LETTERA DEL RETTOR MAGGIORE
PASCUAL CHÁVEZ
ACG 388 ‘05
Strenna 2005
Commento del Rettor
Maggiore
«Cristo ha amato la
Chiesa e ha dato se stesso per lei, … al fine di farla comparire
tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma
santa e immacolata» (Ef 5,25.27).
In
occasione del 40º anniversario della conclusione del Concilio
Vaticano II,
alla luce della Lumen
Gentium e della Gaudium
et Spes, che ci hanno fatto vedere la
Chiesa come Mistero, Popolo di Dio, Corpo di Cristo, Madre dei
credenti, Serva del mondo,
consapevoli che «è compito della
Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia, fare
risplendere il volto di Cristo alle generazioni del nuovo millennio»
(NMI 16),
come Famiglia Salesiana ci impegniamo a
Ringiovanire il volto della Chiesa,
che
è la Madre della nostra fede.
Ci fu un uomo mandato da Dio, il cui nome
era Angelo; o meglio, il cui nome era Giovanni. Sì, Giovanni XXIII,
il Papa buono che, sospinto dallo Spirito, un giorno si alzò e volle
una nuova primavera per la Chiesa. Con un gesto inatteso, egli non
solo ne aprì le finestre, ma ne spalancò le porte, perché vi
entrasse lo Spirito. Il Concilio Vaticano II, da lui convocato, è
stato come un ciclone che è entrato all’improvviso in un ambiente
chiuso e bloccato, un “vento che si
abbatte gagliardo” (At
2, 2), come il giorno di Pentecoste nel
Cenacolo.
In occasione del 40º anniversario della conclusione
del Concilio Vaticano II, alla luce della Lumen
Gentium e della Gaudium
et Spes, che ci hanno fatto vedere la
Chiesa come Mistero, Popolo di Dio, Corpo di Cristo, Madre dei
credenti, Serva del mondo, consapevoli che «è compito della Chiesa
riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia e fare
risplendere il volto di Cristo alle generazioni del nuovo millennio»
(NMI 16).
Perciò, rivivendo lo spirito di quell’avvenimento straordinario,
ci impegniamo a:
“Ringiovanire
il volto della Chiesa,
che
è la Madre della nostra fede”.
Ringiovanire
la Chiesa: dono e compito
Non
potevamo non fare memoria riconoscente di questo anniversario della
conclusione del Concilio Vaticano II, che è stato un grande evento
dello Spirito, una vera Pentecoste per la Chiesa universale. Già don
Egidio Viganò, mio predecessore, aveva ricordato che esso sarebbe
stato la nostra carta di navigazione per il terzo millennio. Oggi è
nostro compito assumere e far fruttificare il dinamismo venuto dal
Concilio, un’autentica folata di aria fresca che ha riempito di
Spirito Santo i polmoni della Chiesa, al cui continuo rinnovamento ci
impegniamo a collaborare. Le Costituzioni conciliari Lumen
Gentium e Gaudium
et Spes, arricchite dalla recente
riflessione della Novo millennio
ineunte, saranno il nostro punto di
riferimento.
Diversamente da ciò che è avvenuto con la
precedente strenna, quest’anno non ci sarà una proposta
pastorale che la segue. Allora
accennavo che tale proposta ci avrebbe accompagnato per alcuni anni;
non era infatti realistico pensare di concretizzare in breve tempo
gli impegni che vi si prospettavano. Anche quest’anno perciò essa
continua ad essere l’orizzonte e il punto di riferimento delle
iniziative pastorali, da realizzare nei diversi luoghi dove la
Congregazione e la Famiglia Salesiana svolgono il loro servizio alla
Chiesa e ai giovani. Questo vale ancora maggiormente per l’impegno
circa la santità giovanile, che trova nella proposta pastorale il
suo centro e nella strenna attuale un grande stimolo.
Ringiovanire
la Chiesa è un dono esaltante ed un
impegno esigente; ma che cosa significa ringiovanire? Inizio dalla
considerazione negativa di che cosa non significhi. Non si tratta di
fare un’operazione di “lifting” o di cosmesi; questo si
adatterebbe bene con l’odierna cultura consumistica dell’effimero
e dell’immagine, non però con la forza rinnovatrice dello Spirito.
Non si tratta neppure di limitarsi ad operare alcuni cambiamenti
esterni di convenienza od alcuni ritocchi superficiali di
adattamento, necessari per far apparire la Chiesa aggiornata alle
mode del tempo e simile alle altre istituzioni sociali. Per renderla
bella ed attraente, si tratta di impegnarsi ad innestare in essa
energie nuove, proprio come fa lo Spirito Santo; occorre fare ciò
che fa il Signore Gesù: amare la Chiesa e spendersi per lei.
Il
tema della strenna di quest’anno trova la sua migliore esegesi
nell’affermazione della lettera agli Efesini, che dice: “Cristo
ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, … al fine di farla
comparire tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di
simile, ma santa e immacolata” (Ef.
5, 25-27). Questo testo è bello, coinvolgente e propositivo; è
tutto da studiare, contemplare e vivere. Il suo senso fondamentale è
evidente: Cristo ama la Chiesa, la purifica, la santifica, la nutre.
Il suo è un amore di benevolenza, non di compiacenza. La Chiesa di
cui si parla non è una realtà ideale e astratta, ma è la Chiesa
storica e concreta. Cristo la trasforma per renderla bella,
splendente, vera, santa. Egli si spende per lei, prende l’iniziativa,
non si risparmia, al fine di toglierle ogni macchia e ruga.
Questo
è il nostro compito: amare la Chiesa fino a dare noi stessi per lei,
così come Cristo l’ha amata. La bellezza del volto della Chiesa
deve riflettere la bellezza del suo Signore, il Cristo Crocifisso e
Risorto. È la bellezza dell’amore, che nella passione ci rivela il
Signore Gesù, “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal.
45, 3), “disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori”
(Is. 53,
3), dalle cui “piaghe noi siamo stati guariti”
(Is. 53,
5c). È la bellezza dell’amore, che nella risurrezione è capace di
far rotolare la pietra che chiude la tomba e di sedersi sopra di
essa, con le bende che avvolgevano il crocifisso per terra e il
sudario piegato in un luogo a parte, inaugurando così la nuova
creazione (Mc.
16, 2; Gv.
20, 6-7). Questa è la bellezza che salverà il mondo e che noi siamo
chiamati a far risplendere nella Chiesa. Non è vanità; è la
bellezza dell’amore.
Nostro impegno è anche far sì che la
Chiesa rassomigli sempre più alla “nuova
Gerusalemme” (cf. Ap.
21, 10-23), che discende dal cielo, adorna come sposa per il suo
sposo. Far sì che essa sia una comunità rinnovata dal soffio dello
Spirito, che la anima e fa nuove tutte le cose; una comunità
arricchita da molteplici carismi e ministeri, che la mantengono viva
e dinamica; una comunità aperta e accogliente, soprattutto nei
confronti dei poveri, ai quali è inviata e tra i quali diviene
credibile e luminosa; una comunità che vive la passione per la vita,
la libertà, la giustizia, la pace, la solidarietà, valori a cui
oggi è particolarmente sensibile l’umanità; una comunità che è
lievito di speranza per una società degna dell’uomo e per una
cultura ricca di riferimenti etici e spirituali. Far sì che essa
diventi sempre più una Chiesa giovane, nella quale i giovani si
trovano a casa, come in famiglia.
La nuova Gerusalemme «è
un’immagine che parla di una realtà escatologica, cioè che tocca
le cose ultime, che vanno al di là di ciò che l’uomo può
compiere con le sue forze. Questa Gerusalemme celeste è un dono di
Dio riservato per la fine dei tempi. Ma non è un’utopia. È una
realtà che può cominciare ad essere presente fin da ora … In ogni
luogo nel quale si cerchi di dire parole e di fare gesti di pace e di
riconciliazione, anche provvisori, in ogni forma di convivialità
umana che corrisponda ai valori presenti nel Vangelo, c’è una
novità, fin da oggi, che dà ragioni di speranza».
[1]
Ringiovanire
la Chiesa vuol dire farla tornare alle
sue origini e alla sua giovinezza; come le Chiese degli Atti degli
Apostoli, delle Lettere di Paolo e dell’Apocalisse, essa vive della
forza della Pasqua e della potenza della Pentecoste, realizza la
verità di Cristo e la libertà dello Spirito, si ricorda “dell’amore
di prima” (cf. Os. 2,9).
Una Chiesa che torna alle sue radici apostoliche è coraggiosa nella
martyria,
cioè nella testimonianza del Signore Gesù e del suo Vangelo,
giungendo fino alla consegna della vita. È caratterizzata dalla
euangelia,
ossia dalla comunicazione del Vangelo a tutti; essa esiste per
evangelizzare, come esplicitamente afferma l’Evangelii
Nuntiandi, il documento più importante
sull’evangelizzazione, che Paolo VI ha promulgato dieci anni dopo
la conclusione del Concilio. È convocata dalla leitourgia,
poiché la salvezza non è una conquista da ottenere, ma una realtà
da celebrare con riconoscenza e da rendere presente ed efficace in
ogni tempo e in ogni luogo. È impegnata nella diakonia,
di cui la Gaudium et Spes
ha tratteggiato in maniera chiara il significato: la Chiesa non è
signora, ma serva del mondo.
Ringiovanire
la Chiesa è farla diventare casa per i
giovani. La Chiesa sarà giovane se ci saranno i giovani, soprattutto
adesso che cresce la disaffezione, almeno in alcune parti del mondo,
appunto per il volto visibile della Chiesa. Di conseguenza occorre
individuare un cammino mistagogico e pedagogico per condurre i
giovani alla Chiesa e farli diventare Chiesa. A questo punto ritorna
ancora una volta illuminante l’icona dei discepoli di Emmaus, che
ci aiuta a intendere la Chiesa come madre e maestra, che si fa
compagna di strada di tutti gli uomini e donne che cercano il senso
della vita, li apre alla rivelazione di Dio nella Scrittura, illumina
la loro mente e riscalda il loro cuore, offre la comunione del Corpo
di Cristo, sì da farli diventare comunità. Si tratta di fare della
Chiesa la casa di quanti credono in Cristo risorto e vogliono
testimoniare la fede in Lui. La strenna è dunque un invito a fare
giovane la Chiesa e fare che i giovani siano Chiesa.
Giovanni
Paolo II, nel suo messaggio per la V Giornata Mondiale della Gioventù
del 1990, tra le altre cose scriveva ai giovani di tutto il mondo:
«Prendete il vostro posto nella Chiesa, che non è solo quello di
destinatari di cura pastorale, ma soprattutto di protagonisti attivi
della sua missione. La Chiesa è vostra, anzi, voi stessi siete la
Chiesa». È un invito per i giovani di ogni latitudine e di ogni
tempo.
Una testimonianza, un
modello, un’icona
Cercando
di comprendere che cosa vuol dire la strenna, vorrei proporvi una
testimonianza, un modello e un’icona.
Innanzitutto vi presento
una testimonianza,
che mi è rimasta viva nella mente e nel cuore. Mi ha fortemente
impressionato la testimonianza di don
Vecchi durante la malattia, non
principalmente perché si trattava del Rettor Maggiore, ma perché
essa era segno dell’identificazione di un uomo con la volontà di
Dio, nel momento in cui questa forse meno coincideva con la sua.
Quando la croce gli si è presentata davanti all’improvviso, senza
agenda né calendario, egli ha accolto l’infermità come ciò che
meritasse il suo amore. La sua testimonianza esprimeva
l’atteggiamento di un vero credente, di uno che molte volte aveva
consolato altri provati dalla sofferenza e che, giunto il momento di
dare prova della propria fede, ha saputo essere un vero figlio di
Abramo, il padre dei credenti.
Dopo l’intervento chirurgico,
don Vecchi aveva alimentato la speranza di un totale ricupero,
sorretto dalla preghiera dell’intera Famiglia Salesiana che lo
affidava all’intercessione di suo zio, il Beato Artemide Zatti.
Come buon uomo di governo, aveva tanti piani in mente; ma ha dovuto
imparare il significato della parola di Gesù a Pietro: “Quando
sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e
ti porterà dove tu non vuoi” (Gv.
21, 18b). Così ha accolto la malattia, come una nuova annunciazione
di Dio; e questa lo ha trovato pronto: con l’evoluzione del tumore,
egli si accorgeva che il Signore lo stava preparando per l’incontro
definitivo.
Mentre ci trovavamo insieme, durante gli esercizi
spirituali, egli chiese di celebrare il sacramento dell’unzione
degli infermi, preceduto da una confessione con don Brocardo. In
quella occasione egli fece la sua professione di fede dinanzi al
Consiglio Generale, al direttore della Casa generalizia e ad altri
pochi confratelli: «Rendo
grazie a Dio che mi ha dato nella Chiesa una madre. Lei mi ha fatto
nascere come figlio di Dio. Lei mi ha aiutato a crescere e maturare
attraverso la Parola e i Sacramenti. Lei mi ha fatto scoprire la mia
vocazione, il mio ruolo nella Chiesa e nella società. Lei mi
accompagna in questo momento della mia vita. Lei mi attende come vera
mamma nel cielo». Poi aggiunse: «Adesso affido a voi la
Congregazione. Prendetela in mano e portatela avanti».
È la
testimonianza di un credente, che ha sperimentato la Chiesa come
Madre, ha saputo dare prova della fede e, giunto il momento di
affidarsi a Dio, ha detto come Paolo “Io sono persuaso che né
morte né vita… né alcun’altra creatura potrà mai separarci
dall’amore di Dio, in Cristo Gesù” (Rm.
8, 38-39).
Vi propongo ora un modello.
Quest’estate sono stato ad Annecy, una città per noi ricca di
significato, perché ci parla di San
Francesco di Sales, il modello a cui
Don Bosco ha attinto alcuni tratti spirituali e pastorali. Di lui
ricordiamo l’amore alla Chiesa, che lo rese prudente e determinato
con i calvinisti, che non gli lasciarono neppure prendere possesso
della sua sede episcopale; lo zelo del buon pastore, che offre ai
suoi fedeli ristoro nei pascoli del vangelo e cerca le pecore
perdute; la rinomata bontà, che egli assunse come metodo pastorale e
per la quale divenne noto a tutti, persino ai suoi avversari;
l’umanesimo ottimista, che lo faceva convinto della bontà della
creazione e delle energie di bene di ogni persona, anche se era
consapevole delle ferite del peccato; la convinzione che la santità
è a portata di tutti e va vissuta secondo la propria
vocazione.
Studiando San Francesco di Sales, scopriamo il suo
senso di Chiesa, che scaturisce dal suo ministero pastorale e dalla
sua spiritualità. Egli è per noi un esempio da imitare nell’essere
Chiesa e nel costruire la Chiesa: deciso nelle sue scelte e nel
contempo magnanimo nel suo stile. Egli è il santo patrono, che Don
Bosco ha voluto darci come intercessore e modello a cui ispirarci.
Per questo nei vari luoghi visitati ho pregato intensamente,
chiedendogli la grazia di ottenerci il suo stesso amore per la Chiesa
e la sua capacità di vincere i suoi nemici con la fede e la
bontà.
Vi offro infine una icona.
Si tratta della cappella Redemptoris
Mater, quel capolavoro che si trova nel
Palazzo apostolico a Roma e che è l’omaggio fatto dai Cardinali a
Giovanni Paolo II, in occasione del giubileo della nascita di Gesù
di Nazareth, Salvatore del mondo. Essa in maniera eloquente ci
presenta la Chiesa come Madre nello stile dell’arte bizantina,
traboccante di colori, di luce e di movimento. Quanto mi piacerebbe
che tutti avessero l’opportunità di visitare e di ammirare questa
bellissima rappresentazione iconografica della Chiesa Madre.
Tutto
in essa diventa dinamismo e splendore. Il cosmo è ricco di senso e
di vita, grazie alla realizzazione del disegno salvifico di Dio,
dalla creazione del mondo sino alla sua consumazione, quando tutti
saremo tutto in Cristo. In essa ci viene presentata la storia della
salvezza, così come viene narrata dal cantico della lettera agli
Efesini (1, 3-14). L’originalità di questa cappella sta nel fatto
che essa è stata concepita come un’icona, che ci parla del disegno
di salvezza di Dio e della sua realizzazione nella Chiesa come suo
sacramento. Maria, Madre del Redentore, è nostra Madre dall’inizio
del mondo in Eva, ai piedi della Croce, alla nascita della Chiesa nel
Cenacolo, fino alla fine del mondo come donna gloriosa. Ella è icona
della Chiesa nostra Madre.
Chiesa,
luce delle genti,
mistero e sacramento di salvezza
La
Chiesa è chiamata a riflettere lo splendore di Cristo, che è la
“luce delle genti”, per illuminare l’umanità, che da una parte
è accecata dal bagliore delle proprie conquiste scientifiche e
tecnologiche e del proprio potere economico, sino al punto di pensare
che può e deve prescindere da Dio, e che dall’altra parte è
avvolta nelle tenebre della povertà, dei conflitti sociali,
razziali, interetnici, del relativismo e della confusione morale. La
Chiesa ha un ruolo imprescindibile da giocare oggi, anche se in
condizioni mutate; essa non si trova più, come alcuni ancora
pretendono, in quella fase della storia in cui la scienza e la
coscienza umana non erano capaci di rispondere a molte questioni e
quindi la Chiesa doveva svolgere un ruolo di supplenza; essa ha il
compito di illuminare l’umanità con il Vangelo.
Le prime
parole della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen
Gentium sono significative ed esprimono
il suo ruolo odierno: «Essendo Cristo la luce delle genti, questo
santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera
con la luce di Lui, splendente sul volto della Chiesa, illuminare
tutti gli uomini annunziando il Vangelo ad ogni creatura». Papa
Giovanni XXIII aveva parlato della Chiesa come “luce delle genti”;
utilizzando questa espressione, il Concilio l’applica a Cristo, che
è “la luce delle genti” che splende sul volto della Chiesa. Così
esso riprende le parole dell’oracolo di Simeone, attribuite al
Salvatore (Lc.
2, 32).
[2]
Secondo la
dottrina conciliare, l’origine della Chiesa precede la storia,
poiché essa esiste già nel disegno primordiale del Padre, che l’ha
voluta come sacramento di salvezza.
Il Figlio, che vive da sempre presso Dio, mediante l’incarnazione
si è inserito nella storia; così Egli dà anche inizio alla Chiesa
nel tempo. Tuttavia è ritornando all’eternità che Egli diventa il
principio di vita e di sviluppo della Chiesa; la risurrezione gli
permette infatti di effondere lo Spirito Santo, che è l’anima di
essa.
[3] La Chiesa viene
quindi dalla Trinità: “Ecclesia de
Trinitate”.
«La struttura della
Chiesa poggia su due fondamenti ugualmente essenziali: Cristo e lo
Spirito Santo. Cristo è sua origine, fine e limite; lo Spirito è la
luce che fa risplendere Cristo ai suoi occhi e la forza che la
conduce per suo tramite al Padre. Senza Cristo la Chiesa non sarebbe
quello che è; senza lo Spirito non saprebbe
ciò che è».
[4] Cristo è il
fondamento della Chiesa; lo Spirito è memoria di Cristo e coscienza
della Chiesa. Lo Spirito svolge una triplice funzione ecclesiale:
Egli è il consolatore
durante il tempo dell’assenza fisica di Gesù, alimentando l’attesa
della Chiesa che come sposa attende il ritorno del suo sposo; Egli è
l’avvocato
nella nostra lotta contro il peccato personale e sociale; Egli è il
maestro
che ci ricorda le parole di Cristo e ci rivela la Sua persona.
La
vitalità della Chiesa è proporzionale alla fedeltà con cui essa
ascolta e segue la voce dello Spirito. Questi abitando in lei la
conduce incessantemente a Cristo, perché, incontrando se stessa in
Lui, si rinnovi mediante la contemplazione amorosa della Sua persona,
la meditazione attenta delle Sue parole, l’attuazione audace del
Suo messaggio. Lo Spirito continua a plasmare la Chiesa,
conformandola a Cristo; e la Chiesa si realizza prendendo coscienza
di essere fondata su Cristo.
«La prima caratteristica della
coscienza della Chiesa è perciò quella di essere mistero,
in quanto ha Dio stesso come contenuto costitutivo e organo
vivificante. Lungo i secoli la Chiesa tenterà di immergersi sempre
più profondamente in questa sua realtà costitutiva, sapendo di non
poterla mai esaurire, anche se si sente sempre più attratta ad
essa».
[5]
Tale
consapevolezza era presente in Paolo VI all’inaugurazione della
seconda sessione conciliare: «Donde parte il nostro cammino, quale
via intende percorrere e quale meta vorrà proporsi il nostro
itinerario? Queste tre domande hanno una sola risposta, che qui in
questa ora stessa dobbiamo a Noi stessi proclamare e al mondo
annunciare: Cristo! Cristo nostro principio, Cristo nostra via e
nostra guida, Cristo nostra speranza e nostro termine …
Mistero è la Chiesa, cioè realtà imbevuta di divina presenza e
perciò sempre capace di nuove e più profonde esplorazioni … È la
coscienza della Chiesa che si chiarisce nell’adesione fedelissima
alle parole e al pensiero di Cristo, nel ricordo riverente
dell’insegnamento autorevole della tradizione ecclesiastica e nella
docilità all’interiore illuminazione dello Spirito Santo».
[6]
La Chiesa non
si ferma a contemplare se stessa; si riferisce sempre a Cristo, dal
quale le giunge la vita e del quale sa di dover essere specchio
vivente, e allo Spirito, che le dona questa conoscenza e la conduce
per mezzo di Cristo al Padre. La sua contemplazione è un cosciente
“atto di ringraziamento”, è Eucaristia, a Colui che vive in essa
nell’attesa di un’accettazione e di una risposta vitale.
[7] È quanto scrive
l’autore della lettera agli Ebrei per incoraggiare la comunità di
credenti, impauriti per le difficoltà e tentati alla resa,
invitandola a fissare “bene la mente in Gesù, l’apostolo e Sommo
sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb.
3, 1), e a “tenere fisso lo sguardo
su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Eb.
12, 2a).
Lo affermava lo stesso
Cardinale Giovani Battista Montini, quando era Arcivescovo di Milano:
«La Chiesa non esiste per essere bellissima e guardarsi nello
specchio dicendo: come sono bella io sposa del Signore; la Chiesa
esiste propter nos et propter nostram
salutem… Per questo vedrà di
aggiornarsi, spogliandosi se occorre di qualche vecchio mantello
regale rimasto sulle sue spalle per rivestirsi di più semplici forme
reclamate dal gusto moderno».
[8] Da qui deriva il
compito che in ogni epoca la Chiesa ha di precisare la coscienza che
essa ha di se stessa, per scoprire gli aspetti da riformare per la
salvezza di tutti.
Quando nel Credo diciamo “Credo la Chiesa”,
non vogliamo dire che abbiamo fiducia nella realtà umana della
Chiesa, che come tale è limitata e imperfetta, ma che crediamo che
Dio si rivela in questa realtà umana, che è santificata dallo
Spirito e costituita da Lui “Corpo di Cristo” e strumento di
salvezza. Credere la Chiesa è dunque scoprire il suo vero mistero, è
credere in Dio che ci rivela quello che la Chiesa è, significa
accoglierla come spazio di salvezza e amarla come tale.
[9]
Chiesa,
solidale con le gioie e le
speranze dell’umanità
La Chiesa vive il suo mistero in ogni epoca storica e si
sforza di dare una risposta agli imperativi del momento, alla luce
del passato e con lo sguardo rivolto al futuro. Essa sa di essere al
servizio del mondo, perché è nata da Cristo, “che non è venuto
per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto
per molti”
(Mc. 10,
45), Il Papa Pio XI diceva: «Non è il mondo per la Chiesa, bensì
la Chiesa per il mondo». La Chiesa si deve infatti rapportare al
Signore che la chiama, al mondo cui è inviata, al Regno che promuove
nel cuore del mondo.
È interessante evidenziare alcuni fattori
esterni e interni, che hanno contribuito a determinare
l’ecclesiologia del Vaticano II. Mi sembra che essi siano bene
riassunti da questa riflessione teologica: «Negli ultimi 25 anni si
sono verificate, nella società e nelle Chiese dell’Occidente
cristiano, trasformazioni tali da costituire problemi molto seri per
la cristianità occidentale nella diffusione del messaggio cristiano.
L’espansione economica e scientifica ha seguito un ritmo
vertiginoso. Il modello classico di società è entrato in crisi. Con
la ribellione del Terzo mondo verso ogni forma di neocolonialismo è
stata messa in discussione la superiorità dell’Occidente.
All’emancipazione della donna, alla grande diffusione di un nuovo
modello di cultura tra i giovani, e agli enormi problemi di ordine
economico, demografico ed ecologico non possono essere sorde le
Chiese. Al loro interno sono più che mai vive le tendenze verso una
maggiore partecipazione di tutti i membri ai due momenti in cui
vengono elaborate e prese le decisioni e verso un dialogo reale con
le altre Chiese e religioni. L’impegno della Chiesa a favore
dell’uomo la obbliga a difenderne i diritti ovunque essi siano
violati. Nel continente sudamericano l’episcopato, i teologi e gli
uomini di chiesa hanno fatto l’opzione preferenziale per i
“poveri”, intesi in un senso più ampio della sola povertà
economica. I “poveri” hanno cominciato in questi ultimi anni a
partecipare realmente alla vita politica ed ecclesiale dei paesi
latino-americani. Da oggetto di evangelizzazione si sono trasformati
in evangelizzatori».
[10]
Certamente la
situazione politica, sociale, economica, culturale e persino
religiosa è cambiata ancora di più in questi ultimi 15 anni, da
quando cioè nel 1989 è caduto il muro di Berlino, è finita la
guerra fredda, è emersa una nuova egemonia e si è imposta
l’economia neoliberale. La situazione ha preso poi un altro volto a
partire dal 11 settembre 2001, quando il terrorismo di matrice
islamica ha fatto il suo ingresso sul palcoscenico internazionale in
forma drammatica; ciò ha portato alcuni a parlare di “scontro di
civiltà”, ma nessuno si azzarda per il momento a dire come si
evolverà l’attuale conflitto. Tuttavia continua ad essere valido
l’approccio della Chiesa alla realtà dell’umanità, considerata
come orizzonte e come interlocutrice della sua azione; ancora di più
è valida la prospettiva, inaugurata dalla Costituzione pastorale
Gaudium et Spes,
di parlare della fede non in astratto, ma a partire dal vissuto umano
e dalle vicende storiche.
Vi sono due nuovi atteggiamenti della
Chiesa di oggi, presentati dalla Gaudium
et Spes, che evidenziano la sua
coscienza di non essere più signora, ma serva del mondo:
l’atteggiamento di dialogo e il messaggio di
ottimismo.
L’atteggiamento di
dialogo nasce dal riconoscimento
dell’unione fondamentale tra l’ordine della creazione e quello
della redenzione. La Chiesa riconosce pienamente la dignità della
natura umana e i diritti dell’uomo, difende i valori autenticamente
umani e coopera con tutti gli uomini e le donne di buona volontà
alla costruzione di un mondo più umano. Con questo atteggiamento di
dialogo la Chiesa partecipa alla ricerca comune di soluzioni ai gravi
problemi, che oggi angustiano l’umanità. In questa collaborazione
la Chiesa non si propone come obiettivo di sacralizzare,
né tanto meno di ecclesializzare
la società civile, poiché riconosce l’autonomia che, per volontà
del Creatore, ha la realtà temporale. Con la sua azione la Chiesa
apporta il dono inestimabile della luce del Vangelo, con cui è
capace di pronunciare parole di valore eterno, laddove finisce la
sapienza umana.
Oggi la Chiesa sa che il dialogo le è
assolutamente necessario, come espressione del suo mistero di
comunione e di unità nella diversità, come segno leggibile del suo
impegno di creare sinergia con le altre religioni, con le altre
chiese cristiane, con tutti gli uomini e le donne di buona volontà,
per collaborare alla costruzione della “civiltà della giustizia,
della pace e dell’amore”.
Questo comporta il compito di
ripensare il contenuto e lo stile del servizio pastorale. Il suo
contenuto è annunciare Gesù Cristo, essere segno della nuova
umanità, collaborare alla trasformazione sociale con tutti gli
operatori di bene, denunciare quanto attenta alla dignità della
persona umana. Il suo stile è quello del rispetto della diversità
senza pretesa di voler imporre nulla a nessuno, del dialogo aperto e
onesto con tutti, della volontà di servizio senza cedere a
compromessi.
Il messaggio di
ottimismo, a sua volta, sembra
incarnare il vangelo, così come viene sintetizzato magnificamente da
Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
Unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia vita
eterna” (Gv.
3,16). Amare il mondo. Amare l’umanità. Questo è, in effetti, il
messaggio di ottimismo che la Gaudium et
Spes ha diffuso nella Chiesa
postconciliare e al quale non è rimasta indifferente l’ecclesiologia
postconciliare. La Chiesa ha optato per la solidarietà totale con
l’umanità e con le sue conquiste, offrendo il senso ultimo che
queste hanno nel piano divino del Creatore.
La diffusione di
questo messaggio ha costituito l’impegno principale della Chiesa
postconciliare a livello universale e soprattutto a livello delle
Chiese del Terzo mondo. A tale impegno hanno concordemente
partecipato pastori, teologi e semplici fedeli; le tensioni esistenti
non hanno mai messo in discussione questa collaborazione
fondamentale; al contrario, sono state fonte di nuove energie.
Frutto
di questi processi di dialogo e ottimismo è il destarsi di una nuova
coscienza ecclesiale nelle grandi masse dei cristiani, che ora si
sentono partecipi e, per alcuni aspetti, protagonisti della vita
ecclesiale nelle loro comunità. Inoltre il cristiano comincia ad
imparare a farsi uomo con gli uomini, senza per questo rinunciare
alla sua vocazione divina. Ciò gli impone di armonizzare l’impegno
terreno con il suo destino ultraterreno. La sua fede cristiana lo
spinge a mettersi al servizio degli uomini e a scorgere nel più
diseredato un fratello da aiutare a liberarsi da ogni oppressione e a
vivere come figlio di Dio.
[11]
Oggi risulta
ancora assai bello ed entusiasmante il Proemio
della
Gaudium et Spes, perché conserva tutta
la sua freschezza e forza propositiva; non resisto perciò alla
tentazione di trascriverlo, anche perché le nuove generazioni forse
non lo conoscono e sono meno familiarizzate con esso. Non vi nascondo
la gioia e l’entusiasmo per questa visione della Chiesa, che
desidero condividere con tutti i membri della Famiglia Salesiana, in
modo che sia comunicata ai giovani, perché la amino e si consegnino
per essa.
Unione della Chiesa
con l’intera famiglia umana
«Le
gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi,
dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le
gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di
Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel
loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini, i
quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo
nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre e hanno ricevuto un
messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò essa si sente
realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua
storia».
[12]
A
chi si rivolge il Concilio
«Per
questo, il Concilio Vaticano II, avendo penetrato più a fondo il
mistero della Chiesa, passa ora senza esitazione a rivolgere la sua
parola non ai soli figli della Chiesa, né solamente a tutti coloro
che invocano il nome di Cristo, ma a tutti indistintamente gli
uomini, desiderando di esporre loro come esso intende la presenza e
l’azione della Chiesa nel mondo contemporaneo.
Esso ha
presente perciò il mondo degli uomini, ossia l’intera famiglia
umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive;
il mondo, che è teatro della storia del genere umano e reca i segni
dei suoi sforzi, delle sue sconfitte e delle sue vittorie; il mondo
che i cristiani credono creato e conservato nell’esistenza
dall’amore del Creatore, mondo certamente posto sotto la schiavitù
del peccato, ma dal Cristo crocifisso e risorto, con la sconfitta del
maligno, liberato e destinato, secondo il proposito divino, a
trasformarsi e a giungere al suo compimento».
[13]
A
servizio dell’uomo
«Ai nostri
giorni, l’umanità scossa da ammirazione per le sue scoperte e la
sua potenza, agita però spesso ansiose questioni sull’attuale
evoluzione del mondo, sul posto e sul compito dell’uomo
nell’universo, sul senso dei propri sforzi individuali e
collettivi, ed ancora sul fine ultimo delle cose e degli uomini. Per
questo il Concilio, testimoniando e proponendo la fede di tutto
intero il popolo di Dio, riunito da Cristo, non può dare
dimostrazione più eloquente della solidarietà, del rispetto e
dell’amore di esso nei riguardi della intera famiglia umana, dentro
la quale è inserito, che instaurando con questa un dialogo sui vari
problemi sopra accennati, arrecando la luce che viene dal vangelo e
mettendo a disposizione degli uomini le energie di salvezza che la
Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, riceve dal suo Fondatore.
Si tratta di salvare la persona umana, si tratta di edificare l’umana
società. È l’uomo dunque, ma l’uomo singolo integrale,
nell’unità di corpo ed anima, di cuore e coscienza, di intelletto
e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione.
Pertanto il santo sinodo, proclamando la grandezza somma della
vocazione dell’uomo e affermando la presenza in lui di un germe
divino, offre all’umanità la cooperazione sincera della Chiesa al
fine di stabilire quella fraternità universale che corrisponda a
tale vocazione. Non è mossa la Chiesa da alcuna ambizione terrena;
essa mira a questo solo: a continuare sotto la guida dello Spirito
Paraclito l’opera stessa di Cristo, che è venuto nel mondo a
rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a
servire e non ad essere servito».
[14]
Ecco, miei
cari, perché è tanto preziosa la presenza della Chiesa nel mondo. È
luce che aiuta a trovare il disegno di Dio sull’umanità e guida
l’intelligenza verso soluzioni pienamente umane. È lievito che
collabora alla trasformazione profonda dell’umanità, innestando in
essa energie di bene. È forza solidale nel compito di edificazione
della società attuale. Se è vero che la Chiesa ha bisogno
dell’umanità, di cui fa parte e di cui condivide gioie e speranze,
angosce e sofferenze, è ugualmente certo che l’umanità ha bisogno
della Chiesa, chiamata ad essere in essa “sale della terra”,
“luce del mondo”, “città sul monte”.
La Chiesa esiste
per essere segno del Regno di Dio. Per rendere visibile e credibile
questo segno, la Chiesa si deve rinnovare e convertire, ringiovanire
e purificare. Per questo essa deve approfondire le sue scelte
fondamentali: la passione per Dio, che la liberi da qualsiasi
conformazione al mondo nei suoi criteri, valori, atteggiamenti,
comportamenti; la fraternità e comunione ecclesiale, in modo che
essa possa diventare punto di riferimento per il mondo ed essere
attraente e convincente; lo slancio missionario, che l’aiuti a
vincere la paura o timidezza dei discepoli radunati a porte chiuse
nel Cenacolo, e la porti ad annunciare il Vangelo a tutti; l’impegno
di servire, sviluppando simpatia e solidarietà verso tutti; la
scelta per i poveri, che sono il suo marchio di identità, qualità,
fecondità.
Verso una
immagine giovane di Chiesa
Specialmente
agli Atti degli Apostoli,
che ci presentano l’origine della Chiesa, possiamo attingere
ispirazione, volontà e dinamismo, per impegnarci nel compito
inderogabile di ringiovanire la Chiesa. Come accennavo all’inizio
di questa riflessione, negli Atti sono presenti i tratti specifici e
costanti di una Chiesa, che vuole mantenersi fedele al suo Signore ed
essere feconda nei confronti del mondo.
Una
Chiesa martiriale
Innanzitutto la
Chiesa manifesta una natura “martiriale”, cioè sa dare ragione
della sua fede, perché è chiamata ad essere testimone del Signore
Crocifisso e Risorto. Per questo spesso la Chiesa è una realtà
controculturale,
nel senso che è portatrice di un Vangelo che non si addice alla
mentalità del mondo. In questo suo carattere paradossale, che appare
molto chiaro nel discorso della montagna del vangelo di Matteo e nel
discorso della pianura del vangelo di Luca, risiede appunto la sua
forza profetica e la sua significatività.
Certo, il coraggio di
opporsi alla mentalità comune, di denunciare modi di agire affermati
ma non per questo meno ingiusti, comporta la solitudine, il rifiuto,
in certi casi la persecuzione e persino la morte, come difatti
sperimentano tanti fratelli e sorelle in diverse parti del mondo.
Stando a quanto dice Gesù nel discorso della montagna, in
particolare nelle Beatitudini, si potrebbe dire che quando i credenti
non sono in qualche modo perseguitati, disprezzati, emarginati,
devono interrogarsi se non siano venuti meno al loro compito
profetico. Chi è complice dei peccati del mondo d’oggi, chi non
crea fastidio, chi non mette in crisi, chi non denuncia i problemi
drammatici che ci affliggono e di cui nessuno vuol parlare, rischia
di tradire il Vangelo.
Una fede autentica invece è sempre
accompagnata dal martirio, dalla testimonianza vissuta nella
quotidianità, nell’adempimento dei propri doveri, nell’impegno
ecclesiale e sociale. Non va dimenticato che i martiri, di ieri e di
oggi, quelli canonizzati e quelli non ufficialmente riconosciuti, non
sono soltanto la gloria della Chiesa, ma anche un punto di
riferimento per tutti i credenti, chiamati a rendere testimonianza
della propria fede in qualsiasi circostanza della vita.
Una
Chiesa liturgica
In secondo luogo,
la Chiesa è una comunità “liturgica”, che celebra la sua fede,
fa crescere nuovi figli attraverso l’iniziazione cristiana, porta
il credente alla piena configurazione a Cristo. La liturgia è una
vera scuola di santità, perché trasforma l’esistenza personale e
comunitaria in preghiera. Anche se la disaffezione nei confronti
della Chiesa sembra spesso avere origine dalla mancanza di fascino di
tante liturgie, non si può cancellare né il valore né il bisogno
di un’autentica vita celebrativa. Questo, oltre alla necessità di
una catechesi liturgica che ci introduca nei misteri e ci aiuti a
maturare nella fede, implica di curare la qualità delle
celebrazioni, in modo che siano semplici e belle, dignitose e
feconde.
Nel celebrare dobbiamo recuperare il senso del gratuito
e del mistero, le ragioni per la festa, la dimensione comunitaria.
Siamo invitati a dare alla liturgia il luogo che le corrisponde come
“fonte e culmine della vita cristiana” (SC
10). Qui mi vorrei riferire in particolare all’Eucaristia,
sacramento supremo dell’amore di Cristo e della unione con Lui.
Nell’Eucaristia ciascuno riceve Cristo e Cristo riceve ciascuno.
Non possiamo dimenticare che, come diceva De Lubac, «la Chiesa fa
l’Eucaristia, e l’Eucaristia fa la Chiesa».
Ciò conferisce
all’Eucaristia domenicale
un’importanza capitale: essa è un incontro, che irrobustisce la
nostra coscienza di saperci membri di un popolo che cammina per il
mondo con lo sguardo fisso nel cielo. Partecipare alla celebrazione
domenicale significa assumere la vita di tutta la settimana per farla
diventare offerta a Dio e testimoniare nella società che per noi Dio
è Dio e che Gesù Cristo è vivo, operante nella nostra comunità.
La fedeltà al mandato “Fate questo in
memoria di me” (Lc.
22, 19) si riferisce all’atto liturgico, ma anche al compito di
attualizzarlo e prolungarlo nella consegna della propria vita per la
salvezza del mondo.
Dobbiamo imparare a vivere la
domenica come giorno della Chiesa,
giorno dell’uomo, giorno del Signore. È particolarmente suggestivo
il prefazio X delle domeniche del tempo ordinario, che presenta
questo giorno come anticipo della “domenica senza fine”, quando
l’uomo si vedrà definitivamente libero da ogni lavoro, fatica,
lacrima, dalla morte stessa e avrà pace, amore, vita senza fine.
Da
ottobre 2004 ad ottobre 2005 Giovanni Paolo II ha indetto l’Anno
dell’Eucaristia, nel quadro di un
progetto pastorale additato nella Novo
millennio ineunte, in cui invitava ogni
cristiano a «ripartire da Cristo», a impegnarsi in una «misura
alta della vita cristiana» ed a esercitarsi nell’«arte della
preghiera». Per noi risulta importante vivere quest’anno in
sintonia con tutta la Chiesa. L’Eucaristia «è il luogo
privilegiato dove la comunione è costantemente annunciata e
coltivata. Proprio attraverso la partecipazione eucaristica, il
giorno del Signore diventa anche il giorno della Chiesa, che può
svolgere così in modo efficace il suo ruolo di sacramento di unità»
(NMI
36).
Una Chiesa evangelizzatrice
Il
terzo elemento caratteristico della Chiesa riguarda la sua forza
evangelizzatrice e la capacità di annunciare Cristo e il suo
Vangelo. Tertulliano diceva che «Cristiani
non si nasce, si diventa».
[15] Questa «è
un’affermazione particolarmente attuale, perché oggi siamo in
mezzo a pervasivi processi di scristianizzazione, che generano
indifferenza e agnosticismo. I consueti percorsi di trasmissione
della fede risultano in non pochi casi impraticabili. Non si può
dare per scontato che si sappia chi è Gesù Cristo, che si conosca
il Vangelo, che si abbia una qualche esperienza di Chiesa. Vale per
fanciulli, ragazzi, giovani e adulti; vale per la nostra gente e,
ovviamente, per tanti immigrati, provenienti da altre culture e
religioni. C’è quindi bisogno di un
rinnovato primo annuncio della fede».
[16]
Non va
dimenticato che aumenta, almeno in Europa, il numero di famiglie che
non chiedono più il Battesimo per i loro bambini, il numero di
ragazzi battezzati che non accedono più agli altri Sacramenti, il
numero di coloro che dopo aver ricevuto il sacramento della
Confermazione lasciano di frequentare la Chiesa.
Torna così più
pressante l’appello ad evangelizzare seriamente. Questo oggi si
realizza attraverso un’accoglienza cordiale e gratuita che dispone
positivamente le persone alla evangelizzazione, con l’annuncio
esplicito di Cristo come Salvatore del mondo, l’ascolto della
parola di Dio, e l’accompagnamento personale che facilita la
maturazione delle persone “finché non sia formato Cristo in esse”
(Gal. 4,
19).
Lo scopo è di formare discepoli innamorati di Cristo e
imitatori fedeli del Signore Gesù, che sanno che la loro vocazione
consiste nell’essere “sale
della terra”, “luce del mondo”, “città sul monte”,
insomma uomini e donne che fanno del Vangelo il loro programma di
vita e che sono consapevoli della responsabilità che hanno “davanti
agli uomini”. Per Gesù il discepolo è tanto necessario al mondo,
quanto lo è il sale per conservare i cibi o la luce per vedere.
Esiste il pericolo che il discepolo rinneghi la sua fede. In questo
caso il detto di Gesù sul sale manifesta tutta la sua forza, che
potremmo così esprimere: “Voi siete miei discepoli; ma se il
discepolo perde la sua caratteristica di discepolo, chi gliela potrà
ridare? Non serve più a nulla per il mondo. È come un oggetto che
si può buttare via, perché sia calpestato e disprezzato dagli
uomini”.
Una Chiesa
diaconale
Infine la Chiesa ha una
caratteristica “diaconale”; essa sa che la sua missione è
servire il popolo di Dio e il mondo. Questo compito non è esclusivo
del Papa, dei vescovi, preti, religiosi o laici impegnati, ma di
tutti i battezzati che, in ragione del loro Battesimo, condividono la
missione del loro Signore e Maestro. Ciò richiede di imparare a
servire, essere attenti ai bisogni degli altri, fare sempre il primo
passo per andare incontro, assumere impegni generosi, diventare
apostoli.
I cristiani sono chiamati ad aiutare gli uomini a
vincere la disillusione e l’apatia, gioire delle realtà belle
della vita, attivare la capacità di sognare un futuro a misura
d’uomo, inventare nuovi rapporti tra persone e tra Stati,
rispettare la natura, porre fine per sempre alla guerra. Forse anche
tra i credenti si annida lo scetticismo di chi non crede che un mondo
alternativo all’attuale sia possibile. La Chiesa non può deludere
le attese e le aspirazioni legittime, specialmente quelle più
profonde, delle popolazioni benestanti o impoverite, affamate o
sazie, dell’Occidente o dell’Oriente, del Nord o del Sud.
Una
Chiesa diaconale è solidale con i più poveri, con coloro che non
hanno nessun altro difensore che prenda in mano la loro causa, se non
Dio. Quando la speranza anima la vita di chi è povero, Dio e l’uomo
si sono già incontrati, perché solo con l’aiuto di Dio il povero
può sperare là dove non c’è futuro. La speranza dei poveri è
già fede che vive. Di questo anche i profeti d’oggi sono
consapevoli. Il loro compito è di riconoscere la fede dei poveri e
testimoniare il vangelo dell’assoluta solidarietà di Dio con
loro.
Senso ecclesiale in Don
Bosco e nella tradizione salesiana
Don
Bosco ha saputo vivere la fedeltà al Signore Gesù, mentre
sperimentava quotidianamente la dolorosa realtà ecclesiale del suo
tempo. Il suo senso vivo di Chiesa fu principalmente un atteggiamento
e un’esperienza di collaborazione con tutte le energie e risorse al
suo bene. Don Bosco esprimeva il suo amore alla Chiesa attraverso un
trinomio semplice, ma profondo: amore
verso Gesù Cristo, presente
principalmente nell’Eucaristia che è l’azione centrale della
Chiesa; devozione a Maria,
Madre e Modello della Chiesa; fedeltà
al Papa, Successore di Pietro e centro
di unità della Chiesa.
Si tratta di tre elementi inseparabili
tra loro, che si illuminano mutamente e trovano la loro convergenza
nella persona di Cristo. Il sogno di Don Bosco, chiamato “delle due
colonne”, è una esemplificazione immediata e suggestiva di queste
forze dinamiche, dei tre “amori” di Don Bosco, che edificano la
Chiesa: Eucaristia, Maria, Pietro. La Chiesa di Don Bosco ha una
forma eucaristica, una figura mariana, un fondamento petrino.
Questo
“sensus Ecclesiae” si presenta in modo ammirevole nella fusione
che Don Bosco fece dei titoli di “Ausiliatrice” e di “Madre
della Chiesa”.
[17] È interessante
constatare come Don Bosco avesse capito molto bene che il
rinnovamento della Chiesa doveva passare attraverso una matura pietà
mariana, convinto che si perde il senso della Chiesa Madre là dove
si perde il senso della vocazione materna di Maria. Questo ci fa
intravedere lo stretto rapporto che esiste tra la Chiesa Madre e
l’evangelizzazione, tra Maria, la Chiesa e l’azione apostolica.
Ciò significa che il “senso della Chiesa” deve tradursi
quotidianamente in un profondo senso di appartenenza e in un impegno
responsabile come credente.
Nella Lettera
Edificante, scritta al ritorno da Roma
il 14 giugno 1905, parlando di Don Bosco modello di attaccamento alla
Chiesa, don Rua scrisse: «Quanti conobbero Don Bosco durante la sua
carriera mortale o ne lessero la vita meravigliosa, mentre ne ebbero
ad ammirare le virtù straordinarie, avranno senza dubbio dovuto
convincersi che egli non viveva che per Dio, che in ogni tempo, in
ogni luogo, in ogni benché minima azione era guidato dallo spirito
del Signore. Per noi suoi figliuoli pare quasi impossibile
rappresentarci Don Bosco se non col volto acceso di santo zelo e
colle labbra aperte in atto di ripetere il suo motto prediletto: Da
mihi animas, caetera tolle.
Credo
di non andar errato pensando che anche voi non potete raffigurarvelo
altrimenti che quale perfetto modello di sacerdote, immemore di se
stesso, intento unicamente a procurare la gloria di Dio ed a guidare
un gran numero di anime al cielo. E se noi avessimo vaghezza di
domandargli come abbia fatto a sormontare tante difficoltà, a
passare vittorioso tra gli scogli, a continuare imperturbato il
cammino tracciatogli dalla Provvidenza e fondare la sua Pia Società,
sembra che egli con quella fisionomia bonaria e sempre raggiante di
carità e dolcezza ci risponda colle parole di S. Paolo: nos
autem sensum Christi habemus, quasi
volesse dirci che mai non pensò né operò secondo i dettami del
mondo, e sempre e dovunque si sforzò di riprodurre in se stesso il
divino modello, Gesù Cristo, e così gli venne fatto di compiere la
sua missione.
Né v’era pericolo che egli errasse nella
pratica di questo spirito del Signore, poiché in tutto egli voleva
essere guidato da quella Chiesa che è colonna
e fondamento della verità. Esaminiamo
la sua vita intera, e noi troveremo Don Bosco premuroso anzitutto di
essere sempre ubbidientissimo figlio della Santa Chiesa, disposto ad
ogni sacrificio per propagarne le dottrine e sostenerne i diritti.
Non solo ne osservava le leggi, ma ancora ne preveniva i desideri. Di
qui ne viene che noi suoi figli abbiamo ora la ineffabile
consolazione di vedere sancite dalla infallibile Autorità del Sommo
Pontefice molte cose che tanti anni fa Don Bosco, profondo
conoscitore dei tempi e sicuro interprete dello spirito della Chiesa,
con zelo instancabile c’inculcava. I fatti lo provano».
[18]
Nella stessa
linea, parlando del senso ecclesiale di Don Bosco, don Luigi Ricceri
scriveva: «Il suo concetto pratico di religione, il suo criterio
pastorale di azione, è una visione superpolitica e superculturale
del cristianesimo, concretizzato nella Chiesa che ama vedere fondata
su Pietro e gli Apostoli e sui loro successori, il Papa e i Vescovi:
“Qualunque fatica è poca, diceva,
quando si tratta della Chiesa e del Papato”
(MB V,
577). Era la sua una visione radicata nella certezza della presenza
viva dello Spirito Santo nella Chiesa, nella convinzione che il Papa
è il Vicario di Cristo sulla terra, e nella coscienza (e devozione)
che la Madonna è l’Ausiliatrice dei Cristiani. In coerenza con
tale senso creò iniziative, illuminò decisioni, accettò difficili
compiti, e anche sofferse incomprensioni e ingiustizie».
[19]
E più in
avanti, in quella stessa lettera, don Ricceri stigmatizzava «un
pratico dissenso ecclesiale (come)
atteggiamento di alcuni che prescindono dagli orientamenti del
Magistero, magari con manifestazioni sporadiche e svariate di
contestazione pubblica. La loro condotta praticamente prescinde dal
“dono di illuminazione del ministero” del Papa e dei Vescovi.
Alla radice di simile atteggiamento - da cui Don Bosco era del tutto
alieno - suole trovarsi un sociologismo nell’interpretazione del
mistero della Chiesa, che non salva né la sua istituzione divina, né
la sua distinzione dal mondo. Il “popolo di Dio” in tale
prospettiva diviene semplicemente il popolo, e l’assemblea di base
sostituisce l’iniziativa dello Spirito Santo svuotando le
mediazioni istituzionali. Anche questo atteggiamento appare in aperta
contraddizione con la prassi di Don Bosco, e del tutto estraneo alla
più chiara tradizione salesiana».
[20]
In seguito,
tra i criteri per orientare l’attività salesiana, accanto a quello
di curare il realismo della nostra missione, don Ricceri indica
quello di essere solidali con l’opzione
della Chiesa. «Innanzitutto la Chiesa
ha optato da sempre e in forma definitiva per Cristo, il suo Signore,
come la sposa per lo sposo. Ecco il primato assoluto d’amore e di
verità che illumina tutta la sua missione e guida la sua attività.
Ma sullo sfondo di questa opzione fondamentale ci sono delle scelte
pastorali che la Chiesa formula nelle differenti situazioni storiche.
Di fronte al momento cruciale che il mondo vive, la Chiesa ha fatto
la sua scelta concreta nel Concilio Ecumenico Vaticano II. In tale
scelta “si è rivolta, non deviata”, verso l’uomo d’oggi, lo
ha guardato con gli occhi di Dio, dopo aver considerato se stessa
come un “sacramento” che deve servire alla sua salvezza. Il
Concilio ha voluto una sua presenza utile e liberatrice nella
promozione umana; una presenza, però, che si concretizza in un
impegno di ordine religioso».
[21]
“Dal
nostro amore per Cristo nasce inseparabilmente l’amore per la sua
Chiesa”, dice l’articolo 13 della
Costituzioni dei SDB. Abbiamo ricevuto dal nostro Padre Don Bosco una
particolare sensibilità per quella capacità della Chiesa di
costruire “l’unità e la comunione fra tutte le forze che
lavorano per il Regno”. Lo spirito salesiano ci costituisce come
centri di comunione di molte altre forze e come costruttori e
promotori della Chiesa tra i giovani. Per questo dobbiamo esprimere e
manifestare un singolare amore alla Chiesa mediante una fedeltà
dinamica e responsabile ai suoi insegnamenti, uno sforzo generoso di
comunione e di collaborazione con tutti i suoi membri, e soprattutto
con un impegno incondizionato per aprire la Chiesa ai giovani e i
giovani alla Chiesa, in modo che tutti possano trovare in essa il
volto di Cristo e i tesori della Salvezza.
Forse nessuno come
don Egidio Viganò ha sviluppato nella riflessione e nell’azione
questo “sensus Ecclesiae”. Egli ne ha parlato esplicitamente
presentando la dimensione ecclesiale della devozione a Maria
Ausiliatrice.
[22] Nella lettera su
“L’animazione del direttore salesiano” scrisse: «Il Direttore,
perché prete, deve curare ecclesialmente il significato e gli
orizzonti dell’attività pastorale sua e della comunità; deve
saper vivere e far vivere in sintonia e collaborazione con il Papa,
con i Vescovi e con i sacerdoti; promuovere le relazioni con loro, la
simpatia, l’amicizia, la stima e la collaborazione; non per
diplomazia o per semplice convenienza, ma perché tutto questo
costituisce un aspetto importante del contenuto del suo servizio alla
comunità salesiana».
[23]
Nella lettera
“La nostra fedeltà al successore di Pietro” don Viganò ci dice
che «tra le componenti di una spiritualità giovanile salesiana c’è
appunto un forte “senso di Chiesa” con appositi atteggiamenti da
creare, da sviluppare e da tradurre in esperienza vissuta».
[24] Nella stessa lettera
poi egli li concretizza in alcuni punti particolarmente strategici:
il concetto di Chiesa come “Mistero”, che aiuta a superare
visioni ecclesiologiche minimaliste o devianti; l’immagine del Papa
quale primo e supremo Pastore, contro ogni visione sociologica;
l’inclusione dei contenuti del magistero del Papa nelle nostre
attività di evangelizzazione, contro un’adesione semplicemente
affettiva o sentimentale ma non operativa; l’accoglienza, in vista
del carattere pastorale e pedagogico della vocazione salesiana, delle
direttive morali e dell’insegnamento sociale del Papa, per
contestare il permissivismo e l’egoismo della cultura odierna.
[25]
Come Famiglia
Salesiana, noi lavoriamo con la Chiesa e per la Chiesa; cerchiamo di
“sentire cum Ecclesia”; apparteniamo alla Chiesa; viviamo nella
Chiesa; siamo Chiesa. Potremmo esprimere questo “sensus Ecclesiae”,
che portiamo inscritto nel nostro carisma, con una dossologia
ecclesiologica: “Per la Chiesa, con la
Chiesa, nella Chiesa, a Te Dio Padre
onnipotente, per mezzo del Figlio, nello Spirito ogni onore e gloria,
per tutti i secoli dei secoli. Amen”.
Per
una pedagogia dell’essere Chiesa e vivere con la Chiesa
Dicevo
all’inizio che il nostro compito è quello di far innamorare gli
altri della Chiesa, specialmente i giovani. Questa è una sfida più
che mai importante, appunto perché qua e là si percepisce una
tendenza sempre più grande a vivere un cristianesimo senza Chiesa.
Vi sono cristiani che non hanno rinunciato al rapporto con la Chiesa,
ma che non appartengono e che non si identificano con nessuna
comunità; essi sono simili a coloro che gironzolano per un
supermercato e fra le diverse offerte scelgono quelle che più loro
aggradano.
Sappiamo che l’identificazione con Cristo è
sempre anche un’identificazione con il suo Corpo, con la sua
Chiesa, con coloro che gli appartengono. Questo è un criterio di
verifica di autentica identità cristiana. Ma allo stesso tempo
l’appartenenza alla Chiesa ha senso soltanto come strumento di
appartenenza a Cristo: il nostro sì a lei è espressione del nostro
sì a Lui. Ebbene, secondo il testo citato di Paolo agli Efesini,
questa identificazione si realizza attraverso il battesimo e la vita
sacramentale, si codifica nella professione di fede, si vive
nell’orientamento della vita cristiana, si esprime nella
preghiera.
La domanda cruciale è allora come educare i giovani
ad essere Chiesa e a vivere con la Chiesa. In un mondo sempre più
plurale, secolarizzato, relativista, la formazione dei credenti
richiede una chiara e significativa
testimonianza della comunità cristiana,
in modo che possa offrire ai giovani un’immagine evangelica della
identità della Chiesa e della sua missione nel mondo. Essa domanda
anche un
cammino di fede,
in particolare una solida catechesi, che aiuti a maturare la loro
coscienza, in modo che possano aprirsi a tutto ciò che è umano,
armonizzare le loro scelte con quelle della madre Chiesa, rendere
testimonianza della propria fede, insomma identificarsi con Colui che
si è identificato con noi, sì da essere figli del Padre e fratelli
degli uomini.
Siamo consapevoli che la testimonianza
della comunità ha una forza
notevole di credibilità e di sostegno; si educa alla fede con ciò
che si è e si vive, più che con ciò che si dice e si insegna. Il
cammino di educazione dei giovani alla Chiesa comincia con un impegno
sincero della comunità ecclesiale ad approfondire le sue opzioni
fondamentali, cioè la passione per Dio che la raduna per mezzo di
Cristo nello Spirito, la fraternità tra tutti i battezzati, la
preoccupazione evangelizzatrice, la volontà di servizio alla
società, la priorità verso i più poveri.
Seguendo queste
grandi opzioni la comunità cristiana scopre le vie per convertirsi e
per resistere alle diverse tentazioni di oggi: la tentazione di
piegarsi senza discernimento evangelico ai criteri, valori,
atteggiamenti e comportamenti di una società, che tende ad erigersi
come idolo seducente per i credenti; la tentazione della paura che
sovente ci rinchiude tra le mura della Chiesa, con un atteggiamento
di sfiducia e persino di rivendicazione davanti alla società; la
tentazione dell’individualismo e della passività, della rincorsa
agli onori e al denaro, della paura di essere emarginata con gli
emarginati.
In questo sforzo di conversione la nostra identità
ecclesiale deve essere sempre più trasparente, per divenire
significativi, per rendere visibile e credibile quanto annunciamo.
Perciò le nostre opere di qualsiasi tipo, scuole, centri di
formazione professionale, università, case di accoglienza,
parrocchie, oratori, centri giovanili, città dei ragazzi, devono
avere come primo scopo l’evangelizzazione, l’annuncio della buona
novella della salvezza che Dio vuole dare a tutti nel suo Figlio
Gesù.
La gestione professionale delle opere e la serietà per
portare avanti un programma nelle attività che svolgiamo non deve
oscurare mai il primato che corrisponde all’evangelizzazione.
«Prive di uno zelo struggente per il vero Dio, la teologia e la
pastorale si ridurrebbero a pura tecnica ed attività organizzativa.
Anche la Chiesa deve cacciare sempre dal tempio i mercanti: “Portate
via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di
mercato”(Gv.
2, 16)».
[26]
Non va
dimenticato che le strutture, che sono necessarie per la missione,
corrono sovente il rischio di oscurarla, quando non c’è un’anima
che le faccia splendenti. Mi domando se la crescente difficoltà ad
identificarsi con la Chiesa non sia anche conseguenza del fatto che
essa in alcune parti venga percepita come non seriamente preoccupata
di solidarizzare con i più bisognosi, come non identificata con la
sofferenza del mondo, come troppo chiusa e sicura di se stessa.
Nel
cammino per rendere più significativo il volto della Chiesa, si
devono curare i segni
che la esprimono e la manifestano. Molte persone scoprono e sentono
la Chiesa attraverso i segni che di essa trovano nella vita
quotidiana; tali segni possono suscitare nuovi legami o fortificare
quelli già esistenti, possono congelare o indebolire o rilanciare i
movimenti di avvicinamento alla Chiesa. Per questo è importante che
la comunità cristiana faccia crescere i segni della Chiesa.
Vi
sono alcuni segni privilegiati, che aiutano l’adesione dei giovani
alla Chiesa: il segno dell’accoglienza cordiale ed evangelica, che
manifesti un atteggiamento di apertura gratuita, di ascolto
incondizionato, di volontà sincera di servizio; il segno della
qualità umana e cristiana dei servizi di assistenza, educazione,
cura pastorale; il segno della verità della vita liturgica e della
preghiera della comunità cristiana, che si esprima in una
celebrazione orante, partecipativa, curata, in sintonia con i
problemi e le situazioni della società; il segno dei pastori che
vivano una vita evangelica pervasa dalla passione per Dio, con una
capacità di accoglienza e di sintonia con la gente, soprattutto con
i giovani e i poveri, un servizio gratuito, un impegno sincero per la
comunione. Attraverso questi segni i giovani sono introdotti
all’esperienza di Chiesa ed aiutati ad aprirsi ad essa.
Insieme
alla testimonianza, è urgente promuovere tra i giovani un cammino
di fede che porti ad incontrarsi
personalmente con Cristo, a vivere la vita sacramentale, ad inserirsi
sempre più consapevolmente nella Chiesa, a conoscerla ed amarla, a
impegnarsi in essa e vivere per essa. Una delle aree del cammino di
fede dei giovani riguarda appunto la crescita verso una intensa
appartenenza ecclesiale; anche la spiritualità giovanile salesiana
propone un’esperienza di comunione ecclesiale. Questo è l’impegno
fondamentale della comunità cristiana e in concreto delle nostre
comunità educative; l’attenzione al cammino di fede dei giovani
esprime la maternità della Chiesa, che si prende cura dei suoi figli
e li aiuta a crescere. Questo richiede alcune specifiche scelte.
Far
conoscere la Chiesa
Occorre
aiutare i giovani a superare un’immagine parziale della Chiesa,
spesso vista soltanto nei suoi aspetti istituzionali, come se fosse
una organizzazione sociale e politica simile alle altre, oppure
identificata con la gerarchia, o al contrario ridotta ad una realtà
puramente spirituale, individuale e ideale. Questo richiede
un’accurata catechesi sulla Chiesa secondo le linee offerte dalla
Lumen Gentium
e dalla Gaudium et Spes,
ma anche una introduzione alla vita concreta della Chiesa, facendo
conoscere i suoi progetti, le sue preoccupazioni, le sue migliori
iniziative, persone e comunità significative. Un’informazione
fidata, positiva e continua contribuirebbe certamente a promuovere
una conoscenza più reale e più significativa della Chiesa.
Far
crescere il senso di Chiesa
Si
tratta di sviluppare nei giovani il senso di appartenenza ad essa:
noi apparteniamo alla Chiesa ed essa appartiene a noi. Siamo stati
convocati da Gesù a formare la sua famiglia e a continuare insieme
la sua missione nella storia. Non può esistere una coscienza chiara
della propria identità cristiana senza il senso vivo di appartenenza
alla comunità cristiana. Ciò richiede pure di sviluppare
atteggiamenti di apertura, dialogo e simpatia verso l’uomo, come ha
fatto la Chiesa nel Concilio Vaticano II, che ha cercato di
comprendere le situazioni dell’umanità e di collaborare con tutti
gli uomini e le donne di buona volontà al compito di costruire un
mondo più umano.
Questo si impara e si verifica nella vita
familiare e sociale; la propria famiglia e i propri ambiti di vita
devono essere scuola e laboratorio di comunione. «Essere cristiano
importa un nuovo modo di essere uomo;
esige una conversione, quella proprio richiesta dal Vangelo, da
Cristo… In questa prospettiva l’intervento dell’educatore
cristiano, del pastore di anime, mira alla formazione di una certa
disposizione di spirito, che non è solo conoscenza, ma in cui a
questa si uniscono atteggiamenti che includono l’inclinazione della
volontà, della emotività, della sensibilità, di tutto l’uomo,
verso l’integrazione tra un fatto di esperienza e un punto di
riferimento fisso o abituale; è l’adesione di fede al piano di
amore e di salvezza di Dio in Gesù Cristo».
[27]
Per questo nel
cammino di educazione al senso di Chiesa è importante formare la
coscienza sociale dei giovani attraverso la Dottrina sociale della
Chiesa, sia per imparare a vivere la dimensione sociale e politica
della fede, sia per rendersi più solidali con i problemi che
assillano la vita di tanti uomini e donne nel mondo che vivono in
situazioni inumane, e per generare volontari, apostoli e
missionari.
Far fare
esperienza di Chiesa
Il
senso di Chiesa e di appartenenza non si crea in forma astratta, ma
attraverso l’esperienza della vita cristiana nelle diverse
situazioni della persona, incominciando dalla famiglia, chiamata a
ragione da Paolo VI la Chiesa
domestica,
e continuando nella parrocchia, in cui si realizza normalmente
l’esperienza di comunione di fede, di speranza, di carità. Nel
caso nostro noi facciamo esperienza di Chiesa con i giovani nei
diversi tipi di Comunità Educative Pastorali, che devono essere
segno di fede, scuola di fede, centro di comunione e partecipazione,
“fino a poter diventare una esperienza di Chiesa” (Cost. 47).
Si
tratta allora di irrobustire la propria comunità di fede in tutte le
espressioni educative pastorali, per farle diventare lievito di
trasformazione sociale. È quanto testimoniano i sommari degli Atti
degli Apostoli: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento
degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e
nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni
avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati
credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva
proprietà o sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo
il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il
tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e
semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la stima di tutto il
popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità
quelli che si erano salvati” (At.
2,42-47). A partire dalla vita delle
comunità, si impose una cultura alternativa all’impero romano e un
modello sociale caratterizzato non dall’ansia di possedere,
ammassare ed essere i primi, ma dalla volontà di condividere,
servire ed essere solidali.
Questo richiede anche di
qualificare i momenti della vita ecclesiale, come sono il battesimo,
la catechesi, la partecipazione all’Eucaristia, l’ascolto della
Parola, l’accesso al sacramento della Riconciliazione, gli incontri
di gruppi e di comunità, i ritiri e le celebrazioni dei momenti
forti dell’anno liturgico, i momenti di convivenza e di fraternità,
il contatto con il territorio, ecc. Nulla si deve banalizzare;
tutto può e deve favorire la maturazione del senso ecclesiale.
Far
trovare la vocazione nella Chiesa
Il
cammino di educazione alla fede deve aiutare a passare dalle buone
disposizioni d’animo alle convinzioni salde, da queste alle
motivazioni trainanti, poi ai progetti di vita, quindi alla consegna
totale a Dio e agli altri. Ecco che cosa significa amare la Chiesa e
consegnarsi per essa. L’amore alla Chiesa si manifesta anche in
questa capacità di lasciarsi afferrare da Cristo, al punto di
rinunciare ai propri interessi e progetti e mettersi completamente a
sua disposizione per continuare nella propria persona la sua opera di
costruzione del Regno. L’adesione alla Chiesa, resa possibile dalla
conoscenza della sua realtà, sviluppata da un progressivo senso di
appartenenza ad essa ed accresciuta con concrete esperienze
ecclesiali, matura nell’impegno vocazionale.
«Chi ai nostri
giorni si pone a servizio della Chiesa dovrà essere convinto, fin
nelle più nascoste pieghe della sua esistenza, della possibilità di
mostrare all’uomo, anche in mezzo ad un mondo secolarizzato ed
ateo, le orme di Dio nella storia e nella propria vita. Questo
impegno ad essere testimoni viventi dell’esperienza di Dio nel
nostro mondo deve animare e pervadere i diversi campi di attività e
settori di lavoro pastorale in cui si traduce ogni ministero o
servizio… Oggi più che in passato è vero dunque che Dio
ha bisogno degli uomini».
[28]
Faccio auguri
che tutti noi possiamo amare, seguire ed imitare Gesù con l’ardore,
la convinzione e la fedeltà delle grandi colonne della Chiesa, San
Pietro e San Paolo. Così potremo confessare pubblicamente la nostra
fede e il nostro amore come loro due: “Signore,
tu sai tutto. Tu sai che ti amo” (Gv.
21, 17); “Signore,
da chi andremo? solo tu hai parole di vita eterna”
(Gv. 6, 68); “So a chi ho dato la mia
fiducia” (2 Tim. 1, 12); “Vivo
nella fede nel Figlio di Dio che mi ha amato sino a consegnarsi per
me” (Gal. 2, 20). Allora la nostra
fede si tradurrà in carità operativa e diventerà testimonianza
credibile e convincente.
Auspico che tutti noi possiamo
raggiungere il traguardo cui è arrivata Santa Teresa di Gesù
Bambino: «Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto
me lo hai dato tu, o mio Dio. Nel cuore della Chiesa, mia madre, io
sarò l’amore, e in tal modo sarò tutto e il mio desiderio si
tradurrà in realtà».
[29]
A
mo’ di conclusione: come i colori dell’arcobaleno
Finisco
raccontando una leggenda indigena americana, All
the Colors of the Rainbow, che mi
sembra un appello a mettere insieme quanto di meglio c’è in noi
per creare qualcosa di bello, luminoso, affascinante e, al tempo
stesso, significativo, come può esserlo un arcobaleno.
La
Chiesa è la comunità dei discepoli di Gesù, che ricordano e fanno
presente il suo amore all’uomo e il suo impegno di offrire pienezza
di vita. Per essere credibili ed efficaci, abbiamo però bisogno di
lasciar da parte la nostra autosufficienza e di mettere in comune le
nostre potenzialità e risorse, fino ad essere una Chiesa giovane,
senza macchia né ruga né alcunché di simile, ma bella e
splendente.
«Raccontano che un giorno i colori del mondo
incominciarono a litigare: ognuno di loro pretendeva di essere il
migliore, il più importante, il più utile, il favorito.
Il
Verde
disse:
– “Certamente il più importante sono io, segno di
vita e di speranza. Sono stato scelto per l’erba, gli alberi, le
foglie. Senza di me tutti gli animali morirebbero. Guardate la
campagna: mi vedrete dappertutto”.
L’Azzurro
l’interruppe:
– “Tu pensi soltanto alla terra, ma
considera il cielo e il mare. L’acqua è il fondamento della vita,
le nuvole la portano su dal mare profondo. Il firmamento offre spazio
e pace e serenità. Senza la mia pace, tutti voi non sareste
niente”.
Il Giallo
ridacchiò:
– “Voi siete tutti troppo seri. Io porto la
risata, l’allegria e il calore nel mondo. Il sole è giallo, la
luna è gialla, le stelle sono gialle. Ogni volta che tu guardi un
girasole, il mondo intero incomincia a sorridere. Senza di me non ci
sarebbe la gioia”.
L’Arancione
fece risuonare la sua tromba:
– “Io sono il colore della
salute e della forza. Posso essere scarso, ma sono prezioso perché
servo i bisogni della vita umana. Io porto le vitamine più
importanti. Pensate alle carote, alle zucche, alle arance, ai manghi
e alle papaie. Non sono continuamente in giro, ma quando riempio il
firmamento all’aurora o al tramonto, la mia bellezza è così
impressionante che nessuno fa più caso a voi”.
Il Rosso
non poté trattenersi oltre e gridò:
– “Io sono il capo di
tutti voi. Io sono sangue e la vita è sangue. Sono il colore del
pericolo e del coraggio. Sono disposto a lottare per una causa. Io
porto fuoco nel sangue. Senza di me la terra sarebbe vuota come la
luna. Sono il colore della passione e dell’amore, della rosa rossa,
della poinsezia (la stella di natale) e del papavero”.
Il
Porpora si
tirò su fino alla sua massima altezza. Era veramente alto e parlò
con grande dignità:
– “Io sono il colore della sovranità e
del potere. Re, capi e vescovi hanno scelto sempre me, perché sono
segno di autorità e di sapienza. La gente non mi mette in
discussione, si limita ad ascoltarmi e ad ubbidirmi”.
L’Indaco
parlò, molto più tranquillamente di tutti gli altri, ma con maggior
decisione:
– “Badate a me. Sono il colore del silenzio.
Difficilmente avvertite la mia presenza, però senza di me voi tutti
diventate superficiali. Io rappresento il pensiero e la riflessione,
il crepuscolo e l’acqua profonda. Voi avete bisogno di me per
l’equilibrio e il contrasto, per la preghiera e la pace
profonda”.
E così i colori continuarono a vantarsi, ognuno
convinto della propria superiorità. La discussione si andò facendo
sempre più forte e aspra. All’improvviso ci fu un sorprendente
flash di fulmine brillante e scoppiò un tuono. Poi incominciò a
piovere a dirotto. I colori si accovacciarono pieni di timore,
avvicinandosi l’un l’altro per conforto.
In mezzo al
clamore, la Pioggia iniziò a parlare: “Colori insensati, state lì
a lottare tra voi, ciascuno cercando di dominare sugli altri. Non
sapete che ognuno è stato fatto per uno scopo speciale, unico e
differente? Unite le mani e venite da me”.
Facendo come era
stato detto loro, i colori si unirono e si presero per mano. La
Pioggia continuò: “D’ora innanzi, quando piove, ognuno di voi si
stenderà lungo il firmamento in un grande arco di colore come
memoriale che tutti voi potete vivere in pace. L’arcobaleno
è un segno di speranza per il domani”.
E così, ovunque la
pioggia bagna il mondo e un arcobaleno appare nel firmamento,
ricordiamoci di apprezzare gli altri, di darci la mano, di creare
comunione e di essere un segno di speranza per l’umanità».
[30]
A
Maria, la Madre di Dio, sotto la cui protezione intraprendiamo questo
nuovo anno 2005, affido ognuno e ognuna di voi, carissimi membri
della Famiglia Salesiana, educatori e giovani del mondo. Ella, la
Madre della Chiesa, ci insegni ad essere e a saper formare discepoli
diletti e annunciatori gioiosi del suo Figlio. Ella ci aiuti a
riconoscere la Chiesa come nostra Madre, che sempre ci genera e ci
rigenera nella fede.
Con affetto e riconoscenza, in Don
Bosco.
Don Pascual Chávez V.
1 gennaio 2005
Solennità
di Maria SS. Madre di Dio
e Giornata Mondiale della Pace
[1]
C.M. MARTINI, Perché
la Bibbia è il libro del futuro dell’Europa?,
Cesano Boscone, 9 maggio 2004.
[2]
Cf. J. GALOT, Il
Cristo Rivelatore, fondatore della Chiesa e principio di vita,
in Vaticano II - Bilancio e prospettive,
venticinque anni dopo 1962-1987, a cura
di R. LATOURELLE, Cittadella, Assisi 1987, pp. 343-360.
[3]
Ivi, p. 347.
[4]
O. GONZÁLEZ,
La nuova coscienza della Chiesa,
in La Chiesa del Vaticano II,
Opera collettiva diretta da G. BARAÚNA, Vallecchi, Firenze 1965, pp.
238-239.
[5]
Ivi, p. 240.
[6]
PAOLO VI, Discorso
di apertura del secondo periodo del Concilio,
29 settembre 1963, in Enchiridion
Vaticanum 1, EDB, Bologna, 1993,
nn.143-145.150.153.
[7]
Cf. O. GONZÁLEZ,
La nuova coscienza della Chiesa,
op. cit., p. 241.
[8]
G.B. MONTINI, Discorsi
e scritti milanesi, vol. III:
1954-1963, a cura di G. E. MANZONI, Istituto Paolo VI, Brescia, 1997,
p. 930.
[9]
Cf. Seguir
a Jesucristo en esta Iglesia, Lettera
pastorale dei Vescovi di Pamplona e Tudela, Bilbao, San Sebastián e
Vitoria, Quaresima - Pasqua di Resurrezione 1989, pp.
13-16.
[10]
A. ANTON,
L’Ecclesiologia postconciliare:
speranze, risultati, prospettive, in
Vaticano II - Bilancio e prospettive venticinque anni dopo 1962-1987,
a cura di R. LATOURELLE, Cittadella, Assisi 1987, p. 363.
[11]
Cf. A. ANTON, op. cit., pp. 386ss.
[12]
Gaudium et spes, n. 1.
[13]
Gaudium et spes, n. 2.
[14]
Gaudium et spes, n. 3.
[15]
TERTULLIANO, Apologetico,
18, 4.
[16]
CONFERENZA EPISCOPALE
ITALIANA, Il volto missionario delle
Parrocchie in un mondo che cambia. Nota pastorale,
Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana, Numero 5-6, 1 luglio
2004, p. 140.
[17]
G. BOSCO, Meraviglie
della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice,
Torino 1868, in Opere edite,
vol. XX, Editrice Direzione Generale Opere Don Bosco, Roma, pp.
198-199.
[18]
M. RUA, Lettera
Edificante. Lo spirito di D. Bosco – Vocazioni – Buona Stampa,
14 giugno 1905, dalle Lettere Circolari,
Edizione Direzione Generale Opere Don Bosco, Roma, pp. 384-385
[19]
L. RICCERI, I
Salesiani e la responsabilità politica,
in Lettere Circolari di don Luigi
Ricceri ai Salesiani, Edizione
Direzione Generale Opere Don Bosco, Roma, p. 942.
[20]
Ivi, p. 951.
[21]
Ivi, pp. 951-952.
[22]
E. VIGANÒ, Maria
rinnova la Famiglia salesiana di don Bosco,
ACG 289, Roma 1978.
[23]
E. VIGANÒ, L’animazione
del direttore salesiano, ACG 306, Roma
1982, p. 12.
[24]
E. VIGANÒ, La
nostra fedeltà al Successore di Pietro,
ACG 315, Roma 1985, p. 26.
[25]
Cf. E. VIGANÒ, La
nostra fedeltà al Successore di Pietro,
ACG 315, Roma 1985, pp. 26-30.
[26]
K. LEHMANN, Vale
la pena rimanere nella Chiesa e vivere per essa,
in J. RATZINGER - K. LEHMANN, Vivere
con la Chiesa, Queriniana, Brescia
1978, p.36.
[27]
L. MACARIO, Appartenenti
a Cristo nella Chiesa - Note di pedagogia ecclesiale,
in AA.VV. In Ecclesia,
LAS, Roma, 1977, p. 487.
[28]
K. LEHMANN, Vale
la pena rimanere nella Chiesa e vivere per essa,
in J. RATZINGER - K. LEHMANN, Vivere
con la Chiesa, Queriniana. Brescia
1978, p.33-34.
[29]
Manuscrits
autobiographiques, Lisieux 1957,
229.
[30]
All the Colors of the
Rainbow, Basata su una originale
Leggenda Americana, presentata da Leon
Orb, 2
giugno 2004.