguente, dopo aver celebrato la Messa solenne nella chiesa
parrocchiale di Castelnuovo, salì ai Becchi: nel rivedere i luoghi
del primo sogno e di tanti ricordi, il novello sacerdote fu commosso
fino alle lacrime. Si ritrovò solo, nel silenzio della sera, con sua
madre. «Giovanni – gli disse la Mamma – sei prete, dici la
Messa, da qui avanti sei dunque più vicino a Gesù Cristo. Ricordati
però che cominciare a dir Messa vuol dire cominciare a patire. Non
te ne accorgerai subito, ma a poco a poco vedrai che tua madre ti ha
detto la verità. Sono sicura che tutti i giorni pregherai per me,
sia ancora io viva o sia già morta: ciò mi basta. Tu da qui innanzi
pensa solamente alla salute delle anime, e non prenderti nessun
pensiero di me».
[11]
Il 3
novembre 1841 Don Bosco, giovane prete, si congedava da sua madre e
dai suoi fratelli, e partiva per Torino. Entrato nel Convitto
ecclesiastico, dietro consiglio di don Giuseppe Cafasso, dava subito
inizio al suo apostolato tra i ragazzi della strada e nelle carceri.
L’8 dicembre inaugurò la sua catechesi con Bartolomeo Garelli: era
l’inizio della grande avventura salesiana.
Il giovane
prete cominciò a riunire una frotta sempre più numerosa di ragazzi
al Convitto, poi presso la Marchesa Barolo, quindi sui prati vicini,
fino a quando, nella Pasqua del 1846, entrò finalmente nella Tettoia
Pinardi, a Valdocco. Durante questo tempo, Margherita viveva serena
ai Becchi, nonna felice di una schiera di nipotini tra i 13 anni e
pochi mesi.
Nel luglio 1846 Giovanni, esaurito dal suo
lavoro apostolico, è alle soglie della morte. Ricuperato in salute,
sale ai Becchi per una lunga convalescenza: madre e figlio si
ritrovano nell’intimità. Il cuore di Giovanni Bosco sacerdote è
rimasto a Torino: tanti giovani lo aspettano! Ma c’è un problema
da risolvere: giovane prete di 30 anni, Giovanni non può abitare da
solo nei locali che da poco ha preso in affitto nella casa Pinardi,
in quel quartiere malfamato di Valdocco. «Prendi con te tua madre!»
gli dice il parroco di Castelnuovo. Così ha raccontato Don Bosco la
generosa reazione di sua madre: «Se ti pare tal cosa piacere al
Signore, io sono pronta a partire in sul momento».
[12] Il 3 novembre 1846,
madre e figlio partivano, a piedi, per Torino.
b)
Dieci anni con Don Bosco (dal 1846 al 1856)
Per
Mamma Margherita cominciava l’ultimo periodo, in cui la sua vita si
confonderà con quella di suo figlio e con la fondazione stessa
dell’opera salesiana.
Aiutando Don Bosco, Margherita
intendeva evidentemente servire i ragazzi ai quali suo figlio aveva
dedicato la vita. Dovette, in primo luogo, abituarsi alle grida e al
frastuono dei giorni di oratorio, alle ore tarde delle scuole serali.
Poi venne l’accoglienza in casa dei primi orfani vagabondi.
Quanti erano questi ragazzi che costituiranno la grande famiglia di
mamma Margherita? Una quindicina nel 1848, salgono a trenta nel 1849,
a cinquanta nel 1850. La costruzione di una casa a due piani permise
di accoglierne circa settanta nel 1853, e un centinaio nel 1854: due
terzi artigiani, un terzo studenti o seminaristi della diocesi, che
andavano a lavorare o a studiare in città. Una trentina almeno erano
interamente a carico di Don Bosco.
Una sera del 1850,
Margherita ebbe la sua ora di Getsemani. Quattro anni di quella vita
potevano bastare, non ne poteva più! Si sfogò con suo figlio:
«Senti, Giovanni, non è più sopportabile. Ogni giorno questi
ragazzi me ne combinano una nuova… Lasciami andar via. Lasciami
tornare ai Becchi; vi finirò i miei giorni tranquilla». Sconvolto,
Don Bosco la guarda, poi i suoi occhi si innalzano verso il
Crocifisso che pende al muro. Margherita segue questo sguardo. «Hai
ragione, disse, hai ragione». E riprese il suo grembiule. «Da
quell’istante, attestano le Memorie, più non sfuggì dal suo
labbro una parola di malcontento»
[13] . Chi potrà
misurare questo suo sacrificio personale nello sviluppo dell’opera
salesiana?
Certamente Mamma Margherita è stata presente,
anche attivamente, al primo sviluppo “spirituale” dell’opera: i
primi momenti di formazione del metodo e del clima salesiano, la
presenza e l’accompagnamento dei primi discepoli: Cagliero (1851),
Rua (1852), don Alasonatti e Domenico Savio (1854); le prime
Compagnie, i primi frutti di santità, i primi chierici e la
preparazione della Società Salesiana, che sarà fondata soltanto tre
anni dopo la sua morte. Questa lunga presenza femminile e materna è
un fatto unico nella storia dei Fondatori di Congregazioni educative.
«La Congregazione Salesiana è stata cullata sulle ginocchia di
Mamma Margherita», ha scritto un biografo di Don Bosco.
[14]
Tuttavia
il più bello dei compiti di Margherita è stato quello in cui
impiegava non solo le braccia, ma il suo cuore, il suo talento innato
di educatrice. Tutti quegli orfani la chiamavano “Mamma”: era ben
chiaro che non si limitava ad essere la loro cuoca e la loro
guardarobiera. Avevano verso di lei una fiducia totale, un affetto di
orfani che si sentivano da lei amati. Lungo la giornata ella
interveniva in dialoghi squisiti per correggere, esortare, consolare,
offrire il consiglio opportuno, per formare il loro carattere e il
loro cuore di credenti, per ricordare la presenza di Dio, invitare ad
andare a confessarsi da Don Bosco e raccomandare la devozione a
Maria.
Li conosceva quindi uno per uno, tutti questi
ragazzi, e sapeva giudicarli. Per due anni poté osservare un
adolescente singolare venuto da Mondonio: la sua condotta la
impressionava: «Tu hai – disse un giorno a Don Bosco – tanti
giovani buoni, ma nessuno supera la bellezza del cuore e dell’anima
di Savio Domenico… Lo vedo sempre pregare… Sta in Chiesa come un
angelo del paradiso».
[15]
Gli
unici momenti di calma e di riposo di Mamma Margherita, in quegli
anni, furono le poche settimane di vacanze autunnali ai Becchi.
Riposo d’altronde relativo, perché Don Bosco vi conduceva tutti i
ragazzi senza famiglia. Tornando dalle vacanze del 1856, a metà
novembre, si sentì male e si mise a letto. Il medico diagnosticò
una polmonite. Morì il 25 novembre alle ore 3; la sera prima, don
Borel, suo confessore, le aveva amministrato gli ultimi sacramenti.
«Dio – disse a Don Bosco – sa quanto ti ho amato; ma di lassù
sarà ancora meglio. Ho fatto tutto ciò che ho potuto. Se qualche
volta sono sembrata severa, era per il vostro bene. Di’ ai ragazzi
che ho lavorato per loro, come una mamma. Preghino e offrano una
santa comunione per me»
[16] .
Mamma
Margherita visse povera e povera morì: portata alla fossa comune,
non ebbe mai il suo nome scritto su una pietra tombale.
3.1.2
Profilo spirituale di Mamma Margherita
La
morte della madre mise “in accresciuta evidenza il forte vincolo
tra Don Bosco e la madre, quella relazione primaria che gli aveva
plasmato i tratti fondamentali della personalità”.
[17] Amata da salesiani e
giovani, subito dopo la morte, sorse una convinzione comune: “era
una santa!”. Eppure la Causa di Beatificazione e di Canonizzazione
di Mamma Margherita fu introdotta soltanto l’8 settembre 1994.
Concluso il Processo diocesano a Torino nel 1996, la Positio
(cioè la documentazione sulla fama di santità e sull’eroicità
della vita e delle virtù) è stata consegnata ufficialmente alla
Congregazione per le Cause dei Santi il 25 gennaio 2000.
[18]
Non
resisto al desiderio di tratteggiare qui il suo profilo spirituale,
quello che emerge appunto dalla Positio.
a)
Donna forte
In
tutta la sua esistenza non si colgono mai momenti di facile abbandono
alle inclinazioni naturali. Manifesta un equilibrio straordinario
nell’armonizzare tensioni non facili nella vita di famiglia. Il suo
atteggiamento ci appare sempre vigile e come guidato da una superiore
preoccupazione: quella di chi discerne quale sia il comportamento
migliore per il bene dei suoi figli davanti a Dio. Si presenta così
tenera e ferma, comprensiva e irremovibile, paziente e decisa.
A
spingere Margherita verso l’armonia dei contrari c’era il fatto
di aver dovuto fare anche da padre ai suoi figlioli. Mamma
Margherita, che pure avrebbe avuto la possibilità di evitare la
problematica condizione di vedova, sposandosi nuovamente, ha saputo
raggiungere e conservare sempre il giusto equilibrio fra questi due
ruoli: una maternità sufficientemente forte da compensare l’assenza
del padre, e una “paternità” sufficientemente dolce da non
compromettere l’indispensabile calore materno. Quindi non carezze
vuote, né grida stizzose, ma fermezza e serenità.
Dal
suo aspetto traspariva sempre la calma, la serenità, la padronanza
di sé, la vera dolcezza. Non picchiava i figlioli, ma non cedeva
loro mai; minacciava punizioni severe, ma le condonava al primo segno
di pentimento. In un angolo della cucina – ricordava Don Bosco –
c’era la verga: un bastoncino flessibile. Non l’usò mai, ma non
la tolse mai da quell’angolo. Era una mamma dolcissima, ma energica
e forte. Riuscì a gestire due presenze che in genere risultano
problematiche in una famiglia: la presenza di una suocera ammalata e
quella di un figliastro particolarmente difficile. Saggia educatrice,
seppe trasformare una condizione familiare, ricca di difficoltà, in
un ambiente educativo incisivo e fecondo.
Con l’esempio
e la parola insegnò ai figli le grandi virtù dell’umanesimo
piemontese di quel tempo: il senso del dovere e del lavoro, il
coraggio quotidiano di una vita dura, la franchezza e l’onestà, il
buon umore. Essi impararono anche a rispettare gli anziani e ad
aprirsi volentieri al servizio del prossimo. D’altra parte, calma e
forte, non temeva di dire il fatto suo a coloro le cui parole o atti
provocavano scandalo. Tali esempi scendevano nel più profondo della
coscienza dei tre ragazzi.
La dimensione della fede dava
poi sapore sapienziale ed incisività ad ogni lezione che [*1]
questa maestra analfabeta impartiva ai suoi figlioli.
b)
Educatrice “salesiana”
È
stata quest’arte educativa a permettere a Mamma Margherita di
individuare le energie nascoste nei suoi figli, portarle alla luce,
svilupparle e consegnarle quasi visibilmente nelle loro mani. Ciò va
detto soprattutto nei riguardi del suo frutto più ricco: Giovanni.
Quanto è impressionante notare in Mamma Margherita questo cosciente
e chiaro senso di “responsabilità materna” nel seguire
cristianamente e da vicino il proprio figlio, pur lasciandolo nella
sua autonomia vocazionale, ma accompagnandolo ininterrottamente in
tutte le tappe della sua vita fino alla propria morte!
Il
sogno che Giovannino fece a nove anni, se fu rivelatore per lui, lo
fu certamente anche (se non prima) per Mamma Margherita; è stata lei
ad avere e a manifestare l’interpretazione: «Chissà che tu non
abbia a diventar prete!». E qualche anno dopo, quando comprese che
l’ambiente di casa era negativo per Giovanni a causa dell’ostilità
del fratellastro Antonio, ella fece il sacrificio di mandarlo a fare
il garzone di campagna nella cascina Moglia di Moncucco. Una mamma
che si priva del giovanissimo figlio per mandarlo a lavorare la terra
lontano da casa, fa un vero sacrificio, ma ella lo fece, oltre che
per eliminare un dissidio familiare, per indirizzare Giovanni su
quella strada che le (e gli) aveva rivelato il sogno.
Si
può affermare che a Mamma Margherita va attribuito il merito di aver
lei inoculato in Don Bosco i semi di quel celebre trinomio: ragione,
religione, amorevolezza, che ella visse
semplicemente nella sua calma, affabilità ed autorevolezza. La
divina Provvidenza le fece la grazia di essere un’educatrice
“salesiana” animata da un amore
preventivo che sapeva capire, esigere, correggere, pazientare e
sorridere.
I suoi figli erano sorvegliati, controllati e
guidati, ma non oppressi. Dovevano ubbidire e chiedere i permessi, ma
la Mamma li lasciava volentieri abbandonarsi alla loro allegria e ai
loro giochi. Non cedeva mai ai capricci, e correggeva
amorosamente….Don Lemoyne attesta: «Voleva ad ogni costo che la
correzione non provocasse iracondie, diffidenze, disamore. La sua
massima su questo punto era precisa: indurre i figli a fare ogni cosa
per affetto o per piacere al Signore. Essa perciò era una madre
adorata».
[19] Don Bosco dirà più
tardi che l’educazione è cosa del cuore: ne aveva fatto già la
felice esperienza nel focolare domestico dei Becchi
c)
Efficace catechista
Mamma
Margherita aveva la rara capacità di ricavare da tutto ciò che
accadeva nella vita uno spunto per catechizzare. Si ritenne la prima
responsabile dell’insegnamento della fede ai suoi figli, e seppe
proporre loro valori semplici e forti nella sua scuola di famiglia.
Ciò che trasmise in primo luogo ai figli, con pazienza, negli anni
della crescita, fu la sua fede adamantina, il senso di un Dio di
amore sempre presente, una devozione tenera a Maria.
Celebre
è rimasto il catechismo di
Mamma Margherita. Ella, che non sapeva né leggere né scrivere e che
aveva imparato a memoria, nella sua infanzia, le formule necessarie,
le trasmetteva ai figli, ma anche le sintetizzava e le interpretava
secondo il suo infallibile istinto materno.
Le grandi
verità della fede erano trasmesse nella maniera più semplice ed
elementare, tutte espresse in formule brevissime:
-
Dio ti vede:
era la verità di ogni momento, non destinata ad incutere paura, ma
ad assicurare i bambini sul fatto che Dio si prendeva cura di loro e
che la stessa bontà di Dio chiedeva loro di rispondere con una vita
buona.
-
Quanto è buono il Signore!,
esclamava tutte le volte che qualcosa colpiva la fantasia dei bambini
e destava la loro ammirazione.
-
Con Dio non si scherza!,
asseriva convinta quando si trattava di inculcare l’orrore del male
e del peccato.
-
Abbiamo poco tempo per fare il bene!,
spiegava quando voleva spingerli ad essere più solerti e
generosi.
-
Che importa avere dei bei vestiti, se
poi l’anima è brutta?, osservava
quando voleva educarli a una dignitosa povertà, e alla cura della
bellezza interiore dell’anima.
C’era poi il catechismo
dei sacramenti. Sappiamo, dal racconto
dello stesso Don Bosco, come ella lo applicò col piccolo Giovanni.
Quando si avvicinò il tempo della prima comunione, ella cominciò ad
assegnargli ogni giorno qualche preghiera e qualche lettura
particolare; poi preparò il bambino a una buona confessione (e
gliela fece ripetere tre volte durante il tempo di quaresima); poi,
quando venne il gran giorno (la Pasqua del 1826), fece in modo che il
bambino facesse davvero un’esperienza di comunione con Dio. «Sono
persuasa – dirà in quel giorno al figlio – che Dio ha preso
possesso del tuo cuore! Ora promettigli di fare quanto puoi per
conservarti buono fino alla fine della vita».
[20]
E c’era,
infine, il catechismo della carità:
sia negli anni del relativo benessere che in quelli della fame, la
casa di Margherita restò sempre aperta ai poveri, ai viandanti, agli
ambulanti, alle guardie in perlustrazione che chiedevano un bicchier
di vino, alle ragazze in difficoltà morali; così come restò la
casa alla quale si rivolgevano le vicine quando c’era una disgrazia
da alleviare, qualche malato da assistere o un moribondo da
accompagnare all’ultimo transito.
d)
Prima cooperatrice
Ci
sono modalità, accenti, toni nel sistema preventivo praticato da Don
Bosco che hanno un che di materno, di dolce, di rassicurante, che
autorizzano a vedere in Margherita non solo una figura femminile che
esercita il suo influsso da lontano, ma anche dall’interno come
ispiratrice e modello, come
collaboratrice e,
certamente, prima cooperatrice.
Fu
proprio la presenza di Mamma Margherita a Valdocco durante l’ultimo
decennio della sua vita ad influire non marginalmente su quello
“spirito di famiglia” che tutti consideriamo come il cuore del
carisma salesiano. Quello infatti non fu un decennio qualsiasi, ma il
primo, quello in cui furono poste le basi di quel clima che passerà
alla storia come il clima di Valdocco. Don Bosco aveva invitato la
Mamma spinto da necessità pratiche. In realtà nei piani di
Dio questa presenza era destinata a trascendere i limiti di una
necessità contingente, per iscriversi nel quadro di una
provvidenziale collaborazione ad un carisma ancora allo stato
nascente.
Mamma Margherita fu consapevole di questa sua
nuova vocazione. L’accettò con umiltà e lucidità. Così si
spiega il coraggio dimostrato nelle circostanze più dure. Si pensi
solo all’epidemia del colera. Si pensi a gesti e parole che hanno
un qualcosa di profetico, come l’utilizzare le tovaglie dell’altare
per fare bende per gli ammalati. Valga, soprattutto, l’esempio
della celebre “Buona Notte”, una nota originale della tradizione
salesiana. Era un punto a cui Don Bosco dava molta importanza e fu
incominciato proprio dalla Mamma con un piccolo sermoncino rivolto al
primo giovane ospitato
[21] . Don Bosco poi
avrebbe continuato questa usanza non in chiesa a mo’ di predica, ma
in cortile o nei corridoi, o sotto i porticati in modo paterno e
familiare.
La statura interiore di questa madre è tale
che il figlio, anche quando sarà divenuto ormai esperto educatore,
avrà sempre da imparare da lei. A voler compendiare quanto si è
detto, valga il giudizio di don Lemoyne: «In lei poteva dirsi
personificato l’Oratorio»
[22] .
3.2
Valdocco, “una famiglia che educa”
[23]
Anche
se Valdocco è stata la prima – e la sola – istituzione
assistenziale ed educativa fondata e diretta da Don Bosco in persona,
la tipica fisionomia dell’opera e soprattutto il sistema educativo
di prevenzione ivi adoperato possono essere ben compresi soltanto in
connessione non solo con Don Bosco, con la sua esperienza e il suo
temperamento, ma pure con quelli dei suoi aiutanti. Dagli inizi
l’Oratorio fu una impresa comunitaria, costruita e portata avanti
in interazione tra il fondatore e i suoi collaboratori.
[24]
Fra essi
spicca un gruppo consistente di donne. Mamma Margherita non è stata,
certamente, l’unica collaboratrice di Don Bosco nell’Oratorio;
“altre mamme vissero a Valdocco, dando sempre l’impronta
familiare che necessariamente proveniva dalla loro natura e dalla
loro esperienza”. Morta mamma Margherita, Marianna, la sorella
maggiore, rimase all’Oratorio ancora per quasi un anno fino alla
sua morte. Poi “si stabilì all’Oratorio la mamma di Don Rua,
ch’era coadiuvata dalla mamma del chierico Bellia, da quella del
canonico Gastaldi e da altre. Visse all’Oratorio anche Marianna
Magone, mamma del noto alunno di Don Bosco”
[25] . Dopo la morte di
lei, nel 1872, sparisce la presenza e l’influsso delle mamme
nell’Oratorio.
[26]
È
da sottolineare tuttavia che la mamma di Don Bosco, durante il
decennio 1846-1856, fu la principale compagna e cooperatrice di Don
Bosco, condividendone “pane, lavoro, fatiche, preoccupazioni e
missione giovanile”
[27] . “Mamma
Margherita” – questo è ormai il suo definitivo nome a Valdocco –
sarà attivamente presente al primo sviluppo “esteriore”
dell’opera: primo oratorio, “casa annessa” o pensionato per i
primi artigiani e studenti, prime scuole e primi laboratori,
chiesetta dedicata a san Francesco di Sales, lancio delle Letture
Cattoliche, in un clima di rivoluzioni
e di minacce verso Don Bosco (1853).
In quei giorni,
all’Oratorio si viveva una vita di famiglia alla buona, scarsa di
risorse e piena di sogni; spesso Don Bosco doveva uscire di casa o
per procurarsi i fondi per gestire, anche se con semplicità, un
pensionato sempre più numeroso o per trovare un po’ di pace e
scrivere i suoi libri nella biblioteca del Convitto o altrove. Mamma
Margherita lo sostituiva nell’assistenza dei ragazzi, oltre a
badare ai lavori domestici ordinari, in cucina di giorno e
rattoppando i loro vestiti di notte. Sono fatti del tutto ordinari,
“piccoli particolari” certo, ma che “ebbero il loro peso su
molti aspetti della vita di Don Bosco e dei giovani, e [che] ci
aiutano a vedere nella sua concretezza la ‘famiglia’
dell’Oratorio”
[28] : l’Oratorio,
infatti, nell’intenzione di Don Bosco “aveva ad essere una
casa, cioè una famiglia, e non voleva
essere un Collegio”.
[29]
Ebbene,
tempo fa, don Egidio Viganò ha rilevato con enfasi la ricaduta della
presenza materna di Mamma Margherita a Valdocco, e il suo contributo
nel rendere “familiare” il clima del Oratorio: «L’eroico
trasloco a Valdocco di Mamma Margherita servì ad impregnare
l’ambiente di quei poveri giovani dello stesso stile familiare da
cui è sbocciata la sostanza del Sistema Preventivo e tante modalità
tradizionali ad esso legate. Don Bosco aveva sperimentato che la
formazione della sua personalità era vitalmente radicata nello
straordinario clima di dedizione e di bontà (dono di sé) della sua
famiglia ai Becchi e ha voluto riprodurne le qualità più
significative all’Oratorio di Valdocco tra quei giovani poveri e
abbandonati».
[30]
Risulta,
dunque, ovvio che le componenti della “famiglia educativa”
[31] che Don Bosco ha
voluto divenisse il suo Oratorio, non furono tutte prese solo da
idealizzazioni pedagogiche e teologiche, ma anche dal
quotidiano della vita rusticana piemontese
[32] . Le presenze
femminili delle mamme che furono a Valdocco e, prima di tutto quella
di Mamma Margherita, diedero questo peculiare contributo di fede e di
semplicità, di concretezza e di sapienza educativa.
4.
La famiglia come missione
Queste
riflessioni su Mamma Margherita e la sua famiglia ci fanno
comprendere che la famiglia, oltre ad essere parte, anche se
indiretta, della nostra missione, è innanzitutto, e per sua natura,
un’ istituzione sociale i cui membri si trovano uniti al suo
interno da relazioni interpersonali di vario genere, ma tutte animate
da un clima affettivo, comunicativo e normativo che le caratterizza
di una particolare vitalità carismatica. I nostri destinatari sono i
giovani, il nostro campo di lavoro è la loro educazione e la loro
evangelizzazione. Entrambi però, giovani ed educazione, sono
inseparabili dalla famiglia.
Lo richiamava don Egidio
Viganò nel suo commento al Sinodo dei Vescovi del 1980 sulla
famiglia, a seguito del quale è stata poi pubblicata l’Esortazione
Apostolica Familiaris Consortio di
Giovanni Paolo II: «L’impegno della nostra vocazione salesiana –
scriveva don Viganò – dovrà venire attuato con gli umili e i
poveri. Sono essi che hanno bisogno, anzitutto, della famiglia e per
essi Don Bosco arrivò, come scrive Pietro Braido, alla sua più
geniale invenzione: l’amorevolezza che educa nel clima di una
famiglia gioiosamente unita».
[33]
4.1
“Famiglia, diventa ciò che
sei!”
“Famiglia,
diventa ciò che sei!”: con questo
appello Giovanni Paolo II invitava le famiglie del mondo intero a
ritrovare in se stesse la propria verità e a realizzarla in mezzo al
mondo. Oggi, in un mondo minato dallo scetticismo, non può non
risuonare ancora forte l’esortazione del Santo Padre che
incoraggiava le famiglie a riscoprire questa verità su se stesse
aggiungendo, “Famiglia, credi in ciò
che sei!”.
“Architettura
di Dio”, piano di Dio inviolabile, la famiglia è anche
“architettura dell’uomo”, impegno dell’uomo nel disegno
divino.
q Cellula
della società
La famiglia è
fondamento e sostegno della società per il suo compito essenziale di
servizio alla vita: in famiglia nascono i cittadini e nella famiglia
essi trovano la prima scuola di quelle virtù, che sono l’anima
della vita e dello sviluppo della società stessa.
In
quanto comunità interpersonale di amore, la famiglia trova nel dono
di sé la legge che la guida e la fa crescere. Il dono di sé ispira
l’amore dei coniugi tra di loro e si pone come modello e
norma da attuarsi nei rapporti tra fratelli e sorelle e tra le
diverse generazioni che convivono in famiglia. La comunione e la
partecipazione quotidianamente vissute nella casa, nei momenti di
gioia e in quelli di difficoltà, rappresentano per i figli la più
concreta ed efficace pedagogia nel più ampio orizzonte della
società. Ogni bambino è un dono ai fratelli, alle sorelle, ai
genitori, all’intera famiglia. La sua vita diventa dono per gli
stessi donatori della vita, i quali non potranno non sentire la
presenza del figlio, la sua partecipazione alla loro esistenza, il
suo apporto al bene della comunità familiare e della società
intera.
La stessa esperienza di comunione e di
partecipazione, che deve caratterizzare la vita quotidiana in
famiglia, rappresenta il suo primo e fondamentale contributo alla
società. Le relazioni tra i membri della comunità familiare sono
ispirate e guidate dalla legge della «gratuità» che, rispettando e
favorendo in tutti e in ciascuno la dignità personale come unico
titolo di valore, diventa accoglienza cordiale, incontro e dialogo,
disponibilità disinteressata, servizio generoso, solidarietà
profonda.
Così la promozione di un’autentica e matura
comunione di persone nella famiglia diventa la prima e insostituibile
scuola di socialità. Essa rappresenta un esempio ed uno stimolo per
i più ampi rapporti interpersonali all’insegna del rispetto, della
giustizia, del dialogo e dell’amore, luogo nativo e strumento
efficace di umanizzazione e di personalizzazione della società.
[34]
Tutto
ciò è importante oggi, in modo speciale, se si vuole contrastare
efficacemente i due modelli familiari riduttivi e limitanti che sono
frutto della società consumistica odierna: quello della
famiglia-fortezza, centrata egoisticamente su se stessa, e quello
della famiglia-albergo, priva di identità e di relazionalità. Di
conseguenza, di fronte ad una società che rischia di essere sempre
più spersonalizzata e massificata, e quindi disumana e
disumanizzante, con gli effetti negativi di tante forme di
«evasione», la famiglia possiede e sprigiona ancor oggi energie
formidabili, capaci di strappare l’uomo dall’anonimato, di
mantenerlo cosciente della sua dignità personale, di arricchirlo di
profonda umanità e di inserirlo attivamente con la sua unicità e
irripetibilità nel tessuto della società.
Quando serve
la vita, quando forma i cittadini di domani, quando comunica loro i
valori umani che sono fondamentali per la nazione, quando introduce i
figli nella società, la famiglia gioca un ruolo essenziale: essa è
patrimonio comune dell’umanità. La ragione naturale così come la
Rivelazione divina contengono questa verità. Come diceva il Concilio
Vaticano II, la famiglia costituisce allora “la prima e vitale
cellula della società”.
[35]
q
Santuario della vita
Il
primo e fondamentale compito della famiglia è il servizio alla vita,
che attua lungo la storia la benedizione originaria del Creatore, e
trasmette così l’immagine divina da uomo a uomo (cfr. Gn
5, 1ss). Questa responsabilità scaturisce dalla sua stessa
natura – quella di essere comunità di vita e di amore, fondata sul
matrimonio – e dalla sua missione di custodire, rivelare e
comunicare l’amore. È in gioco l’amore stesso di Dio, del quale
i genitori sono costituiti collaboratori e quasi interpreti nel
trasmettere la vita e nell’educarla secondo il suo progetto di
Padre. In famiglia l’amore continua nel tempo a comunicare vita: si
fa gratuità, accoglienza, donazione. In famiglia ciascuno è
riconosciuto, rispettato e onorato perché è persona e, se qualcuno
ha più bisogno, più intensa e più vigile è la cura nei suoi
confronti.
La famiglia è dunque chiamata in causa
nell’intero arco di esistenza dei suoi membri, dalla nascita alla
morte. Essa è veramente il santuario della vita, il luogo in cui la
vita, dono di Dio, può essere adeguatamente accolta e protetta
contro i molteplici attacchi cui è esposta, e può svilupparsi
secondo le esigenze di un’autentica crescita umana.
Come
chiesa domestica, la famiglia è chiamata ad annunciare, celebrare e
servire il Vangelo della vita. Nella procreazione di una nuova vita i
genitori avvertono che il figlio, se è frutto della loro reciproca
donazione d’amore, è, a sua volta, un dono per ambedue, un dono
che scaturisce dal “Dono”.
q
Annunciatrice del vangelo della vita
È soprattutto attraverso
l’educazione dei figli che la famiglia assolve la sua missione di
annunciare il Vangelo della vita. Con la parola e con l’esempio,
nella quotidianità dei rapporti e delle scelte con gesti e segni
concreti, i genitori introducono i loro figli alla libertà autentica
che si realizza nel dono sincero di sé, e sviluppano in loro il
rispetto dell’altro, il senso della giustizia, l’accoglienza
cordiale, il dialogo, il servizio generoso, la solidarietà e ogni
altro valore che aiuti a capire la vita come vocazione e come
missione d’amore.
Così, pur in mezzo alle difficoltà
dell’azione educativa, i genitori devono con fiducia e con coraggio
formare i figli ai valori essenziali della vita umana. E i figli
devono crescere in una giusta libertà di fronte ai beni materiali,
adottando uno stile di vita semplice ed austero, ben convinti che
l’uomo vale più per quello che è che per quello che ha.
L’intervento educativo dei genitori cristiani si fa
dunque servizio alla fede dei figli e aiuto perché adempiano la
vocazione ricevuta da Dio. Rientra nella missione educativa dei
genitori insegnare e testimoniare ai figli il vero senso del soffrire
e del morire: lo potranno fare se sapranno essere attenti ad ogni
sofferenza che trovano intorno a sé e, prima ancora, se sapranno
sviluppare atteggiamenti di vicinanza, di assistenza e condivisione
verso piccoli, malati e anziani nell’ambito familiare.
Siamo
tutti consapevoli che bambini, ragazzi e giovani hanno bisogno di
un'educazione umana ed affettiva, che stimoli la loro personalità,
la loro responsabilità, il loro senso della fedeltà e
dell’iniziativa. Hanno bisogno di un’educazione della loro
sessualità che, per essere valida e pienamente umana, deve camminare
di pari passo con la scoperta della capacità di amare, iscritta da
Dio nel cuore dell’uomo. Si tratta di una formazione armonica
all’amore responsabile, guidata al tempo stesso dalla Parola di Dio
e dalla ragione.
q
Scuola di impegno sociale
Un
altro compito della famiglia è quello di formare i propri figli
all’amore e di praticare l’amore in ogni rapporto interpersonale,
cosicché la stessa famiglia non si chiuda nel proprio ambito, ma
rimanga aperta alla comunità, ispirata dal senso della giustizia,
dalla solidarietà e dalla sollecitudine verso gli altri, oltre che
dal dovere della propria responsabilità verso la società
intera.
Così il servizio al Vangelo della vita si esprime
nella concretezza della solidarietà. Il compito sociale della
famiglia non può fermarsi all’opera procreativa della generazione
biologica e all’educazione dei figli. Le famiglie cristianamente
ispirate avvertono una continua chiamata ad aprirsi ai bisogni del
prossimo. Singolarmente o in forma associata, esse possono e devono
pertanto dedicarsi a molteplici opere di servizio sociale,
specialmente a vantaggio dei poveri. Tale opera diventa
particolarmente importante per soccorrere tutte quelle persone e
situazioni che l’organizzazione previdenziale ed assistenziale
delle pubbliche autorità non riesce a raggiungere.
Animata
e sostenuta dal comandamento nuovo dell’amore, la famiglia
cristiana vive l’accoglienza, il rispetto, il servizio verso ogni
uomo, considerato sempre nella sua dignità di persona e di figlio di
Dio. La carità va oltre i propri fratelli di fede, perché «ogni
uomo è mio fratello»; in ciascuno, soprattutto se povero, debole,
sofferente e ingiustamente trattato, la carità sa scoprire il volto
di Cristo e un fratello da amare e da servire. La famiglia cristiana
si pone al servizio dell’uomo e del mondo, attuando veramente
un’autentica «promozione umana».
Tutti sappiamo che
l’ingiusta distribuzione dei beni fra il mondo sviluppato e quello
in via di sviluppo, fra ricchi e poveri dello stesso paese, l’uso
delle risorse naturali solo a beneficio di pochi, l’analfabetismo
di massa, il permanere e il riemergere del razzismo, il fiorire di
conflitti etnici e i conflitti armati hanno sempre prodotto un
effetto devastante sulla famiglia. E, d’altra parte, è da rilevare
come la famiglia sia il primo e principale ambito educativo dove
possono fiorire valori diversi, ispirati alla comunione e
all’amore.
A titolo di esempio, vorrei rilevare
l’importanza sempre più grande che nella nostra società assume
l’ospitalità,
in tutte le sue forme: dall’aprire la porta della propria casa e
ancor più del proprio cuore alle richieste dei fratelli, all’impegno
concreto di assicurare ad ogni famiglia una propria casa, come
ambiente naturale che la conserva e la fa crescere. Soprattutto la
famiglia cristiana è chiamata ad ascoltare e a farsi testimone della
raccomandazione dell’Apostolo: «Siate... premurosi
nell’ospitalità» (Rm
12,13). Realizzerà così, imitando l’esempio e condividendo la
carità di Cristo, l’accoglienza del fratello bisognoso: «Chi avrà
dato anche solo un bicchiere di acqua fresca ad uno di questi
piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà
la sua ricompensa» (Mt
10,42).
Un’altra espressione particolarmente
significativa di solidarietà per le famiglie è la disponibilità
all’adozione o all’affidamento di bambini abbandonati dai loro
genitori o comunque in situazioni di grave disagio. Il vero amore
paterno e materno sa andare al di là dei legami della carne e del
sangue ed accogliere anche figli di altre famiglie, offrendo ad essi
quanto è necessario per la loro vita e il loro pieno sviluppo.
I
Padri della Chiesa hanno spesso parlato della famiglia come di
«chiesa domestica», di «piccola chiesa». «Essere insieme» come
famiglia, si traduce nell’essere gli uni per gli altri e nel creare
uno spazio comunitario per l’affermazione di ogni uomo e di ogni
donna. A volte si tratta di persone con handicaps fisici o psichici,
delle quali la società, cosiddetta «progressista», preferisce
liberarsi. Talora anche qualche famiglia che si dice cristiana può
comportarsi secondo questi canoni. È molto triste quando
sbrigativamente ci si sbarazza di chi è anziano o affetto da
malformazioni o colpito da malattie. Si agisce così perché vien
meno la fede in quel Dio per il quale «tutti vivono» (Lc
20, 38) e dal quale tutti sono chiamati alla pienezza della
Vita.
4.2
“Famiglia, credi in ciò che sei!”.
La famiglia non è il prodotto di una cultura, il
risultato di un’evoluzione, un modo di vita comunitario legato ad
una certa organizzazione sociale: essa è una istituzione naturale,
anteriore ad ogni organizzazione politica o giuridica. Prende la
propria consistenza da una verità da essa non prodotta, perché
voluta direttamente da Dio. In una fedeltà senza riserve, l’uomo e
la donna si danno l’uno all’altro e si amano con un amore aperto
alla vita.
Quanto vi ho fin qui comunicato è espresso in
maniera autorevole nei quattro compiti che la Familiaris
consortio
assegna alla famiglia: la formazione di una comunità di persone, il
servizio alla vita, la partecipazione allo sviluppo della società,
la missione evangelizzatrice.
Ma affinché questi compiti
si realizzino, e quindi si compia l’appello rivolto alle famiglie
dal Papa Giovanni Paolo II: “Famiglia,
credi in ciò che sei!”, occorre
anzitutto che la famiglia – i coniugi, i figli e tutti i componenti
del nucleo familiare – sia fermamente convinta di questi compiti,
che provengono dalla natura stessa e dalla missione dell’istituzione
familiare e fanno parte del disegno di Dio sulla famiglia e su
ciascuna delle persone che la compongono.
Si tratta di una
convinzione che, per i credenti, non è solo di ordine
razionale o sociale, ma si appoggia sulla fede in Dio che ha creato
la cellula familiare come comunità di amore e di vita e mediante il
suo Figlio l’ha santificata con la grazia del sacramento, perché
sia per tutti segno e strumento di comunione.
5.
Applicazioni pastorali e pedagogiche
Come
è consuetudine, la Strenna, ed in particolare questa del 2006, ci dà
l’opportunità di offrire a tutta la Famiglia Salesiana alcuni
suggerimenti pastorali e applicazioni pedagogiche.
Ho
visto e apprezzato lo sforzo ben riuscito di alcune Ispettorie
Salesiane per tradurre in programmi educativi la Proposta
Pastorale con la quale ho voluto
accompagnare questa Strenna, come avevo già fatto nel 2004. Anche la
rivista Note di Pastorale Giovanile
ha dedicato un numero monografico per approfondire il tema ed offrire
opportuni e preziosi sussidi. Vi invito a tenere presenti tutti
questi materiali, che vi possono essere molto utili, mentre
personalmente vi ripropongo le grandi linee ispiratrici della
proposta pastorale.
q
Ecco dunque le mie
indicazioni.
Assicurare una
speciale attenzione alla famiglia nella nostra proposta educativa ed
evangelizzatrice richiede, tra l’altro, di:
-
Garantire
uno
speciale impegno di
educare all’amore
nell’ambito dell’azione educativa salesiana e nell’itinerario
di educazione alla fede proposto ai giovani.
Il CG23
presentava l’educazione all’amore come uno dei nodi in cui si
manifesta l’incidenza della fede sulla vita o la sua irrilevanza
pratica. L’esperienza tipica di Don Bosco e il contenuto educativo
e spirituale del Sistema Preventivo ci orientano a:
dare una speciale importanza all’impegno di creare attorno ai giovani un clima educativo ricco di scambi comunicativo-affettivi,
apprezzare i valori autentici della castità,
promuovere i rapporti tra ragazzi e ragazze nel rispetto di sé e degli altri, nella reciprocità e nell’arricchimento vicendevole, nella gioia di una donazione gratuita,
assicurare nell’ambiente educativo la presenza di testimoni limpidi e lieti di amore, in modo speciale attraverso la donazione nella castità.
-
Accompagnare e sostenere
i genitori nelle loro responsabilità
educative, coinvolgendoli pienamente
nella realizzazione del Progetto educativo-pastorale salesiano.
Il
CG24, parlando del coinvolgimento dei laici nella missione salesiana,
riconosceva l’impegno dei genitori e il ruolo delle famiglie nelle
nostre presenze, ma richiedeva anche di intensificare la
collaborazione con la famiglia, in quanto prima educatrice dei suoi
figli e delle sue figlie (cfr. CG24,
20. 177). Per questo, proponeva di valorizzare l’apporto
insostituibile dei genitori e delle famiglie dei giovani, favorendo
la costituzione di comitati e associazioni che possano garantire ed
arricchire con la loro partecipazione la missione educativa di Don
Bosco (cfr. CG24,
115).
-
Promuovere e qualificare lo stile
salesiano di famiglia: nella propria
famiglia, nella comunità salesiana, nella comunità
educativo-pastorale.
Lo spirito salesiano di famiglia
costituisce una caratteristica della nostra spiritualità (cfr. CG24,
91-93) e si esprime:
*
nell’ascolto incondizionato dell’altro,
*
nell’accoglienza gratuita delle persone,
*
nella presenza animatrice dell’educatore tra i giovani,
*
nel dialogo e nella comunicazione interpersonale e istituzionale,
* nella
corresponsabilità attorno ad un progetto educativo condiviso.
-
Crescere
nello
spirito e nell’esperienza di Famiglia
Salesiana al servizio dell’impegno
educativo e pastorale tra i giovani.
La Famiglia Salesiana
ci chiede in modo speciale un impegno convergente per offrire ad
ogni giovane una proposta e un accompagnamento vocazionale
adeguato ed esigente (cfr. CG25,
41 e 48). Per questo occorre crescere come Famiglia
attraverso:
*
il buon funzionamento della Consulta della Famiglia
Salesiana,
*
l’inserimento di giovani in essa,
*
iniziative ed attività che portino la Famiglia Salesiana ad operare
sempre più come “movimento spirituale apostolico”.
q
Alcuni suggerimenti pratici
·
Preparare, nell’itinerario di formazione dei giovani, un cammino
graduale e sistematico di educazione all’amore,
che aiuti gli adolescenti e giovani
-
a cogliere il valore umano e cristiano della sessualità,
-
a maturare un rapporto positivo e aperto tra ragazzi e ragazze,
- ad
affrontare, alla luce della dignità della persona umana, dei valori
della vita e dei criteri del Vangelo, le diverse questioni moderne
sulla vita e sulla sessualità umana,
-
ad aprirsi al progetto di Dio come cammino concreto per vivere la
propria vocazione all’amore.
Si dovrà dare una speciale
importanza a questo aspetto nei percorsi formativi proposti nelle
associazioni e nei gruppi del Movimento Giovanile Salesiano e
nell’accompagnamento personale dei giovani.
·
Promuovere tra i giovani adulti dei nostri ambienti (animatori,
volontari, collaboratori giovani…) percorsi
concreti di formazione, accompagnamento e discernimento della
vocazione al matrimonio cristiano. In
questo impegno si cercherà di suscitare la collaborazione di coppie
cristiane già inserite nei gruppi laicali della Famiglia Salesiana.
· Suscitare
nelle nostre presenze gruppi, movimenti
e associazioni di coppie e di famiglie
che le possano aiutare a vivere e ad approfondire la propria
vocazione matrimoniale e ad assumere con impegno le proprie
responsabilità educative.
Nella Famiglia Salesiana
esistono i gruppi di “Famiglie Don Bosco”, “Hogares Don Bosco”,
promossi ed animati dai Cooperatori Salesiani; ma esistono anche
parecchie altre associazioni familiari come “Movimento Familiare
Cristiano”, “Incontri Matrimoniali”, ecc.
·
Appoggiare i genitori dei ragazzi/ragazze delle nostre opere nella
loro responsabilità educativa attraverso la creazione di
associazioni di genitori, scuole di
genitori, ecc. con una proposta
concreta e sistematica di formazione e condivisione su tematiche
educative.
·
Irrobustire in ogni presenza salesiana la
comunità educativo-pastorale, con una
particolare attenzione ai rapporti personali e al clima di famiglia,
alla partecipazione più larga possibile e alla condivisione dei
valori salesiani e degli obiettivi del progetto educativo-pastorale.
In questo modo l’opera salesiana diverrà una casa per i ragazzi e
anche un appoggio per le famiglie coinvolte.
·
Coinvolgere le famiglie nel cammino di
educazione e di evangelizzazione che
proponiamo e animiamo tra i giovani, attraverso iniziative come
incontri di condivisione tra genitori e figli, catechesi familiare,
coinvolgimento di genitori nell’animazione dei gruppi del MGS,
celebrazioni e incontri insieme, comunità cristiane familiari come
punto di riferimento per il cammino di fede proposto ai giovani,
ecc.
·
Incoraggiare, preparare e accompagnare i nostri laici perché
promuovano e difendano nella società i
diritti della famiglia, di fronte a
leggi e situazioni che la danneggiano.
·
Approfondire il senso di Famiglia
Salesiana tra i diversi gruppi presenti
in uno stesso territorio, mediante la conoscenza e la condivisione
della “Carta della comunione” e della “Carta della missione”
e l’attuazione della “Consulta della Famiglia Salesiana” ai
diversi livelli.
Conclusione:
una leggenda di sapore sapienziale
E
adesso per concludere, come ho fatto in precedenti commenti alla
Strenna, vi presento una leggenda che può rappresentare una sintesi
di quanto vi ho espresso in questo commento.
Una
famiglia
Nel
cuore di una vallata di campi, prati e boschi, in una casetta a due
piani, viveva una famigliola felice. Erano tre, per il momento: una
mamma, un papà e un bambino biondo di sei anni. Il papà lavorava in
una fabbrica di rubinetti, la mamma coltivava l’orto dietro la
casetta e governava con mano ferma dodici galline pettegole e un
gallo prepotente. Il bambino andava a scuola felice e fiero, tanto
che aveva già imparato a scrivere il suo nome. Sapeva anche il
significato della parola “effervescente”.
Al
centro della valle scorreva un torrente allegro e tortuoso.
La
casetta sorgeva un po’ isolata dal paese e così, la domenica, la
famigliola si stipava in un’auto piccolina e andava a Messa nella
chiesa parrocchiale. E poi mangiavano il gelato o la cioccolata
calda, secondo la stagione.
La
sera, nella casetta c’era sempre un po’ di trambusto, perché il
bambino, prima di andare a letto, trovava sempre qualche scusa, come
contare le stelle o le lucciole o i quadretti della
tovaglia.
Prima
di addormentarsi tutti insieme pregavano. Un angelo del Signore,
tutte le sere, raccoglieva le preghiere e le portava in cielo.
Un
autunno, piovve per molti giorni. Il torrente si gonfiò di acqua
scura. A monte, i tronchi e il fango formarono una diga che formò un
lago limaccioso. Al tramonto, sotto la pressione dell’acqua, la
diga crollò. La valle cominciò ad essere sommersa dall’acqua.
Il
papà svegliò la mamma e il bambino. Si strinsero l’un l’altro
spaventati, perché l’acqua aveva invaso il pianterreno della
casetta. E continuava a salire. Sempre più scura, sempre più
veloce.
«Saliamo
sul tetto!» disse il papà. Prese il bambino, che si avvinghiava
silenzioso al suo collo, con gli occhi colmi di terrore, e salì in
soffitta e di là sul tetto. La mamma li seguì.
Sul
tetto si sentirono come naufraghi su un’isoletta, che diventava
sempre più piccola. Perché l’acqua continuava a salire e arrivò
implacabile alle ginocchia del papà.
Il
papà si sistemò ben saldo sul tetto, abbracciò la mamma e le
disse: «Prendi il bambino in braccio e sali sulle mie
spalle!»
Mamma
e bambino salirono sulle spalle del papà che continuò: «Mettiti in
piedi sulle mie spalle e alza il bambino sulle tue. Non aver paura.
Qualunque cosa capiti io non ti lascerò!».
La
mamma baciò il bambino e disse: «Sali sulle mie spalle e non avere
paura. Qualunque cosa capiti io non ti lascerò!».
L’acqua
continuava ad alzarsi. Sommerse il papà e le sue braccia tese a
tenere la mamma, poi inghiottì la mamma e le sue braccia tese a
tenere il bambino. Ma il papà non mollò la presa e neanche la
mamma. L’acqua continuò a salire. Arrivò alla bocca del bambino,
agli occhi, alla fronte.
L’angelo
del Signore, che era venuto a prendere le preghiere della sera, vide
solo un ciuffetto biondo spuntare dall’acqua torbida.
Con
mossa leggera afferrò il ciuffo biondo e tirò. Attaccato ai capelli
biondi venne su il bambino e attaccata al bambino venne su la mamma e
attaccato alla mamma venne su il papà. Nessuno aveva mollato la
presa.
L’angelo
spiccò il volo e posò con dolcezza l’originale catena sulla
collina più alta, dove l’acqua non sarebbe mai arrivata. Papà,
mamma e bambino ruzzolarono sull’erba, poi si abbracciarono
piangendo e ridendo.
Invece
delle preghiere, quella sera l’angelo portò in cielo il loro
amore. E tutte le schiere celesti scoppiarono in un fragoroso
applauso.
*
* *
Ecco, miei cari, si
tratta di una “parabola” molto salesiana, perché il messaggio è
che cominciando dai piccoli “tiriamo su” il resto della
famiglia.
Finisco rinnovando gli auguri di Buon Anno 2006,
che incominciamo sotto la protezione della Madonna, la Madre di Dio.
Ella ci insegni a contemplare la famiglia che è riuscita a creare a
Nazareth per capirne il segreto ed imitarla.
Con affetto,
in Don Bosco
Don Pascual Chávez V.
Rettor
Maggiore
Solennità della Maternità divina di Maria
Roma – 1°
gennaio 2006
[1]
L’Osservatore
Romano, 10-11 gennaio 2005, p. 5
[2]
Novo millennio
ineunte, n. 47.
[3]
Udienza ai partecipanti
alla LIV Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, OR
30-31 maggio 2005, p. 5.
[4]
Lettera circolare di
Don Bosco sui castighi… 1883, Epistolario
di San Giovanni Bosco (a cura di E.
Ceria), SEI Torino, vol. IV, p. 209.
[5]
Così iniziava la sua
biografia di Don Bosco G. Joergensen, Don
Bosco (ediz. italiana a cura di A.
Cojazzi), SEI Torino, 1929, p. 19.
[6]
P. Braido, Prevenire
non reprimere. Il sistema educativo di Don Bosco.
LAS, Roma 1999, p. 139.
[7]
Discorso agli operatori
della scuola. Testo citato nella lettera circolare di D. Egidio
Viganò Il Papa ci parla di Don Bosco,
ACG 328, p. 20.
[8]
Più che una biografia,
l’opera del Lemoyne dovrebbe essere letta come una narrazione
esemplare, a carattere edificante. Lo stesso autore ne era cosciente
quando intitolò il volumetto: Scene
morali di famiglia esposte nella vita di Margherita Bosco. Racconto
edificante ed ameno. Torino, Tip.
Salesiana, 1886, 192 pp.
[9]
Cfr. Memorie
Biografiche, I, pag. 296.
[10]
Memorie dell’Oratorio
[ediz. a cura di A. da Silva Ferreira,
LAS 1991], pag. 90.
[11]
Memorie Biografiche,
I, pag. 522.
[12]
Memorie dell’Oratorio
[ediz. citata],
pag. 174.
[13]
Memorie Biografiche,
IV, pag. 233.
[14]
Teresio BOSCO, Una
nuova biografia di Don Bosco, Elle Di
Ci, Leumann (TO) 1978.
[15]
Memorie Biografiche,
V, pag. 207.
[16]
Memorie Biografiche,
V, pag. 563.
[17]
P. Braido, Don
Bosco, prete dei giovani nel secolo delle libertà.
Vol. I. LAS, Roma 2003, p. 317.
[18]
In questo lavoro ebbe un
grande merito la Commissione Storica che si occupò della Causa. Essa
era composta da suor P. Cavaglià, da don F. Desramaut, da don R.
Farina, da don G. Milone, da don F. Motto, da don G. Tuninetti.
[19]
G. B. Lemoyne, Scene
morali di famiglia esposte nella vita di Margherita Bosco. Torino,
Tip. Salesiana, 1886, p. 39.
[20]
Memorie dell’Oratorio
[ediz. citata],
pag. 43.
[21]
Don Bosco racconta
questo episodio nelle Memorie
dell’Oratorio [ediz. citata, pag.
181-182].
[22]
Memorie Biografiche,
III, pag. 376.
[23]
La formula è tratta
dalla testimonianza dello stesso Don Bosco: «Questa Congregazione
nel 1841 non era che un catechismo, un giardino di ricreazione
festiva, cui nel 1846 si aggiunse un Ospizio pei poveri artigiani,
formando un Istituto privato a guisa di numerosa famigliola» (G.
Bosco, Brevi notizie sulla Congregazione
di S. Francesco di Sales dall'anno 1841 al 1879,
in “Esposizione alla S. Sede sullo stato morale e materiale della
Pia Società di S. Francesco di Sales”, Tip. Salesiana, S. Pier
d'Arena, 1879 (OE, vol. XXXI, p. 240).
[24]
Cfr. P. Braido, Prevenire
non reprimere. Il sistema educativo di Don Bosco.
LAS, Roma 1999, p. 158.
[25]
Cfr. P. Stella,
Don Bosco nella Storia della Religiosità
Cattolica. Vol I.: Vita e Opere. LAS,
Roma 1997, p.
115.
[26]
“Erano tempi in cui
ormai il Collegio era bene organizzato, la vita religiosa della
Congregazione non comportava più la presenza di donne in casa e Don
Bosco pensava già alle Figlie di Maria Ausiliatrice” (P. Stella,
o. c. p.
115).
[27]
P. Braido, Don
Bosco, prete dei giovani nel secolo delle libertà.
Vol. I. LAS, Roma 2003, p. 213.
[28]
P. Stella, o.
c. p. 115.
Cf. José M. Prellezo, “Don Bosco, fundador de comunidad.
Aproximación a la comunidad de Valdocco”: Cuadernos
de Formación Permanente 7 (2001)
166.
[29]
A. Caviglia, “Il
‘Magone Michele’", in Opere e
scritti editi e inediti di Don Bosco. Vol.
V., SEI, Torino 1965, p. 141.
[30]
E. Viganò,
Nell’anno della famiglia.
ACG 349, giugno 1994, pag. 29
[31]
Prendo l’espressione da
P. Braido, Prevenire non reprimere. Il
sistema educativo di Don Bosco, p.
305.
[32]
Cfr. P. Braido, Prevenire
non reprimere. Il sistema educativo di Don Bosco.
Per uno sviluppo del tema sullo stile di famiglia nel metodo
educativo di Don Bosco, si veda il capitolo 15, p. 305 ss. Per una
ricostruzione storica, in rapporto anche alla personalità di Don
Bosco, è pure interessante il cap. 8, p. 158 ss.
[33]
E. Viganò,
Appelli del Sinodo ’80. ACG 299,
dicembre 1980, pag. 29
[34]
Francesco di Felice,
Radici umane e valori cristiani della
famiglia, Libreria Editrice Vaticana,
2005, pp.138s.
[35]
Apostolicam Actuositatem, n. 11
[*1]