351-400|it|388 Strenna 2005

LETTERA DEL RETTOR MAGGIORE

PASCUAL CHÁVEZ

ACG 388 ‘05


Strenna 2005

Commento del Rettor Maggiore

«
Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, … al fine di farla comparire tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,25.27).
In occasione del 40º anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II,
alla luce della
Lumen Gentium e della Gaudium et Spes, che ci hanno fatto vedere la Chiesa come Mistero, Popolo di Dio, Corpo di Cristo, Madre dei credenti, Serva del mondo,
consapevoli che «è compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia, fare risplendere il volto di Cristo alle generazioni del nuovo millennio» (
NMI 16),
come Famiglia Salesiana ci impegniamo a

Ringiovanire il volto della Chiesa,
che è la Madre della nostra fede.



Ci fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Angelo; o meglio, il cui nome era Giovanni. Sì, Giovanni XXIII, il Papa buono che, sospinto dallo Spirito, un giorno si alzò e volle una nuova primavera per la Chiesa. Con un gesto inatteso, egli non solo ne aprì le finestre, ma ne spalancò le porte, perché vi entrasse lo Spirito. Il Concilio Vaticano II, da lui convocato, è stato come un ciclone che è entrato all’improvviso in un ambiente chiuso e bloccato, un “
vento che si abbatte gagliardo” (At 2, 2), come il giorno di Pentecoste nel Cenacolo.
In occasione del 40º anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II, alla luce della
Lumen Gentium e della Gaudium et Spes, che ci hanno fatto vedere la Chiesa come Mistero, Popolo di Dio, Corpo di Cristo, Madre dei credenti, Serva del mondo, consapevoli che «è compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia e fare risplendere il volto di Cristo alle generazioni del nuovo millennio» (NMI 16). Perciò, rivivendo lo spirito di quell’avvenimento straordinario, ci impegniamo a:

“Ringiovanire il volto della Chiesa,
che è la Madre della nostra fede”.

Ringiovanire la Chiesa: dono e compito

Non potevamo non fare memoria riconoscente di questo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II, che è stato un grande evento dello Spirito, una vera Pentecoste per la Chiesa universale. Già don Egidio Viganò, mio predecessore, aveva ricordato che esso sarebbe stato la nostra carta di navigazione per il terzo millennio. Oggi è nostro compito assumere e far fruttificare il dinamismo venuto dal Concilio, un’autentica folata di aria fresca che ha riempito di Spirito Santo i polmoni della Chiesa, al cui continuo rinnovamento ci impegniamo a collaborare. Le Costituzioni conciliari Lumen Gentium e Gaudium et Spes, arricchite dalla recente riflessione della Novo millennio ineunte, saranno il nostro punto di riferimento.
Diversamente da ciò che è avvenuto con la precedente strenna, quest’anno non ci sarà una
proposta pastorale che la segue. Allora accennavo che tale proposta ci avrebbe accompagnato per alcuni anni; non era infatti realistico pensare di concretizzare in breve tempo gli impegni che vi si prospettavano. Anche quest’anno perciò essa continua ad essere l’orizzonte e il punto di riferimento delle iniziative pastorali, da realizzare nei diversi luoghi dove la Congregazione e la Famiglia Salesiana svolgono il loro servizio alla Chiesa e ai giovani. Questo vale ancora maggiormente per l’impegno circa la santità giovanile, che trova nella proposta pastorale il suo centro e nella strenna attuale un grande stimolo.
Ringiovanire la Chiesa è un dono esaltante ed un impegno esigente; ma che cosa significa ringiovanire? Inizio dalla considerazione negativa di che cosa non significhi. Non si tratta di fare un’operazione di “lifting” o di cosmesi; questo si adatterebbe bene con l’odierna cultura consumistica dell’effimero e dell’immagine, non però con la forza rinnovatrice dello Spirito. Non si tratta neppure di limitarsi ad operare alcuni cambiamenti esterni di convenienza od alcuni ritocchi superficiali di adattamento, necessari per far apparire la Chiesa aggiornata alle mode del tempo e simile alle altre istituzioni sociali. Per renderla bella ed attraente, si tratta di impegnarsi ad innestare in essa energie nuove, proprio come fa lo Spirito Santo; occorre fare ciò che fa il Signore Gesù: amare la Chiesa e spendersi per lei.
Il tema della strenna di quest’anno trova la sua migliore esegesi nell’affermazione della lettera agli Efesini, che dice: “
Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, … al fine di farla comparire tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef. 5, 25-27). Questo testo è bello, coinvolgente e propositivo; è tutto da studiare, contemplare e vivere. Il suo senso fondamentale è evidente: Cristo ama la Chiesa, la purifica, la santifica, la nutre. Il suo è un amore di benevolenza, non di compiacenza. La Chiesa di cui si parla non è una realtà ideale e astratta, ma è la Chiesa storica e concreta. Cristo la trasforma per renderla bella, splendente, vera, santa. Egli si spende per lei, prende l’iniziativa, non si risparmia, al fine di toglierle ogni macchia e ruga.
Questo è il nostro compito: amare la Chiesa fino a dare noi stessi per lei, così come Cristo l’ha amata. La bellezza del volto della Chiesa deve riflettere la bellezza del suo Signore, il Cristo Crocifisso e Risorto. È la bellezza dell’amore, che nella passione ci rivela il Signore Gesù, “il più bello tra i figli dell’uomo” (
Sal. 45, 3), “disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori” (Is. 53, 3), dalle cui “piaghe noi siamo stati guariti” (Is. 53, 5c). È la bellezza dell’amore, che nella risurrezione è capace di far rotolare la pietra che chiude la tomba e di sedersi sopra di essa, con le bende che avvolgevano il crocifisso per terra e il sudario piegato in un luogo a parte, inaugurando così la nuova creazione (Mc. 16, 2; Gv. 20, 6-7). Questa è la bellezza che salverà il mondo e che noi siamo chiamati a far risplendere nella Chiesa. Non è vanità; è la bellezza dell’amore.
Nostro impegno è anche far sì che la Chiesa rassomigli sempre più alla “
nuova Gerusalemme” (cf. Ap. 21, 10-23), che discende dal cielo, adorna come sposa per il suo sposo. Far sì che essa sia una comunità rinnovata dal soffio dello Spirito, che la anima e fa nuove tutte le cose; una comunità arricchita da molteplici carismi e ministeri, che la mantengono viva e dinamica; una comunità aperta e accogliente, soprattutto nei confronti dei poveri, ai quali è inviata e tra i quali diviene credibile e luminosa; una comunità che vive la passione per la vita, la libertà, la giustizia, la pace, la solidarietà, valori a cui oggi è particolarmente sensibile l’umanità; una comunità che è lievito di speranza per una società degna dell’uomo e per una cultura ricca di riferimenti etici e spirituali. Far sì che essa diventi sempre più una Chiesa giovane, nella quale i giovani si trovano a casa, come in famiglia.
La nuova Gerusalemme «è un’immagine che parla di una realtà escatologica, cioè che tocca le cose ultime, che vanno al di là di ciò che l’uomo può compiere con le sue forze. Questa Gerusalemme celeste è un dono di Dio riservato per la fine dei tempi. Ma non è un’utopia. È una realtà che può cominciare ad essere presente fin da ora … In ogni luogo nel quale si cerchi di dire parole e di fare gesti di pace e di riconciliazione, anche provvisori, in ogni forma di convivialità umana che corrisponda ai valori presenti nel Vangelo, c’è una novità, fin da oggi, che dà ragioni di speranza».
[1]
Ringiovanire la Chiesa vuol dire farla tornare alle sue origini e alla sua giovinezza; come le Chiese degli Atti degli Apostoli, delle Lettere di Paolo e dell’Apocalisse, essa vive della forza della Pasqua e della potenza della Pentecoste, realizza la verità di Cristo e la libertà dello Spirito, si ricorda “dell’amore di prima” (cf. Os. 2,9). Una Chiesa che torna alle sue radici apostoliche è coraggiosa nella martyria, cioè nella testimonianza del Signore Gesù e del suo Vangelo, giungendo fino alla consegna della vita. È caratterizzata dalla euangelia, ossia dalla comunicazione del Vangelo a tutti; essa esiste per evangelizzare, come esplicitamente afferma l’Evangelii Nuntiandi, il documento più importante sull’evangelizzazione, che Paolo VI ha promulgato dieci anni dopo la conclusione del Concilio. È convocata dalla leitourgia, poiché la salvezza non è una conquista da ottenere, ma una realtà da celebrare con riconoscenza e da rendere presente ed efficace in ogni tempo e in ogni luogo. È impegnata nella diakonia, di cui la Gaudium et Spes ha tratteggiato in maniera chiara il significato: la Chiesa non è signora, ma serva del mondo.
Ringiovanire la Chiesa è farla diventare casa per i giovani. La Chiesa sarà giovane se ci saranno i giovani, soprattutto adesso che cresce la disaffezione, almeno in alcune parti del mondo, appunto per il volto visibile della Chiesa. Di conseguenza occorre individuare un cammino mistagogico e pedagogico per condurre i giovani alla Chiesa e farli diventare Chiesa. A questo punto ritorna ancora una volta illuminante l’icona dei discepoli di Emmaus, che ci aiuta a intendere la Chiesa come madre e maestra, che si fa compagna di strada di tutti gli uomini e donne che cercano il senso della vita, li apre alla rivelazione di Dio nella Scrittura, illumina la loro mente e riscalda il loro cuore, offre la comunione del Corpo di Cristo, sì da farli diventare comunità. Si tratta di fare della Chiesa la casa di quanti credono in Cristo risorto e vogliono testimoniare la fede in Lui. La strenna è dunque un invito a fare giovane la Chiesa e fare che i giovani siano Chiesa.
Giovanni Paolo II, nel suo messaggio per la V Giornata Mondiale della Gioventù del 1990, tra le altre cose scriveva ai giovani di tutto il mondo: «Prendete il vostro posto nella Chiesa, che non è solo quello di destinatari di cura pastorale, ma soprattutto di protagonisti attivi della sua missione. La Chiesa è vostra, anzi, voi stessi siete la Chiesa». È un invito per i giovani di ogni latitudine e di ogni tempo.

Una testimonianza, un modello, un’icona

Cercando di comprendere che cosa vuol dire la strenna, vorrei proporvi una testimonianza, un modello e un’icona.
Innanzitutto vi presento una
testimonianza, che mi è rimasta viva nella mente e nel cuore. Mi ha fortemente impressionato la testimonianza di don Vecchi durante la malattia, non principalmente perché si trattava del Rettor Maggiore, ma perché essa era segno dell’identificazione di un uomo con la volontà di Dio, nel momento in cui questa forse meno coincideva con la sua. Quando la croce gli si è presentata davanti all’improvviso, senza agenda né calendario, egli ha accolto l’infermità come ciò che meritasse il suo amore. La sua testimonianza esprimeva l’atteggiamento di un vero credente, di uno che molte volte aveva consolato altri provati dalla sofferenza e che, giunto il momento di dare prova della propria fede, ha saputo essere un vero figlio di Abramo, il padre dei credenti.
Dopo l’intervento chirurgico, don Vecchi aveva alimentato la speranza di un totale ricupero, sorretto dalla preghiera dell’intera Famiglia Salesiana che lo affidava all’intercessione di suo zio, il Beato Artemide Zatti. Come buon uomo di governo, aveva tanti piani in mente; ma ha dovuto imparare il significato della parola di Gesù a Pietro: “Quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (
Gv. 21, 18b). Così ha accolto la malattia, come una nuova annunciazione di Dio; e questa lo ha trovato pronto: con l’evoluzione del tumore, egli si accorgeva che il Signore lo stava preparando per l’incontro definitivo.
Mentre ci trovavamo insieme, durante gli esercizi spirituali, egli chiese di celebrare il sacramento dell’unzione degli infermi, preceduto da una confessione con don Brocardo. In quella occasione egli fece la sua professione di fede dinanzi al Consiglio Generale, al direttore della Casa generalizia e ad altri pochi confratelli:
«Rendo grazie a Dio che mi ha dato nella Chiesa una madre. Lei mi ha fatto nascere come figlio di Dio. Lei mi ha aiutato a crescere e maturare attraverso la Parola e i Sacramenti. Lei mi ha fatto scoprire la mia vocazione, il mio ruolo nella Chiesa e nella società. Lei mi accompagna in questo momento della mia vita. Lei mi attende come vera mamma nel cielo». Poi aggiunse: «Adesso affido a voi la Congregazione. Prendetela in mano e portatela avanti».
È la testimonianza di un credente, che ha sperimentato la Chiesa come Madre, ha saputo dare prova della fede e, giunto il momento di affidarsi a Dio, ha detto come Paolo “Io sono persuaso che né morte né vita… né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù” (
Rm. 8, 38-39).
Vi propongo ora un
modello. Quest’estate sono stato ad Annecy, una città per noi ricca di significato, perché ci parla di San Francesco di Sales, il modello a cui Don Bosco ha attinto alcuni tratti spirituali e pastorali. Di lui ricordiamo l’amore alla Chiesa, che lo rese prudente e determinato con i calvinisti, che non gli lasciarono neppure prendere possesso della sua sede episcopale; lo zelo del buon pastore, che offre ai suoi fedeli ristoro nei pascoli del vangelo e cerca le pecore perdute; la rinomata bontà, che egli assunse come metodo pastorale e per la quale divenne noto a tutti, persino ai suoi avversari; l’umanesimo ottimista, che lo faceva convinto della bontà della creazione e delle energie di bene di ogni persona, anche se era consapevole delle ferite del peccato; la convinzione che la santità è a portata di tutti e va vissuta secondo la propria vocazione.
Studiando San Francesco di Sales, scopriamo il suo senso di Chiesa, che scaturisce dal suo ministero pastorale e dalla sua spiritualità. Egli è per noi un esempio da imitare nell’essere Chiesa e nel costruire la Chiesa: deciso nelle sue scelte e nel contempo magnanimo nel suo stile. Egli è il santo patrono, che Don Bosco ha voluto darci come intercessore e modello a cui ispirarci. Per questo nei vari luoghi visitati ho pregato intensamente, chiedendogli la grazia di ottenerci il suo stesso amore per la Chiesa e la sua capacità di vincere i suoi nemici con la fede e la bontà.
Vi offro infine una
icona. Si tratta della cappella Redemptoris Mater, quel capolavoro che si trova nel Palazzo apostolico a Roma e che è l’omaggio fatto dai Cardinali a Giovanni Paolo II, in occasione del giubileo della nascita di Gesù di Nazareth, Salvatore del mondo. Essa in maniera eloquente ci presenta la Chiesa come Madre nello stile dell’arte bizantina, traboccante di colori, di luce e di movimento. Quanto mi piacerebbe che tutti avessero l’opportunità di visitare e di ammirare questa bellissima rappresentazione iconografica della Chiesa Madre.
Tutto in essa diventa dinamismo e splendore. Il cosmo è ricco di senso e di vita, grazie alla realizzazione del disegno salvifico di Dio, dalla creazione del mondo sino alla sua consumazione, quando tutti saremo tutto in Cristo. In essa ci viene presentata la storia della salvezza, così come viene narrata dal cantico della lettera agli Efesini (1, 3-14). L’originalità di questa cappella sta nel fatto che essa è stata concepita come un’icona, che ci parla del disegno di salvezza di Dio e della sua realizzazione nella Chiesa come suo sacramento. Maria, Madre del Redentore, è nostra Madre dall’inizio del mondo in Eva, ai piedi della Croce, alla nascita della Chiesa nel Cenacolo, fino alla fine del mondo come donna gloriosa. Ella è icona della Chiesa nostra Madre.

Chiesa, luce delle genti, mistero e sacramento di salvezza

La Chiesa è chiamata a riflettere lo splendore di Cristo, che è la “luce delle genti”, per illuminare l’umanità, che da una parte è accecata dal bagliore delle proprie conquiste scientifiche e tecnologiche e del proprio potere economico, sino al punto di pensare che può e deve prescindere da Dio, e che dall’altra parte è avvolta nelle tenebre della povertà, dei conflitti sociali, razziali, interetnici, del relativismo e della confusione morale. La Chiesa ha un ruolo imprescindibile da giocare oggi, anche se in condizioni mutate; essa non si trova più, come alcuni ancora pretendono, in quella fase della storia in cui la scienza e la coscienza umana non erano capaci di rispondere a molte questioni e quindi la Chiesa doveva svolgere un ruolo di supplenza; essa ha il compito di illuminare l’umanità con il Vangelo.
Le prime parole della Costituzione dogmatica sulla Chiesa
Lumen Gentium sono significative ed esprimono il suo ruolo odierno: «Essendo Cristo la luce delle genti, questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera con la luce di Lui, splendente sul volto della Chiesa, illuminare tutti gli uomini annunziando il Vangelo ad ogni creatura». Papa Giovanni XXIII aveva parlato della Chiesa come “luce delle genti”; utilizzando questa espressione, il Concilio l’applica a Cristo, che è “la luce delle genti” che splende sul volto della Chiesa. Così esso riprende le parole dell’oracolo di Simeone, attribuite al Salvatore (Lc. 2, 32). [2]
Secondo la dottrina conciliare, l’origine della Chiesa precede la storia, poiché essa esiste già nel disegno primordiale del Padre, che l’ha voluta come
sacramento di salvezza. Il Figlio, che vive da sempre presso Dio, mediante l’incarnazione si è inserito nella storia; così Egli dà anche inizio alla Chiesa nel tempo. Tuttavia è ritornando all’eternità che Egli diventa il principio di vita e di sviluppo della Chiesa; la risurrezione gli permette infatti di effondere lo Spirito Santo, che è l’anima di essa. [3] La Chiesa viene quindi dalla Trinità: “Ecclesia de Trinitate”.
«La struttura della Chiesa poggia su due fondamenti ugualmente essenziali: Cristo e lo Spirito Santo. Cristo è sua origine, fine e limite; lo Spirito è la luce che fa risplendere Cristo ai suoi occhi e la forza che la conduce per suo tramite al Padre. Senza Cristo la Chiesa non
sarebbe quello che è; senza lo Spirito non saprebbe ciò che è». [4] Cristo è il fondamento della Chiesa; lo Spirito è memoria di Cristo e coscienza della Chiesa. Lo Spirito svolge una triplice funzione ecclesiale: Egli è il consolatore durante il tempo dell’assenza fisica di Gesù, alimentando l’attesa della Chiesa che come sposa attende il ritorno del suo sposo; Egli è l’avvocato nella nostra lotta contro il peccato personale e sociale; Egli è il maestro che ci ricorda le parole di Cristo e ci rivela la Sua persona.
La vitalità della Chiesa è proporzionale alla fedeltà con cui essa ascolta e segue la voce dello Spirito. Questi abitando in lei la conduce incessantemente a Cristo, perché, incontrando se stessa in Lui, si rinnovi mediante la contemplazione amorosa della Sua persona, la meditazione attenta delle Sue parole, l’attuazione audace del Suo messaggio. Lo Spirito continua a plasmare la Chiesa, conformandola a Cristo; e la Chiesa si realizza prendendo coscienza di essere fondata su Cristo.
«La prima caratteristica della coscienza della Chiesa è perciò quella di essere
mistero, in quanto ha Dio stesso come contenuto costitutivo e organo vivificante. Lungo i secoli la Chiesa tenterà di immergersi sempre più profondamente in questa sua realtà costitutiva, sapendo di non poterla mai esaurire, anche se si sente sempre più attratta ad essa». [5]
Tale consapevolezza era presente in Paolo VI all’inaugurazione della seconda sessione conciliare: «Donde parte il nostro cammino, quale via intende percorrere e quale meta vorrà proporsi il nostro itinerario? Queste tre domande hanno una sola risposta, che qui in questa ora stessa dobbiamo a Noi stessi proclamare e al mondo annunciare: Cristo! Cristo nostro principio, Cristo nostra via e nostra guida, Cristo nostra speranza e nostro termine …  Mistero è la Chiesa, cioè realtà imbevuta di divina presenza e perciò sempre capace di nuove e più profonde esplorazioni … È la coscienza della Chiesa che si chiarisce nell’adesione fedelissima alle parole e al pensiero di Cristo, nel ricordo riverente dell’insegnamento autorevole della tradizione ecclesiastica e nella docilità all’interiore illuminazione dello Spirito Santo».
[6]
La Chiesa non si ferma a contemplare se stessa; si riferisce sempre a Cristo, dal quale le giunge la vita e del quale sa di dover essere specchio vivente, e allo Spirito, che le dona questa conoscenza e la conduce per mezzo di Cristo al Padre. La sua contemplazione è un cosciente “atto di ringraziamento”, è Eucaristia, a Colui che vive in essa nell’attesa di un’accettazione e di una risposta vitale.
[7] È quanto scrive l’autore della lettera agli Ebrei per incoraggiare la comunità di credenti, impauriti per le difficoltà e tentati alla resa, invitandola a fissare “bene la mente in Gesù, l’apostolo e Sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb. 3, 1), e a “tenere fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Eb. 12, 2a).
Lo affermava lo stesso Cardinale Giovani Battista Montini, quando era Arcivescovo di Milano: «La Chiesa non esiste per essere bellissima e guardarsi nello specchio dicendo: come sono bella io sposa del Signore; la Chiesa esiste
propter nos et propter nostram salutem… Per questo vedrà di aggiornarsi, spogliandosi se occorre di qualche vecchio mantello regale rimasto sulle sue spalle per rivestirsi di più semplici forme reclamate dal gusto moderno». [8] Da qui deriva il compito che in ogni epoca la Chiesa ha di precisare la coscienza che essa ha di se stessa, per scoprire gli aspetti da riformare per la salvezza di tutti.
Quando nel Credo diciamo “Credo la Chiesa”, non vogliamo dire che abbiamo fiducia nella realtà umana della Chiesa, che come tale è limitata e imperfetta, ma che crediamo che Dio si rivela in questa realtà umana, che è santificata dallo Spirito e costituita da Lui “Corpo di Cristo” e strumento di salvezza. Credere la Chiesa è dunque scoprire il suo vero mistero, è credere in Dio che ci rivela quello che la Chiesa è, significa accoglierla come spazio di salvezza e amarla come tale.
[9]

Chiesa, solidale con le gioie e le speranze dell’umanità

La Chiesa vive il suo mistero in ogni epoca storica e si sforza di dare una risposta agli imperativi del momento, alla luce del passato e con lo sguardo rivolto al futuro. Essa sa di essere al servizio del mondo, perché è nata da Cristo, “che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti
(Mc. 10, 45), Il Papa Pio XI diceva: «Non è il mondo per la Chiesa, bensì la Chiesa per il mondo». La Chiesa si deve infatti rapportare al Signore che la chiama, al mondo cui è inviata, al Regno che promuove nel cuore del mondo.
È interessante evidenziare alcuni fattori esterni e interni, che hanno contribuito a determinare l’ecclesiologia del Vaticano II. Mi sembra che essi siano bene riassunti da questa riflessione teologica: «Negli ultimi 25 anni si sono verificate, nella società e nelle Chiese dell’Occidente cristiano, trasformazioni tali da costituire problemi molto seri per la cristianità occidentale nella diffusione del messaggio cristiano. L’espansione economica e scientifica ha seguito un ritmo vertiginoso. Il modello classico di società è entrato in crisi. Con la ribellione del Terzo mondo verso ogni forma di neocolonialismo è stata messa in discussione la superiorità dell’Occidente. All’emancipazione della donna, alla grande diffusione di un nuovo modello di cultura tra i giovani, e agli enormi problemi di ordine economico, demografico ed ecologico non possono essere sorde le Chiese. Al loro interno sono più che mai vive le tendenze verso una maggiore partecipazione di tutti i membri ai due momenti in cui vengono elaborate e prese le decisioni e verso un dialogo reale con le altre Chiese e religioni. L’impegno della Chiesa a favore dell’uomo la obbliga a difenderne i diritti ovunque essi siano violati. Nel continente sudamericano l’episcopato, i teologi e gli uomini di chiesa hanno fatto l’opzione preferenziale per i “poveri”, intesi in un senso più ampio della sola povertà economica. I “poveri” hanno cominciato in questi ultimi anni a partecipare realmente alla vita politica ed ecclesiale dei paesi latino-americani. Da oggetto di evangelizzazione si sono trasformati in evangelizzatori».
[10]
Certamente la situazione politica, sociale, economica, culturale e persino religiosa è cambiata ancora di più in questi ultimi 15 anni, da quando cioè nel 1989 è caduto il muro di Berlino, è finita la guerra fredda, è emersa una nuova egemonia e si è imposta l’economia neoliberale. La situazione ha preso poi un altro volto a partire dal 11 settembre 2001, quando il terrorismo di matrice islamica ha fatto il suo ingresso sul palcoscenico internazionale in forma drammatica; ciò ha portato alcuni a parlare di “scontro di civiltà”, ma nessuno si azzarda per il momento a dire come si evolverà l’attuale conflitto. Tuttavia continua ad essere valido l’approccio della Chiesa alla realtà dell’umanità, considerata come orizzonte e come interlocutrice della sua azione; ancora di più è valida la prospettiva, inaugurata dalla Costituzione pastorale
Gaudium et Spes, di parlare della fede non in astratto, ma a partire dal vissuto umano e dalle vicende storiche.
Vi sono due nuovi atteggiamenti della Chiesa di oggi, presentati dalla
Gaudium et Spes, che evidenziano la sua coscienza di non essere più signora, ma serva del mondo: l’atteggiamento di dialogo e il messaggio di ottimismo.
L’atteggiamento di dialogo nasce dal riconoscimento dell’unione fondamentale tra l’ordine della creazione e quello della redenzione. La Chiesa riconosce pienamente la dignità della natura umana e i diritti dell’uomo, difende i valori autenticamente umani e coopera con tutti gli uomini e le donne di buona volontà alla costruzione di un mondo più umano. Con questo atteggiamento di dialogo la Chiesa partecipa alla ricerca comune di soluzioni ai gravi problemi, che oggi angustiano l’umanità. In questa collaborazione la Chiesa non si propone come obiettivo di sacralizzare, né tanto meno di ecclesializzare la società civile, poiché riconosce l’autonomia che, per volontà del Creatore, ha la realtà temporale. Con la sua azione la Chiesa apporta il dono inestimabile della luce del Vangelo, con cui è capace di pronunciare parole di valore eterno, laddove finisce la sapienza umana.
Oggi la Chiesa sa che il dialogo le è assolutamente necessario, come espressione del suo mistero di comunione e di unità nella diversità, come segno leggibile del suo impegno di creare sinergia con le altre religioni, con le altre chiese cristiane, con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, per collaborare alla costruzione della “civiltà della giustizia, della pace e dell’amore”.
Questo comporta il compito di ripensare il contenuto e lo stile del servizio pastorale. Il suo contenuto è annunciare Gesù Cristo, essere segno della nuova umanità, collaborare alla trasformazione sociale con tutti gli operatori di bene, denunciare quanto attenta alla dignità della persona umana. Il suo stile è quello del rispetto della diversità senza pretesa di voler imporre nulla a nessuno, del dialogo aperto e onesto con tutti, della volontà di servizio senza cedere a compromessi.
Il
messaggio di ottimismo, a sua volta, sembra incarnare il vangelo, così come viene sintetizzato magnificamente da Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia vita eterna” (Gv. 3,16). Amare il mondo. Amare l’umanità. Questo è, in effetti, il messaggio di ottimismo che la Gaudium et Spes ha diffuso nella Chiesa postconciliare e al quale non è rimasta indifferente l’ecclesiologia postconciliare. La Chiesa ha optato per la solidarietà totale con l’umanità e con le sue conquiste, offrendo il senso ultimo che queste hanno nel piano divino del Creatore.
La diffusione di questo messaggio ha costituito l’impegno principale della Chiesa postconciliare a livello universale e soprattutto a livello delle Chiese del Terzo mondo. A tale impegno hanno concordemente partecipato pastori, teologi e semplici fedeli; le tensioni esistenti non hanno mai messo in discussione questa collaborazione fondamentale; al contrario, sono state fonte di nuove energie.
Frutto di questi processi di dialogo e ottimismo è il destarsi di una nuova coscienza ecclesiale nelle grandi masse dei cristiani, che ora si sentono partecipi e, per alcuni aspetti, protagonisti della vita ecclesiale nelle loro comunità. Inoltre il cristiano comincia ad imparare a farsi uomo con gli uomini, senza per questo rinunciare alla sua vocazione divina. Ciò gli impone di armonizzare l’impegno terreno con il suo destino ultraterreno. La sua fede cristiana lo spinge a mettersi al servizio degli uomini e a scorgere nel più diseredato un fratello da aiutare a liberarsi da ogni oppressione e a vivere come figlio di Dio.
[11]
Oggi risulta ancora assai bello ed entusiasmante il
Proemio della Gaudium et Spes, perché conserva tutta la sua freschezza e forza propositiva; non resisto perciò alla tentazione di trascriverlo, anche perché le nuove generazioni forse non lo conoscono e sono meno familiarizzate con esso. Non vi nascondo la gioia e l’entusiasmo per questa visione della Chiesa, che desidero condividere con tutti i membri della Famiglia Salesiana, in modo che sia comunicata ai giovani, perché la amino e si consegnino per essa.

Unione della Chiesa con l’intera famiglia umana

«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini, i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre e hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia». [12]
A chi si rivolge il Concilio
«Per questo, il Concilio Vaticano II, avendo penetrato più a fondo il mistero della Chiesa, passa ora senza esitazione a rivolgere la sua parola non ai soli figli della Chiesa, né solamente a tutti coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti indistintamente gli uomini, desiderando di esporre loro come esso intende la presenza e l’azione della Chiesa nel mondo contemporaneo.
Esso ha presente perciò il mondo degli uomini, ossia l’intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive; il mondo, che è teatro della storia del genere umano e reca i segni dei suoi sforzi, delle sue sconfitte e delle sue vittorie; il mondo che i cristiani credono creato e conservato nell’esistenza dall’amore del Creatore, mondo certamente posto sotto la schiavitù del peccato, ma dal Cristo crocifisso e risorto, con la sconfitta del maligno, liberato e destinato, secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere al suo compimento».
[13]
A servizio dell’uomo
«Ai nostri giorni, l’umanità scossa da ammirazione per le sue scoperte e la sua potenza, agita però spesso ansiose questioni sull’attuale evoluzione del mondo, sul posto e sul compito dell’uomo nell’universo, sul senso dei propri sforzi individuali e collettivi, ed ancora sul fine ultimo delle cose e degli uomini. Per questo il Concilio, testimoniando e proponendo la fede di tutto intero il popolo di Dio, riunito da Cristo, non può dare dimostrazione più eloquente della solidarietà, del rispetto e dell’amore di esso nei riguardi della intera famiglia umana, dentro la quale è inserito, che instaurando con questa un dialogo sui vari problemi sopra accennati, arrecando la luce che viene dal vangelo e mettendo a disposizione degli uomini le energie di salvezza che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, riceve dal suo Fondatore. Si tratta di salvare la persona umana, si tratta di edificare l’umana società. È l’uomo dunque, ma l’uomo singolo integrale, nell’unità di corpo ed anima, di cuore e coscienza, di intelletto e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione.
Pertanto il santo sinodo, proclamando la grandezza somma della vocazione dell’uomo e affermando la presenza in lui di un germe divino, offre all’umanità la cooperazione sincera della Chiesa al fine di stabilire quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione. Non è mossa la Chiesa da alcuna ambizione terrena; essa mira a questo solo: a continuare sotto la guida dello Spirito Paraclito l’opera stessa di Cristo, che è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito».
[14]
Ecco, miei cari, perché è tanto preziosa la presenza della Chiesa nel mondo. È luce che aiuta a trovare il disegno di Dio sull’umanità e guida l’intelligenza verso soluzioni pienamente umane. È lievito che collabora alla trasformazione profonda dell’umanità, innestando in essa energie di bene. È forza solidale nel compito di edificazione della società attuale. Se è vero che la Chiesa ha bisogno dell’umanità, di cui fa parte e di cui condivide gioie e speranze, angosce e sofferenze, è ugualmente certo che l’umanità ha bisogno della Chiesa, chiamata ad essere in essa “sale della terra”, “luce del mondo”, “città sul monte”.
La Chiesa esiste per essere segno del Regno di Dio. Per rendere visibile e credibile questo segno, la Chiesa si deve rinnovare e convertire, ringiovanire e purificare. Per questo essa deve approfondire le sue scelte fondamentali: la passione per Dio, che la liberi da qualsiasi conformazione al mondo nei suoi criteri, valori, atteggiamenti, comportamenti; la fraternità e comunione ecclesiale, in modo che essa possa diventare punto di riferimento per il mondo ed essere attraente e convincente; lo slancio missionario, che l’aiuti a vincere la paura o timidezza dei discepoli radunati a porte chiuse nel Cenacolo, e la porti ad annunciare il Vangelo a tutti; l’impegno di servire, sviluppando simpatia e solidarietà verso tutti; la scelta per i poveri, che sono il suo marchio di identità, qualità, fecondità.

Verso una immagine giovane di Chiesa

Specialmente agli
Atti degli Apostoli, che ci presentano l’origine della Chiesa, possiamo attingere ispirazione, volontà e dinamismo, per impegnarci nel compito inderogabile di ringiovanire la Chiesa. Come accennavo all’inizio di questa riflessione, negli Atti sono presenti i tratti specifici e costanti di una Chiesa, che vuole mantenersi fedele al suo Signore ed essere feconda nei confronti del mondo.
Una Chiesa martiriale
Innanzitutto la Chiesa manifesta una natura “martiriale”, cioè sa dare ragione della sua fede, perché è chiamata ad essere testimone del Signore Crocifisso e Risorto. Per questo spesso la Chiesa è una realtà
controculturale, nel senso che è portatrice di un Vangelo che non si addice alla mentalità del mondo. In questo suo carattere paradossale, che appare molto chiaro nel discorso della montagna del vangelo di Matteo e nel discorso della pianura del vangelo di Luca, risiede appunto la sua forza profetica e la sua significatività.
Certo, il coraggio di opporsi alla mentalità comune, di denunciare modi di agire affermati ma non per questo meno ingiusti, comporta la solitudine, il rifiuto, in certi casi la persecuzione e persino la morte, come difatti sperimentano tanti fratelli e sorelle in diverse parti del mondo. Stando a quanto dice Gesù nel discorso della montagna, in particolare nelle Beatitudini, si potrebbe dire che quando i credenti non sono in qualche modo perseguitati, disprezzati, emarginati, devono interrogarsi se non siano venuti meno al loro compito profetico. Chi è complice dei peccati del mondo d’oggi, chi non crea fastidio, chi non mette in crisi, chi non denuncia i problemi drammatici che ci affliggono e di cui nessuno vuol parlare, rischia di tradire il Vangelo.
Una fede autentica invece è sempre accompagnata dal martirio, dalla testimonianza vissuta nella quotidianità, nell’adempimento dei propri doveri, nell’impegno ecclesiale e sociale. Non va dimenticato che i martiri, di ieri e di oggi, quelli canonizzati e quelli non ufficialmente riconosciuti, non sono soltanto la gloria della Chiesa, ma anche un punto di riferimento per tutti i credenti, chiamati a rendere testimonianza della propria fede in qualsiasi circostanza della vita.
Una Chiesa liturgica
In secondo luogo, la Chiesa è una comunità “liturgica”, che celebra la sua fede, fa crescere nuovi figli attraverso l’iniziazione cristiana, porta il credente alla piena configurazione a Cristo. La liturgia è una vera scuola di santità, perché trasforma l’esistenza personale e comunitaria in preghiera. Anche se la disaffezione nei confronti della Chiesa sembra spesso avere origine dalla mancanza di fascino di tante liturgie, non si può cancellare né il valore né il bisogno di un’autentica vita celebrativa. Questo, oltre alla necessità di una catechesi liturgica che ci introduca nei misteri e ci aiuti a maturare nella fede, implica di curare la qualità delle celebrazioni, in modo che siano semplici e belle, dignitose e feconde.
Nel celebrare dobbiamo recuperare il senso del gratuito e del mistero, le ragioni per la festa, la dimensione comunitaria. Siamo invitati a dare alla liturgia il luogo che le corrisponde come “fonte e culmine della vita cristiana” (
SC 10). Qui mi vorrei riferire in particolare all’Eucaristia, sacramento supremo dell’amore di Cristo e della unione con Lui. Nell’Eucaristia ciascuno riceve Cristo e Cristo riceve ciascuno. Non possiamo dimenticare che, come diceva De Lubac, «la Chiesa fa l’Eucaristia, e l’Eucaristia fa la Chiesa».
Ciò conferisce all’
Eucaristia domenicale un’importanza capitale: essa è un incontro, che irrobustisce la nostra coscienza di saperci membri di un popolo che cammina per il mondo con lo sguardo fisso nel cielo. Partecipare alla celebrazione domenicale significa assumere la vita di tutta la settimana per farla diventare offerta a Dio e testimoniare nella società che per noi Dio è Dio e che Gesù Cristo è vivo, operante nella nostra comunità. La fedeltà al mandato “Fate questo in memoria di me” (Lc. 22, 19) si riferisce all’atto liturgico, ma anche al compito di attualizzarlo e prolungarlo nella consegna della propria vita per la salvezza del mondo.
Dobbiamo imparare a vivere
la domenica come giorno della Chiesa, giorno dell’uomo, giorno del Signore. È particolarmente suggestivo il prefazio X delle domeniche del tempo ordinario, che presenta questo giorno come anticipo della “domenica senza fine”, quando l’uomo si vedrà definitivamente libero da ogni lavoro, fatica, lacrima, dalla morte stessa e avrà pace, amore, vita senza fine.
Da ottobre 2004 ad ottobre 2005 Giovanni Paolo II ha indetto l’
Anno dell’Eucaristia, nel quadro di un progetto pastorale additato nella Novo millennio ineunte, in cui invitava ogni cristiano a «ripartire da Cristo», a impegnarsi in una «misura alta della vita cristiana» ed a esercitarsi nell’«arte della preghiera». Per noi risulta importante vivere quest’anno in sintonia con tutta la Chiesa. L’Eucaristia «è il luogo privilegiato dove la comunione è costantemente annunciata e coltivata. Proprio attraverso la partecipazione eucaristica, il giorno del Signore diventa anche il giorno della Chiesa, che può svolgere così in modo efficace il suo ruolo di sacramento di unità» (NMI 36).
Una Chiesa evangelizzatrice
Il terzo elemento caratteristico della Chiesa riguarda la sua forza evangelizzatrice e la capacità di annunciare Cristo e il suo Vangelo. Tertulliano diceva che «
Cristiani non si nasce, si diventa». [15] Questa «è un’affermazione particolarmente attuale, perché oggi siamo in mezzo a pervasivi processi di scristianizzazione, che generano indifferenza e agnosticismo. I consueti percorsi di trasmissione della fede risultano in non pochi casi impraticabili. Non si può dare per scontato che si sappia chi è Gesù Cristo, che si conosca il Vangelo, che si abbia una qualche esperienza di Chiesa. Vale per fanciulli, ragazzi, giovani e adulti; vale per la nostra gente e, ovviamente, per tanti immigrati, provenienti da altre culture e religioni. C’è quindi bisogno di un rinnovato primo annuncio della fede». [16]
Non va dimenticato che aumenta, almeno in Europa, il numero di famiglie che non chiedono più il Battesimo per i loro bambini, il numero di ragazzi battezzati che non accedono più agli altri Sacramenti, il numero di coloro che dopo aver ricevuto il sacramento della Confermazione lasciano di frequentare la Chiesa.
Torna così più pressante l’appello ad evangelizzare seriamente. Questo oggi si realizza attraverso un’accoglienza cordiale e gratuita che dispone positivamente le persone alla evangelizzazione, con l’annuncio esplicito di Cristo come Salvatore del mondo, l’ascolto della parola di Dio, e l’accompagnamento personale che facilita la maturazione delle persone “finché non sia formato Cristo in esse” (
Gal. 4, 19).
Lo scopo è di formare discepoli innamorati di Cristo e imitatori fedeli del Signore Gesù, che sanno che la loro vocazione consiste nell’essere
“sale della terra”, “luce del mondo”, “città sul monte”, insomma uomini e donne che fanno del Vangelo il loro programma di vita e che sono consapevoli della responsabilità che hanno “davanti agli uomini”. Per Gesù il discepolo è tanto necessario al mondo, quanto lo è il sale per conservare i cibi o la luce per vedere. Esiste il pericolo che il discepolo rinneghi la sua fede. In questo caso il detto di Gesù sul sale manifesta tutta la sua forza, che potremmo così esprimere: “Voi siete miei discepoli; ma se il discepolo perde la sua caratteristica di discepolo, chi gliela potrà ridare? Non serve più a nulla per il mondo. È come un oggetto che si può buttare via, perché sia calpestato e disprezzato dagli uomini”.
Una Chiesa diaconale
Infine la Chiesa ha una caratteristica “diaconale”; essa sa che la sua missione è servire il popolo di Dio e il mondo. Questo compito non è esclusivo del Papa, dei vescovi, preti, religiosi o laici impegnati, ma di tutti i battezzati che, in ragione del loro Battesimo, condividono la missione del loro Signore e Maestro. Ciò richiede di imparare a servire, essere attenti ai bisogni degli altri, fare sempre il primo passo per andare incontro, assumere impegni generosi, diventare apostoli.
I cristiani sono chiamati ad aiutare gli uomini a vincere la disillusione e l’apatia, gioire delle realtà belle della vita, attivare la capacità di sognare un futuro a misura d’uomo, inventare nuovi rapporti tra persone e tra Stati, rispettare la natura, porre fine per sempre alla guerra. Forse anche tra i credenti si annida lo scetticismo di chi non crede che un mondo alternativo all’attuale sia possibile. La Chiesa non può deludere le attese e le aspirazioni legittime, specialmente quelle più profonde, delle popolazioni benestanti o impoverite, affamate o sazie, dell’Occidente o dell’Oriente, del Nord o del Sud.
Una Chiesa diaconale è solidale con i più poveri, con coloro che non hanno nessun altro difensore che prenda in mano la loro causa, se non Dio. Quando la speranza anima la vita di chi è povero, Dio e l’uomo si sono già incontrati, perché solo con l’aiuto di Dio il povero può sperare là dove non c’è futuro. La speranza dei poveri è già fede che vive. Di questo anche i profeti d’oggi sono consapevoli. Il loro compito è di riconoscere la fede dei poveri e testimoniare il vangelo dell’assoluta solidarietà di Dio con loro.

Senso ecclesiale in Don Bosco e nella tradizione salesiana

Don Bosco ha saputo vivere la fedeltà al Signore Gesù, mentre sperimentava quotidianamente la dolorosa realtà ecclesiale del suo tempo. Il suo senso vivo di Chiesa fu principalmente un atteggiamento e un’esperienza di collaborazione con tutte le energie e risorse al suo bene. Don Bosco esprimeva il suo amore alla Chiesa attraverso un trinomio semplice, ma profondo: amore verso Gesù Cristo, presente principalmente nell’Eucaristia che è l’azione centrale della Chiesa; devozione a Maria, Madre e Modello della Chiesa; fedeltà al Papa, Successore di Pietro e centro di unità della Chiesa.
Si tratta di tre elementi inseparabili tra loro, che si illuminano mutamente e trovano la loro convergenza nella persona di Cristo. Il sogno di Don Bosco, chiamato “delle due colonne”, è una esemplificazione immediata e suggestiva di queste forze dinamiche, dei tre “amori” di Don Bosco, che edificano la Chiesa: Eucaristia, Maria, Pietro. La Chiesa di Don Bosco ha una forma eucaristica, una figura mariana, un fondamento petrino.
Questo “sensus Ecclesiae” si presenta in modo ammirevole nella fusione che Don Bosco fece dei titoli di “Ausiliatrice” e di “Madre della Chiesa”.
[17] È interessante constatare come Don Bosco avesse capito molto bene che il rinnovamento della Chiesa doveva passare attraverso una matura pietà mariana, convinto che si perde il senso della Chiesa Madre là dove si perde il senso della vocazione materna di Maria. Questo ci fa intravedere lo stretto rapporto che esiste tra la Chiesa Madre e l’evangelizzazione, tra Maria, la Chiesa e l’azione apostolica. Ciò significa che il “senso della Chiesa” deve tradursi quotidianamente in un profondo senso di appartenenza e in un impegno responsabile come credente.
Nella
Lettera Edificante, scritta al ritorno da Roma il 14 giugno 1905, parlando di Don Bosco modello di attaccamento alla Chiesa, don Rua scrisse: «Quanti conobbero Don Bosco durante la sua carriera mortale o ne lessero la vita meravigliosa, mentre ne ebbero ad ammirare le virtù straordinarie, avranno senza dubbio dovuto convincersi che egli non viveva che per Dio, che in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni benché minima azione era guidato dallo spirito del Signore. Per noi suoi figliuoli pare quasi impossibile rappresentarci Don Bosco se non col volto acceso di santo zelo e colle labbra aperte in atto di ripetere il suo motto prediletto: Da mihi animas, caetera tolle.
Credo di non andar errato pensando che anche voi non potete raffigurarvelo altrimenti che quale perfetto modello di sacerdote, immemore di se stesso, intento unicamente a procurare la gloria di Dio ed a guidare un gran numero di anime al cielo. E se noi avessimo vaghezza di domandargli come abbia fatto a sormontare tante difficoltà, a passare vittorioso tra gli scogli, a continuare imperturbato il cammino tracciatogli dalla Provvidenza e fondare la sua Pia Società, sembra che egli con quella fisionomia bonaria e sempre raggiante di carità e dolcezza ci risponda colle parole di S. Paolo:
nos autem sensum Christi habemus, quasi volesse dirci che mai non pensò né operò secondo i dettami del mondo, e sempre e dovunque si sforzò di riprodurre in se stesso il divino modello, Gesù Cristo, e così gli venne fatto di compiere la sua missione.
Né v’era pericolo che egli errasse nella pratica di questo spirito del Signore, poiché in tutto egli voleva essere guidato da quella Chiesa che è
colonna e fondamento della verità. Esaminiamo la sua vita intera, e noi troveremo Don Bosco premuroso anzitutto di essere sempre ubbidientissimo figlio della Santa Chiesa, disposto ad ogni sacrificio per propagarne le dottrine e sostenerne i diritti. Non solo ne osservava le leggi, ma ancora ne preveniva i desideri. Di qui ne viene che noi suoi figli abbiamo ora la ineffabile consolazione di vedere sancite dalla infallibile Autorità del Sommo Pontefice molte cose che tanti anni fa Don Bosco, profondo conoscitore dei tempi e sicuro interprete dello spirito della Chiesa, con zelo instancabile c’inculcava. I fatti lo provano». [18]
Nella stessa linea, parlando del senso ecclesiale di Don Bosco, don Luigi Ricceri scriveva: «Il suo concetto pratico di religione, il suo criterio pastorale di azione, è una visione superpolitica e superculturale del cristianesimo, concretizzato nella Chiesa che ama vedere fondata su Pietro e gli Apostoli e sui loro successori, il Papa e i Vescovi: “
Qualunque fatica è poca, diceva, quando si tratta della Chiesa e del Papato” (MB V, 577). Era la sua una visione radicata nella certezza della presenza viva dello Spirito Santo nella Chiesa, nella convinzione che il Papa è il Vicario di Cristo sulla terra, e nella coscienza (e devozione) che la Madonna è l’Ausiliatrice dei Cristiani. In coerenza con tale senso creò iniziative, illuminò decisioni, accettò difficili compiti, e anche sofferse incomprensioni e ingiustizie». [19]
E più in avanti, in quella stessa lettera, don Ricceri stigmatizzava «
un pratico dissenso ecclesiale (come) atteggiamento di alcuni che prescindono dagli orientamenti del Magistero, magari con manifestazioni sporadiche e svariate di contestazione pubblica. La loro condotta praticamente prescinde dal “dono di illuminazione del ministero” del Papa e dei Vescovi. Alla radice di simile atteggiamento - da cui Don Bosco era del tutto alieno - suole trovarsi un sociologismo nell’interpretazione del mistero della Chiesa, che non salva né la sua istituzione divina, né la sua distinzione dal mondo. Il “popolo di Dio” in tale prospettiva diviene semplicemente il popolo, e l’assemblea di base sostituisce l’iniziativa dello Spirito Santo svuotando le mediazioni istituzionali. Anche questo atteggiamento appare in aperta contraddizione con la prassi di Don Bosco, e del tutto estraneo alla più chiara tradizione salesiana». [20]
In seguito, tra i criteri per orientare l’attività salesiana, accanto a quello di curare il realismo della nostra missione, don Ricceri indica quello di essere
solidali con l’opzione della Chiesa. «Innanzitutto la Chiesa ha optato da sempre e in forma definitiva per Cristo, il suo Signore, come la sposa per lo sposo. Ecco il primato assoluto d’amore e di verità che illumina tutta la sua missione e guida la sua attività. Ma sullo sfondo di questa opzione fondamentale ci sono delle scelte pastorali che la Chiesa formula nelle differenti situazioni storiche. Di fronte al momento cruciale che il mondo vive, la Chiesa ha fatto la sua scelta concreta nel Concilio Ecumenico Vaticano II. In tale scelta “si è rivolta, non deviata”, verso l’uomo d’oggi, lo ha guardato con gli occhi di Dio, dopo aver considerato se stessa come un “sacramento” che deve servire alla sua salvezza. Il Concilio ha voluto una sua presenza utile e liberatrice nella promozione umana; una presenza, però, che si concretizza in un impegno di ordine religioso». [21]
Dal nostro amore per Cristo nasce inseparabilmente l’amore per la sua Chiesa”, dice l’articolo 13 della Costituzioni dei SDB. Abbiamo ricevuto dal nostro Padre Don Bosco una particolare sensibilità per quella capacità della Chiesa di costruire “l’unità e la comunione fra tutte le forze che lavorano per il Regno”. Lo spirito salesiano ci costituisce come centri di comunione di molte altre forze e come costruttori e promotori della Chiesa tra i giovani. Per questo dobbiamo esprimere e manifestare un singolare amore alla Chiesa mediante una fedeltà dinamica e responsabile ai suoi insegnamenti, uno sforzo generoso di comunione e di collaborazione con tutti i suoi membri, e soprattutto con un impegno incondizionato per aprire la Chiesa ai giovani e i giovani alla Chiesa, in modo che tutti possano trovare in essa il volto di Cristo e i tesori della Salvezza.
Forse nessuno come don Egidio Viganò ha sviluppato nella riflessione e nell’azione questo “sensus Ecclesiae”. Egli ne ha parlato esplicitamente presentando la dimensione ecclesiale della devozione a Maria Ausiliatrice.
[22] Nella lettera su “L’animazione del direttore salesiano” scrisse: «Il Direttore, perché prete, deve curare ecclesialmente il significato e gli orizzonti dell’attività pastorale sua e della comunità; deve saper vivere e far vivere in sintonia e collaborazione con il Papa, con i Vescovi e con i sacerdoti; promuovere le relazioni con loro, la simpatia, l’amicizia, la stima e la collaborazione; non per diplomazia o per semplice convenienza, ma perché tutto questo costituisce un aspetto importante del contenuto del suo servizio alla comunità salesiana». [23]
Nella lettera “La nostra fedeltà al successore di Pietro” don Viganò ci dice che «tra le componenti di una spiritualità giovanile salesiana c’è appunto un forte “senso di Chiesa” con appositi atteggiamenti da creare, da sviluppare e da tradurre in esperienza vissuta».
[24] Nella stessa lettera poi egli li concretizza in alcuni punti particolarmente strategici: il concetto di Chiesa come “Mistero”, che aiuta a superare visioni ecclesiologiche minimaliste o devianti; l’immagine del Papa quale primo e supremo Pastore, contro ogni visione sociologica; l’inclusione dei contenuti del magistero del Papa nelle nostre attività di evangelizzazione, contro un’adesione semplicemente affettiva o sentimentale ma non operativa; l’accoglienza, in vista del carattere pastorale e pedagogico della vocazione salesiana, delle direttive morali e dell’insegnamento sociale del Papa, per contestare il permissivismo e l’egoismo della cultura odierna. [25]
Come Famiglia Salesiana, noi lavoriamo con la Chiesa e per la Chiesa; cerchiamo di “sentire cum Ecclesia”; apparteniamo alla Chiesa; viviamo nella Chiesa; siamo Chiesa. Potremmo esprimere questo “sensus Ecclesiae”, che portiamo inscritto nel nostro carisma, con una dossologia ecclesiologica: “
Per la Chiesa, con la Chiesa, nella Chiesa, a Te Dio Padre onnipotente, per mezzo del Figlio, nello Spirito ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen”.

Per una pedagogia dell’essere Chiesa e vivere con la Chiesa

Dicevo all’inizio che il nostro compito è quello di far innamorare gli altri della Chiesa, specialmente i giovani. Questa è una sfida più che mai importante, appunto perché qua e là si percepisce una tendenza sempre più grande a vivere un cristianesimo senza Chiesa. Vi sono cristiani che non hanno rinunciato al rapporto con la Chiesa, ma che non appartengono e che non si identificano con nessuna comunità; essi sono simili a coloro che gironzolano per un supermercato e fra le diverse offerte scelgono quelle che più loro aggradano.
Sappiamo che l’identificazione con Cristo è sempre anche un’identificazione con il suo Corpo, con la sua Chiesa, con coloro che gli appartengono. Questo è un criterio di verifica di autentica identità cristiana. Ma allo stesso tempo l’appartenenza alla Chiesa ha senso soltanto come strumento di appartenenza a Cristo: il nostro sì a lei è espressione del nostro sì a Lui. Ebbene, secondo il testo citato di Paolo agli Efesini, questa identificazione si realizza attraverso il battesimo e la vita sacramentale, si codifica nella professione di fede, si vive nell’orientamento della vita cristiana, si esprime nella preghiera.
La domanda cruciale è allora come educare i giovani ad essere Chiesa e a vivere con la Chiesa. In un mondo sempre più plurale, secolarizzato, relativista, la formazione dei credenti richiede una chiara e
significativa testimonianza della comunità cristiana, in modo che possa offrire ai giovani un’immagine evangelica della identità della Chiesa e della sua missione nel mondo. Essa domanda anche un cammino di fede, in particolare una solida catechesi, che aiuti a maturare la loro coscienza, in modo che possano aprirsi a tutto ciò che è umano, armonizzare le loro scelte con quelle della madre Chiesa, rendere testimonianza della propria fede, insomma identificarsi con Colui che si è identificato con noi, sì da essere figli del Padre e fratelli degli uomini.
Siamo consapevoli che la
testimonianza della comunità ha una forza notevole di credibilità e di sostegno; si educa alla fede con ciò che si è e si vive, più che con ciò che si dice e si insegna. Il cammino di educazione dei giovani alla Chiesa comincia con un impegno sincero della comunità ecclesiale ad approfondire le sue opzioni fondamentali, cioè la passione per Dio che la raduna per mezzo di Cristo nello Spirito, la fraternità tra tutti i battezzati, la preoccupazione evangelizzatrice, la volontà di servizio alla società, la priorità verso i più poveri.
Seguendo queste grandi opzioni la comunità cristiana scopre le vie per convertirsi e per resistere alle diverse tentazioni di oggi: la tentazione di piegarsi senza discernimento evangelico ai criteri, valori, atteggiamenti e comportamenti di una società, che tende ad erigersi come idolo seducente per i credenti; la tentazione della paura che sovente ci rinchiude tra le mura della Chiesa, con un atteggiamento di sfiducia e persino di rivendicazione davanti alla società; la tentazione dell’individualismo e della passività, della rincorsa agli onori e al denaro, della paura di essere emarginata con gli emarginati.
In questo sforzo di conversione la nostra identità ecclesiale deve essere sempre più trasparente, per divenire significativi, per rendere visibile e credibile quanto annunciamo. Perciò le nostre opere di qualsiasi tipo, scuole, centri di formazione professionale, università, case di accoglienza, parrocchie, oratori, centri giovanili, città dei ragazzi, devono avere come primo scopo l’evangelizzazione, l’annuncio della buona novella della salvezza che Dio vuole dare a tutti nel suo Figlio Gesù.
La gestione professionale delle opere e la serietà per portare avanti un programma nelle attività che svolgiamo non deve oscurare mai il primato che corrisponde all’evangelizzazione. «Prive di uno zelo struggente per il vero Dio, la teologia e la pastorale si ridurrebbero a pura tecnica ed attività organizzativa. Anche la Chiesa deve cacciare sempre dal tempio i mercanti: “
Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”(Gv. 2, 16)». [26]
Non va dimenticato che le strutture, che sono necessarie per la missione, corrono sovente il rischio di oscurarla, quando non c’è un’anima che le faccia splendenti. Mi domando se la crescente difficoltà ad identificarsi con la Chiesa non sia anche conseguenza del fatto che essa in alcune parti venga percepita come non seriamente preoccupata di solidarizzare con i più bisognosi, come non identificata con la sofferenza del mondo, come troppo chiusa e sicura di se stessa.
Nel cammino per rendere più significativo il volto della Chiesa, si devono curare i
segni che la esprimono e la manifestano. Molte persone scoprono e sentono la Chiesa attraverso i segni che di essa trovano nella vita quotidiana; tali segni possono suscitare nuovi legami o fortificare quelli già esistenti, possono congelare o indebolire o rilanciare i movimenti di avvicinamento alla Chiesa. Per questo è importante che la comunità cristiana faccia crescere i segni della Chiesa.
Vi sono alcuni segni privilegiati, che aiutano l’adesione dei giovani alla Chiesa: il segno dell’accoglienza cordiale ed evangelica, che manifesti un atteggiamento di apertura gratuita, di ascolto incondizionato, di volontà sincera di servizio; il segno della qualità umana e cristiana dei servizi di assistenza, educazione, cura pastorale; il segno della verità della vita liturgica e della preghiera della comunità cristiana, che si esprima in una celebrazione orante, partecipativa, curata, in sintonia con i problemi e le situazioni della società; il segno dei pastori che vivano una vita evangelica pervasa dalla passione per Dio, con una capacità di accoglienza e di sintonia con la gente, soprattutto con i giovani e i poveri, un servizio gratuito, un impegno sincero per la comunione. Attraverso questi segni i giovani sono introdotti all’esperienza di Chiesa ed aiutati ad aprirsi ad essa.
Insieme alla testimonianza, è urgente promuovere tra i giovani un
cammino di fede che porti ad incontrarsi personalmente con Cristo, a vivere la vita sacramentale, ad inserirsi sempre più consapevolmente nella Chiesa, a conoscerla ed amarla, a impegnarsi in essa e vivere per essa. Una delle aree del cammino di fede dei giovani riguarda appunto la crescita verso una intensa appartenenza ecclesiale; anche la spiritualità giovanile salesiana propone un’esperienza di comunione ecclesiale. Questo è l’impegno fondamentale della comunità cristiana e in concreto delle nostre comunità educative; l’attenzione al cammino di fede dei giovani esprime la maternità della Chiesa, che si prende cura dei suoi figli e li aiuta a crescere. Questo richiede alcune specifiche scelte.

Far conoscere la Chiesa

Occorre aiutare i giovani a superare un’immagine parziale della Chiesa, spesso vista soltanto nei suoi aspetti istituzionali, come se fosse una organizzazione sociale e politica simile alle altre, oppure identificata con la gerarchia, o al contrario ridotta ad una realtà puramente spirituale, individuale e ideale. Questo richiede un’accurata catechesi sulla Chiesa secondo le linee offerte dalla Lumen Gentium e dalla Gaudium et Spes, ma anche una introduzione alla vita concreta della Chiesa, facendo conoscere i suoi progetti, le sue preoccupazioni, le sue migliori iniziative, persone e comunità significative. Un’informazione fidata, positiva e continua contribuirebbe certamente a promuovere una conoscenza più reale e più significativa della Chiesa.

Far crescere il senso di Chiesa

Si tratta di sviluppare nei giovani il senso di appartenenza ad essa: noi apparteniamo alla Chiesa ed essa appartiene a noi. Siamo stati convocati da Gesù a formare la sua famiglia e a continuare insieme la sua missione nella storia. Non può esistere una coscienza chiara della propria identità cristiana senza il senso vivo di appartenenza alla comunità cristiana. Ciò richiede pure di sviluppare atteggiamenti di apertura, dialogo e simpatia verso l’uomo, come ha fatto la Chiesa nel Concilio Vaticano II, che ha cercato di comprendere le situazioni dell’umanità e di collaborare con tutti gli uomini e le donne di buona volontà al compito di costruire un mondo più umano.
Questo si impara e si verifica nella vita familiare e sociale; la propria famiglia e i propri ambiti di vita devono essere scuola e laboratorio di comunione. «Essere cristiano importa un
nuovo modo di essere uomo; esige una conversione, quella proprio richiesta dal Vangelo, da Cristo… In questa prospettiva l’intervento dell’educatore cristiano, del pastore di anime, mira alla formazione di una certa disposizione di spirito, che non è solo conoscenza, ma in cui a questa si uniscono atteggiamenti che includono l’inclinazione della volontà, della emotività, della sensibilità, di tutto l’uomo, verso l’integrazione tra un fatto di esperienza e un punto di riferimento fisso o abituale; è l’adesione di fede al piano di amore e di salvezza di Dio in Gesù Cristo». [27]
Per questo nel cammino di educazione al senso di Chiesa è importante formare la coscienza sociale dei giovani attraverso la Dottrina sociale della Chiesa, sia per imparare a vivere la dimensione sociale e politica della fede, sia per rendersi più solidali con i problemi che assillano la vita di tanti uomini e donne nel mondo che vivono in situazioni inumane, e per generare volontari, apostoli e missionari.

Far fare esperienza di Chiesa

Il senso di Chiesa e di appartenenza non si crea in forma astratta, ma attraverso l’esperienza della vita cristiana nelle diverse situazioni della persona, incominciando dalla famiglia, chiamata a ragione da Paolo VI la
Chiesa domestica, e continuando nella parrocchia, in cui si realizza normalmente l’esperienza di comunione di fede, di speranza, di carità. Nel caso nostro noi facciamo esperienza di Chiesa con i giovani nei diversi tipi di Comunità Educative Pastorali, che devono essere segno di fede, scuola di fede, centro di comunione e partecipazione, “fino a poter diventare una esperienza di Chiesa” (Cost. 47).
Si tratta allora di irrobustire la propria comunità di fede in tutte le espressioni educative pastorali, per farle diventare lievito di trasformazione sociale. È quanto testimoniano i sommari degli Atti degli Apostoli: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà o sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la stima di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che si erano salvati” (
At. 2,42-47). A partire dalla vita delle comunità, si impose una cultura alternativa all’impero romano e un modello sociale caratterizzato non dall’ansia di possedere, ammassare ed essere i primi, ma dalla volontà di condividere, servire ed essere solidali.
Questo richiede anche di qualificare i momenti della vita ecclesiale, come sono il battesimo, la catechesi, la partecipazione all’Eucaristia, l’ascolto della Parola, l’accesso al sacramento della Riconciliazione, gli incontri di gruppi e di comunità, i ritiri e le celebrazioni dei momenti forti dell’anno liturgico, i momenti di convivenza e di fraternità, il contatto con il territorio, ecc.  Nulla si deve banalizzare; tutto può e deve favorire la maturazione del senso ecclesiale.
Far trovare la vocazione nella Chiesa
Il cammino di educazione alla fede deve aiutare a passare dalle buone disposizioni d’animo alle convinzioni salde, da queste alle motivazioni trainanti, poi ai progetti di vita, quindi alla consegna totale a Dio e agli altri. Ecco che cosa significa amare la Chiesa e consegnarsi per essa. L’amore alla Chiesa si manifesta anche in questa capacità di lasciarsi afferrare da Cristo, al punto di rinunciare ai propri interessi e progetti e mettersi completamente a sua disposizione per continuare nella propria persona la sua opera di costruzione del Regno. L’adesione alla Chiesa, resa possibile dalla conoscenza della sua realtà, sviluppata da un progressivo senso di appartenenza ad essa ed accresciuta con concrete esperienze ecclesiali, matura nell’impegno vocazionale.
«Chi ai nostri giorni si pone a servizio della Chiesa dovrà essere convinto, fin nelle più nascoste pieghe della sua esistenza, della possibilità di mostrare all’uomo, anche in mezzo ad un mondo secolarizzato ed ateo, le orme di Dio nella storia e nella propria vita. Questo impegno ad essere testimoni viventi dell’esperienza di Dio nel nostro mondo deve animare e pervadere i diversi campi di attività e settori di lavoro pastorale in cui si traduce ogni ministero o servizio… Oggi più che in passato è vero dunque che
Dio ha bisogno degli uomini». [28]
Faccio auguri che tutti noi possiamo amare, seguire ed imitare Gesù con l’ardore, la convinzione e la fedeltà delle grandi colonne della Chiesa, San Pietro e San Paolo. Così potremo confessare pubblicamente la nostra fede e il nostro amore come loro due: “
Signore, tu sai tutto. Tu sai che ti amo” (Gv. 21, 17);Signore, da chi andremo? solo tu hai parole di vita eterna” (Gv. 6, 68); “So a chi ho dato la mia fiducia” (2 Tim. 1, 12); “Vivo nella fede nel Figlio di Dio che mi ha amato sino a consegnarsi per me” (Gal. 2, 20). Allora la nostra fede si tradurrà in carità operativa e diventerà testimonianza credibile e convincente.
Auspico che tutti noi possiamo raggiungere il traguardo cui è arrivata Santa Teresa di Gesù Bambino: «Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto me lo hai dato tu, o mio Dio. Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore, e in tal modo sarò tutto e il mio desiderio si tradurrà in realtà».
[29]


A mo’ di conclusione: come i colori dell’arcobaleno

Finisco raccontando una leggenda indigena americana, All the Colors of the Rainbow, che mi sembra un appello a mettere insieme quanto di meglio c’è in noi per creare qualcosa di bello, luminoso, affascinante e, al tempo stesso, significativo, come può esserlo un arcobaleno.
La Chiesa è la comunità dei discepoli di Gesù, che ricordano e fanno presente il suo amore all’uomo e il suo impegno di offrire pienezza di vita. Per essere credibili ed efficaci, abbiamo però bisogno di lasciar da parte la nostra autosufficienza e di mettere in comune le nostre potenzialità e risorse, fino ad essere una Chiesa giovane, senza macchia né ruga né alcunché di simile, ma bella e splendente.
«Raccontano che un giorno i colori del mondo incominciarono a litigare: ognuno di loro pretendeva di essere il migliore, il più importante, il più utile, il favorito.
Il
Verde disse:
– “Certamente il più importante sono io, segno di vita e di speranza. Sono stato scelto per l’erba, gli alberi, le foglie. Senza di me tutti gli animali morirebbero. Guardate la campagna: mi vedrete dappertutto”.
L’
Azzurro l’interruppe:
– “Tu pensi soltanto alla terra, ma considera il cielo e il mare. L’acqua è il fondamento della vita, le nuvole la portano su dal mare profondo. Il firmamento offre spazio e pace e serenità. Senza la mia pace, tutti voi non sareste niente”.
Il
Giallo ridacchiò:
– “Voi siete tutti troppo seri. Io porto la risata, l’allegria e il calore nel mondo. Il sole è giallo, la luna è gialla, le stelle sono gialle. Ogni volta che tu guardi un girasole, il mondo intero incomincia a sorridere. Senza di me non ci sarebbe la gioia”.
L’
Arancione fece risuonare la sua tromba:
– “Io sono il colore della salute e della forza. Posso essere scarso, ma sono prezioso perché servo i bisogni della vita umana. Io porto le vitamine più importanti. Pensate alle carote, alle zucche, alle arance, ai manghi e alle papaie. Non sono continuamente in giro, ma quando riempio il firmamento all’aurora o al tramonto, la mia bellezza è così impressionante che nessuno fa più caso a voi”.
Il
Rosso non poté trattenersi oltre e gridò:
– “Io sono il capo di tutti voi. Io sono sangue e la vita è sangue. Sono il colore del pericolo e del coraggio. Sono disposto a lottare per una causa. Io porto fuoco nel sangue. Senza di me la terra sarebbe vuota come la luna. Sono il colore della passione e dell’amore, della rosa rossa, della poinsezia (la stella di natale) e del papavero”.
Il
Porpora si tirò su fino alla sua massima altezza. Era veramente alto e parlò con grande dignità:
– “Io sono il colore della sovranità e del potere. Re, capi e vescovi hanno scelto sempre me, perché sono segno di autorità e di sapienza. La gente non mi mette in discussione, si limita ad ascoltarmi e ad ubbidirmi”.
L’
Indaco parlò, molto più tranquillamente di tutti gli altri, ma con maggior decisione:
– “Badate a me. Sono il colore del silenzio. Difficilmente avvertite la mia presenza, però senza di me voi tutti diventate superficiali. Io rappresento il pensiero e la riflessione, il crepuscolo e l’acqua profonda. Voi avete bisogno di me per l’equilibrio e il contrasto, per la preghiera e la pace profonda”.
E così i colori continuarono a vantarsi, ognuno convinto della propria superiorità. La discussione si andò facendo sempre più forte e aspra. All’improvviso ci fu un sorprendente flash di fulmine brillante e scoppiò un tuono. Poi incominciò a piovere a dirotto. I colori si accovacciarono pieni di timore, avvicinandosi l’un l’altro per conforto.
In mezzo al clamore, la Pioggia iniziò a parlare: “Colori insensati, state lì a lottare tra voi, ciascuno cercando di dominare sugli altri. Non sapete che ognuno è stato fatto per uno scopo speciale, unico e differente? Unite le mani e venite da me”.
Facendo come era stato detto loro, i colori si unirono e si presero per mano. La Pioggia continuò: “D’ora innanzi, quando piove, ognuno di voi si stenderà lungo il firmamento in un grande arco di colore come memoriale che tutti voi potete vivere in pace. L’
arcobaleno è un segno di speranza per il domani”.
E così, ovunque la pioggia bagna il mondo e un arcobaleno appare nel firmamento, ricordiamoci di apprezzare gli altri, di darci la mano, di creare comunione e di essere un segno di speranza per l’umanità».
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A Maria, la Madre di Dio, sotto la cui protezione intraprendiamo questo nuovo anno 2005, affido ognuno e ognuna di voi, carissimi membri della Famiglia Salesiana, educatori e giovani del mondo. Ella, la Madre della Chiesa, ci insegni ad essere e a saper formare discepoli diletti e annunciatori gioiosi del suo Figlio. Ella ci aiuti a riconoscere la Chiesa come nostra Madre, che sempre ci genera e ci rigenera nella fede.
Con affetto e riconoscenza, in Don Bosco.
Don Pascual Chávez V.
1 gennaio 2005
Solennità di Maria SS. Madre di Dio
e Giornata Mondiale della Pace


[1] C.M. MARTINI, Perché la Bibbia è il libro del futuro dell’Europa?, Cesano Boscone, 9 maggio 2004.
[2] Cf. J. GALOT, Il Cristo Rivelatore, fondatore della Chiesa e principio di vita, in Vaticano II - Bilancio e prospettive, venticinque anni dopo 1962-1987, a cura di R. LATOURELLE, Cittadella, Assisi 1987, pp. 343-360.
[3] Ivi, p. 347.
[4] O. GONZÁLEZ, La nuova coscienza della Chiesa, in La Chiesa del Vaticano II, Opera collettiva diretta da G. BARAÚNA, Vallecchi, Firenze 1965, pp. 238-239.
[5] Ivi, p. 240.
[6] PAOLO VI, Discorso di apertura del secondo periodo del Concilio, 29 settembre 1963, in Enchiridion Vaticanum 1, EDB, Bologna, 1993, nn.143-145.150.153.
[7] Cf. O. GONZÁLEZ, La nuova coscienza della Chiesa, op. cit., p. 241.
[8] G.B. MONTINI, Discorsi e scritti milanesi, vol. III: 1954-1963, a cura di G. E. MANZONI, Istituto Paolo VI, Brescia, 1997, p. 930.
[9] Cf. Seguir a Jesucristo en esta Iglesia, Lettera pastorale dei Vescovi di Pamplona e Tudela, Bilbao, San Sebastián e Vitoria, Quaresima  - Pasqua di Resurrezione 1989, pp. 13-16.
[10] A. ANTON, L’Ecclesiologia postconciliare: speranze, risultati, prospettive, in Vaticano II - Bilancio e prospettive venticinque anni dopo 1962-1987, a cura di R. LATOURELLE, Cittadella, Assisi 1987, p. 363.
[11] Cf. A. ANTON, op. cit., pp. 386ss.
[12] Gaudium et spes, n. 1.
[13] Gaudium et spes, n. 2.
[14] Gaudium et spes, n. 3.
[15] TERTULLIANO, Apologetico, 18, 4.
[16] CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Il volto missionario delle Parrocchie in un mondo che cambia. Nota pastorale, Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana, Numero 5-6, 1 luglio 2004, p. 140.
[17] G. BOSCO, Meraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice, Torino 1868, in Opere edite, vol. XX, Editrice Direzione Generale Opere Don Bosco, Roma, pp. 198-199.
[18] M. RUA, Lettera Edificante. Lo spirito di D. Bosco – Vocazioni – Buona Stampa, 14 giugno 1905, dalle Lettere Circolari, Edizione Direzione Generale Opere Don Bosco, Roma, pp. 384-385
[19] L. RICCERI, I Salesiani e la responsabilità politica, in Lettere Circolari di don Luigi Ricceri ai Salesiani, Edizione Direzione Generale Opere Don Bosco, Roma, p. 942.
[20] Ivi, p. 951.
[21] Ivi, pp. 951-952.
[22] E. VIGANÒ, Maria rinnova la Famiglia salesiana di don Bosco, ACG 289, Roma 1978.
[23] E. VIGANÒ, L’animazione del direttore salesiano, ACG 306, Roma 1982, p. 12.
[24] E. VIGANÒ, La nostra fedeltà al Successore di Pietro, ACG 315, Roma 1985, p. 26.
[25] Cf. E. VIGANÒ, La nostra fedeltà al Successore di Pietro, ACG 315, Roma 1985, pp. 26-30.
[26] K. LEHMANN, Vale la pena rimanere nella Chiesa e vivere per essa, in J. RATZINGER - K. LEHMANN, Vivere con la Chiesa, Queriniana, Brescia 1978, p.36.
[27] L. MACARIO, Appartenenti a Cristo nella Chiesa - Note di pedagogia ecclesiale, in AA.VV. In Ecclesia, LAS, Roma, 1977, p. 487.
[28] K. LEHMANN, Vale la pena rimanere nella Chiesa e vivere per essa, in J. RATZINGER - K. LEHMANN, Vivere con la Chiesa, Queriniana. Brescia 1978, p.33-34.
[29] Manuscrits autobiographiques, Lisieux 1957, 229.
[30] All the Colors of the Rainbow, Basata su una originale Leggenda Americana, presentata da Leon Orb, 2 giugno 2004.