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MARTIRIO E PASSIONE
NELLO SPIRITO APOSTOLICO DI DON BOSCO
A. Notizie: 1. Cambio dell’Economo Generale. - 2. La beatificazione di Mons. Luigi Versiglia e di don Callisto Caravario.
B. Martirio e passione nello spirito Apostolico di Don Bosco. - Importanza della «passione» in una spiritualità di vita attiva. - Il valore cristiano della «passione». - Terribili esigenze del peccato. - La sublimità del martirio. - Il «martirio incruento» alla scuola di Don Bosco. - La valorizzazione apostolica di ogni sofferenza. - Cura, riconoscenza
e affetto per i confratelli invalidi e sofferenti.
Lettera pubblicata in ACS n. 308
Roma, 24 febbraio 1983
Cari Confratelli,
ci stiamo preparando alla Pasqua. A tutti un fraterno augurio d’impegno quaresimale nella conversione e riconciliazione, mentre meditiamo il mistero della passione e morte del nostro Signore Gesù.
La Pasqua e la Pentecoste di quest’Anno Santo ci vedano più che mai in atteggiamento di adorazione, mentre chiediamo allo Spirito del Signore che accompagni i futuri capitolari a disimpegnarsi bene nel delicato e storico lavoro della revisione conclusiva delle Costituzioni e dei Regolamenti.
Vi porgo il saluto e l’augurio dei membri del Consiglio Superiore riuniti qui nella Casa Generalizia per i diversi aspetti di preparazione del prossimo Capitolo Generale. Vi abbiamo tutti presenti e preghiamo per voi.
Prima di offrirvi alcune riflessioni spirituali, vi comunico due notizie.
1. Cambio dell’Economo Generale
L’8 dicembre scorso, festa dell’Immacolata, il nostro benemerito e carissimo don Ruggiero Pilla, Economo Generale, mi consegnava, commosso, una lettera lungamente pensata nella preghiera e in dialogo con il Rettor Maggiore, con il Consiglio Superiore e con persone di qualificata prudenza. Mi chiedeva di venir sollevato dal suo incarico perché gli riusciva ormai «sempre più gravoso per la salute e per l’età». Don Pilla è arrivato a questa richiesta dopo mesi di sofferenza e ha dovuto, in certo modo, far violenza al suo cuore salesiano per presentarla. Potete percepire le sue motivazioni e i suoi sentimenti leggendone la lettera, trascritta più avanti in questo stesso numero degli Atti.
Il venerdì 4 febbraio corrente anno, a norma dell’articolo 147 delle Costituzioni, il Rettor Maggiore con il suo Consiglio ha proceduto ad affidare l’incarico di Economo Generale al confratello don Omero Paron «fino al termine del sessennio già incominciato dal socio cessante».
È già la seconda volta che è toccato a questo Consiglio sostituire uno dei suoi membri. Lo abbiamo fatto con pena e con speranza, cercando diligentemente il miglior servizio per la Congregazione.
Ci sentiamo tutti debitori di grande riconoscenza verso don Ruggiero Pilla. Abbiamo potuto ammirare il suo amore a Don Bosco, la sua dedizione, la sua competenza, il suo senso salesiano di povertà, la sua magnanimità e spirito d’iniziativa, il suo tratto amabile, la sua non comune formazione culturale, e l’eleganza della carità con cui sapeva rivestire i suoi servizi.
Egli, dopo essere stato un educatore impareggiabile, Direttore e Ispettore, disimpegnò per vent’anni l’ufficio di Economo Generale, mentre la Congregazione affrontava i problemi di una cresciuta vastità mondiale. Già prima, durante dieci anni, era stato valido e stretto collaboratore di don Giraudi, suo predecessore nell’incarico. Si tratta, dunque, di ben trent’anni — ossia una vita! — di responsabilità in un settore complesso e in continua evoluzione, sempre più intricato e di non facile gestione. Ammiriamo l’abilità e costante precisione con cui don Pilla ha saputo svolgere il suo compito, l’impulso e gli orientamenti dati, le opere realizzate, le gravi difficoltà felicemente superate.
Grazie, carissimo don Pilla, a nome di tutta la Congregazione! Lei ha meritato davvero la gratitudine e la stima di tutti, e gliene vorremo rendere atto sempre con il nostro affetto e la nostra preghiera.
Mentre esprimiamo questa nostra viva riconoscenza a don Pilla, presentiamo anche i nostri cordiali auguri e la nostra piena fiducia a don Omero Paron, che ha accettato l’incarico con generosa disponibilità ed ha iniziato subito, in gioiosa abnegazione, a svolgerne i compiti.
Don Paron è stato, prima, Economo ispettoriale e poi, per un sessennio, Ispettore nella nostra provincia Veneta-Est di «San Marco». Ha competenza, fedeltà salesiana, simpatia fraterna, buona salute e volontà d’impegno. Lo accompagneremo con solidarietà e collaborazione. Intanto chiediamo a Don Bosco che interceda per lui, ottenendogli di essere un valido Economo secondo il suo spirito.
2. La beatificazione di Mons. Luigi Versiglia
e di don Callisto Caravario
Come già vi ho comunicato in una lettera apposita, il prossimo 15 maggio, domenica dell’Ascensione, il Santo Padre beatificherà i nostri primi due martiri, missionari nella Cina.
Tutta la Famiglia Salesiana gioisce e si prepara a celebrare l’evento con intensità spirituale, con profitto apostolico e anche con degne manifestazioni. La più importante di tali celebrazioni è certamente quella che si svolgerà a Roma, presso San Pietro.
Vi esorto tutti a prepararla convenientemente e a far sì che vi partecipi il maggior numero possibile di persone. L’Anno Santo, che si inizierà alcune settimane prima, include questa beatificazione in quel peculiare Avvento di preparazione al terzo millennio del Cristianesimo che costituisce uno dei temi preferiti e profetici di Giovanni Paolo II. Speriamo che l’evento sia per noi portatore di una rinnovata presenza nella Cina: il sangue dei martiri diverrà certamente seme fecondo per quella meravigliosa diffusione del Vangelo soprattutto tra la gioventù dell’immenso popolo cinese, che costituì il grande ideale missionario dei due nuovi Beati.
Mettiarnoci, dunque, all’opera per preparare degnamente le celebrazioni per la beatificazione, soprattutto quella in Vaticano.
MARTIRIO E PASSIONE
NELLO SPIRITO APOSTOLICO DI DON BOSCO
Il martirio dei due confratelli, Mons. Luigi Versiglia e don Callisto Caravario, ci offre l’opportunità per tante riflessioni spirituali.
Tra i vari argomenti di meditazione ne scelgo uno che potrà apparire, a prima vista, non consueto ma che è indispensabile e assai fecondo per il nostro spirito salesiano di vita attiva. Vi invito ad approfondire il misterioso tema della «passione»: appartiene all’essenza stessa della vita cristiana.
Cristo ci ha redenti attraverso la «passione». I martiri sono venerati dalla Chiesa per la loro cruenta «passione». I santi tutti hanno ascoltato l’invito del Signore che esorta a saper «patire»: «Se qualcuno vuol venire con me, smetta di pensare a se stesso, ma prenda ogni giorno la sua croce e mi segua. Chi pensa soltanto a salvare la propria vita, la perderà; chi invece è pronto a sacrificare la propria vita per me, la salverà».1
Ci sono degli Istituti religiosi nella Chiesa che hanno come caratteristica della loro vocazione quella di contemplare e vivere i grandi valori della «passione» di Gesù per testimoniarli e proclamarli tra la gente.
Il Popolo di Dio è tutto pervaso da una «mistica di martirio». Il Battesimo, infatti, semina nel cuore di ogni discepolo una specie d’istinto verso la passione del Signore.
Importanza della «passione» in una spiritualità di vita attiva
Noi Salesiani amiamo la santità operosa. Siamo stati chiamati dal Signore a una vita apostolica. Guardiamo a Don Bosco ammirando in lui, con speciale simpatia, la sua spiritualità del lavoro. Rileggiamo gli scritti del nostro patrono San Francesco di Sales soffermandoci con predilezione sulle sue riflessioni circa «l’estasi dell’azione». Formati in un tale clima spirituale sentiamo il bisogno, e l’esperienza ce lo insegna, di mettere un po’ a confronto «azione» e «passione» per non illuderci sulle esigenze concrete del dinamismo del nostro spirito.
Intanto, la storia del cristianesimo ci insegna che apostolato e martirio sono intimamente legati tra loro. I dodici apostoli sono anche martiri. I due confratelli che verranno beatificati hanno continuato a testimoniare nel martirio, in forma eccelsa, gli stessi valori e lo stesso spirito della loro vocazione salesiana.
Rimaniamo fortemente colpiti, e quasi sconcertati, dalla presenza, nella «santità salesiana», di una modalità, senz’altro eccezionale ma genuinamente nostra, di un don Andrea Beltrami che, gravemente ammalato, esclama: «Non guarire, non morire, ma vivere per soffrire». Forse ci meraviglia, ma è un fatto, che una tale modalità sia fiorita, attraverso don Luigi Variara, per svilupparsi con caratteristiche proprie in uno dei gruppi della nostra Famiglia, l’Istituto delle Figlie dei Sacri Cuori sorto in Colombia; esso ha come peculiarità, appunto, un profondo atteggiamento vittimale e oblativo.
Immersi nel dinamismo apostolico, abituati al lavoro, rotti alla fatica, stimolati ad avere continuamente inventiva pastorale, potremmo correre il pericolo di dimenticare i valori della «passione». Eppure lo spirito salesiano di Don Bosco si apre, nella logica del «da mihi animas», all’arcano mistero del patire fino al martirio.
«Tutti dobbiamo portare la croce come Gesù — ci dice Don Bosco — e la nostra croce sono le sofferenze che tutti incontriamo nella vita!».2 «Chi non vuole patire con Gesù Cristo in terra, non potrà godere con Gesù Cristo in Cielo».3
Le Costituzioni ce lo ricordano con esigenza: «Il lavoro apostolico... è l’ascetica (del salesiano)... È pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime».4
Lo spirito che ci ha lasciato in eredità il Fondatore è costantemente permeato da un continuo «martirio di carità e di sacrificio» illuminato e animato dal grande ideale che gli riempiva il cuore: «le anime da salvare». È un «martirio» generalmente incruento, aperto però, se Iddio lo vuole, al dono della vita anche nello spargimento del sangue. In una conversazione sul suo tema prediletto delle missioni Don Bosco disse esplicitamente: «Se il Signore nella sua Provvidenza volesse disporre che alcuno di noi subisse il martirio, forseché per questo ci avremmo da spaventare?».5
E davvero Mons. Versiglia e don Caravario, fedeli allo spirito salesiano, non si sono spaventati.
Il valore cristiano della «passione»
Gesù chiamò il tempo della passione la sua «ora», anche se ne percepì dolorosamente il peso: «Passi da me questo calice!».
È, infatti, proprio attraverso la passione e la morte che redense il mondo. Quanto ci deve far pensare questa paradossale affermazione! Egli è apostolo del Padre soprattutto sul Calvario. La celebrazione sacramentale dell’Eucaristia ce lo ricorda quotidianamente.
Cerchiamo di approfondirne il perché.
Gesù visse con pienezza la sua filiazione divina con cosciente disponibilità ai disegni del Padre, in sincera obbedienza.
Tradusse il suo ardore apostolico in una totale oblazione di sé, sia quando giunse per lui il tempo di agire (ministero pubblico), sia quando scoccò per lui l’ora del patire (Getsemani e Calvario).
Nella sua «azione» e nella sua «passione» scopriamo un unico atteggiamento di fondo: la piena disponibilità del suo amore filiale, sia ad agire che a patire!
Anche per noi l’adozione a figli di Dio, vissuta nella consacrazione apostolica, ci deve tener aperti ad ambedue le forme di disponibilità: quella dell’azione e quella della passione. Ciò che conta è l’oblazione di sé nella realizzazione dei piani di Dio. Come in Cristo, anche in noi il culmine dell’atteggiamento filiale è: sia il dono di sé, nell’azione, per impegnarci con instancabile zelo ad edificare il Regno del Padre; sia il dono della propria vita nella passione, per lasciare il primo posto assoluto all’«azione del Padre» nell’ora da lui stabilita.
«Il fatto che la disponibilità cristiana può essere perfetta e significante in ambedue le direzioni, come azione e come sofferenza — scrive Urs von Balthasar —, costituisce la sua superiorità sull’altra grande disponibilità all’impegno, quella comunista».
Ciò che guida la nostra disponibilità all’impegno è la fede: noi siamo sicuri che l’uomo più «impegnato» della storia è Cristo.
La coscienza di una tale disponibilità ci offre l’opportunità per riprendere in profondità due aspetti, spesso discussi, della nostra vocazione: il vero valore della «missione» e quello della «contemplazione».
La missione apostolica non è solo azione. Lo vediamo chiaramente in Cristo. Egli visse la sua missione di Salvatore degli uomini sia nell’azione che nella passione, in mutua vincolazione e compenetrazione tra loro, in forma assolutamente inseparabile.
Abbiamo sentito discutere tanto sulla «missione», ma forse non sempre partendo dal mistero di Cristo. La missione apostolica è possibile solo con il dono di sé al Padre per la realizzazione del «Suo» piano di salvezza. Non è semplicemente attività, inventiva, progetto del nostro dinamismo; è anche sofferenza, passione e morte in conformità al volere di Dio.
La contemplazione, poi (o meglio la dimensione contemplativa), è certamente il centro vitale di ogni vita religiosa. Si è discusso tanto su «azione» e «contemplazione», snaturando forse il vero significato cristiano di entrambe. La passione, meditata nel Cristo, ci aiuta a ripensare meglio le cose.
La disponibilità filiale, vissuta nella passione, ci fa percepire che la carità, cuore propulsore sia della forma di vita apostolica che della forma di vita contemplativa, tende sempre, come a suo vertice supremo, al dono totale di sé in partecipazione al mistero di Cristo. Così possiamo dire che la pienezza dell’amore si trova più in là delle forme di vita attiva o contemplativa, perché in entrambe si tende al dono totale di sé per il Regno di Cristo e di Dio.
Perciò, se il fondamento dell’impegno apostolico è propriamente la filiale disponibilità al Padre, vorrà dire che ogni spiritualità dell’azione include in sé una costante apertura alla passione, quasi per affermare come «azione assoluta» soltanto quella del Padre.
«Per un cristiano — osserva ancora Urs von Balthasar — azione e contemplazione non si possono adeguatamente separare una dall’altra. Infatti, la disponibilità (al Padre) attenta, ricettiva, aperta è il fondamento di ogni azione; questa, poi, deve tendere a oltrepassare se stessa in un tipo di attività più profonda, la quale — sotto forma di “passione” — è l’azione stessa di Dio dentro l’uomo lanciato al di là dei suoi propri limiti. La vita cristiana, quindi, si trova sempre oltre questi due aspetti (di contemplazione e di azione); ed essi, appunto, non si completano tra loro dall’esterno, ma si compenetrano interiormente. Chi considerasse la Chiesa solo a livello sociologico, non potrebbe percepire questa compenetrazione».6
Quanto è utile per tutti noi — nella sofferenza, nella malattia, nella vecchiaia, nell’invalidità, nell’agonia e nella morte — sapere che lì, nella passione, non si è emarginati dall’apostolato, bensì che lo si sta fecondando e portando a compimento. La grazia più importante da ottenere non è quella di non soffrire, ma quella di essere pienamente disponibili al Padre, così da poter ripetere con San Paolo: «Ora, io sono felice di soffrire per voi. Con le mie sofferenze completo in me ciò che manca delle tribolazioni di Cristo a vantaggio del suo Corpo, cioè della Chiesa».7
Anche San Pietro ci esorta dicendo: «Piuttosto, siate contenti di partecipare alle sofferenze di Cristo, perché così potrete essere pieni di gioia anche quando Egli manifesterà a tutti gli uomini la sua gloria».8
Terribili esigenze del peccato
Il discorso cristiano sulla passione può sembrare oggi assai strano perché la civiltà in cui viviamo è pervasa da un crescente secolarismo. Con l’indebolimento della visione di un Dio presente nella storia e con una certa manipolazione del mistero di Cristo, si va perdendo a poco a poco il «senso del peccato». È una perdita fatale. La dimensione etica della vita va ogni giorno più soggetta al relativismo; i principi morali appaiono fortemente in crisi. Non per nulla i Vescovi si riuniscono, nel prossimo Sinodo, a trattare della riconciliazione e della penitenza. Risulta che, senza senso del peccato, non si capisce più la croce: né il sacrificio del Calvario, né il martirio nella Chiesa, né la passione dei credenti.
Cristo è venuto non per i giusti, ma per i peccatori. Egli è il Signore della storia, ma lo è attraverso il mistero della redenzione: «Questo è il calice del mio sangue, per la nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati».9
La passione e la morte di Cristo ci ricordano l’abisso enorme che è il peccato: quello dell’uomo, il nostro, quello dei nostri destinatari.
Egli, il Giusto, patì e morì per noi peccatori e ha lasciato alla sua Chiesa, per tutti i secoli, la misteriosa missione salvatrice di partecipare ogni giorno alla sua croce.
Il semplice desiderio di soffrire e di morire potrebbe denotare qualche deviazione patologica. Ma il sentirsi chiamati a partecipare alla passione e morte del Redentore è sublime dono di Dio e compito indispensabile per la salvezza dell’uomo.
Per distruggere il peccato il Figlio stesso del Padre ha dovuto patire e morire; il suo Spirito inabita il corpo di Cristo, che è la Chiesa, perfezionandola in un amore che porta al martirio.
La sublimità del martirio
«Già fino dai primi tempi — ci insegna il Concilio Vaticano II — alcuni cristiani sono stati chiamati, e lo saranno sempre, a rendere questa massima testimonianza d’amore davanti a tutti, e specialmente davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al Maestro che liberamente accetta la morte per la salvezza del mondo, e a Lui si conforma nell’effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come dono eccezionale e suprema prova della carità».10
Il martire cristiano non può venir ridotto semplicemente alla statura di un eroe. Egli non dimostra soltanto personalità, grandezza di spirito, altruismo.
Il martire è umile e pieno d’amore; non odia, ma mentre muore perdona; non cerca né gloria, né fama; non pretende dar lezioni di valore, forse non è neppure coraggioso; non proclama ideologie; non si erge a monumento; non è un Socrate, né un milite noto o ignoto. Giustamente si è scritto che il martire cristiano «non muore per un’idea, sia pure la più elevata, per la dignità dell’uomo, la libertà, la solidarietà con gli
oppressi (tutto questo può essere presente e giocare un suo ruolo), egli muore con Qualcuno che è già morto precedentemente per lui».
La sua fede, la sua speranza e la sua carità lo portano a testimoniare, fino allo spargimento del sangue, che per lui «vivere è Cristo» e che il Battesimo lo spinge a sentirsi «crocifisso con Lui».
Uno dei grandi martiri antichi, Sant’Ignazio di Antiochia, lo ha espresso con commovente e appassionata chiarezza. In viaggio verso Roma perché sentenziato al martirio, scrisse ai cristiani della città supplicandoli di non impedire questa sua suprema prova d’amore: «Siate buoni! Io so cosa mi conviene! Ora incomincio ad essere un vero discepolo... Siate buoni, fratelli! Non impedite la mia vita, non vogliate la mia morte. Non abbandonate al mondo e alle seduzioni della materia chi vuol essere di Dio; lasciate che io raggiunga la pura luce... Lasciate che io imiti la passione del mio Dio!».11
Il martirio non è frutto di una programmazione personale, ma dono di Dio, accettato però con libertà e gioia. Come Gesù che, pur sentendone l’amarezza, si offrì «liberamente alla passione».l2
Tutto il segreto del martirio è la disponibilità al Padre fino all’oblazione totale di sé manifestata nella passione e nella morte! La disponibilità alla passione fino alla morte è la manifestazione suprema della carità: «Egli aveva sempre amato i suoi discepoli che erano nel mondo, e li amò sino alla fine»;l3 «nessuno ha un amore più grande di questo: morire per i propri amici».l4 La passione cruenta di Cristo è divenuta evento liturgico, sacrificio della Nuova Alleanza, per costruire la Pasqua del mondo.
Nel Popolo di Dio, però, l’effusione del sangue nel martirio è, come abbiamo visto, un dono eccezionale.
Resta invece un ideale per tutti l’avere disponibilità di partecipazione alla passione del Signore. Per questo il Concilio ci ricorda ache se a pochi il martirio è concesso, devono però tutti essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini, e a seguirlo sulla via della croce attraverso le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa».15
Il «martirio incruento» alla scuola di Don Bosco
È nella linea della partecipazione incruenta alla passione del Signore che ogni spiritualità ha un suo stile per il dono di se stesso nell’oblazione.
Alla scuola di Don Bosco questo stile è contrassegnato dalla luce del «da mihi animas», portata fino alle estreme conseguenze. Si tratta di una vita apostolica vissuta in una mistica di martirio incruento, per rendersi veramente conformi a Cristo nel dono totale di sé per il Regno.
Don Bosco, parlando dal pulpito della basilica di Maria Ausiliatrice, in occasione della terza spedizione missionaria (novembre 1877), allude alla morte di don Baccino affermando appunto: «Ma i Missionari bisogna che siano preparati ad ogni evento, anche a far sacrificio della vita per predicare l’evangelo di Dio. Finora però i Salesiani non ebbero a portare gravi sacrifizi propriamente detti o vessazioni, se si vuole eccettuare don Baccino che morì: e dicono quelli che lo osservarono, essere egli morto vittima sotto il peso delle fatiche nel campo evangelico o, come si direbbe in altro modo, martire di carità e di sacrifizio pel bene altrui. Ma anzi che aver fatto una perdita in quel laborioso missionario, noi abbiamo fatto un acquisto, poiché in questo momento egli è nostro protettore in cielo».l6
Più tardi il Papa Pio XI, parlando dello stesso Don Bosco, sottolinea appunto l’importanza del suo patire affermando per lui: «Non c’è soltanto il martirio cruento del sangue, ma c’è anche il martirio incruento, anzi c’è un’infinità di incruenti martirii attraverso le diverse condizioni e tutti i diversi gradi della scala sociale...».l7
Tra i numerosi martirii incruenti quello caratteristico della scuola salesiana è di stampo prettamente apostolico: «martirio di carità e di sacrificio per il bene altrui», come direbbe Don Bosco.
Il nostro Padre si è sentito chiamato dal Signore nella Chiesa ad una vocazione d’impegno pastorale; misurava, perciò, l’oblazione della sua vita da questa intuizione prima: disponibilità a Dio nel «da mihi animas». A Don Bosco non era dato sapere in che modo morirebbe; sapeva invece che doveva donarsi pienamente all’apostolato fino alla morte.
Possiamo pensare che si ispirasse a San Paolo che, pur considerando per sé un guadagno morire in Cristo, proclamava la sua disponibilità al Padre assumendo prima, in vista del bene altrui, il mandato apostolico ricevuto: «Per me infatti il vivere è Cristo, e il morire un guadagno. Ma se la mia vita può essere utile al mio lavoro di apostolo, non so che cosa scegliere... (perché) è molto più utile per voi che io continui a vivere. Convinto di questo, so che resterò e continuerò a rimanere con voi tutti per aiutarvi ancora».l8
In questo senso sono significative le seguenti parole di Don Bosco, raccolte da don Barberis: «Speriamo nel Signore. Noi in questa impresa (le missioni) facciamo come in tutte le altre. Tutta la confidenza sia riposta in Dio e speriamo tutto da Lui; ma nello stesso tempo spieghiamo tutta la nostra attività... Si cerchino tutti i mezzi possibili di sicurezza per non arrischiare la vita per mano dei selvaggi. È vero che per chi muore martire, la morte è una fortuna...; ma intanto non si procede nella conversione di forse migliaia di anime, le quali si sarebbero potute salvare usando maggior precauzione».l9
Lo stile, dunque, di oblazione di sé nell’apostolato è per Don Bosco innanzitutto quello di un «colossale lavoro» (Pio XI) di apostolo. Nella stessa attività pastorale c’è non poco da patire (sofferenze fisiche, morali, spirituali) per mille ragioni differenti. Sono patimenti che intaccano anche fisicamente la stessa salute. Lo abbiamo constatato lungo tutta la sua vita: «Stamane Don Bosco mi ha detto — scriveva don Lemoyne a don Rua nel 1884 — che la sua testa è molto stanca... In quarantotto anni quanto ha patito! Questo dovrebbe essere l’argomento da predicarsi a tutti, grandi e piccoli, poiché purtroppo non ci si pensa».20
Tali patimenti sono accettati e illuminati dall’ardore apostolico; trovano la loro vera spiegazione di «offerta libera alla passione» nel «da mihi animas»; ci fanno capire assai concretamente in che senso Don Bosco dicesse: «Quando avverrà che un Salesiano soccomba e cessi di vivere lavorando per le anime, allora direte che la nostra Congregazione ha riportato un gran trionfo e sopra di essa discenderanno copiose le benedizioni del Cielo».2l
È questo il senso con cui il nostro Fondatore ha qualificato, come abbiamo visto, la passione incruenta quale «martirio di carità e di sacrificio per il bene altrui».
Anzi questa ottica apostolica di carità per il bene altrui caratterizza anche la stessa passione cruenta dei nostri due martiri percossi e trucidati perché attivi apostoli cristiani e, in particolare, per la difesa della dignità umana e della virtù di tre giovani cinesi. Mons. Versiglia e don Caravario hanno attinto la loro suprema capacità di passione cruenta da questo nostro caratteristico spirito. Sappiamo anzi come Mons. Versiglia avesse previsto il compimento della sua vocazione salesiana e missionaria, secondo il sogno profetico di Don Bosco, quando disse a don Sante Garelli: «Tu mi porti il calice visto dal Padre: a me il riempirlo di sangue»!
La valorizzazione apostolica di ogni sofferenza
Nello stile di passione incruenta accettata e vissuta nella mistica del «da mihi animas», peculiare di Don Bosco, entrano pure le sofferenze proprie dei malanni e infermità, dell’invalidità, della vecchiaia, dell’agonia e della morte naturale: sopportare tutto per amore di Cristo in vista della salvezza delle anime, per la espiazione dei nostri e dei loro peccati, per l’efficacia del lavoro apostolico dei confratelli, delle consorelle, dei collaboratori nell’impegno pastorale affidatoci.
Don Bosco, già avanti negli anni e tormentato da acciacchi, nell’agosto del 1885 parlò così alle giovani Figlie di Maria Ausiliatrice a Nizza Monferrato: «Vi vedo in buona età, e desidero che possiate venir vecchie, ma senza gl’incomodi della vecchiaia. Ho sempre creduto che si potesse venir vecchi, senza avere tanti incomodi; ma si capisce troppo che questa età è inseparabile da essi; gli anni passano e gli acciacchi della vecchiaia vengono; prendiamoli come la nostra croce... quella croce che manda il Signore e che, generalmente, contraria la nostra volontà e non manca mai in questa vita, specialmente a voi, o Maestre e Direttrici, che siete particolarmente occupate anche della salvezza altrui. Questa tribolazione, ...questa malattia... voglio portarla allegramente e volentieri, perché è proprio quella croce che il Signore mi manda».22
Inoltre, come ci assicura don Pietro Ricaldone, «Don Bosco faceva suo il pensiero di Santa Teresa e ripeteva che “gli ammalati attirano le benedizioni di Dio sulla Casa”. Egli poi aveva sollecitudini e tenerezze squisite per i suoi figli infermi».23
I confratelli malati sono, per lui, una specie di mediazione pasquale, per ottenere più benedizioni dal Signore sull’impegno apostolico della comunità.
Le sofferenze accettate nello spirito del «da mihi animas», non emarginano il confratello dal comune fronte pastorale; lo collocano piuttosto in una trincea più avanzata e lo rivestono di un ruolo proprio. La nostra spiritualità dell’azione non ci insegna ad aggirare il dolore, a sorvolarlo, ad eliminarlo; bensì lo accetta e ne rovescia il significato, trasformandolo in potenziale di salvezza.
Ha così un suo valore apostolico, e non piccolo, anche la sofferenza vissuta come partecipazione al mistero pasquale di Cristo. Più in là di una certa spiegabile tristezza (anche Gesù si è sentito triste fino alla morte) vibra la gioia profonda di sentirsi partecipi della missione redentrice del Salvatore.
«Parlare di gioia a voi, cari ammalati — diceva alcune settimane fa il Papa — può sembrare strano e contraddittorio; eppure proprio in questo sta lo sconvolgente valore del messaggio cristiano... È una gioia interiore, misteriosa, talvolta anche solcata di lacrime, ma sempre viva, perché nasce dalla certezza dell’amore di Dio, che sempre è Padre, anche nelle circostanze dolorose ed avverse della vita, e del valore meritorio ed eterno dell’intera esistenza umana, specialmente di quella tribolata e senza umane soddisfazioni».24
Il segreto di un atteggiamento così paradossale non può essere altro che il mistero della passione di Cristo. Giustamente, alla conclusione del Vaticano II, i Padri conciliari hanno affermato in uno dei loro messaggi: «Il Cristo non ha soppresso la sofferenza; non ha neppure voluto svelarne interamente il mistero: l’ha presa su di Sé e questo è abbastanza perché noi ne comprendiamo tutto il valore».25
Possiamo pure aggiungere che la fede cristiana ci aiuta anche a fare della sofferenza una pedagogia di maturazione umana; con essa si perfeziona il cuore, si diviene più umili, più saggi, più consci della trascendenza del vero amore; l’uomo senza sofferenza corre il rischio di essere meno umano. L’uomo perfetto, infatti, è Cristo, crocifisso e risorto!
Cura, riconoscenza e affetto per i confratelli invalidi e sofferenti
Carissimi tutti e specialmente voi, diletti confratelli invalidi e sofferenti, la beatificazione dei nostri primi due martiri ci serva a ripensare e a valorizzare le misteriose ricchezze della passione cristiana.
La fede ci insegna che non va mai «in pensione» chi ha ricevuto dal Signore un mandato apostolico. Non esiste il «salesiano a riposo». Nessun confratello può mai sentirsi «emarginato dalla nostra missione».
Voi, ammalati e tribolati, invalidi e agonizzanti, «siete — come hanno detto i Padri conciliari — i fratelli del Cristo sofferente; e con Lui, se volete, voi salvate il mondo!... Sappiate che non siete soli, né separati, né abbandonati, né inutili: voi siete chiamati da Cristo, la sua vivente e trasparente immagine.
In Suo nome, (la Congregazione) vi saluta con amore, vi ringrazia, vi assicura l’amicizia e l’assistenza della Chiesa e vi benedice».26
Voi ricordate a tutti che nessuno diventa santo senza la sua parte assegnata di croce, e che tra passione e missione c’è un intimo nesso indissolubile.
Guardiamo insieme a Gesù. Impariamo insieme da Lui che la sincerità della filiazione al Padre arriva all’oblazione di sé fino alla morte: «Questo è il mio corpo dato per voi; questo è il mio sangue versato per voi in remissione dei peccati!».
La sofferenza fa parte della nostra missione; anzi, ne è elemento prezioso ed efficace.
C’è tanto male da espiare: il peccato nostro e quello dei nostri destinatari. Ci sono tanti semi di bene da irrigare: con il calice della Nuova Alleanza. C’è un potenziale di grazia da impetrare: con la mediazione del mistero pasquale. La carità che patisce è un tesoro da conservare con cura: non deve venir meno tra noi.
Pascal ha saputo formulare una profonda «Preghiera per il buon uso delle malattie»; il Papa ci invita a meditarne la supplica: «Fate, o mio Dio, che io adori in silenzio l’ordine della vostra provvidenza adorabile sul governo della vita... Fatemi la grazia di unire alle mie sofferenze le vostre consolazioni, affinché io soffra da cristiano... Domando, o Signore, di provare insieme i dolori della natura a cagione dei miei peccati e le consolazioni del vostro Spirito, per effetto della grazia vostra...».27
A tutti i confratelli, poi, vorrei ricordare che la meditazione su questi valori apostolici della passione ci deve muovere, come ce lo insegna una tradizione ormai secolare di famiglia, a curare i confratelli ammalati e sofferenti con la più squisita carità e bontà.
Alla scuola di Don Bosco «impariamo ad usare al confratello sofferente — è ancora don Ricaldone che scrive — quei riguardi, quelle delicatezze che vorremmo fossero usate a noi. La parola buona, un segno di interessamento e di affetto, l’augurio, la promessa di preghiera, oh! quanto sono gradite e quanto confortanti queste manifestazioni di fraterno affetto al cuore di chi soffre!
Soprattutto poi non si dia nemmeno il più lontano pretesto a supporre, non dico con parole, ma neppure con dimenticanze, freddezze o sgarbatezze, che l’ammalato possa essere di peso; e meno ancora si brighi per addossarlo ad altri...
Quando si ammalò don Alasonatti, Don Bosco non aveva più pace; e faceva di tutto per ridonargli la primiera salute; e dovunque andasse, col pensiero era vicino a lui... Ecco il cuore di Don Bosco!».28
Che queste riflessioni, suggeriteci dal martirio di Mons. Versiglia e don Caravario, ci aiutino ad approfondire lo spessore della nostra spiritualità apostolica per scoprirvi l’importanza e la fecondità della passione.
Siamo chiamati all’impegno apostolico per la strada di Cristo. Ci accompagna nel cammino Maria, che ha fatto consistere tutta la pienezza del suo amore nella disponibilità: «Ecco, io sono la serva del Signore; si faccia in me secondo la tua volontà»!
Chiediamo ai due confratelli martiri che in Congregazione e in tutta la Famiglia Salesiana si conosca e si apprezzi sempre meglio la mistica del «da mihi animas» fino alle ultime sue conseguenze: «col sudore, con le lacrime e col sangue»!
Auguri a tutti di Buona Pasqua!
Nella gioia della beatificazione dei nostri primi due martiri,
D. Egidio Viganò
NOTE LETTERA 20-------------------------------
1 Lc 9, 23-24
2 MB X, 648
3 MB II, 362
4 Cost 42
5 MB XII, 13
6 URS VON BALTHASAR, Au delà de l’action et de la contemplation?, in: Vie Consacrée, marzo-aprile 1973, 4
7 Col 1,24
8 1 Pt 4, 13
9 Preghiera eucaristica
10 LG 42
11 S. Ignazio ai Romani, 5, 3; 6,3
12 Preghiera eucaristica II
13 Gv 13, 1
14 Gv 15, 13
15 LG 42
16 MB XIII, 315-316
17 MB XIX, 19, 113
18 Fil 1, 21-25
19 MB XII, 280
20 MB XVII, 89
21 MB XVII, 273; VII, 487
22 MB XVII, 555
23 RICALDONE Pietro, Fedeltà a Don Bosco santo, ACS 74, pag. 98
24 Allocuzione di Giovanni Paolo II all’U.N.I.T.A.L.S.I., Osservatore Romano, 13-2-1983
25 Messaggio «Ai poveri, agli ammalati, a tutti coloro che soffrono», 8 dicembre 1965
26 ib.
27 Osservatore Romano, 13-2-1983
28 RICALDONE Pietro, Fedeltà a Don Bosco santo, ACS n. 74, pag. 99