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CI STA A CUORE IL PRETE DEL DUEMILA
Introduzione. - Il 150° anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Don Bosco. - Il Sinodo-90, sulla formazione del Prete oggi. - La «coraggiosa chiarezza» dei padri sinodali. - L’assoluta originalità del «sacerdozio» della Nuova Alleanza. - La consacrazione battesimale e il ministero ordinato. - Il delicato tema del «Religioso-Presbitero». - Don Bosco: Prete e Fondatore per i giovani. - Urgenza di miglior formazione salesiana. - Il CG23 e la nostra crescita pastorale. - Gratitudine al Prete e suo affidamento a Maria.
Lettera pubblicata in ACG n. 335
Roma, 8 dicembre 1990
Solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria
Cari Confratelli,
il nuovo anno sia per tutti un tempo di intensificazione dello spirito di Don Bosco nei cuori. Così potremo, giorno dopo giorno e in forma graduale, far diventare realtà le prospettive pedagogico-pastorali del CG23.
Si dia importanza al «giorno della comunità».1 Sarà opportuno, in quella riunione comunitaria che è spazio vitale di formazione permanente, recitare come «preghiera» quanto esprime il documento capitolare nel n. 95: «Noi crediamo che Dio ama i giovani... Noi crediamo che Gesù vuole condividere la “sua vita” con i giovani... Noi crediamo che lo Spirito si fa presente nei giovani... Noi crediamo che Dio ci sta attendendo nei giovani per offrirci la grazia dell’incontro con Lui e per disporci a servirLo in loro...». Recitando insieme questo testo, per intero, cresceremo nella nostra caratteristica esperienza che ci fa considerare il momento educativo come il luogo per noi privilegiato dell’incontro con Cristo.
Vorrei esortare gli Ispettori e i Direttori che insistano sulla formazione permanente affinché il «da mihi animas» sia, oltre che il motto che ci caratterizza, anche e soprattutto il clima ideale della buona salute nelle case o, come diceva don Rinaldi, il polmone del nostro «respiro per le anime».2
Per favorire questo clima considero utile invitarvi a riflettere sul recente evento ecclesiale del Sinodo dei Vescovi, centrato sulla formazione sacerdotale: ogni evento veramente ecclesiale è per se stesso anche evento di famiglia. È un tema che ci interessa come Congregazione, per vari motivi.
Il 150° anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Don Bosco
C’è innanzitutto una commemorazione significativa che ci invita a ripensare le origini storiche del nostro carisma: il prossimo 5 giugno ricorre il 150° anniversario dell’ordinazione di Don Bosco: è una data particolarmente incisiva nella vita del nostro Fondatore e da lui molto preparata e desiderata. Essa ci aiuta a capire meglio il suo cuore pastorale. È attraverso la peculiare fisionomia di prete, propria di Don Bosco, che noi dobbiamo approfondire la nostra missione giovanile e popolare.
Se poi contiamo i giovani confratelli che aspirano e si preparano in Congregazione al ministero sacerdotale, dai postnovizi ai tirocinanti e agli studenti di teologia, arriviamo alla notevole somma di oltre 3000; e se aggiungiamo i circa 450 novizi aspiranti al presbiterato, raggiungiamo nel totale i 3500. Sono numeri che ci rammentano la grave responsabilità che abbiamo di fronte alla Chiesa e che ci fanno pensare a tante aspettative di amicizia per Cristo che si affollano — anche anonimamente — nel cuore dei giovani. Questi numeri ci aprono anche a un profondo senso di riconoscenza e di umile gioia, quando li consideriamo come un segno più che consistente della bontà e volontà di Dio a favore della continuità e crescita del carisma del Fondatore: «Ogni chiamata — ci dicono le Costituzioni — manifesta che il Signore ama la Congregazione, la vuole viva per il bene della sua Chiesa e non cessa di arricchirla di nuove energie apostoliche».3
Noi siamo nati dal cuore ardente di Don Bosco prete; condividiamo con lui una missione «pastorale» che si fa carico della vita di fede dei giovani e dei ceti popolari; viviamo e lavoriamo insieme,4 animati, sostenuti e orientati, a livello mondiale, ispettoriale e locale, da un confratello che si ispira costantemente al suo zelo sacerdotale «per la grazia del ministero presbiterale e l’esperienza pastorale».5
Il volto della nostra Congregazione ha una sua fisionomia originale, nei cui tratti il sacerdozio (vissuto in fraterna complementarità tra confratelli laici e preti) è nota costitutiva della sua identità. Siamo una comunità di «chierici e di laici che vivono la medesima vocazione in fraterna complementarità».6
L’argomento trattato nel Sinodo ci tocca, quindi, da vicino.
Ma inoltre, e soprattutto, esso ci immerge vitalmente, insieme a tutti i credenti, nell’ineffabile mistero di Cristo, al centro più intenso del suo amore e della sua missione. Ci riporta agli eventi della Pasqua e alla sua mediazione celeste di Risorto che intercede incessantemente per noi davanti al Padre. L’attività liturgica della Chiesa è radicata in Lui e incorpora ogni giorno, attraverso l’Eucaristia, la nostra intraprendenza e la nostra vita nel sublime suo atto sacrificale che permane definitivamente nel cielo come la vetta dell’amore umano della storia.
Tutto questo ci stimola fortemente a considerare il Sinodo quale provvidenziale evento che aiuta a migliorare la qualità spirituale della vita dei confratelli e delle comunità. Vogliamo sfatare quella tagliente affermazione che tra noi ci sarebbero «molti sacerdoti, ma poco sacerdozio»: si tratta evidentemente di un paradosso, ma anche solo il sospetto che abbia qualche grado di verità ci addolora e ci spinge a una seria revisione.
Il recente Sinodo, pur considerato qui solo in forma iniziale, indica una orbita sicura per salire a più alta quota.
Il Sinodo-90, sulla formazione del Prete oggi
Abbiamo seguito questo ottavo Sinodo ordinario dei Vescovi attraverso i giornali. Non basta. Vogliamo avvicinarlo un po’ di più per leggerlo dal di dentro. Incominciamo con alcuni dati che servono a migliorare il nostro punto di osservazione.
Il Sinodo-90, lungamente preparato anche con gli apporti delle Conferenze episcopali, si è svolto in Vaticano dal 30 settembre al 28 ottobre. Vi hanno partecipato 238 padri sinodali, 17 esperti e 43 uditori ed uditrici di diverse nazionalità. Vi erano presenti anche 4 presuli salesiani: il Card. Rosalio Castillo e i vescovi Oscar Rodríguez, Basilio Mvé e Juan Abelardo Mata.
Per la prima volta si è vista al completo la partecipazione degli episcopati dell’Est europeo, così che tra i gruppi linguistici si è aggiunto il «circolo minore slavo» (composto di ucraini, cecoslovacchi, un lettone, un bielorusso, iugoslavi e polacchi). Il rapporto che alcuni di questi vescovi hanno fatto delle vicissitudini delle loro Chiese è stato motivo di commozione e di prolungati applausi. Così, per esempio, Mons. Alexandru Todea — metropolita di Fagaras e Alba Julia in Romania — ha descritto con penetrante realismo le sofferenze causate dalla persecuzione: una somma di mille anni di carcere per vescovi, sacerdoti e fedeli; 7 vescovi morti in prigione; e una dittatoriale e opprimente organizzazione atea della società.
Il tema di studio nel Sinodo era: La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali. Durante le quattro intense settimane di lavoro si sono formulate 41 «Proposizioni» da consegnare al Papa — insieme ad altri apporti — per la redazione della Esortazione apostolica postsinodale.
Più che sintetiche proposte, queste «Proposizioni» costituiscono temi ben definiti con indicazioni di ulteriore sviluppo. Presentano brevemente i contesti culturali in cui vivono oggi i credenti, con una visione di ciò che pensano i Pastori sull’evoluzione della società; trattano poi delle vocazioni e del loro discernimento, del sacerdozio comune nel Popolo di Dio e dell’identità e missione di servizio proprie del presbitero, dei mezzi e dei contenuti della formazione iniziale, dell’importanza della formazione permanente e di vari problemi inerenti alla vita dei preti.
Va ricordato, in particolare, il rapporto del pro-prefetto della Congregazione per l’Educazione cattolica, Mons. Pio Laghi, sulla situazione attuale delle vocazioni: lenta e faticosa ripresa in Europa e Nordamerica, costante incremento e differenziato aumento in Africa, America Latina e zone asiatiche.
Evidentemente al centro di tutto — ed è l’aspetto che più ci interessa — c’è la considerazione del sacerdozio della Nuova Alleanza nei suoi due aspetti di consacrazione battesimale (ossia del sacerdozio comune a tutti i fedeli) e di ministero ordinato (ossia proprio dei presbiteri e dei vescovi).
Purtroppo la stampa, in generale, non ha presentato i valori e la ricchezza rinnovatrice di questo Sinodo; non era neppure facile farlo, per svariate ragioni. Non pochi giornali e riviste di ispirazione più o meno laicista, aggrappandosi ai soliti argomenti di salotto, hanno dato valutazioni superficiali e disinformate con giudizi piuttosto negativi.
I nostri contatti diretti con i padri sinodali, invece, offrono tutt’altra valutazione: convergenza straordinaria dei partecipanti e serena prospettiva di futuro. Il segretario Mons. Giovanni Schotte, nell’ultima conferenza stampa, ha parlato di «forte convergenza», di «fraterna collegialità effettiva ed affettiva». E il Card. Goffredo Danneels, arcivescovo di Bruxelles, che era già stato membro di vari Sinodi anteriori, ha affermato di considerare questo come il migliore dei Sinodi a cui aveva partecipato.
Si possono sottolineare due aspetti caratteristici del clima sinodale. Il primo è il fatto che quasi due terzi dei vescovi erano arrivati per la prima volta ad un Sinodo e nella loro maggioranza non avevano preso parte al Vaticano II (eccetto una ventina), così da far dire al segretario Mons. Schotte che questo si potrebbe considerare il primo Sinodo di fatto «postconciliare»; eppure brilla in esso una robusta fedeltà ai grandi contenuti del Vaticano II.
Il secondo aspetto è l’ottica di speranza, fatta di fiducia nell’intervento dello Spirito Santo per le vocazioni e per la santità del clero. I padri sinodali si sono collocati al di sopra di maliziose e ricorrenti constatazioni propagandistiche di indebolimento o di arretramento sociologico, e anche al di là degli spauracchi dell’invecchiamento: è stato un Sinodo affacciato sulla giovinezza della Chiesa, per nulla diffidente del suo cammino verso il terzomillennio.
Il Papa ha voluto esplicitamente sottolineare i frutti spirituali della vocazione al sacerdozio ministeriale con la beatificazione di due presbiteri benemeriti, Giuseppe Allamano (exallievo di Valdocco) e Annibale Maria Di Francia.
Dunque, un Sinodo ricco di speranza che fonda la sua fiducia sulla presenza e potenza dello Spirito Santo che rinnova il sacerdozio nella Chiesa.
La «coraggiosa chiarezza» dei padri sinodali
Il segretario Mons. Schotte, esprimendo una sua valutazione globale sul Sinodo, ha parlato tra l’altro di «coraggiosa chiarezza» nel dare una appropriata risposta a varie teorie e dubbi suscitati circa l’identità stessa del ministero sacerdotale e, quindi, sulla formazione del presbitero. Circolano infatti da anni delle interpretazioni, che prospettano il rinnovamento del «ministero» partendo piuttosto da principi sociologici, per arrivare alla conclusione che esso deve considerarsi come una «funzione» comunitaria invece che come una «consacrazione» sacramentale. Una simile interpretazione funzionale tenterebbe di emarginare la dottrina tradizionale sul sacerdozio ministeriale; concepirebbe il ministero come una funzione che emana dalla comunità locale. Il presbiterato, così, non sarebbe legato a un carattere indelebile né alla legge del celibato; rimarrebbe aperto a tutti ed avrebbe una grande varietà di forme secondo le esigenze culturali dei luoghi e dei tempi. Non dovrebbe essere più, dunque, una «mediazione sacrale» — come dicono — sovraccarica di una incrostazione di «potere e dignità» accumulatasi lungo i secoli, ma un servizio semplificato che sia risposta più aggiornata e conforme alle attuali esigenze della socializzazione umana con una partecipazione dal basso che significhi, di fatto, condivisione e corresponsabilità democratica da parte di tutto il Popolo di Dio. L’identità del ministero, quindi, sarebbe da ricercarsi più nelle leggi proprie della società umana, che nel riferimento sacramentale a Cristo; si rimetterebbe così in causa la stessa successione apostolica in vista di una struttura non più gerarchica della Chiesa.
Non c’è da meravigliarsi se questo tipo di teorie, insieme ai grandi mutamenti socioecclesiali sopravvenuti, abbia portato con sé una crisi di identità sacerdotale, così che nella enumerazione delle “circostanze attuali” da considerare ci sia appunto — anche e soprattutto — la ridefinizione dell’identità sacerdotale.
Oltre alla confusione proveniente da queste teorie, circolano anche delle prese di posizione metodologiche circa il processo di formazione che, pur con retta intenzione, privilegiano la prassi del situarsi in frontiera tra i destinatari in forma tale da non rispettare — in vari casi e di fatto — i passi della gradualità, le esigenze spirituali dell’incorporazione ministeriale al sacerdozio di Cristo e le competenze specifiche della missione pastorale.
Ecco perché, per i padri sinodali, c’erano da considerare tra «le circostanze attuali» del tema in studio anche, e prima di tutto, queste difficoltà di fondo.
Da questo punto di vista, il Sinodo può essere considerato una profezia assai tempestiva a favore del Prete del Duemila. Se ne sentiva il bisogno!
Senza dubbio si sono riscontrati, nelle quattro settimane di lavoro, anche dei limiti nella trattazione del tema, che è di per sé molto vasto. Si è parlato quasi solo del prete «diocesano»; e non si è detto molto sulle interpellanze delle situazioni pastorali di oggi. C’è da notare, però, che esiste una varietà così ampia di carismi sacerdotali e di contesti socioculturali, che diveniva impossibile affrontare tutto in così breve spazio di tempo.
A noi interessa ricordare qui l’intervento del Card. Jean Jérôme Hamer, prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata. Egli ha affermato: «Negli Istituti religiosi “clericali”, l’esercizio del ministero sacerdotale appartiene alla natura stessa di questi Istituti. Per questi religiosi-preti, l’esercizio dell’Ordine sacro non è quindi un elemento esterno aggiunto in più a una vita religiosa già completa. Questo fatto ha un’importanza notevole in diversi campi, ma specialmente nel campo della formazione. Ogni superiore maggiore ha la responsabilità di mantenere la perfetta unità della formazione al presbiterato e della formazione alla vita religiosa, secondo la propria identità (carisma) dell’Istituto».7
Queste considerazioni ci serviranno per sviluppare qualche riflessione riguardante in particolare l’originalità della nostra Congregazione. È bene che tocchi a noi stessi affrontare gli aspetti dell’indole propria del nostro carisma.
Ad ogni modo, nel Sinodo c’è anche una Proposizione che tratta dei rapporti tra preti secolari e religiosi, insistendo sull’importanza del documento Mutuae relationes 8 e altre Proposizioni sul coinvolgimento pastorale che deriva concretamente dal territorio (Chiese particolari e Conferenze episcopali) che porta con sé direttive anche per i religiosi; si è pure accennato al significato ecclesiale del «presbiterio» per tutti i preti.
Speriamo che l’Esortazione apostolica del Papa ci regali qualche orientamento in più.
D’altra parte, l’argomento delle «circostanze attuali» sarà trattato, anche se con una angolatura più ampia, in prossime riunioni episcopali: il Sinodo speciale per l’Europa nel 1991, la IV Assemblea dell’Episcopato latinoamericano nel 1992 e il Sinodo speciale per l’Africa nel 1993.
Lo stesso Santo Padre ha riconosciuto la necessità che si prosegua in tal senso la riflessione iniziata in questo Sinodo. Nell’allocuzione del 27 ottobre al termine dell’ultima assemblea generale, il Papa, dopo aver parlato della «grandissima importanza» della formazione sacerdotale, ha aggiunto: «I problemi ricordati riguardano la Chiesa universale. La riflessione deve essere continuata e proseguita secondo gli orientamenti elaborati nell’assemblea sinodale, in vista dell’applicazione alle diverse situazioni delle Chiese locali. Questa prosecuzione s’iscrive normalmente nella logica dell’attività sinodale. Quest’ultima non darà tutti i suoi frutti se non nelle realizzazioni che avrà ispirato e orientato».9
L’assoluta originalità del «sacerdozio» nella Nuova Alleanza
Senza dubbio l’emergere dei segni dei tempi, il nuovo rapporto della Chiesa con il mondo e le esigenze di rinnovamento del ministero ordinato provenienti dagli impegni della nuova evangelizzazione, comportano una attenta e profonda riconsiderazione della natura e dell’esercizio del sacerdozio cristiano, che il Concilio di Trento, per le speciali contingenze storiche, non aveva disegnato in tutta la sua ampiezza.
A tutto il Popolo di Dio interessa enormemente la chiarezza e la certezza su uno degli aspetti più vitali e costitutivi della Chiesa. Avere una visione di fede circa l’identità sacerdotale significa percepire più a fondo, nella misura del possibile, il mistero di Cristo. Sulla base della chiarezza di identità risulterà più facile aprirsi alla ricerca di nuove modalità di esercizio ministeriale senza correre dei gravi rischi di deviazione.
Il punto di riferimento a cui si sono rivolti i padri sinodali per questa considerazione è stata la dottrina contenuta nei grandi documenti del Vaticano II. È utile ricordarne le linee portanti; dovrebbero essere alimento quotidiano della contemplazione della nostra fede.
La nozione di «sacerdozio» cristiano nella Nuova Alleanza non appartiene alla concezione propria delle religioni; esse confinano il sacerdozio all’ambito del sacro e dei riti. Nella Nuova Alleanza, invece, esso è un dato storico che emerge direttamente dall’uomo Gesù Cristo con i suoi eventi pasquali di salvezza. Non è, quindi, una espressione religiosa di sacralità, ma si fonda su un avvenimento datato e localizzato che tocca tutta la realtà dell’uomo, influendo di fatto sulla significazione globale della sua esistenza e della sua vocazione di persona nel creato. Il Cristianesimo più che di «religione» vive di «fede»; in esso c’è un unico vero «Sacerdote» con un unico efficace «Sacrificio»: è Cristo con la sua Pasqua!
«Egli non è diventato Sacerdote a causa di leggi umane, ma per la potenza di una vita che non avrà fine».10 Dal punto di vista religioso della tradizione ebraica Gesù Cristo era, diremmo oggi, un «laico»: «apparteneva a una tribù nella quale mai nessuno fu sacerdote dell’altare. Infatti è noto che Gesù viene dalla tribù di Giuda, e Mosè non ha detto nulla di essa quando ha parlato del sacerdozio».11 E anche il suo «Sacrificio» è unico e si realizza negli eventi storici della sua passione, morte e risurrezione: «si è offerto in sacrificio una volta per sempre»,12 e non in un tempio o in luogo sacro, ma sulla collina del Calvario in forma di avvenimento sociale di condanna attraverso il patibolo della croce: di lì è passato una volta per sempre nel vero santuario, si è posto accanto a Dio per svolgere la mediazione definitiva; «è entrato in un santuario più grande e perfetto non costruito dagli uomini e non di questo mondo».13 La passione e la morte sono in Cristo espressione del più alto amore che un uomo possa mai dimostrare, e la risurrezione porta questo supremo sacrificio davanti al Padre in forma perenne e continuamente attiva.
Non c’è mai stato né ci potrà mai essere un sacerdozio più originale di questo. Esso tocca, dicevamo, la realtà stessa dell’uomo dal di dentro della sua natura e del suo divenire nella storia. Cristo è sacerdote in quanto uomo; e come uomo pasquale è il «secondo Adamo», ossia il capostipite del vero «uomo nuovo»; ne rivela il mistero e lo rinnova secondo la pienezza delle sue possibilità di re del creato; gli restituisce, di fatto, quella dignità di liturgo dell’universo che aveva perso con il peccato del primo Adamo. Sì, l’uomo era chiamato, già dal primo atto creatore, ad essere l’interprete del mondo presso Dio; la vera liturgia doveva essere «l’uomo vivente» con la sua conoscenza, la sua gratitudine, la sua fraternità e tutta la sua storia.
Che disastro ha portato il peccato! Solo Cristo, con il suo unico e indefettibile sacerdozio, ha potuto riabilitare meravigliosamente («mirabilius»!) l’uomo e ristabilirlo nella sua dignità e vocazione. Il suo sacerdozio, perciò, entra nella compagine stessa di una antropologia oggettiva ed integrale che dovrebbe interessare ogni uomo e tutte le culture.
Questo sacerdozio di Cristo, pur essendo unico, non è una realtà isolata come se Lui ne fosse eroe esclusivo; al contrario, è l’espressione della più profonda e universale solidarietà, quella del primogenito tra molti fratelli, del vero «capo» del corpo di tutta l’umanità: è, in Lui e per Lui, il sacerdozio e il sacrificio «dell’uomo», di tutti gli uomini.
La consacrazione battesimale e il ministero ordinato
Per raggiungere questo scopo di coinvolgimento di tutti, Cristo ha istituito, come tramite visibile per chi crede in Lui, la «sacramentalità» della Nuova Alleanza, ossia la mediazione di segni (persone e cose) portatori della sua Pasqua. Ha poi inviato lo Spirito Santo perché con soave potenza vada incorporando nel Popolo di Dio uno per uno tutti gli uomini e li faccia agire nella storia come segni-persona dell’«Uomo nuovo».
Il Signore ha voluto per tutti un «sacerdozio-comune» che trasformi la vita personale in ostia gradita, e tutta la storia in liturgia dell’uomo vivente. «Infatti, per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati a formare una dimora spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le opere del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di Colui, che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce. Tutti, quindi, i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio, offrano sè stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio, rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza, che è in loro, della vita eterna».14
È un traguardo sublime!
Per fare visibile e operante questo sacerdozio-comune il Signore rende presente il suo unico sacrificio pasquale attraverso la sacramentalità della celebrazione eucaristica. Il sacerdozio comune fa entrare ogni generazione, con le opere del proprio amore, nell’atto supremo della liturgia della croce.
Giustamente il Concilio ha proclamato che «la liturgia (e propriamente l’Eucaristia) è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù».15 Gli impegni di evangelizzazione e le fatiche apostoliche sono, per sé, ordinati a questo: partecipare al sacerdozio di Cristo, lottare con Lui per vincere il male, amare come Lui ed esprimere nella vita quanto si sperimenta sacramentalmente con la fede.
Dunque, il sacerdozio-comune, quello che dobbiamo vivere tutti come discepoli del Signore e membra vive del suo Corpo, è l’espressione suprema della dignità umana, la reintegrazione alla sua missione di uomo nel mondo, la modalità storica per sentirsi coinvolti nella redenzione e nella salvezza.
Ebbene: per realizzare questa partecipazione universale al sacerdozio di Cristo, Egli stesso ha istituito il ministero ordinato. Lo ha fatto scegliendo e consacrando i Dodici. Essi permangono nei secoli attraverso la successione apostolica. Il sacramento dell’Ordine consacra i loro successori (i vescovi) munendoli di una speciale potestà di servizio per rendere possibile l’esercizio del sacerdozio della comunità: Egli stesso li chiama e li abilita con «l’unzione» dello Spirito Santo.
I preti, a loro volta, sono ordinati come collaboratori dell’Episcopato e ricevono, nella loro consacrazione, una partecipazione alla potestà sacramentale dell’Ordine che li abilita a servire la comunità con due attività fra loro complementari: quella di agire nella persona stessa di Cristo-Capo attraverso il ministero della parola, attraverso la riattualizzazione sacramentale dell’unico sacrificio pasquale nell’Eucaristia e attraverso l’amministrazione dei sacramenti di salvezza; e, inoltre, quella di agire nella persona della Chiesa, rappresentandola davanti a Dio e dedicandosi ai suoi figli con l’amore e la solerzia di uno sposo fedele e intraprendente.
Tale potestà, che deriva al prete dall’Ordine, non è un «potere» di tipo sociologico che s’imponga sui fedeli con una superiore dignità, ma è un servizio indispensabile, istituito da Cristo, per il funzionamento del sacerdozio-comune.
Giustamente perció si è detto sinteticamente nel Sinodo che il sacerdozio ministeriale appartiene agli elementi costitutivi della Chiesa; esso si rapporta simultaneamente a Cristo e alla Chiesa; ossia, a Cristo in quanto Capo Pastore e Sposo della Chiesa. Il ministero, quindi, non è soltanto il disimpegno di una funzione organica nella Chiesa, ma è anche una donazione di sé ai battezzati in vista della loro vita e attività di fede nella storia.
Tutto questo ci fa pensare, non solo che il sacerdozio ministeriale è costitutivamente ordinato al sacerdozio-comune,16 ma che nel cuore del prete la caratteristica spirituale del suo specifico ministero è quella d’avere una consapevolezza e un sentire interiore che lo vincolino inseparabilmente con tutta la porzione del Popolo di Dio a cui è stato inviato. Se c’è un’incrostazione veramente deleteria da eliminare in un ministro ordinato è quella di una eventuale modalità «clericalista» (di cui non mancano esempi nella storia) che lo porti a far da «padrone» nel Popolo di Dio; essa in nulla si addice a Cristo Buon Pastore, che è il «Servo di Jahvè». Il prete che la facesse propria dimostrerebbe di non aver capito il sacerdozio della Nuova Alleanza.
Chi rende possibile l’autenticità costitutiva e spirituale del sacerdote (prete e vescovo) come «ministro della comunità» 17 è lo Spirito Santo che dà efficacia alla consacrazione dell’Ordine e infonde nel cuore una peculiare «carità pastorale» accompagnata da differenti carismi secondo i bisogni del Popolo di Dio. È molto importante questo aspetto di diversificazione nella carità pastorale in rapporto alle molteplici urgenze della gente.
Si constata quindi, nei preti, una comune identità di fondo, ma differenziata da doni pastorali che comportano una pluriformità di modi nel servizio ministeriale. Se, poi, a questa differenziazione carismatica si aggiungono le esigenze proprie dei destinatari a cui sono inviati determinati gruppi di preti, si percepirà chiaramente che la loro identità ministeriale non può venire descritta in forma univoca, ma dovrà considerare le esigenze che provengono dallo Spirito e anche dai tempi e dalle necessità dei destinatari.
A ragione, perciò, il tema del Sinodo allude anche alle «circostanze attuali» che bisognerà studiare in continuità; il tipo di formazione da curare, infatti, deve rapportarsi anche alla modalità concreta di ministero che il prete dovrà realizzare in risposta alle necessità umane.
Una volta descritta sinteticamente l’identità del prete, i padri sinodali insistono sulla peculiare interiorità che deve permeare la sua identità ministeriale. Certo, tra «ministero» e «persona» c’è una chiara distinzione. Tuttavia, siccome il ministero sacerdotale non è una semplice «funzione» intermittente, ma comporta una «consacrazione» speciale della persona, attraverso il carattere permanente dell’Ordine, sorge nel prete una forte connessione tra ministero e persona, vivificata dalla carità pastorale, la quale vincola la persona al ministero nell’intimo del cuore, suscitandovi i sentimenti del Buon Pastore. Il prete non è un funzionario a orario concordato, ma un consacrato a tempo pieno e anche a piena esistenza: basta guardare gli Apostoli!
L’insistenza su questa specifica interiorità ha straordinaria importanza, perché va riferendo l’anima del prete sia al Padre ricco in misericordia, sia a Cristo Eterno Sacerdote, sia allo Spirito Santo fonte della carità pastorale, sia alla comunità ecclesiale di cui diviene «servo», sia al Vescovo e al Papa quale loro operoso collaboratore, sia agli altri preti della Chiesa particolare in cui opera e con i quali forma un fraterno presbiterio.
Ma poiché il suo sacerdozio ministeriale è al servizio del Popolo di Dio, la sua interiorità comporta, di necessità, la formazione alla bontà, al perdono, al servizio, al discernimento dei cuori, alla sensibilità dei bisogni altrui, all’ardore missionario, alla responsabilità nell’edificazione della comunità, allo spirito di iniziativa, al coraggio e al sacrificio, alla comprensione e comunicazione della Parola di Dio, alla lettura dei segni dei tempi, alla testimonianza delle beatitudini, alle esigenze della solidarietà e della giustizia, in una parola, a vivere personalmente una fede che si faccia carico instancabilmente della fede altrui. Ciò costituisce senza dubbio la meta a cui si vuole che giunga lo stile di vita evangelica dei preti.
Questa formazione spirituale presuppone, evidentemente, una concreta maturazione umana e cristiana, una non indifferente preparazione intellettuale e, soprattutto, una sentita e crescente volontà pastorale in rapporto alle circostanze attuali.
Il delicato tema del «Religioso-Presbitero»
Nel Sinodo si è concentrata l’attenzione, come dicevamo, sul prete «diocesano», ma è chiaro che, sul fondamento di una interiorità pastorale propria dell’identità di un ministero sostanzialmente comune a tutti i preti, si innesta la possibilità di ulteriori tratti spirituali e pastorali differenziati tra loro, secondo la pluriformità dei carismi con cui lo Spirito Santo va arricchendo l’esercizio stesso del ministero. Così è sorta lungo i secoli tra i presbiteri una svariata e complementare convergenza di fisionomie diverse che rendono più attraente, più duttile e più appropriato l’esercizio del ministero; il quale, per altro, è costitutivo di una Chiesa che non solo è «ben attrezzata per l’edificazione del Corpo di Cristo», ma che è anche «abbellita con varietà di doni» per manifestare così «la multiforme sapienza di Dio».18
E qui possiamo pensare alla fisionomia sacerdotale propria dei membri di quegli Istituti di vita consacrata che sono definiti canonicamente, ossia con termine tecnico, «clericali»; in essi — come ha affermato in aula il Card. Hamer — l’esercizio del ministero appartiene — con una modalità peculiare per ognuno — alla natura stessa del loro carisma. È un dato di fatto, che ha un’importanza notevole sia nella Chiesa stessa, sia soprattutto all’interno della vita di tali Istituti.
È un tema delicato su cui non si è ancora riflettuto direttamente e a sufficienza; il Sinodo lo ha lasciato aperto, ne ha tuttavia riconosciuto l’esistenza e la rilevanza, parlando delle mutue relazioni da intensificare tra i preti religiosi e quelli secolari; inoltre si può anche dire che si è ispirato ad alcuni aspetti della pratica formativa in atto negli Istituti religiosi per determinare alcune iniziative di rinnovamento in vista di una miglior formazione del prete diocesano.
Noi, in Congregazione, abbiamo già elaborato alcune riflessioni sull’argomento del confratello-prete, soprattutto quando abbiamo approfondito la qualità pastorale della missione salesiana.
Sappiamo che la consacrazione propria della nostra professione religiosa è radicata nella dignità battesimale e ci fa crescere nella fede e nel discepolato di Cristo con un particolare «spirito salesiano» per essere segni e portatori dell’amore di Dio ai giovani.19 Giustamente abbiamo espresso questa caratterizzazione spirituale ponendo il termine «salesiano» come sostantivo di base; ogni confratello è così «salesiano-prete» o «salesiano-laico». Abbiamo messo in rilievo l’impatto che ha la «missione» giovanile e popolare in tutta la nostra identità, così da caratterizzare non solo la vita religiosa come «consacrazione apostolica»,20 ma anche da determinare che il soggetto della missione, più che un semplice individuo, è la comunità,21 e una comunità il cui volto presenta una fisionomia di indispensabile complementarità tra preti e coadiutori, animata e servita, in qualità di guida, da un confratello arricchito con i doni dell’Ordine.22
Per il salesiano-prete ciò significa che in lui, da una parte, la consacrazione presbiterale viene assunta, qualificata e vivificata dallo spirito e dalla missione propri della professione salesiana e, dall’altra, che essa assicura, arricchisce e rende feconda l’identità pastorale della sua vocazione e di quella di tutta la comunità.
Ma c’è di più. Se consideriamo storicamente come è nato e si è sviluppato il nostro carisma salesiano, vediamo che esso è sgorgato, per opera dello Spirito Santo e con l’intervento materno di Maria,23 dal cuore apostolico di un «prete diocesano», Don Bosco, ispirandosi allo zelo e alla bontà pastorale di un «vescovo residenziale» in frontiera, San Francesco di Sales. Un carisma, quindi, che immerge vitalmente le sue radici storiche nello zelo sacerdotale del ministero ordinato, intimamente ed esplicitamente vincolato con l’esercizio del sacerdozio-comune di tanti collaboratori.
Ogni socio in Congregazione è, anzitutto, un membro della comunità salesiana, la quale è, di fatto e nella sua originalità, composta di «ecclesiastici» e di «laici», uguali in dignità e complementari nell’impegno pedagogico-pastorale.24
Dalla consapevolezza che ogni confratello deve avere di sentirsi membro vivo e corresponsabile di una comunità caratterizzata da questa peculiarità carismatica, scaturisce una coscienza e mentalità di complementarità, per cui ogni socio sente in se stesso la indispensabilità del mutuo arricchente rapporto tra dimensione «sacerdotale» e dimensione «laicale». «Così — scrivevo nella circolare sopra citata — il salesiano-prete deve sentirsi riferito spontaneamente, per la forza comunionale della sua stessa salesianità, al coadiutore; e il salesiano-laico deve sperimentare altrettanto verso il confratello prete. La nostra vocazione, radicalmente comunitaria, esige una comunione effettiva non solo di fraternità tra le persone, ma anche, e in modo altamente significativo, di mutuo riferimento delle sue due componenti fondamentali».25 Nel cuore stesso di ogni socio, in quanto «salesiano», c’è il richiamo vocazionale verso l’altro tipo di confratello che costituisce la comunità.
Non è che la «dimensione sacerdotale» sia esclusiva dei confratelli preti e la «dimensione laicale» lo sia dei confratelli coadiutori; la comunità salesiana non è la somma, più o meno artificiale, di due categorie di soci che si sforzano di convivere insieme. Ciò che bisogna affermare, invece, è che nel cuore stesso di ogni confratello vibrano insieme le due dimensioni, sottolineate in modo differente dai due tipi di vocazione salesiana, ma intimamente connesse tra loro per la propria natura carismatica: il prete coltiva da buon salesiano anche la dimensione laicale della missione comunitaria, e il coadiutore coltiva anche lui da buon salesiano la dimensione sacerdotale della comune missione.
Così si capisce perché tutte e due le dimensioni sono simultaneamente importanti per la elaborazione e per la realizzazione del progetto educativo-pastorale. Senza la dimensione laicale perderemmo quell’aspetto positivo di sana «secolarità» che ci caratterizza nella scelta delle mediazioni educative. E senza la dimensione sacerdotale correremmo il rischio di perdere la qualità pastorale di tutto il progetto. Sbilanciando la complementarità potremmo cadere, da una parte, in una specie di attivismo sociale pragmatista e, dall’altra, in un tipo d’impegno pastorale troppo generico che non sarebbe più l’autentica missione di Don Bosco.
Il Sinodo ci invita a ripensare con chiarezza il significato globale della nostra missione, a percepire dove si situa la sintesi vitale che assicura l’identità della nostra consacrazione apostolica.
Per questo ci sta a cuore il tema del Sinodo. Anche noi in Congregazione, in forma armonica con i vescovi, pensiamo a quale deve essere chiaramente il Prete del Duemila. Vogliamo collaborare, come autentici salesiani, alla crescita della fede nella nuova epoca storica che si sta iniziando. Insieme a noi guardano con speranza tutti i membri della Famiglia Salesiana e soprattutto un numero crescente di giovani che si sentono attratti dal cuore amico di Don Bosco prete.
Perciò ci proponiamo già fin d’ora di trarre luci e direttive dall’Esortazione apostolica che sta preparando il Papa, per procedere con sempre maggior serietà e impegno nella crescita del sacerdozio comune in Congregazione e, in particolare, nella formazione del salesiano-prete, tenendo chiara l’originalità e le esigenze del nostro carisma. È la Chiesa stessa che ci vuole genuinamente fedeli all’identità della nostra indole propria.26
Piace concludere questo punto importante ricordando che l’intensità della carità pastorale e, quindi, il grado di santità non dipendono, di per sé, né dal ministero ordinato né dai vari servizi di corresponsabilità apostolica, bensì solo dalla vitalità interiore del sacerdozio comune che ci unisce a Cristo (ossia, dalla vita di fede-speranza-carità) con cui saranno stati svolti tutti i ministeri e servizi.
La vita di grazia, ossia di carità pastorale, ha — come ha detto San Tommaso d’Aquino — un valore che è per se stesso più grande di tutte le cose create. Saremo tutti giudicati in base all’amore: nella Gerusalemme celeste non ci sarà più bisogno né di Bibbia, né di Vescovi e Preti, né di Magistero, né di Sacramenti, né di Coordinamento, né di tanti mutui servizi che sono indispensabili qui nella storia. Perciò già ora, nella comunità ecclesiale, l’ordine delle realtà istituzionali, gerarchiche e operative passa in seconda linea (se così si può dire; basti pensare a dove è stato collocato nella Lumen gentium il capitolo sul Popolo di Dio!) di fronte al Mistero a cui esse servono e che rivelano a chi vive la fede. La santità si radica nel grado di partecipazione e comunione con la vita trinitaria. L’intensità della santità la vediamo rappresentata in Maria; l’autenticità ministeriale in Pietro. Entrambi grandi santi: ma si vede in essi che il grado di santità non si identifica con quello gerarchico e ministeriale.
Don Bosco: Prete e Fondatore per i giovani
Commemoriamo quest’anno — come ho già accennato — il 150° anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Don Bosco. La consacrazione dell’Ordine è stata un evento di grazia non solo per la sua vita personale, ma anche per tutta la sua Famiglia Salesiana. Lo Spirito del Signore lo ha lanciato come prete, sorretto dalla guida spirituale di San Giuseppe Cafasso, a interpretare e a realizzare il suo ministero in sintonia con le circostanze dell’epoca in evoluzione e agli urgenti problemi socio-culturali della città di Torino. Lo ha fatto con audacia e con originalità attraverso un’opzione preferenziale per i giovani specialmente più bisognosi.
Durante la celebrazione del Sinodo ho pensato più di una volta a due giudizi sul tipo di vita sacerdotale di Don Bosco, formulati da due scrittori estranei alla riflessione che sogliamo ascoltare in casa nostra.
Uno — che già conosciamo — è la risposta data dal famoso studioso P. M. D. Chenu O.P. a un giornalista che gli chiedeva chi sarebbero, secondo lui, i nuovi santi per questi tempi postconciliari: «Mi piace ricordare innanzitutto — disse — colui che ha precorso il Concilio di un secolo: Don Bosco. Egli è già, profeticamente, un nuovo modello di santità per la sua opera che è in rottura con il modo di pensare e di credere dei suoi contemporanei».27
L’altro l’ho trovato in un recente articolo sullo svolgimento del Sinodo; presenta di esso un giudizio sostanzialmente negativo: il Sinodo, influenzato dalla conduzione curiale, avrebbe difeso la figura tradizionale del prete «tridentino», invece di lanciarlo verso le nuove esigenze sociali dei tempi. Ebbene: l’autore, pur non nutrendo troppa simpatia per Don Bosco, dice di lui che «proponeva già nel Piemonte di metà Ottocento una figura di prete molto diversa... I preti del suo oratorio vivevano in mezzo a ragazzi destinati ai più umili mestieri, si rimboccavano la tonaca per giocare con loro, e a questo Don Bosco preparava i giovani aspiranti al sacerdozio: il suo vescovo rifiutò perciò di consacrarli. Si trattava, infatti, di una novità inaudita».28 Lo scrittore constata questo dato di fatto per poi ragionarci su a modo suo.
A noi interessa percepire l’idea di una concreta peculiarità impressa da Don Bosco al salesiano prete. Lo facciamo pensando alla pluriformità riconosciuta dal Vaticano II nel modo di esercitare il ministero sacerdotale; il comune compito ministeriale dell’edificazione del Corpo di Cristo, infatti, esige molteplici funzioni e nuovi adattamenti, soprattutto in questi tempi.29
Oggi guardiamo verso gli orizzonti del terzomillennio; assistiamo a mutamenti rapidi e profondi; vediamo come l’irrilevanza della fede nella cultura emergente sia deleteria per la gioventù e per i ceti popolari; ci preoccupa il vasto e complesso settore dell’educazione perché è sottomesso a una specie di bombardamento di tante novità che gli infondono dinamicità senza le luci dell’evangelizzazione e, perciò, lo sconvolgono. La considerazione attenta dell’originalità dello stile pastorale di Don Bosco ci deve guidare nella ricerca dei criteri con cui affrontare le attuali sfide.
Innanzitutto il salesiano-prete è inviato (in solidarietà con il salesiano-laico) a una missione immersa nel mondo giovanile e popolare; essa esige da lui vari compiti propri dell’area educativo-culturale, del mondo del lavoro, verso destinatari anche di fatto lontani dalla Chiesa o appartenenti ad altre religioni. Egli deve sentirsi inoltre collaboratore, nella comunità, del salesiano-laico, in comunione di vocazione e solidale nella elaborazione e realizzazione di un unico comune progetto. Gli tocca anche partecipare attivamente all’animazione dei vari Gruppi della Famiglia Salesiana, consacrati e laici.
Tutto ciò richiede un’adeguata preparazione, una solerte cura e un modo peculiare di esercizio ministeriale. Per questo converrà che si rifaccia costantemente a Don Bosco come a modello;30 dovrà ripensare, guardando a lui, le grandi possibilità della «carità pastorale» quale fonte inesauribile di creatività apostolica.
La carità pastorale ha portato Don Bosco, per speciale iniziativa dello Spirito Santo, ad essere Fondatore, ossia a comunicare a molti, come un’eredità da sviluppare, la sua specifica missione giovanile e popolare. Proprio perché aveva un carisma legato al suo ardore sacerdotale egli ha dato inizio a una crescente Famiglia apostolica, coinvolgendo uomini e donne, laici e religiosi; ha dimostrato così che il suo tipo di carità pastorale può essere «il centro e la sintesi» di uno «spirito salesiano» condiviso da un vasto movimento di bene.31
La vita consacrata degli Istituti religiosi fondati da Don Bosco non è ricalcata sul modello degli eremiti del deserto o dei contemplativi nei monasteri (che sogliono venir presentati come l’inizio storico della vita religiosa); si ispira bensì alla vita apostolica dei Dodici e alle preoccupazioni pastorali dei vescovi (San Francesco di Sales) e dei preti in cura d’anime (Don Bosco); quindi un tipo di consacrazione religiosa peculiare e strettamente vincolata con la «carità pastorale» del ministero ordinato.32
La vera identità del salesiano-prete interessa moltissimo, non solo tutti gli altri confratelli della Congregazione, ma anche tutti i membri della grande Famiglia Salesiana; il suo zelo ministeriale e lo spessore della sua interiorità pastorale assicurano e alimentano la spiritualità di tutti. Ma è vero anche il contrario: se egli fosse un prete spiritualmente superficiale, scarsamente unito a Dio; se la sua attività ministeriale fosse languida, senza mordente interiore, ne scapiterebbero, purtroppo, inevitabilmente le sorgenti stesse del carisma di Don Bosco.
Per questo da anni in Congregazione siamo seriamente preoccupati di una miglior formazione dei nostri presbiteri.
Urgenza di miglior formazione salesiana
Una parte notevole dei lavori sinodali è stata dedicata ai problemi della formazione dei preti. Dopo aver scandagliato gli ambiti di nascita delle vocazioni, si è insistito sulla necessità dell’«anno propedeutico» (una specie di noviziato), sulle comunità formatrici o Seminari — in particolare il Seminario maggiore —, sulla decisiva importanza di studi appropriati in rapporto con i nuovi progressi scientifici e le attuali esigenze pastorali, sulla competenza e il senso ecclesiale dei docenti, sul clima umano cristiano e spirituale delle comunità formatrici, sull’indispensabilità della formazione permanente in sintonia con il processo di inculturazione. Si è parlato anche dei seminaristi arrivati dai Movimenti e formati con il loro spirito caratteristico, ma che dovranno rapportarsi sinceramente con il proprio vescovo e il proprio presbiterio in pienezza di comunione e di dedizione.
Per noi i criteri di formazione del salesiano-prete, secondo la sua peculiarità vocazionale, li troviano nella Ratio, promulgata l’8 dicembre 1985;(33) il Sinodo ci stimola a metterne in rilievo l’attualità e l’importanza. C’è da rallegrarsi nel constatare la sua piena conformità d’ispirazione per ciò che si riferisce ai fondamenti dell’identità del ministero ordinato, e la sua chiara percezione di ciò che è caratteristico del nostro carisma. Dobbiamo essere molto grati verso coloro che hanno contribuito ad elaborarla, a rivederla e a perfezionarla.
Abbiamo in Congregazione una linea sicura da seguire: dedichiamoci ad approfondirla ed a metterla in pratica! Solo attraverso la sua piena attuazione sarà possibile convergere su punti-chiave irrinunziabili del nostro spirito.
Se guardiamo però alla realtà concreta del vissuto, dobbiamo confessare purtroppo che in questi anni di rinnovamento si sono osservate con preoccupazione, qua e là in alcune Ispettorie, delle carenze: sia nella formazione immediata al presbiterato, sia nell’accompagnamento dei primi cinque anni dopo l’ordinazione, sia nell’intensità e adeguatezza della formazione permanente.
Il richiamo alla formazione permanente è stato un punto forte nelle preoccupazioni dei padri sinodali. Di essa hanno già parlato vari documenti del Magistero e anche i nostri Capitoli Generali, in modo particolare il CG23, le Costituzioni, la Ratio, i Direttorii ispettoriali, ma non tutti sembrano averne compreso la vera natura e propositività. In campo profano è ritenuta senz’altro il principio o il punto di vista che regola l’intero processo formativo-culturale, visto nella sua globalità e interdisciplinarietà, non più stagliato su un dato segmento della persona o proprio di un periodo di esistenza. È un processo che ingloba tutte le espressioni e i momenti dell’atto educativo dall’infanzia all’anzianità. Abbraccia cioè tutta l’esistenza, con i problemi che essa comporta, di ogni uomo — giovane o adulto — secondo modalità proprie e il nuovo modo di trasmissione pedagogica, con le varie sue implicanze e altro ancora.
Nell’ambito della nostra vita salesiana il concetto di formazione permanente percorre tutta la Ratio. Prima che l’aggiornamento continuo nei vari ambiti dell’azione e missione salesiana — da ritenersi indispensabile —, essa vede nelle Costituzioni34 la nostra vita come «cammino di santificazione» da percorrere nello sforzo quotidiano di «crescere nell’amore perfetto di Dio e degli uomini»; vede una «risposta sempre rinnovata» alla «speciale alleanza che il Signore ha sancito con noi»; una vita di «docilità allo Spirito Santo in uno sforzo costante di conversione e di rinnovamento».35
La conseguenza che emerge da questi brevi accenni è questa: il periodo di formazione iniziale è bensì caratterizzato da specifici processi di crescita, ricchi di contenuti propri, ma soprattutto dall’apprendimento dei criteri e della metodologia che dovranno accompagnare, dinamicamente e nella forme adatte, tutte le fasi della vita, privilegiando la dimensione della spiritualità, ragione fontale e finale di tutto. La logica del Battesimo e della Professione religiosa, essendo incorporazione alla vita divina nella sequela del Cristo, per sua natura tende verso la crescita e la esige, come spesso afferma nelle sue Lettere l’apostolo Paolo.
E qui vorrei ancora aggiungere che, se è vero che attraverso gli studi della tappe formative iniziali si mira a sviluppare una giusta capacità critica e una indispensabile competenza pedagogico-pastorale (purtroppo, però, non sempre oculata di fronte a teorie di questo o di quel ricercatore), rimane in qualche caso il pericolo di non curare adeguatamente la competenza e il fervore ministeriali propri dello spirito salesiano. Il prete deve essere l’uomo di Gesù Cristo e della Chiesa, inviato al mondo per comunicare la salvezza, la verità integrale, la misericordia del Padre, la redenzione del Figlio, la potenza interiore dello Spirito; per questo deve essere entusiasta e instancabile nel portare speranza: un uomo-sacramento, un segno-persona.
I padri sinodali si sono impegnati a presentare la più genuina identità sacerdotale appunto per poter meglio insistere sulla indispensabilità di una adeguata spiritualità, sgorgata dalla carità pastorale, che renda costanti nell’ardore. Gli Istituti religiosi devono aggiungere a questa carica pastorale, per i loro preti, la peculiarità dello spirito del proprio carisma. Lo ha sottolineato il Card. Hamer, nell’intervento che abbiamo già citato, facendo osservare anche delle concrete difficoltà: «Laddove i futuri preti (religiosi) ricevono tutta la loro formazione istituzionale dentro l’Istituto al quale appartengono, il compito dei superiori è relativamente facile. Ma non è più lo stesso quando i superiori mandano i loro religiosi in Centri di studi ecclesiastici fuori del proprio Istituto. In questo caso, la responsabilità dei superiori, lungi dal diminuire, aumenta invece notevolmente. Infatti la partecipazione a un tale Centro di studi postula che i giovani possano vivere in una casa religiosa del loro Istituto, in seno ad una comunità formatrice e viva, con la presenza permanente di formatori qualificati, capaci di aiutare i giovani ad integrare nella loro propria vita religiosa l’insegnamento filosofico-teologico che ricevono nei Centri di studio. Ciò implica grandi sacrifici per gli Istituti. Ma questo è l’alto prezzo che si paga per assicurare l’unità tra sacerdozio e vita religiosa. Ora questa unità è un gran bene per il Corpo Mistico».36
La nostra riflessione sull’evento sinodale sia davvero un invito e uno stimolo per riconsiderare con attenzione i contenuti e le grandi linee orientatrici della nostra Ratio, e soprattutto per rivedere, tanto nei Consigli ispettoriali come nei «Curatori» e nelle singole Comunità formatrici, la prassi seguita, con lo scopo di correggerne i difetti di applicazione e di rilanciarne la qualità.
La Ratio forma parte del «Diritto proprio» della Congregazione ed è perciò elemento vitale della nostra Regola di vita;37 è stata redatta con gli apporti di tutta la Congregazione, in speciale accordo con il testo rinnovato delle Costituzioni e con il nuovo Codice di Diritto canonico. Essa è fondata sull’identità vocazionale salesiana e presenta un progetto formativo fortemente unitario.38 Mettendone in pratica i principi e le norme — scrivevo presentandola — «si avrà più chiaro il senso della vocazione, un dono storicamente attuale, fecondo e originale; si troverà la possibilità di unificare la propria esistenza attraverso lo sviluppo integrativo dei diversi aspetti formativi (maturazione umana, preparazione intellettuale e professionale, vita religiosa e apostolica); ci si sentirà utili socialmente e significativi e fecondi apostolicamente; si svilupperà una tipica spiritualità, il senso di appartenenza alla Congregazione e quello della comunione ecclesiale, una originalità di servizio ai giovani e alla loro condizione».39
Gli Ispettori, i Direttori e i Formatori ritengano loro impegno prioritario riconsiderare spesso i principi e le norme di questo nostro importante Documento e attendano ai compiti ivi indicati con solerzia e diligenza. Da questo loro costante interessamento scaturirà «il bene delle Ispettorie, della Congregazione, e il loro futuro. Sarà un seminare con fatica, ma nella certezza di raccogliere nella gioia. Queste nostre scelte importanti, costruite e realizzate da tutti, nella vita della Congregazione sono come atti del suo rinnovamento, di quella “bella copia” di cui parlava Don Bosco quando la lasciò in eredità alla nostra responsabilità di discepoli, suoi continuatori».40
Il CG23 e la nostra crescita pastorale
Noi abbiamo celebrato recentemente il Capitolo Generale 23° che, senza trattare esplicitamente della specifica vocazione del salesiano-prete, ha descritto gli orizzonti della missione salesiana nelle circostanze attuali: la sua originale peculiarità, la lettura pastorale dell’attualità, e la metodologia pedagogica per l’evangelizzazione. Tutto questo tocca il «salesiano» in quanto tale, sia egli prete o coadiutore; e tutto questo dice speciale rapporto alla comune dimensione sacerdotale.
Alla luce del Sinodo, possiamo dunque parlare della peculiarità «sacerdotale» (più ampia del termine canonico «clericale») da migliorare in Congregazione. Ne indico tre aspetti, che credo fondamentali e coinvolgenti; essi sono: la qualità pastorale, la spiritualità salesiana e la corresponsabilità della comunità come soggetto della missione. Il fatto di considerare questi aspetti dall’ottica del sacerdozio (sia battesimale che ministeriale), mette in evidenza alcuni aspetti di novità non indebita che ci aiuterà ad approfondirne i valori.
— La qualità pastorale è nota fondamentale che permea tutto il documento capitolare. Le proposte di studio della realtà, le analisi dei contesti e la progettazione del cammino e degli itinerari da percorrere, sono presentati tutti come una riflessione pastorale.41
Questa qualità procede dal vigore del «da mihi animas» (il motto di San Francesco di Sales e di Don Bosco «pastori»!), si preoccupa dell’educazione alla fede, si premura di analizzare la realtà dei contesti, si avvale dei migliori mezzi umani per conoscerli e discernerli, e stimola a stare attenti a non lasciarsi mai asservire da altri interessi che non siano genuinamente ecclesiali. Potremmo dire che è un atteggiamento tipicamente «sacerdotale» nel senso pieno del termine, in quanto coinvolge tutti a impegnarsi in molteplici servizi pedagogico-pastorali con il fine di far raggiungere ai destinatari la capacità di celebrare la liturgia della propria vita incorporandola all’Eucaristia di Cristo.
A tale scopo, appunto, la sollecitudine pastorale non si ferma solo alla conoscenza e all’approfondimento dei grandi principi dottrinali o dello stesso Vangelo — che evidentemente apprezza ed ama ed approfondisce — ma si dedica anche, ed in forma molto attenta e costantemente duttile, alla percezione delle circostanze concrete, ad indagarne i contenuti e le motivazioni, ad analizzarne le interpellanze e a individuare il genere di sfide che da esse procedono per l’evangelizzazione.
In vista della formazione del salesiano-prete, l’ottica pastorale è senza dubbio elemento costitutivo e orientativo di tutto il suo agire apostolico.
— Il secondo aspetto da considerare è quello della spiritualità salesiana come interiorità dinamica che procede dalla «carità pastorale».42
Abbiamo già visto che il nostro carisma è sgorgato dal cuore di Don Bosco prete. La sua è una spiritualità radicalmente «sacerdotale», che si ispira a Pietro, a Paolo, ai santi Pastori e ai loro collaboratori. È una spiritualità che fa pensare a quanto afferma Sant’Agostino commentando il Vangelo di Giovanni43 circa il mandato pastorale dato a Pietro; egli si sente interpellato dalle «parole che Cristo gli ripete con insistenza: “Mi ami? Pasci le mie pecore!”, che significano: se mi ami, non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore, e pascile come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua; il mio dominio, non il tuo; il mio guadagno, non il tuo; se non vuoi essere del numero di coloro che appartengono ai “tempi difficili”, di quelli cioè che amano se stessi con tutto quello che deriva da questo amore di sé, sorgente di ogni male».44
È, come si vede, la spiritualità salesiana del «da mihi animas».
Porta in sé una duplice e simultanea inclinazione vitale: quella di crescere continuamente nell’amore che fluisce dal cuore di Cristo-Salvatore, partecipando e facendo partecipare gli altri, qualunque sia il loro stato di vita, al sacerdozio della Nuova Alleanza; e quella di sentirsi inviato a pascere i piccoli e i poveri con generosa donazione di sé. È una spiritualità nutrita di carità pastorale con modalità propria, che coltiva «l’atteggiamento del Buon Pastore che conquista con la mitezza e il dono di sé».45 Le espressioni «unione con Dio», «respiro per le anime», «lavoro e temperanza», «farsi amare», «servire il Signore in santa allegria», «qualunque fatica è poca quando si tratta della Chiesa e del Papato», «basta che siate giovani perché io vi ami assai», «clima di famiglia», «spirito di iniziativa», «sistema preventivo» ecc., rapportano ogni salesiano (quindi il confratello prete) al modello del cuore sacerdotale di Don Bosco «profondamente uomo aperto alle realtà terresti, e ricolmo dei doni dello Spirito Santo» così da vivere nella realtà quotidiana «come se vedesse l’invisibile».46
— Infine, il tema della corresponsabilità nella comunità come soggetto della missione, mentre fa pensare alla mutua circolarità tra «dimensione sacerdotale» e «dimensione laicale», muove tutti i confratelli, sotto la guida di chi fa le veci di Don Bosco (un confratello prete), ad agire verso una sintesi vitale che sappia sfruttare costantemente l’energia di due poli in tensione: quello della promozione umana e quello della crescita nella fede. È una «grazia di unità» specifica della vocazione salesiana, che muove ogni confratello ad avere, come Don Bosco, un atteggiamento «sacerdotale» sempre e dovunque: l’ardore pastorale dell’educatore. Ogni salesiano infatti, prete o laico, si adegua a Cristo Buon Pastore, di cui è segno-persona al servizio della gioventù.
Il CG23 insiste sulla formazione permanente perché ogni comunità sia «segno e scuola di fede». È caratteristico del sacerdozio della Nuova Alleanza il farsi carico della fede altrui. La comunità salesiana lo fa stando immersa nel mondo giovanile, dove trova anche il campo propizio per sviluppare la sua formazione permanente: «Vivendo in mezzo ai giovani e in costante rapporto con gli ambienti popolari, il salesiano si sforza di discernere negli eventi la voce dello Spirito, acquistando così la capacità di imparare dalla vita».47 Sì: la comunità salesiana guarda alla vita, come al grande libro di lettura e come al vero altare del sacrificio.
— Da queste riflessioni sul CG23, anche se brevi, si percepisce immediatamente l’importanza straordinaria che ha in Congregazione la formazione iniziale e permanente del salesiano-prete per la fisionomia delle nostre comunità e per i molteplici suoi servizi sia tra i giovani che verso i vari Gruppi della Famiglia Salesiana. A tutti interessa la sua crescita in interiorità sacerdotale, con speciale competenza nella contemplazione e annuncio della Parola di Dio, nella valorizzazione pedagogica e vitale della liturgia, nella direzione dei cuori attraverso il sacramento della Riconciliazione, nella competenza evangelizzatrice e catechetica e, in genere, nell’abilità di incorporare le iniziative di promozione umana nella sintesi organica della fede cristiana.
Le indicazioni del cammino formativo e della metodologia da seguire, espresse autorevolmente nella Ratio, oggi acquistano una validità particolarmente attuale alla luce del CG23.
Gratitudine al Prete e suo affidamento a Maria
Per concludere, cari confratelli, risultano suggestivi i pensieri contenuti nelle due ultime Proposizioni dei padri sinodali.
Innanzitutto una proclamazione pubblica di gratitudine verso il Prete: il suo ministero è necessario per il bene della Chiesa; la sua virtù ridonda in crescita di spiritualità negli altri; attraverso i suoi servizi, specialmente con l’amministrazione dei sacramenti,48 si infonde dinamicità a quella consacrazione battesimale che fa di tutti un popolo sacerdotale per la liturgia della vita. Il prete è servitore a tempo pieno della nostra dignità cristiana di veri figli di Dio.
Sgorga quindi spontaneo dal cuore un forte senso di gratitudine verso tutti coloro che hanno seguito la chiamata del Signore donandosi con generosità all’opera ministeriale. Il prete sta a cuore ai credenti; è un dono di Dio da apprezzare, da amare, da considerare parte viva della propria esistenza.
Nella beatificazione dei due presbiteri, Giuseppe Allamano e Annibale Maria Di Francia, il Papa ha detto giustamente: «Il più grande castigo con cui l’Altissimo colpisce i popoli è quando li priva dei suoi ministri, meglio, di ministri secondo il Suo cuore».
Sentiamoci invitati a intensificare le nostre preghiere per le vocazioni sacerdotali, per la loro ottima formazione secondo le circostanze attuali e per la perseveranza e santità dei preti. E cerchiamo di far crescere nella gente, che se ne è dimenticata, la grandezza e la necessità del sacerdote nella società. Dimostreremo così che ci sta veramente a cuore il Prete del Duemila!
L’altro pensiero, contenuto nell’ultima Proposizione, è quello che si riferisce alla Santa Vergine Maria, Madre di Cristo e Madre dei sacerdoti. Cristo è stato consacrato sacerdote della Nuova Alleanza nel suo grembo. Maria lo ha accompagnato ai piedi della Croce nell’atto supremo del nuovo ed unico sacrificio. Ha condiviso con gli Apostoli nel cenacolo l’attesa dell’effusione dello Spirito Santo per l’inizio del ministero. Assunta in cielo, accompagna Cristo Eterno Sacerdote nella sua permanente mediazione. Essendo Madre e Icona della Chiesa, riversa le sue sollecitudini sugli amici di suo Figlio che, attraverso il ministero ordinato, ne partecipano in modo peculiare il sacerdozio per il bene degli altri.
La formazione del prete si rapporta a Lei, sia come alla persona umana che meglio e più pienamente ha risposto alla vocazione di Dio, sia come alla discepola che accettò la Parola del Padre in sé e la generò per tutti. Maria, che è la Regina degli Apostoli, appare quale fulgido stimolo ed aiuto della comunione ecclesiale e ne illumina costantemente la missione con la sua maternità verginale.
Confidiamo nella sua solerte intercessione e affidiamo alla sua attenta cura la pastorale delle vocazioni, la loro formazione nelle attuali circostanze, l’interiorità dei preti di tutte le Chiese particolari e, in special modo, quella dei Salesiani-preti perché il loro spirito apostolico e la loro competenza ministeriale crescano secondo il modello ammirevole dei due ardenti cuori sacerdotali di San Giovanni Bosco e di San Francesco di Sales.
Così tutta la Congregazione, l’intera Famiglia Salesiana e schiere sempre più numerose di giovani e di popolo capiranno e celebreranno nel quotidiano quel sacerdozio battesimale che incorpora gli atti di amore di ognuno in quel supremo atto pasquale di Cristo, che è ciò di cui nessuno può fare qualcosa di più grande.
Sì: il sacerdozio della Nuova Alleanza porta veramente la storia dell’uomo a concentrarsi sul vertice dell’amore, costruendo così gradualmente lungo i secoli quel Regno di Dio in cui l’Amore sarà tutto in tutti.
Che il 150° anniversario dell’ordinazione di Don Bosco risvegli in Congregazione l’intimo apprezzamento e il senso vivo del sacerdozio-comune, attraverso una maggior autenticità di quello ministeriale!
Cordiali saluti nel Signore.
D. Egidio Viganò
NOTE LETTERA 46
1 CG23 222
2 cf ACG 332, pag. 38-41
7 Osservatore Romano, 12 ottobre 1990
8 Roma, 14 maggio 1978
9 Osservatore Romano, 28 ottobre 1990
10 Eb 7, 16
11 Eb 7, 14
12 Eb 9, 28
13 Eb 9, 11
24 cf. ACS n. 298
25 ACS 298, pag. 5-6
27 Avvenire, 22 febbraio 1984
28 SERGIO QUINZIO, L’Espresso, 21 ottobre 1990
32 cf. EGIDIO VIGANÒ, Per una teologia della vita consacrata, LDC, Collana “Vita consacrata”, 1986, pag. 10-11 e 33-34
33 SDB, 2a. edizione, Roma 1985
34 Cost 118, 119, 96, 98, 25
35 cf. FSDB, n. 488 ss
36 Osservatore Romano, 12 ottobre 1990
38 SDB, 2a edizione, Roma 1985, n. 25-27
39 ib. pag. 18-19
40 ib. pag. 20
41 CG23 16
43 Gv 21, 17
44 Trattati su San Giovanni 123, 5