LETTERA DEL RETTOR MAGGIORE
PASCUAL CHÁVEZ
ACG 384 ‘03
«E voi, che dite? Chi sono io?»
(Mc 8,28)
Contemplare Cristo con lo sguardo di Don Bosco
1. Contemplare Gesù Cristo con sguardo salesiano – 2. Gesù Cristo nella vita di Don Bosco – 2.1. Il Cristo del vangelo – 2.2. La configurazione a Cristo – 3. Gesù Cristo “Apostolo del Padre e Buon Pastore” – 3.1 La gratitudine al Padre per il dono della vocazione divina a tutti gli uomini – “La gratitudine al Padre…” – “…per il dono della vocazione divina a tutti gli uomini” – 3.2. La predilezione per i piccoli e i poveri – 3.3. La sollecitudine nel predicare, guarire, salvare sotto l’urgenza del Regno che viene – “La sollecitudine nel predicare…” – “… guarire…” – “… e salvare…” – “… sotto l’urgenza del Regno che viene” – 3.4. L’atteggiamento del Buon Pastore che conquista con la mitezza e il dono di sé – 3.5. Il desiderio di radunare i discepoli nell’unità della comunione fraterna – 4. Gesù Cristo “nostra Regola vivente” ▪ nella realizzazione della missione; ▪ nella vita di comunità; ▪ nei consigli evangelici; ▪ nella vita di preghiera; ▪ nella formazione – Conclusione: “Siano imitatori di Don Bosco, come egli lo è stato di Cristo!”
Roma, 25 dicembre 2003
Solennità
del Natale del Signore
Carissimi confratelli,
celebriamo il
Natale del Signore, memoria dell’avvenimento dell’Incarnazione,
che nel Figlio ha reso visibile la realtà stessa di Dio ed ha
manifestato la condivisione della natura umana. È bello – anzi
buono, perché appunto questa è la buona novella, questo è il
vangelo – sapere che Dio non è
lontano ma vicino, che dopo averci creati non ci ha abbandonati, che
è divenuto uno di noi, ha assunto la nostra carne, si è fatto uomo
perché noi diventassimo figli suoi. L’Uomo-Dio è la rivelazione
più completa dell’uomo e di Dio, la sua definitiva Parola
sull’uomo e su Dio; Dio infatti «nei tempi passati parlò molte
volte e in molti modi ai nostri padri, per mezzo dei profeti. Ora
invece, in questi tempi che sono gli ultimi, ha parlato a noi per
mezzo del Figlio» (Eb
1, 1.2a).
Il Figlio di Dio ha voluto vivere la nostra esperienza e far parte
della nostra famiglia; ciò ha dato a Lui il nome di Gesù ed il
volto di Nazareno, ma Lo ha anche reso a noi simile e vicino. Forse
per questo l’atmosfera natalizia si caratterizza per un forte senso
di famiglia e di vicinanza. Le case si vestono di luce; ci ritornano
in mente i ricordi di famiglia, desideriamo incontrare le persone più
care, cerchiamo di stare con gli amici o almeno di renderci presenti
tra loro attraverso gli auguri. La rappresentazione natalizia del
presepio ha senza dubbio contribuito a creare questo clima di calore
umano, di profondità di affetti, di vicinanza familiare.
Il Natale è una grande festa: gli angeli annunciano la gioia della
nascita del Salvatore e la pace agli uomini di buona volontà. I
Vangeli però non nascondono il fatto che la nascita di Gesù avvenne
in una stalla, perché Maria e Giuseppe «non avevano trovato altro
posto» (Lc
2,7); non nascondono neppure che i suoi genitori dovettero fuggire in
Egitto, perché «Erode cercava il bambino per ucciderlo» (Mt
2,13). Il messaggio natalizio è dunque tanto affascinante quanto
tragico. Con l’Incarnazione la dignità di ogni persona è elevata
alla condizione divina, che rimane però sempre esposta al rischio
del rifiuto (cf. Gv
1,10): dal momento in cui Dio ha voluto prendere la strada dell’uomo,
l’uomo è la strada per trovare Dio, una strada che talvolta è
nascosta ed accidentata (cf. Gv
19, 5).
Questo è il contesto, cari confratelli, in cui mi pongo di nuovo in
comunicazione con voi, in primo luogo per augurarvi un buon Natale ed
un felice anno nuovo, ricolmi di grazie e benedizioni, specie quelle
che Dio ci ha donato nell’Incarnazione del Figlio; in secondo luogo
per continuare con voi la riflessione sulla nostra vocazione alla
santità e sulla nostra vita consacrata salesiana come strada
specifica per raggiungerla.
Vi propongo perciò di riflettere sul come rispondere alle domande
poste da Gesù ai suoi discepoli: «Chi
sono io, secondo la gente? E voi, che dite? Chi sono io?»
(Mc 8,
27.28). Si tratta di domande fondamentali per la nostra condizione di
credenti e di consacrati. Non si può però riconoscere adeguatamente
l’identità di Colui che ci ha chiamati e al cui seguito ci siamo
posti, se non viviamo una forte esperienza di fede e se non ci
sentiamo da Lui ben voluti. È questo il senso delle parole con cui
Gesù, secondo il vangelo di Matteo, accoglie la risposta di Pietro:
«Beato te, Simone figlio di Giona, perché non hai scoperto questa
verità con forze umane, ma essa ti è stata rivelata dal Padre mio
che è in cielo» (Mt
16, 17). Anche Luca si mette nella stessa scia; egli colloca questi
interrogativi mentre Gesù si trova con i discepoli in un luogo
appartato per pregare (cf. Lc
9, 18), indicando così che solo illuminati dallo Spirito possiamo
riconoscere chi è davvero Gesù. «Ambedue le indicazioni convergono
nel farci prendere coscienza del fatto che alla contemplazione piena
del volto del Signore non arriviamo con le sole nostre forze, ma
lasciandoci prendere per mano dalla grazia» [1]
.
Dal canto suo Marco, attraverso la domanda ripetuta parecchie volte
«Ma chi è dunque costui?» (Mc
4, 41; cf. 1, 27; 2, 6.12; 6, 48-50), sembra dirci che Gesù sfugge a
risposte definitive e che l’uomo non riesce ad afferrarlo una volta
per sempre. Gesù può essere identificato solo da Dio, come è
capitato nel battesimo al Giordano: «Questi è il Figlio mio
prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt
3, 17), e nella trasfigurazione sul Tabor: «Questo è il Figlio mio,
che io amo. Ascoltatelo!» (Mc
9, 7). Gesù può essere riconosciuto come Cristo e Figlio di Dio
solo da credenti; solo chi professa e vive la fede «va al cuore,
raggiungendo la profondità del mistero: “Tu sei il Cristo, il
figlio del Dio vivente” (Mt 16,
16)»
[2] .
Non altro è il contenuto del vangelo che, stando al primo versetto
di Marco, si potrebbe così esprimere: “Inizio della buona novella:
Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio”. E neppure altra è la
finalità della narrazione dei vangeli: «Questi segni sono stati
scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e
credendo in lui abbiate vita eterna» (Gv
20, 31).
Poco tempo fa vi scrivevo che «la vera sfida attuale della vita
consacrata è quella di restituire Cristo alla vita religiosa e la
vita religiosa a Cristo»
[3] . Ebbene «Cristo dà
alla persona due fondamentali certezze: di essere stata infinitamente
amata e di poter amare senza limiti»
[4] . Cari confratelli,
quanto bisogno abbiamo di queste certezze! «Grazie ad esse la
persona consacrata si libera progressivamente dal bisogno di mettersi
al centro di tutto e di possedere l’altro, e dalla paura di donarsi
ai fratelli; impara piuttosto ad amare come Cristo l’ha amata, con
quell’amore che ora è effuso nel suo cuore e la rende capace di
dimenticarsi e di donarsi come ha fatto il suo Signore» [5]
. Proprio per questo
vorrei indicarvi nella contemplazione del Cristo il mezzo più sicuro
per riuscire in questo compito: «il cammino che la vita consacrata è
chiamata a intraprendere all’inizio del nuovo millennio è guidato
dalla contemplazione di Cristo»
[6] .
1.
Contemplare Gesù Cristo con sguardo salesiano
La
contemplazione del volto di Cristo sia per noi la prima passione e
occupazione, così come ci viene indicato dalla Regola di Vita: «La
nostra scienza più eminente è quindi conoscere Gesù Cristo e la
gioia più profonda è rivelare a tutti le insondabili ricchezze del
suo mistero» (Cost.
34). Questo testo è tanto più significativo se si ricorda che si
trova nel capitolo delle Costituzioni in cui si descrive il nostro
servizio educativo pastorale. Vi invito a realizzare il bellissimo
compito di contemplare l’amato per eccellenza, Colui che ci ha
affascinati e continua ad affascinarci, con uno sguardo salesiano,
con gli occhi stessi di Don Bosco, perché come lui e dietro lui
«nella lettura del Vangelo siamo più sensibili a certi lineamenti
della figura del Signore» (Cost.
11).
La contemplazione di Cristo è il punto di partenza del cammino
spirituale e del programma pastorale tracciato nella Esortazione
apostolica Novo millennio ineunte,
che ci rivolge l’appello ad avere lo sguardo «più che mai fisso
sul volto del Signore»
[7] . L’istruzione
Ripartire da Cristo
ha ripreso lo stesso obiettivo strategico, indicandoci i diversi
volti da contemplare e i luoghi dove fare esperienza di Cristo: «Sono
questi i percorsi di una spiritualità vissuta, impegno prioritario
in questo tempo, occasione di rileggere nella vita e nell’esperienza
quotidiana le ricchezze spirituali del proprio carisma in un contatto
rinnovato con le stesse fonti che hanno fatto sorgere,
dall’esperienza dello Spirito
dei fondatori e delle fondatrici, la scintilla della vita nuova e
delle opere nuove, le specifiche riletture del Vangelo che si trovano
in ogni carisma» [8]
. La contemplazione di
Cristo ci inserisce così, come salesiani, nel cammino postgiubilare
della Chiesa e nell’attuale impegno della vita
consacrata.
Contemplare Cristo significa conoscerLo più profondamente, amarLo
più fedelmente, seguirLo più radicalmente. Infatti non Lo si può
amare, se non Lo si conosce; e non Lo si conosce, se non Lo si segue
(cf. Gv 1,
38-39); e non Lo si segue, se non si è talmente innamorati di Lui
così da lasciare tutto pur di “essere con Lui” (Gv
21, 15-19). Conoscenza, amore e sequela di Cristo sono realtà
inseparabili, che si richiamano a vicenda.
Le due domande poste da Gesù ai discepoli – «Chi
sono io, secondo la gente?» e «Voi,
che dite? Chi sono io?» – orientano
verso questa interpretazione della contemplazione di Cristo. Esse
potrebbero essere espresse con queste parafrasi: “Chi dicono che io
sia, quelli che non amandomi e dunque non seguendomi da vicino non
possono conoscermi?”; “Chi dite che
io sia, voi che amandomi tanto e reputando ogni cosa come spazzatura
pur di seguirmi, siete in condizione di conoscere l’identità più
profonda della mia persona?”.
Le risposte date dai discepoli convalidano la stessa interpretazione:
la cristologia non è solo frutto di conoscenza, ma anche di amore
verso Gesù e di sequela. Stando al parere della gente, Gesù è
Giovanni Battista, o il profeta Elia, o uno dei profeti (cf. Mc
8, 28). Anche nel corso della storia Gesù è stato qualificato in
modi molto diversi: Egli è un rivoluzionario, un romantico, un
comunista, un liberatore, un liberale, un superstar, un ebreo devoto,
…; ma nessuno di questi titoli rende giustizia al mistero della
persona di Gesù. Solo i discepoli possono affermare: «Tu sei il
Messia, il Cristo, il Figlio del Dio Vivente» (Mt
16, 16). Nello scorrere dei tempi anche i credenti hanno cercato di
approfondire questa confessione di fede con la riflessione teologica
e con la storia del discepolato; quelli che meglio conoscono Gesù
sono quelli che più lo amano e più da vicino lo seguono cercando di
configurarsi a Lui.
Non basta dunque essere “ammiratori” di Cristo, ma si deve
diventare “imitatori”. Come avverte un grande teologo, mentre «un
imitatore aspira ad essere ciò che egli ammira, un ammiratore invece
rimane personalmente fuori…, evita di vedere che quell’oggetto
contiene nei suoi riguardi l’esigenza d’essere o almeno
d’aspirare ad essere ciò che egli ammira»
[9]
.
Contemplare Cristo non è dunque divertimento estetico, né libero
passatempo e nemmeno curiosità intellettuale; è invece passione mai
soddisfatta e necessità urgente di conoscenza, amore, sequela:
vogliamo contemplare sempre meglio Colui a cui vorremmo aderire di
più, poiché «aderire sempre più a Cristo» costituisce il «centro
della vita consacrata»
[10] .
Noi salesiani contempliamo Gesù con una nostra specificità ben
precisa. La nostra forma di vita realizza il progetto apostolico di
Don Bosco: «essere nella Chiesa segni e portatori dell’amore di
Dio ai giovani, specialmente ai più poveri» (Cost.
2); compiendo questa missione «troviamo la via della nostra
santificazione» (Cost.
2). La missione salesiana, che «dà a tutta la nostra vita il suo
tono concreto» (Cost.
3), ci rende più «sensibili a certi lineamenti della figura del
Signore» (Cost.
11) e fa sì che il nostro contemplare Cristo e il nostro agire
cristiano siano permeati da passione per Dio e da compassione per i
giovani. Noi salesiani conosciamo,
amiamo e seguiamo Gesù,
stando tra i giovani.
Immersi nel mondo e nelle preoccupazioni della vita pastorale,
impariamo a incontrare Cristo attraverso coloro ai quali siamo stati
mandati (cf. Cost.
95). Il nostro accesso a Cristo passa attraverso i giovani. Noi
salesiani non possiamo pensare, vedere, trovare, amare e seguire il
Cristo senza essere circondati dai giovani o almeno senza essere
consapevoli di essere a loro inviati. I giovani sono la nostra
missione e «la sorte che ci è toccata, l’eredità che abbiamo
ricevuto» (Sal.
16, 6). Lontano dai giovani, non riusciamo a contemplare
Cristo o almeno non guardiamo il Cristo
contemplato da Don Bosco; i giovani cui siamo inviati sono il luogo e
la ragione della nostra esperienza cristiana. Questo significa che
esiste una via
salesiana per
contemplare e, quindi, per conoscere, amare e seguire
Gesù.
Poiché la cristologia è la riflessione sistematica sulla persona e
sull’opera di Gesù di Nazareth, il Cristo, il Figlio di Dio,
qualcuno potrebbe domandarsi se si può dare una “cristologia
salesiana” oppure se la cristologia,
per essere autentica, deve essere priva di qualsiasi
aggettivo.
È chiaro che, per essere se stessa, la riflessione cristologica deve
essere fedele al suo compito, che riguarda la comprensione e
l’intelligenza nella fede della persona reale, concreta e storica
di Gesù di Nazareth, confessato come Cristo e Figlio di Dio. Essa
deve pure rimanere fedele al modo in cui la tradizione normativa
cristiana ha compreso e spiegato lungo i secoli tale
figura.
Tuttavia questa fedeltà non
esclude approcci diversi alla persona e all’opera di Gesù, senza
esaurirne mai la ricchezza; lo stesso mistero personale di Cristo li
richiede e li rende inevitabili. Se è vero che nessuna persona umana
può venire definita con una sola frase, né fissata in un solo
atteggiamento, né contemplata da un’unica prospettiva, ciò vale
molto di più per Gesù, figlio di Maria e Figlio di Dio, vero uomo e
vero Dio. Quanto più ci avviciniamo, tanto più percepiamo la figura
di Cristo come mistero.
Non perde quindi attualità né urgenza la domanda che Gesù rivolse
ai suoi discepoli, e continua a rivolgere anche a noi: «E
voi, che dite? Chi sono io?» (Mc
8, 29).
Tra i tanti fattori che “diversificano” le prospettive e quindi
moltiplicano
le risposte alla domanda cristologica possiamo menzionare:
-
la permanente professione ecclesiale
di fede che, lungo duemila anni, ha utilizzato concetti e termini
diversi per comprendere ed esprimere l’esperienza della salvezza in
Cristo e in cui appare più che l’immutabilità delle formule,
l’impegno di fedeltà dei credenti;
-
i diversi contesti geografici e
culturali nei quali è cresciuta e si è
sviluppata la fede in Cristo, con una attenzione anche alla
religiosità popolare, che particolarmente in campo cristologico
presenta una amplissima e inesauribile varietà di espressioni e
simbologie;
- la
sensibilità carismatica
della vita consacrata, che ha «fatto sorgere, dall’esperienza
dello Spirito dei fondatori e fondatrici, … le specifiche riletture
del vangelo che si trovano in ogni carisma» [11]
; i carismi, doni dello
Spirito Santo alla Chiesa, hanno alla base una “intuizione
cristologica” e tendono alla sequela e imitazione del Signore Gesù
da una prospettiva propria, senza la pretesa di essere esauriente o
esclusiva.
Di questa sensibilità carismatica noi siamo coscienti e fieri: «Il
Vangelo è unico e il medesimo per tutti, ma esiste una ‘lettura
salesiana del Vangelo’, da cui deriva
una maniera salesiana di viverlo. Don Bosco ha rivolto lo sguardo a
Cristo per cercare di rassomigliargli nei lineamenti del volto che
più corrispondevano alla sua missione provvidenziale e allo spirito
che la deve animare»
[12] . E questo non
esprime forse la necessità di vivere una nostra propria e specifica
esperienza di Cristo, nata nella missione giovanile che, narrata,
diventa necessariamente “cristologia
salesiana”? Proprio per questo ci
sembra giustificato parlare di una “cristologia salesiana”,
quella appunto che mette in rilievo i
“lineamenti della figura del Signore” ai quali la nostra missione
ci ha resi “più sensibili” (cf. Cost.
11). Su questa rilettura cristologica salesiana si fonda una profonda
spiritualità ed una efficace prassi pastorale, tutte centrate su
Cristo e con chiara identità carismatica; occorre cioè una
contemplazione di Cristo, esplicitamente salesiana, per vivere una
esperienza spirituale e per realizzare una prassi pastorale con
chiara identità.
2.
Gesù Cristo nella vita di Don Bosco
All’inizio di un carisma che Dio dà alla sua Chiesa e, attraverso
di essa, al mondo intero, si trova sempre un fondatore
o una comunità fondatrice. Proprio perché è un dono che
caratterizza in maniera singolare la vita cristiana, il carisma
privilegia nel credente che lo riceve tratti specifici nella sua
forma di capire, amare e vivere il Cristo.
Lo
spirito salesiano, quello «stile originale di vita e di azione» che
«Don Bosco ha vissuto e ci ha trasmesso sotto l’ispirazione di
Dio» (Cost.
10), «trova il suo modello e la sua sorgente nel cuore stesso di
Cristo, apostolo del Padre» (Cost.
11). È vero che «noi scopriamo [Cristo] presente in Don Bosco che
donò la sua vita ai giovani»; ma «per comprendere il
nostro spirito nel suo elemento centrale,
bisogna andare più in là della persona di Don Bosco. Bisogna andare
alla Sorgente cui egli ha attinto: la
persona stessa di Cristo»
[13] .
Per questo ci interessa conoscere ed amare il Cristo che Don Bosco ha
vissuto e pensato, identificare i lineamenti della sua persona ai
quali come salesiani “siamo più sensibili” (Cost.
11) e quindi, afferrati da Lui e da Lui affascinati, metterci al suo
seguito. E proprio perché in Don Bosco si fa a noi presente il modo
di conoscere, amare e seguire Cristo, è in Don Bosco, attraverso il
suo vissuto spirituale e apostolico, che siamo chiamati ad
avvicinarci da salesiani a Cristo Gesù.
2.1.
Il Cristo del vangelo
Più che la fede professata da Don Bosco e il suo credo cristologico,
ci interessa evocare la sua fede vissuta e l’atteggiamento
fondamentale che prese la sua relazione personale col Signore Gesù;
è più importante, cioè, riferirsi alla “fides
qua” che alla
“fides quae” di Don Bosco. Da
questa prospettiva, sembra che la sua formazione teologica abbia un
valore relativo nei confronti della sua esperienza
cristiana.
Cristo era per Don Bosco una persona
viva e presente in ogni momento della
sua vita e del suo agire; per lui non fu mai solo una verità
astratta o un ideale da raggiungere. Direi che l’atteggiamento che
contraddistingue la sua fede cristiana è quello del rapporto
- vicinanza - amicizia. Lo si può
verificare nel primo articolo delle Costituzioni del 1858, dove aveva
scritto: «Lo scopo di questa Società è di riunire insieme i suoi
membri… a fine di perfezionare se medesimi imitando le virtù del
nostro Divin Salvatore, specialmente nella carità verso i giovani
poveri» [14]
.
Questo rapporto è caratterizzato dalla convinzione che Gesù è il
Figlio di Dio fatto
Uomo;
anzi, in accordo con la teologia del suo tempo, Don Bosco identifica
praticamente Gesù Cristo con ‘Dio’, pur non ignorando la realtà
trinitaria del Mistero Divino; e così in Don Bosco i termini “Gesù
Cristo” e “Dio” diventano praticamente
intercambiabili.
All’interno di questa stessa “contemporaneità” col Cristo, non
troviamo in Don Bosco una sensibilità per il Gesù storico, né
quindi la preoccupazione di giungere al “Gesù di Nazareth”,
così come tentano di fare l’esegesi e la teologia attuale. Per lui
non vi è altro Gesù che il Signore Gesù dei Vangeli.
2.2.
La configurazione a Cristo
Per tracciare un profilo dell’atteggiamento di Don Bosco nei
confronti della persona di Gesù Cristo, mi sembra chiarificante
richiamare il sogno dei dieci diamanti,
nel quale Don Bosco ha voluto rappresentare “l’identità del
salesiano”, come ci ha ricordato anche il recente CG25
[15] . Con don Rinaldi si
può poi affermare che Don Bosco «è stato sempre in tutta la sua
vita l’incarnazione vivente di questo simbolico personaggio!» [16]
. Ebbene, nella
descrizione del personaggio, modello del salesiano, troviamo una
differenza tra la parte frontale del manto e quella dorsale; in
questa seconda sono presenti quegli atteggiamenti
nascosti, che in certo modo sostengono
e fortificano la fede, la speranza e la carità, nelle quali consiste
propriamente la testimonianza visibile.
Nella presentazione del Signore Gesù che Don Bosco fa ai suoi
ragazzi e alla gente cui dirige la propria predicazione e i propri
scritti, egli pone l’accento soprattutto sulla dimensione mistica
della contemplazione di Cristo, ossia sulla bontà
inesauribile del Maestro, sulla sua misericordia,
sulla sua capacità
di perdono.
In particolare nelle “Vite” dei giovani esemplari di Valdocco,
morti prematuramente, mette in risalto un tratto tipicamente
salesiano: l’amicizia con Gesù.
Valga come esempio per tutti la frase programmatica di Domenico Savio
nel giorno della Prima Comunione: «I miei migliori amici saranno
Gesù e Maria». Questa realtà è, per così dire, la parte frontale
del manto.
In cambio, negli scritti per i soci salesiani, a cominciare
dall’Introduzione alle Costituzioni e nelle Costituzioni stesse,
Don Bosco accentua la dimensione ascetica,
che implica la sequela e l’imitazione di Gesù Cristo nelle diverse
dimensioni della vita consacrata ed in modo particolare nei consigli
evangelici. Il fatto è così evidente che, se non si tiene conto
della diversità dei destinatari, potrebbe dar l’impressione che
Don Bosco contraddica se stesso.
Per esempio, parlando dell’obbedienza Don Bosco scrive: essa
«dev’essere ad esempio del nostro Divin Salvatore, che la praticò
anche nelle cose più difficili, fino alla morte di croce». Quanto
alla povertà, egli scrive: «[ il salesiano ] segue l’esempio del
nostro Salvatore, che nacque nella povertà, visse nella privazione
di tutto e morì nudo su una croce». E parlando della fedeltà alla
vocazione, dà questa indicazione: «Ognuno faccia di perseverare
fino alla morte nella sua vocazione, ricordandosi sempre di quelle
gravissime parole del Divin Salvatore... Niuno, che pone la mano
all’aratro e guarda indietro, è atto pel Regno di Dio»
(Costituzioni del 1874,
art. 21 ).
Benché sia chiaro, occorre sottolineare che la sequela e imitazione
di Gesù Cristo non sono da capire come una costosa rinuncia, ma come
un’offerta libera e gioiosa; non come una occupazione puntuale,
ma come una totale
consacrazione. «Non seguiamo una virtù (obbedienza, povertà,
castità) o una attività (l’educazione, le missioni, ecc.), ma
seguiamo una Persona che vogliamo imitare nella sua pienezza e un
Vangelo che vogliamo vivere nella sua globalità» [17]
. Io stesso ve lo
scrivevo poco tempo fa: «Non ci si fa religiosi ‘per’ qualche
cosa, ma a ‘causa di’ qualcuno: di Gesù Cristo e del fascino che
egli esercita» [18]
.
Questa apparente dicotomia non è tale, se teniamo presente l’intimo
e inseparabile rapporto tra vangelo e vita, tra fede
e morale,
così come lo intese e lo visse Don Bosco. Nella sua vita e nel suo
sistema educativo la morale non è mai fine a se stessa; il
compimento del dovere, per esempio, non deriva da un “imperativo
categorico” di stile kantiano, ma dal desiderio di realizzare per
amore la volontà di Dio in tutto, anche nei dettagli minimi della
vita. Viceversa, questa amicizia con Dio non scade mai in un
“cameratismo” che passi sopra l’adempimento dei comandamenti;
chi ama si impegna a realizzare la volontà espressa e persino i
desideri nascosti della persona amata. Lo ha detto Gesù: «Se mi
amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv
14,15). È questo, usando una immagine tipicamente salesiana, il
paradosso del pergolato di rose.
In particolare, l’insistenza di Don Bosco sulla pratica del
Sacramento della Riconciliazione è molto significativa: essa
costituisce uno dei pilastri del suo edificio educativo. Nelle “Vite”
da lui scritte ciò è molto evidente, a tratti persino insistente:
la fiducia in Gesù non annulla la consapevolezza della propria
fragilità morale, anzi quella confidenza è tanto più forte quanto
maggiore è questa coscienza.
Finalmente, il rapporto che Don Bosco ha e inculca verso il Signore
Gesù è inseparabile dalla devozione alla Santissima Vergine Maria.
In realtà per lui, nella sua proposta educativa della fede, diventa
un motto sicuro l’espressione cara a san Luigi Maria Grignion de
Montfort: Ad Iesum per Mariam.
A questo riguardo – come da molti altri punti di vista – il sogno
dei nove anni è esemplare: Gesù e
Maria compaiono insieme, ma Ella gli viene data come maestra, appunto
per renderlo discepolo di Gesù e per aiutarlo a diventare “umile,
forte e robusto”.
3.
Gesù Cristo “Apostolo del Padre e Buon Pastore”
Dopo aver approfondito la legittimità di una “cristologia
salesiana”, nel senso di una rilettura carismatica di alcuni
aspetti della cristologia e dopo avere accennato alla centralità
della relazione con Cristo e all’importanza della configurazione a
Lui nell’esperienza di Don Bosco, è giunto il momento di
evidenziare i lineamenti specifici
che noi salesiani accentuiamo nella contemplazione di Cristo. Li
troviamo in modo assai denso, anche se breve, nell’articolo 11
della nostra Regola di Vita; da subito «va notato lo stretto legame
che vi è tra di essi e con la persona di Cristo nella linea della
‘carità’ del buon Pastore»
[19] .
Pur trattandosi di aspetti evangelici che ogni salesiano deve cercare
di coltivare nella propria “identità carismatica”, noi li
riscontriamo in Don Bosco in forma quasi “connaturale” ed inoltre
con una caratteristica straordinaria: risulta praticamente
impossibile separare in lui la ricchezza dei doni
dello Spirito Santo e la “infrastruttura umana” che li sostiene.
Si può parlare per questo di «uno splendido accordo di natura e di
grazia» (Cost.
21). Nell’analizzare questi tratti do per scontato che essi sono
centrali nella vita di Gesù; sarebbe molto arricchente analizzarli
in quanto tali; qui li vediamo solo in
quanto vissuti e riflessi nel nostro
Padre e Fondatore; mi limiterò perciò ad offrire una semplice
glossa.
3.1. La
gratitudine al Padre per il dono della vocazione divina a tutti gli
uomini
“La
gratitudine al Padre…”
In Don Bosco la gratitudine è
uno dei sentimenti più marcati e più nobili della sua personalità
umana, che egli volle trasmettere in massimo grado ai suoi figli. Si
tratta però di un atteggiamento derivato,
poiché è la risposta alla gratuità,
tanto nel campo delle relazioni umane, quanto soprattutto nel
rapporto con Dio. Nello sviluppo di tale atteggiamento la figura di
Mamma Margherita ha avuto grande importanza: esso, infatti, è
associato al forte senso della Provvidenza
che la Mamma gli inculcò, tanto nel contemplare la natura, come
nella valutazione della propria vita.
Nella fusione dei due aspetti – umano e cristiano – «in un
progetto di vita fortemente unitario: il servizio dei giovani»
(Cost.
21), la gratuità occupa un posto essenziale. L’articolo 20 delle
Costituzioni la presenta come il primo tratto del sistema preventivo,
che «era per lui un amore che si dona gratuitamente,
attingendo alla carità di Dio che previene ogni creatura con la sua
Provvidenza, l’accompagna con la sua presenza e la salva donando la
vita» (Cost.
20).
Mentre studiava filosofia, Giovanni Bosco accompagnò dei giovani di
classe benestante in un soggiorno estivo dei Gesuiti nei pressi di
Torino, al quale essi avevano inviato i loro convittori durante una
epidemia. Se è vero che egli non trovò difficoltà nel rapporto con
loro, anzi ebbe in questi giovani degli amici che gli volevano bene e
lo rispettavano, si convinse che il suo ‘metodo’ non si adattava
ad un sistema di ‘compenso reciproco’: «A Montaldo […] percepì
la difficoltà di ottenere su quei giovani l’influsso pieno che è
necessario per far loro del bene. Quindi si persuase di non essere
chiamato ad occuparsi di giovani di famiglie agiate»
[20] .
È impensabile il sistema educativo pastorale di san Giovanni Bosco
senza il vissuto della gratuità da ambedue
le parti: le dimostrazioni di gratitudine dei suoi ragazzi sono
innumerevoli e commoventi, proprio perché non ringraziavano per quel
che Don Bosco dava loro, ma ringraziavano lo stesso Don Bosco che si
dava loro, come espressione dell’amore gratuito e preveniente di
Dio. Ed egli stesso si considerava così, come testimoniano le
Memorie Biografiche
che ci dicono che nel 1859 Don Bosco diede se stesso come strenna:
«Quel poco di scienza, quel poco di
esperienza che ho acquistato, quanto sono e quanto posseggo,
preghiere, fatiche, sanità, la mia vita stessa, tutto desidero
impiegare a vostro servizio. Per parte mia, per strenna vi do tutto
me stesso; sarà una cosa meschina, ma quando vi do tutto, vuol dire
che nulla riserbo per me»
[21] .
“
… per il dono della vocazione divina a tutti gli uomini”
C’è un presupposto fondamentale, densamente teologico, nel
pensiero e nella prassi educativa pastorale del nostro Fondatore: la
certezza che ogni persona non è solo soggetto di diritti e di
doveri, oppure oggetto di filantropia “orizzontale”, ma in
qualunque situazione e nonostante qualsiasi limite, deficienza o
peccato, essa è immagine di Dio;
tutti sono figli e figlie di Dio, chiamati
alla Sua amicizia e alla vita eterna. Da questa convinzione di fede
sgorgava in Don Bosco la speranza,
intesa come fiducia in ogni persona, soprattutto nel giovane, che
risveglia in lui l’autostima e le sue energie di bene. Questa
scintilla di bontà che egli non solo incontrava, ma che presupponeva
in ciascun giovane, persino in quelli che potevano essere considerati
da altri come irrecuperabili, è la sua tipica espressione
pedagogica. È assai importante per tutti noi che crediamo e portiamo
nella nostra prassi educativa pastorale questa convinzione del nostro
amato padre, che diceva: “In ogni giovane, anche il più
disgraziato, c’è un punto che opportunamente scoperto e stimolato
dall’educatore, reagisce con generosità”
[22] .
D’altra parte, pur con i limiti dell’ecclesiologia del suo tempo,
questa convinzione fu per Don Bosco la fonte del suo ‘ecumenismo’
e della sua ansia missionaria:
non riteneva di potersi riposare finché non avesse annunciato a
tutti gli uomini e tutte le donne del
mondo, senza distinzione di razza o di lingua, la Buona Novella
dell’Amore di Dio in Cristo, che ci chiama a formare la grande
Famiglia dei suoi figli e delle sue figlie, che è la Chiesa. Questa
è di fatto la sorgente da cui scaturiva la sua instancabile attività
e la sua prodigiosa fantasia pastorale.
Bisogna dire che Don Bosco incarnò pienamente l’intuizione
teologica di san Paolo, che ci ricorda come dal Padre «procede ogni
paternità in cielo e in terra» (Ef
3, 15); egli seppe essere una mediazione eccezionale dell’amore
paterno-materno di Dio per coloro che meno si sentivano degni di Lui
o per coloro che non avevano vissuto un’esperienza positiva di un
padre o di una madre.
3.2.
La predilezione per i piccoli e i poveri
Non occorre dimostrare questa attenzione ai piccoli e ai poveri, sia
in riferimento all’atteggiamento di Gesù, perché sono numerosi al
riguardo i testi evangelici e centrale la loro rilevanza, sia in
riferimento all’impegno di Don Bosco. In ogni caso conviene far
notare che questa predilezione in Don Bosco non deriva solo dalla
magnanimità del suo cuore paterno, “grande come l’arena del
mare”, né dalla situazione disastrosa della gioventù del suo
tempo – come anche del nostro –, né molto meno da una strategia
socio-politica. All’origine di essa c’è una missione
di Dio: «Il Signore ha indicato a Don
Bosco i giovani, specialmente i più poveri, come primi e principali
destinatari della sua missione» (Cost.
26). Ed è bene ricordare che questo avvenne «con l’intervento
materno di Maria» (Cost.
1); infatti Ella «ha indicato a Don Bosco il suo campo di azione tra
i giovani e l’ha costantemente guidato e sostenuto» (Cost.
8).
In
tale senso è ‘normativo’, e non un semplice aneddoto,
l’atteggiamento che Don Bosco assunse in un momento decisivo della
sua esistenza sacerdotale, di fronte alla Marchesa di Barolo e
all’offerta, certamente apostolica e santa, di collaborare nelle
sue opere, abbandonando i ragazzi straccioni e soli: «Ella ha danaro
e con facilità troverà preti quanti ne vuole pe’ suoi istituti.
De’ poveri fanciulli non è così…Cesserò dall’impiego
regolare e mi darò di proposito alla cura dei fanciulli abbandonati»
[23] .
Sarebbe molto interessante approfondire le caratteristiche tipiche
dei destinatari preferenziali della nostra missione: “giovani
poveri, abbandonati e in pericolo”.
Anche se oggi si parla di “nuove povertà” dei giovani, la
povertà allude
direttamente alla loro situazione socio-economica; l’abbandono
richiama la “qualifica teologica” di privazione di sostegno a
causa della mancanza di una mediazione adeguata dell’Amore di Dio;
il pericolo
rimanda ad una fase determinante della vita, l’adolescenza –
gioventù, che è il tempo della decisione, dopo la quale molto
difficilmente si possono cambiare le abitudini e gli atteggiamenti
adottati. Tale approfondimento serve come punto di partenza per
determinare in ogni Ispettoria (cf. Reg. 1) e comunità, quali sono i
destinatari prioritari nell’hic et
nunc concreto, tenendo conto, certo,
dei criteri or ora segnalati.
Tale predilezione si acuisce in alcuni contesti in cui si svolge la
nostra missione, dove la povertà, soprattutto giovanile, è
lacerante. Il salesiano, ancor meno di chiunque, non tende a creare
scontri o “lotta di classe”. La predilezione non è solo una
scelta o una “opzione”: essa presuppone un “amore universale”,
che però comporta alcune accentuazioni; non esclude nessuno, ma
non privilegia tutti: sarebbe
contraddittorio. Ciò che importa nella testimonianza è che sia ben
chiaro che
la nostra è una predilezione evangelica,
che realizza la pratica di “dare il
massimo a colui che nella propria vita ha ricevuto il minimo”.
La carità salesiana intende incominciare non dai primi, ma dagli
ultimi, non dai più ricchi dal punto di vista economico o
spirituale, i quali hanno già attenzione e servizi; ma da coloro che
hanno bisogno di noi per suscitare speranza e svegliare
energie.
3.3. La
sollecitudine nel predicare, guarire, salvare sotto l’urgenza del
Regno che viene
“
La sollecitudine nel predicare…”
«La
vita intera di Don Bosco imita e prolunga, specialmente in favore dei
giovani, l’ardore apostolico esplicato da Cristo nella sua vita
pubblica»
[24] .
Subito all’inizio del suo Vangelo, Marco ci dice: «Dopo che
Giovanni fu messo in prigione, Gesù si recò in Galilea, predicando
il vangelo di Dio» (Mc
1,14). Anche se ci sono altri testi in cui l’attività di Gesù
viene compresa in tre azioni – predicare il Vangelo, scacciare i
demoni, guarire le malattie e sofferenze (cf. Mc
3,13; Mt
9,35) – non c’è dubbio che la sua missione principale era quella
di “proclamare il Vangelo, il lieto messaggio di Dio”.
Per Don Bosco è così importante questo elemento, da costituire la
sua principale richiesta il giorno della sua Prima Messa: «È pia
credenza che il Signore conceda infallibilmente quella grazia, che il
nuovo sacerdote gli domanda celebrando la prima Messa; io chiesi
ardentemente l’efficacia della parola,
per poter fare del bene alle anime. Mi pare che il Signore abbia
ascoltato la mia umile preghiera»
[25] .
Questo aspetto è in intimo rapporto con il carattere educativo del
metodo preventivo, in particolare della ragione,
parte del trinomio fondamentale, con la
religione e l’amorevolezza.
«La ‘ragione’, a cui Don Bosco crede come dono di Dio e come
compito inderogabile dell’educatore, indica i valori del bene,
nonché gli obiettivi da raggiungere, i mezzi e modi da usare»
[26] . Fa anche sì che
il vissuto dei Sacramenti, colonne del suo edificio educativo
pastorale, non degeneri in “sacramentalismo”,
ma si trasformi in vera vita di comunione con Dio.
Certo, Don Bosco non adoperò il termine “evangelizzare”; egli
parlava infatti di fare il catechismo ai ragazzi e predicare al
popolo. Con questo intendeva ciò che Paolo VI definì come la
ragione d’essere della Chiesa (cf. EN,
15). E in questo senso la preoccupazione del nostro fondatore è
stata recepita nella nostra Regola di Vita in un articolo che
comincia appunto citando una sua frase: «“Questa Società nel suo
principio era un semplice catechismo”. Anche per noi
l’evangelizzazione e la catechesi sono la dimensione fondamentale
della nostra missione» (Cost.
34).
“… guarire…”
Non occorre sottolineare la centralità di questo aspetto nella vita
e nella prassi di Gesù; basti ricordare la sua risposta agli inviati
di Giovanni il Battista: «Andate a raccontargli quel che udite e
vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono
risanati, i sordi odono, i morti risorgono e la salvezza viene
annunciata ai poveri» (Mt
11,4-5). Nel vangelo di Giovanni, poi, tutta la prima parte si
incentra sui “segni” di Gesù, la maggior parte dei quali entra
in questo campo.
Pur non dimenticando che Don Bosco ebbe da Dio anche il carisma della
guarigione, non è a questo che si riferisce l’articolo 11 delle
Costituzioni, tanto meno in rapporto all’operato dei suoi figli;
non siamo una Congregazione che si dedichi preferibilmente agli
ammalati.
Ciò nonostante, si tratta di un punto essenziale del nostro carisma,
che accentua due dimensioni. Attualmente, tanto in campo psicologico
come in quello della medicina si è ampliato il concetto di ‘salute’
o di ‘guarigione’; è indubbio che i nostri destinatari
prioritari
sono, in generale, ragazzi e ragazze ‘malati’
a causa della loro stessa situazione di abbandono: dai traumi
infantili e familiari fino alle dipendenze e assuefazioni fisiche o
psicosomatiche. «Tutto ciò ci ha portato – scriveva don Vecchi –
a ripensare il concetto di prevenzione
e preventività.
Forse per molti significava occuparsi soltanto di ragazzi e giovani
che non sono stati ancora raggiunti dal male. Anticipare è
certamente una regola d’oro. Ma ‘prevenire’ vuol dire anche
impedire la rovina definitiva di chi è già sulla cattiva strada, ma
ha ancora energie sane da sviluppare o ricuperare. Nell’attuale
riflessione socio-pedagogica si parla di una prevenzione prima e di
base, di una seconda, di ricupero e rafforzamento, e di una ultima
che riesce ad arginare le conseguenze estreme del male»
[27] .
D’altra parte non dobbiamo dimenticare il significato
dei miracoli di Gesù. Uno dei migliori specialisti del tema scrive:
«Il miracolo è destinato alla salvezza
di tutto l’uomo: il suo cuore e il
suo corpo. Gesù, perdonando e guarendo l’uomo dalle sue miserie,
gli fa prendere consapevolezza della propria impotenza di fronte al
peccato, alla malattia, alla morte […] Il miracolo è il segno
concreto di quel che rappresenta Gesù per l’uomo: colui che salva
totalmente, fisicamente e spiritualmente»
[28] .
In questa prospettiva si colloca pienamente il carisma salesiano. Don
Bosco cerca, con il “criterio oratoriano” (cf. Cost.
40), la promozione integrale
dei suoi ragazzi. Coloro che negano la realtà dei miracoli, molte
volte lo fanno a nome di uno “spiritualismo”, come se a Dio
interessasse solo “l’anima” e le attività religiose.
“…
e salvare…”
I tre verbi “predicare, guarire e salvare” si collocano in chiara
progressione, fino ad arrivare al culmine: la salvezza
dei ragazzi, che è il culmine dell’attenzione di Don Bosco, come
testimonia don Rua: «Non diede passo, non pronunciò parola, non
mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della
gioventù. Realmente non ebbe a cuore altro che le anime»
[29] .
Quando dimentichiamo che lo scopo ultimo del lavoro salesiano è,
sull’esempio di Gesù, la salvezza, cadiamo in un riduzionismo che
rappresenta un tradimento del sistema preventivo. Invece il rapporto
con quanto detto sopra ci parla di una salvezza integrale,
che si concretizza in quel motto fondamentale: “da
mihi animas”. Il termine anima
non vuole certo esprimere una dicotomia, ma è metonimico:
per Don Bosco ‘anima’ significa tutta la persona, nella
prospettiva del piano di Dio; e la ‘santità’, che viene ad
essere sinonimo di salvezza,
è la realizzazione della vocazione divina di ogni essere
umano.
Sospinti da questa concezione antropologica integrale, nel nostro
lavoro educativo pastorale noi non possiamo mai fermarci nelle soglie
dell’evangelizzazione, ma in qualsiasi contesto dobbiamo cercare di
aprire i giovani alla trascendenza religiosa, che non solo è
applicabile a tutte le culture, ma adattabile con frutto anche alle
religioni non cristiane.
“…
sotto l’urgenza del Regno che viene”
Su questo punto, centrale nella predicazione e nella prassi di Gesù,
non possiamo dire che Don Bosco abbia insistito esplicitamente:
sarebbe anacronistico attendersi da lui un’accentuazione che solo
nel secolo XX è stata ripresa, anche se più nell’esegesi e nella
teologia che nella vita ordinaria della Chiesa. Eppure non si tratta
solo di una espressione retorica: in qualche modo l’intuizione
fondamentale che comporta il Regno è presente, con altre parole ed
altri atteggiamenti, in Don Bosco e nel suo Carisma.
Prendiamo, tra altri testi evangelici, uno dei più importanti: il
Discorso della Montagna (Mt
5-7). Dal punto di vista formale
esso include diversi generi letterari: beatitudini, ‘norme’ nuove
rispetto alla Legge antica, preghiera del ‘Padre Nostro’, ecc. Il
tutto però è unificato dalla centralità del Regno:
per questo è stato chiamato la “carta
magna della proclamazione del Regno”.
Un Regno, in cui la paternità di Dio non si caratterizza per il suo
dominio, ma al contrario il suo dominio si qualifica per la
paternità, di modo che nel “Regno dei cieli” non vi sono
schiavi, e nemmeno servi, ma figli.
Quando si dimentica questa prospettiva, si dissociano tutti i suoi
elementi, persino la proposta di Gesù, contrapposta alla Legge
antica, diventa un carico impossibile da portare: se questa uccide,
quella annichilisce.
È quel che un autore chiama “la teoria della non
fattibilità (irrealizzabilità) del
precetto”, rappresentata dall’ortodossia luterana. «Gesù esige
che ci liberiamo totalmente dall’ira: una semplice parola ostile
merita persino la morte. Gesù esige una castità che evita anche
solo lo sguardo impuro. Gesù esige una veracità assoluta, amore
verso i nemici»
[30] . Secondo questo
modo di comprendere, la Nuova Legge ci è data solo perché capiamo
in modo vitale che non possiamo adempierla,
e affinché, pertanto, ricorriamo con umile fiducia alla misericordia
di Dio.
Quando invece si incentra tutto ciò nel Regno, si comprende cosa
costituisce la “gioiosa notizia” di
Gesù: «Il Regno di Dio è vicino» (Mc
1, 15). È una situazione nuova, dono
di Dio con la collaborazione umana, che affonda le radici nella
metanoia.
Nella misura in cui diviene realtà il dominio paterno del Dio -
Abbà, e in cui noi umani viviamo come fratelli, l’utopia diviene
realtà; non si “costruisce” il Regno mettendo insieme i pezzi
del Discorso della Montagna; esso sgorga invece, come da un nucleo
sorgivo, dall’annuncio del Regno.
Non è forse quel che Don Bosco cercava di creare nelle sue opere e
che va sotto il nome di “ambiente”
[31] ? Si tratta di una
situazione costituita da persone, risorse, valori, attività, che
permettano al giovane – anche al più povero e abbandonato – di
sperimentare “la bellezza della virtù, la bruttezza del peccato”.
Si comprende così la famosa frase di Don Bosco: “mettere il
giovane nell’impossibilità morale di peccare”; non coartandone
la libertà, ma, al contrario, irrobustendone affettivamente
la volontà e la vita cristiana, in modo che possa vivere, in piena
libertà, il suo carattere di figlio/a di Dio e di fratello/sorella
degli altri. La rilevanza di questa ‘ecologia’
educativa pastorale potrebbe essere la
traduzione, in chiave salesiana, della centralità del Regno e
dell’urgenza della sua venuta.
3.4.
L’atteggiamento del Buon Pastore che conquista con la mitezza e il
dono di sé
È ovvio il carattere simbolico della figura del pastore, applicata
alle persone che hanno a loro carico la responsabilità e la cura di
altri, con l’ambivalenza che tale figura implica: si può servire
gli altri o servirsi di essi. Una tale ambivalenza si presenta pure
nella Rivelazione, fin dall’Antico Testamento. Uno dei testi più
importanti al riguardo, presentato tra l’altro in chiave
messianica, è quello di Ezechiele 34, che in alcuni dei suoi
versetti appare come citazione all’inizio delle Costituzioni. È
un’ardita applicazione a Don Bosco, chiamato ad essere “pastore
dei giovani” e, dunque, applicabile a ogni salesiano invitato a
fare sua la missione di Don Bosco: «Io stesso cercherò le mie
pecore e ne avrò cura… Io susciterò per loro un pastore unico…
Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore» (Ez
34, 11.23).
Nella predicazione di Gesù tale figura occupa un posto di rilievo,
anzitutto nella presentazione del Signore come Buon Pastore in Gv.
10, 1-18; 25-30, come anche nella parabola della pecorella smarrita,
presente in Lc. 15, 4-7 e Mt. 18, 12-24 con contesti letterari e
teologici molto diversi.
Mettendo insieme questi testi, incontreremo alcune caratteristiche
molto interessanti del Buon Pastore, che Don Bosco assunse nella
propria sequela e imitazione di Gesù Cristo. Ricordiamo che nel
sogno dei nove anni l’immagine del buon pastore qualifica la
visione della missione giovanile; questa immagine si ripresenterà
alcuni anni più tardi, nel secondo sogno, che includerà un leggero
rimprovero per il fatto di non confidare sufficientemente in
Dio.
Gesù, il buon pastore, è la porta
delle pecore. L’esegeta cattolico Raymond Brown riferisce che E. F.
Bishop «offre un interessante esempio moderno del pastore che si
butta a dormire di traverso sulla soglia della porta, di modo che fa
le veci allo stesso tempo del pastore e della porta per il bestiame»
[32] . Potremmo mettere
sulla bocca del pastore ed anche sulle labbra di Don Bosco, queste
parole: “se vogliono arrivare alle mie pecore, dovranno passare su
di me”.
Egli conosce le sue pecore
e le chiama ad una ad una per nome; le pecore lo seguono, perché
conoscono la sua voce. Questo tratto evita il proverbiale malinteso
della massificazione
e del gregarismo: la “pecoraggine”. In un bel commento
esegetico-spirituale dell’incontro di Gesù Risorto con Maria
Maddalena, un altro esegeta scrive: «Ma quando (Gesù) si voltò
verso di lei e le disse questa parola: “Maria!”, allora fu pasqua
per lei. Ci ricordiamo delle parole di Gesù trasmesseci dallo stesso
evangelista: “Le mie pecore odono la mia voce e io le conosco”
(…) Senza dubbio, Giovanni vuole che pensiamo a queste consolanti
parole»
[33] .
Don Bosco realizzò, in modo eccezionale, questa conoscenza personale
dei suoi giovani: ognuno di essi si sentiva conosciuto
e amato personalmente,
a tal punto che discutevano tra di loro su chi fosse il prediletto
dal Padre; tutti erano convinti di essere i prediletti. Ricordiamo la
“parolina all’orecchio” e la conoscenza della loro situazione;
“leggeva loro in fronte”, dicevano i giovani pieni di
ammirazione. Questo, in gran parte almeno, si deve alla sua presenza
in mezzo a loro, una presenza tipica, detta nella tradizione
salesiana assistenza:
non solo fisica, ma soprattutto personale, affettuosa e preventiva;
mediazione umana del “Dio ti
vede”.
Egli va in cerca, con predilezione,
della pecorella smarrita.
È il tratto tipico e più scandaloso della parabola sinottica, con
sfumature diverse in Luca e Matteo. In Gesù essa esprime, tra gli
altri, due aspetti principali:
-
il “maggior amore” verso colui che ne ha più bisogno: il più
povero, l’ultimo, il peccatore; non è solo amore pastorale:
“agápe”
diremmo; è anche amore intimo: “filía”;
questo significa il “caricare sulle spalle”, pieno di
amorevolezza, la pecorella smarrita, una volta incontrata;
-
il “sovvertimento” dei criteri quantitativi a causa del criterio
qualitativo della situazione di chi è ‘perduto’: «vi dico che
così ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si
converte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di
conversione» (Lc 15,7);
in Don Bosco è così notoria tale predilezione che non mancano certo
esempi.
Egli dà vita alle sue pecore e dà la
vita per esse. Sembra un semplice gioco
di parole, ma esprime una doppia realtà molto profonda. Gesù è
venuto «perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv
10, 10). Ma questa pienezza di vita è inseparabile dal dono
della propria vita: «Per questo il
Padre mi ama, perché do la mia vita» (Gv
10, 17). È l’antitesi assoluta del pastore mercenario, che non
cerca il bene delle proprie pecore, e meno ancora pensa a
sacrificarsi per esse. Questa parola di Gesù trova doppio
compimento nel Mistero Pasquale, in cui
Gesù ci dà la pienezza della vita
dando pienamente la sua vita per noi.
A Don Bosco molto opportunamente sono state applicate queste parole
di san Paolo : «Per conto mio mi prodigherò volentieri, anzi
consumerò me stesso per le vostre anime» (2 Cor
12, 15). Il testo di don Rua sopra citato (Cost.
21), implica pure questo aspetto: «Non diede passo, non pronunciò
parola, non mise mano ad impresa…». Come dice lui stesso: «Io per
voi studio, per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono disposto anche
a dare la vita» (citato in Cost.
14).
3.5. Il desiderio
di radunare i discepoli nell’unità della comunione
fraterna
In tutti i Vangeli, prima o immediatamente dopo l’annuncio della
Buona Notizia, Gesù «chiamò a sé quelli che volle (…) perché
stessero con Lui e per mandarli a proclamare il Vangelo» (Mc
3, 13-14; citato in Cost.
96).
Le
discussioni insolubili circa il senso della fondazione della Chiesa
da parte di Gesù durante la sua vita pubblica, portano forse a
dimenticare l’essenziale, cioè che l’annuncio della salvezza
implica, nella parola e nella prassi di Gesù, la dimensione
comunitaria.
In questo senso, molti miracoli di Gesù svolgono anche la funzione
di reintegrare le persone nella comunità
umana, familiare, sociale e religiosa; come nel caso degli
indemoniati o dei lebbrosi.
Ma è soprattutto nel suo rapporto con i discepoli, in particolare
con “i Dodici”, dove appare più nitido questo tratto di Gesù,
che culmina nel racconto giovanneo dell’Ultima Cena. «Nessuno ha
un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici (…)
Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il
suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito
dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma
io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto
e il vostro frutto rimanga» (Gv
15,13-16a).
E posteriormente, nella Preghiera
Sacerdotale, Gesù chiede: «Padre,
voglio che anche quelli che mi hai dato, siano con me dove sono io»
(Gv 17,
24a); impossibile immaginare una espressione più semplice e più
profonda dell’amore che quella di essere
con colui che si ama.
Uno dei paradigmi biblici che meglio esprimono la salvezza è
precisamente la comunione fraterna. A proposito della ‘predizione’
di Caifa, dice l’evangelista: «.. profetizzò che Gesù
doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche
per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv
11, 51b-52). Purtroppo una visione individualista della salvezza ha
oscurato questa prospettiva ed ha ridotto anche la dimensione
ecclesiale ad una appartenenza giuridica, a volte persino esclusiva,
come avviene in qualche interpretazione dell’aforisma “extra
ecclesiam nulla salus”.
In Don Bosco tutto questo è così evidente che non possiamo nemmeno
immaginarlo come una persona solitaria, eccetto quando pregava; anche
se in realtà questo era proprio il momento in cui era meno
solitario. Possono applicarsi, per analogia, al nostro Padre le
parole che Urs von Balthasar dice a proposito della preghiera di
Gesù, grazie alla quale Egli «può arrivare ad essere “l’uomo
per gli uomini” (per tutti) […] Se Gesù non si fosse ritirato in
una solitudine così profonda con Dio, non sarebbe mai arrivato così
lontano nella comunione con gli uomini»
[34] .
Da lì viene la dedizione di Don Bosco ai giovani, così piena e
straordinaria che si è giunti a mettere sulle sue labbra, in un
canto in suo onore, che non potrebbe stare in cielo senza i giovani;
per lui non sarebbe cielo. Pur nella sua esagerazione, questa frase
mette l’accento sulla passione di Don Bosco per la convivenza
fraterna tra i suoi giovani ed evidentemente per la fraternità
comunitaria con i suoi figli salesiani. Se rileggiamo le espressioni
di Don Bosco sui “cinque difetti da evitarsi” nella
Congregazione, la maggior parte di esse si riferisce proprio alla
vita comunitaria
[35] .
Concludendo la presentazione di questi tratti salienti della figura
di Gesù, presenti nella vita di Don Bosco e in noi, dobbiamo
evidenziare che essi sono espressione irradiante di una realtà
nucleare ed originante: la carità
pastorale (cf. Cost.
10). Nella loro intima unità essi si possono anche considerare,
seguendo lo stile del CG25, come cinque
schede per un abbozzo di una
“cristologia salesiana”.
Da tale cristologia nasce per noi una vita religiosa, un’esperienza
spirituale ed una pratica pastorale, incentrate su Cristo e con
chiara identità carismatica: «Gesù Cristo è la legge vivente e
personale»
[36] , Egli è «la
nostra regola vivente» (Cost.
196).
4. Gesù Cristo “nostra
Regola Vivente”
«Quando la Chiesa riconosce una forma di vita consacrata o un
Istituto, garantisce che nel suo carisma spirituale e apostolico si
danno tutti i requisiti oggettivi per raggiungere la perfezione
evangelica, personale e comunitaria»
[37] . Poiché non esiste
altra perfezione evangelica che non sia la “configurazione
a Cristo”
(Rm 8,
29), che implica la sequela e la
imitazione del Signore Gesù, la Regola
di Vita di un Istituto deve presupporre, almeno implicitamente, una
cristologia carismatica.
Per noi salesiani essa era stata precisata in modo essenziale da Don
Bosco nel già citato articolo 1 delle Costituzioni del 1858 ed è
presente come dimensione trasversale ed in modo esplicito
nell’attuale testo costituzionale.
Quanto alla sequela
di Cristo, si deve ricordare che «all’origine della consacrazione
religiosa c’è una chiamata di Dio, che si spiega solo con l’amore
che egli nutre per la persona chiamata. Questo amore è assolutamente
gratuito, personale e unico. […] La chiamata di Cristo, che è
l’espressione di un amore redentivo, abbraccia la persona intera,
anima e corpo, sia uomo sia donna, nel suo unico e irripetibile ‘io
personale’»
[38] . E infatti le
nostre Costituzioni, richiamandosi a Gv. 10, 3.14, parlano della
«predilezione del Signore Gesù, che ci ha chiamati per nome»
(Cost.
196). Questa vocazione non si dà solo in vista della realizzazione
di una missione o di un compito da svolgere, ma è principalmente una
vocazione all’intimità e alla comunità di vita con Gesù: Egli
«chiamò personalmente i suoi Apostoli perché stessero
con Lui e per mandarli a proclamare il
Vangelo» (Cost.
96, citando Mc
3, 14).
Questa chiamata
che il Signore ci rivolge per dare una risposta alle “necessità
del suo popolo” (Cost.
28), soprattutto dei giovani più bisognosi, e la risposta
del discepolo che accoglie l’invito trovano la loro massima
espressione nella professione religiosa,
«segno dell’incontro di amore tra il Signore che chiama e il
discepolo che risponde» (Cost.
23).
Nella formula della professione, che è – non dimentichiamolo –
inserita in un contesto di preghiera,
si dice: «In risposta all’amore del Signore Gesù… che mi chiama
a seguirlo più da vicino» (Cost.
24; cf. Cost.
3); in tal modo si evidenzia espressamente il carattere dialogico
della vocazione, non come evento puntuale nella vita del salesiano,
ma come situazione permanente che lo caratterizza. La nostra risposta
si concretizza seguendo Gesù Cristo «nostra regola vivente» (Cost.
196) e praticando le Costituzioni Salesiane (cf. Cost.
196), che sono il nostro progetto evangelico di vita.
Questo carattere dialogico si esprime molto meglio nella Professione
Perpetua che, utilizzando un termine di inesauribile evocazione
biblica, è presentata come Alleanza:
per questo la nostra fedeltà «è
una risposta sempre rinnovata alla speciale alleanza che il Signore
ha sancito con noi» (Cost.
195).
Quanto all’imitazione
del Signore Gesù, troviamo nel contesto del nostro lavoro
missionario un riferimento di straordinaria densità biblica, che
sottolinea il senso della via dell’incarnazione: «Sull’esempio
del Figlio di Dio che si è fatto in tutto simile ai suoi fratelli…»
(Cost.
30); esso sembra riecheggiare due brani paradigmatici
sull’annientamento di Cristo e sulla sua solidarietà estrema con
l’uomo (Fil
2, 7; Eb
2, 14-18; 4, 15).
La sequela e imitazione di Gesù Cristo si concretizzano nei diversi
aspetti della vita salesiana, così come appaiono oggi nel testo
costituzionale: missione, vita
comunitaria, consigli evangelici, preghiera e formazione.
In primo luogo noi siamo coinvolti nella realizzazione della missione
che Gesù stesso ci affida,
collaborando con Lui al suo piano di salvezza. «Lo spirito salesiano
trova il suo modello e la sua sorgente nel cuore
stesso di Cristo, apostolo del Padre»
(Cost.
11); la carità pastorale ne è il centro e la sintesi (cf. Cost.
10).
Lavoriamo con Lui alla costruzione del
Regno (Cost.
3), che costituisce l’attenzione principale della vita di Gesù,
del suo agire e della sua parola. Nel primo capitolo delle
Costituzioni, dove viene definita la nostra identità, leggiamo
infatti che orientiamo «la nostra azione pastorale per l’avvento
di un mondo più giusto e più fraterno in Cristo», cercando di
rispondere alle necessità dei giovani e degli ambienti popolari, con
«la volontà di agire con la Chiesa e in suo nome» (Cost.
7), contribuendo a edificare la Chiesa stessa come Corpo di Cristo,
affinché anche per mezzo nostro sia realmente «sacramento
universale di salvezza» (Cost.
6).
Qui risiede la dimensione mistica
del lavoro salesiano:
sappiamo che con questo lavoro partecipiamo «all’azione creativa
di Dio e cooperiamo con Cristo alla costruzione del Regno» (Cost.
18). Questa costruzione del Regno di Dio si manifesta nella
molteplicità di attività che cercano la promozione integrale dei
giovani più poveri e degli ambienti popolari, cooperando con coloro
che creano una società più degna dell’uomo (cf. Cost.
33). Mi piace sottolineare che in questo compito il salesiano
coadiutore svolge una funzione propria e insostituibile, che va
valorizzata e promossa: la sua laicità consacrata infatti lo rende
«in modo specifico testimone del Regno di Dio nel mondo, vicino ai
giovani e alle realtà del lavoro» (Cost.
45).
Il contenuto della missione è molto chiaro: testimoniare
l’amore di Cristo. Pur non
dimenticando che siamo segni di un Dio Trinitario (cf. Cost.
2), concretamente siamo inviati ad essere continuatori della missione
di Gesù. Sull’esempio e sotto la protezione di Maria, siamo «tra
i giovani testimoni dell’amore inesauribile del suo Figlio» (Cost.
8), un amore che è autentico nella misura in cui si manifesta ed è
tanto più efficace quanto più viene percepito come espressione di
amore da parte dei nostri destinatari.
La salvezza non è solo trascendenza della liberazione, come se in
questa terra non dovessimo impegnarci fino in fondo per portare
sollievo a quanti soffrono le conseguenze del peccato, dell’egoismo,
della ingiustizia; la liberazione non è neppure solo immanenza della
salvezza, come se fosse possibile lavorare solo per creare il
paradiso quaggiù nella terra. Le nostre Costituzioni fanno una
sintesi splendida di questi due elementi quando dicono che l’amore
di Cristo è liberatore e salvifico.
Esso si concretizza nella promozione integrale dei nostri destinatari
(cf. Cost.
33) e così «attuiamo la carità salvifica di Cristo, organizzando
attività e opere a scopo educativo pastorale» (Cost.
41), centrate sull’evangelizzazione e sulla catechesi, poiché «la
nostra scienza più eminente è conoscere Gesù Cristo e la gioia più
profonda è rivelare a tutti le insondabili ricchezze del suo
mistero. Camminiamo con i giovani per condurli alla persona del
Signore risorto affinché, scoprendo in Lui e nel suo Vangelo il
senso supremo della propria esistenza, crescano come uomini nuovi»
(Cost.
34).
Questo compito è, al tempo stesso, comunitario
e personale: la comunità in quanto
tale deve essere «segno rivelatore di Cristo e della sua salvezza»
(Cost.
57), che ci libera dall’egoismo e ci rende fratelli, germe della
nuova umanità. Anche i consigli evangelici sono al servizio della
missione: con l’obbedienza «ognuno mette capacità e doni al
servizio della missione comune» (Cost.
69); la povertà «ci porta ad essere solidali con i poveri e ad
amarli in Cristo» (Cost.
79); e la castità «ci fa testimoni della predilezione di Cristo per
i giovani» (Cost.
81).
I destinatari
di questa missione sono i giovani,
soprattutto i più poveri, abbandonati e in pericolo (cf. Cost.
2 e 26). Già nel “sogno dei nove anni” fu lo stesso Gesù che ha
mostrato a Giovannino Bosco il campo di lavoro: «Il Signore ha
indicato a Don Bosco i giovani, specialmente i più poveri, come
primi e principali destinatari della sua missione» (Cost.
26). È lo stesso Signore che «ci ha dato Don Bosco come padre e
maestro» (Cost.
21).
Infine le Costituzioni ci invitano a tener sempre presente che,
qualunque sia l’attività che realizziamo, «educhiamo ed
evangelizziamo secondo un progetto di promozione integrale dell’uomo,
orientato a Cristo, uomo perfetto» (Cost.
31). Ciò significa che l’evangelizzazione è una mediazione
straordinaria dell’umanizzazione della persona, appunto perché
l’educazione cerca la costruzione della persona attraverso lo
sviluppo di tutte le sue dimensioni e si realizza comunicando valori,
sentimenti, convinzioni, ideali, oltre a conoscenze, atteggiamenti e
abilità. D’altro canto, l’evangelizzazione implica tutto
l’apporto dell’educazione come metodologia, nel senso che ciò
che desideriamo far interiorizzare ai giovani entra per la porta
della disposizione favorevole, dell’esperienza gioiosa,
dell’illuminazione della mente, della predisposizione della
volontà, fino a diventare mentalità, pratica cristiana, inserimento
nella comunità dei credenti, impegno nella storia. Tale è il
significato dell’espressione di Don Bosco: “L’educazione è
cosa del cuore”.
La centralità di Gesù Cristo si manifesta poi nella vita
di comunità. Anzitutto l’esperienza
della comunità in quanto tale
è basata su Cristo: il confratello ama la sua comunità, anche se
imperfetta, perché «sa di trovare in essa la presenza di Cristo»
(Cost.
52); è Lui che si è identificato con il membro più debole e
bisognoso tra di noi (cf. Mt
25, 31-46); finché ci sia tra noi chi è in necessità, Cristo avrà
bisogno di noi. La pratica dei consigli evangelici aiuta poi a vivere
nella comunità «come in una famiglia che gode della presenza del
Signore» (Cost.
61, evocando Mt
18, 20). Questa esperienza della comunità unita in Cristo (cf. Cost.
89) trova la sua massima espressione nella preghiera comunitaria,
poiché questa manifesta in modo visibile che essa «non nasce da
volontà umana, ma è frutto della Pasqua del Signore» (Cost.
85; cf. Gv
1, 13).
La vita stessa della comunità diventa formativa,
in quanto «è unita in Cristo e aperta alle esigenze dei tempi»
(Cost.
99). A maggior ragione questo è detto delle comunità formatrici: in
esse «il nostro spirito è vissuto in modo più intenso: tutti i
membri formano insieme una famiglia, fondata sulla fede e
l’entusiasmo per Cristo» (Cost.
103).
All’interno della comunità colui che esercita il carisma
dell’animazione e del governo lo fa «a nome e ad imitazione di
Cristo, come un servizio ai fratelli» (Cost.
121): «rappresenta Cristo che unisce i suoi nel servizio del Padre»
(Cost.
55). Dare vita all’autorità
nella comunità salesiana è dunque vivere come icona del
Cristo.
Naturalmente non basta questa concentrazione cristologica negli
articoli costituzionali che riguardano la comunità per garantire la
sua identità “cristiana”. Questa va sempre verificata riguardo
alla reale centralità che occupa Cristo all’interno di essa, nella
maniera di pensare, di giudicare, di valutare, di integrare, di
perdonare, di amare, fino a diventare veramente “corpo” di
Cristo.
È
indubbio inoltre che i consigli
evangelici presentino un esplicito
carattere di conformazione a Cristo.
Anzi, senza questo riferimento cristologico essi non avrebbero senso:
«Seguiamo Gesù Cristo il quale, “casto
e povero, redense e santificò gli
uomini con la sua obbedienza”
e partecipiamo più strettamente al
mistero della sua Pasqua, al suo annientamento e alla sua vita nello
Spirito» (Cost.
60).
Parlando dell’Obbedienza,
uno stesso articolo in due occasioni ci presenta Gesù come modello:
«Il nostro Salvatore ci assicurò di essere venuto sulla terra non
per fare la propria volontà, ma la volontà del Padre suo che è nei
cieli. (…) Riviviamo nella Chiesa e nella Congregazione
l’obbedienza di Cristo, compiendo la missione che ci è affidata»
(Cost.
64). Tutto questo viene ancora ripreso con l’affermazione sintetica
che si trova nel paragrafo seguente: «prendiamo il Vangelo come
regola suprema di vita» (Cost.
64), il che vuol dire, secondo la lettera ai Galati, che per noi è
importante “ubbidire alla legge di Cristo” o meglio ancora “avere
Cristo come legge” (cf. Gal
6,2).
Anche la nostra Povertà
manifesta una forma della sequela concreta di Gesù, il quale «da
ricco che era, si fece povero, affinché noi diventassimo ricchi per
mezzo della sua povertà… nacque nella povertà, visse nella
privazione di tutte le cose, e morì nudo in croce» (Cost.
72; cf. 2 Cor
8,9). Così siamo invitati a partecipare della felicità promessa dal
Signore ai “poveri in spirito” (Cost.
75; cf. Mt
5, 3; Lc
9, 57-58).
Finalmente, per mezzo della Castità
«seguiamo da vicino Gesù Cristo» (Cost.
80) e mediante la sua pratica concreta giungiamo ad essere «testimoni
della predilezione di Cristo per i giovani; [essa] ci consente di
amarli schiettamente in modo che “conoscano di essere amati”»
(Cost.
81).
La visione cristologica dei consigli evangelici non vuol negare la
loro valenza antropologica e la loro potenzialità umanizzante; anzi
esse risultano rafforzate, come viene esplicitato dall’articolo 62
delle Costituzioni: «In un mondo tentato dall’ateismo e
dall’idolatria del piacere, del possesso e del potere, il nostro
modo di vivere testimonia, specialmente ai giovani, che Dio esiste e
il suo amore può colmare una vita; e che il bisogno di amare, la
spinta a possedere e la libertà di decidere della propria esistenza
acquistano il loro senso supremo in Cristo Salvatore». Diventa
stimolante constatare che Dio non viene affermato a scapito
dell’uomo, ma piuttosto che Cristo porta l’uomo alla sua
pienezza.
Anche
nella vita di preghiera,
personale e comunitaria, bellamente descritta come un dialogo
con il Signore,
incontriamo la pienezza del nostro rapporto con il Signore Gesù, in
quanto “figli nel
Figlio”.
Ciascuno di noi «alimenta l’amore per Cristo alla mensa della
Parola e dell’Eucaristia» (Cost.
84); in particolare, i momenti espliciti di preghiera manifestano
tale intimità con il Signore: «ridonano al nostro spirito profonda
unità nel Signore Gesù» (Cost.
91).
Come manifestazione dell’amicizia con Lui, il salesiano «avverte
l’esigenza di pregare senza sosta in dialogo semplice e cordiale
con il Cristo vivo» (Cost.
12). Questo bisogno si esprime nelle frequenti visite a Gesù
Sacramentato, da cui «attingiamo dinamismo e costanza nella nostra
azione con i giovani» (Cost.
88). Per ultimo, come espressione massima della nostra attività
pastorale con i giovani, li incamminiamo all’incontro con Cristo,
nell’ascolto della Parola, nella preghiera e nei sacramenti (cf.
Cost.
36).
Infine la
formazione
è vista come la risposta continua a questo amore di predilezione del
Signore che ci chiama; perciò il testo costituzionale afferma che,
poiché la formazione è fare «esperienza dei valori della vocazione
salesiana», ci impegniamo in un processo che dura tutta la vita,
«illuminati dalla persona di Cristo e dal suo Vangelo» (Cost.
98). Questo ci permette «di conformarci più profondamente a Cristo
e di rinnovare la fedeltà a Don Bosco, per rispondere alle esigenze
sempre nuove della condizione giovanile e popolare» (Cost.
118).
«Guardare a Cristo modello vuol dire ricordare che il cammino di
santificazione a cui siamo chiamati è un cammino di
“cristificazione”
(cf. Ef 4,
19)»
[39] . E questa è la
funzione della formazione, che per tale stessa ragione non può
ridursi alle fasi iniziali, ma deve proseguire per tutta la vita del
salesiano in un processo mai finito, finché non saremmo tutto in
Lui.
In particolare le “situazioni limite”
della nostra vita sono occasione di una decisa e definitiva
conformazione a Cristo. Anche se gli articoli relativi a questo tema
nel CG22 furono trasferiti dal contesto della formazione a quello
della vita comunitaria, spostandone così leggermente l’accento,
non per questo cessano di rappresentare delle occasioni
di formazione personale.
Similmente, la condizione di anzianità e malattia permette di
«unirsi alla passione redentrice del Signore» (Cost.
53). La morte si caratterizza come l’ora in cui si dà alla propria
vita consacrata la realizzazione suprema, partecipando in pienezza
alla Pasqua di Cristo (cf. Cost.
54). Così, tanto in vita come in morte (cf. Cost.
94), siamo segni della forza della Risurrezione di Cristo.
Possiamo sintetizzare questa sequela - imitazione di Gesù, in cui
affonda le radici il carattere formativo
di tutta la nostra vita, nel bel
articolo conclusivo delle Costituzioni, in cui si dice che esse sono
«per noi, discepoli del Signore, una
via che conduce all’Amore» (Cost.
196).
Le nostre Costituzioni ci aiutano, dunque, a realizzare la sequela ed
imitazione di Cristo in tutti gli aspetti della nostra vocazione:
missione, vita fraterna, consigli evangelici, preghiera, formazione.
Con la certezza che viene dalla fede possiamo perciò professare che
nelle nostre Costituzioni «la norma ultima della vita religiosa è
la sequela di Cristo così come la propone il Vangelo»
[40] . Non è altro il
significato del programmatico articolo 196 con cui chiude la nostra
Regola di Vita. Questa affermazione rende più incoraggiante e
impegnativa la nostra vita che è essenzialmente “cristica”.
Niente di più esigente che il professare Gesù Cristo come «nostra
regola vivente». Niente di più carismatico che il sapere che «noi
(Lo) scopriamo presente in Don Bosco che donò la sua vita ai
giovani». Niente di più autentico che l’accogliere le
«Costituzioni come testamento di Don Bosco, libro di vita per noi e
pegno di speranza per i piccoli e i poveri» (Cost.
196).
Conclusione
“Siamo
imitatori di Don Bosco, come egli lo è stato di Cristo!”
«Il cammino che la vita consacrata è chiamata a intraprendere
all’inizio del nuovo millennio è guidato dalla contemplazione di
Cristo»
[41] .
Noi salesiani siamo stati invitati a contemplare Cristo con lo
sguardo di Don Bosco, che non aveva altro traguardo che la salvezza
dei giovani. Per noi la sua “cristologia” apostolica è la nostra
cristologia. Noi siamo sensibili a determinati tratti caratteristici
di Gesù, che per il nostro caro padre furono come un programma di
vita. Egli non scrisse nessun trattato di cristologia, ma se la
cristologia è anche la storia della sequela di Cristo, egli ha
vissuto e ha inaugurato una strada particolare, quella che noi
abbiamo deciso pubblicamente di percorrere con la nostra
professione.
Dicevo all’inizio di questa lettera che la contemplazione di Cristo
si concretizza in tre elementi inseparabili: conoscerLo più
profondamente, amarLo più intensamente, seguirLo più radicalmente.
Senza negare – anzi! – l’importanza della conoscenza teologica
ed in particolare della cristologia, vorrei riaffermare che la
sequela è il metodo più sicuro e insostituibile per conoscere ed
amare Cristo; per noi queste esigenze passano attraverso l’esperienza
salesiana, attraverso cioè la sequela di Don Bosco. Noi ci mettiamo
al seguito di Cristo sui passi di Don Bosco.
Nel 1986, centenario della storica fotografia scattata a Barcellona,
don Viganò scrisse la seguente dedica: «Questa è la foto migliore
di Don Bosco! A cento anni, i giovani che non c’erano attendono,
per le strade e i continenti, il dono dell’appassionante missione
salesiana! Siamo imitatori di Don Bosco,
come egli lo è stato di Cristo!».
A ragione le nostre Costituzioni chiudono con un articolo che fa una
mirabile sintesi di questa imitazione di Cristo attraverso Don Bosco:
«La nostra regola vivente è Gesù Cristo, il Salvatore annunciato
nel Vangelo, che vive oggi nella Chiesa e nel mondo e che noi
sappiamo presente in Don Bosco che donò la sua vita ai giovani»
(Cost.
196). Difficilmente si potrebbe esprimere meglio il nostro impegno e
la nostra ricompensa.
Affido a Maria ognuno di voi e i giovani del mondo. Ella, che ha
contemplato Cristo con il suo sguardo e cuore materno, ci insegni a
contemplarlo fino ad identificarci pienamente con Lui, e ci configuri
a Don Bosco per continuare ad essere per i giovani del mondo “segni
e portatori dell’amore di Dio”.
A tutti, buon Natale e Buon Anno 2004!
D.
Pascual Chávez V.
[1]
NMI
n. 20.
[2]
NMI
n. 19.
[3]
ACG 382 (2003), pag.
16.
[4]
CIVCSVA, La
vita fraterna in comunità, n. 22.
[5]
CIVCSVA, La
vita fraterna in comunità, n. 22.
[6]
CIVCSVA, Ripartire
da Cristo, n. 23.
[7]
NMI
n. 16.
[8]
CIVCSVA, Ripartire
da Cristo, n. 23.
[9]
S. KIRKEGAARD, Esercizio
del cristianesimo, in Opere,
traduzione a cura di C. FABRO, Sansoni, Firenze, 1972, pag. 812
[10]
CIVCSVA, Ripartire
da Cristo, n. 21
[11]
CIVCSVA, Ripartire
da Cristo, n. 23.
[12]
Il progetto di vita
dei Salesiani di Don Bosco, pag.
154.
[13]
Il progetto di vita
dei Salesiani di Don Bosco, pag.
152.
[14]
MB V, pag. 933. Cf.
Costituzioni della Società di San Francesco di Sales, Testi critici,
LAS 1982, pag. 72
[15]
Cf. CG25 n. 20.
[16]
F. RINALDI in ACS
55 (1930), pag. 923. Cf. E. VIGANÒ, Profilo
del Salesiano nel sogno del personaggio dai dieci diamanti,
ACS 300
(1981), pag. 753-819.
[17]
Il Progetto di Vita
dei Salesiani di Don Bosco, pag.
153.
[18]
ACG 382 (2003), pag.
16.
[19]
Il Progetto di Vita
dei Salesiani di Don Bosco, pag.
154.
[20]
MB I, pag. 395.
[21]
MB VI, pag. 362.
[22]
Cf. MB V, pag. 367.
[23]
G. BOSCO, Memorie
dell’Oratorio di San Francesco di Sales, Ediz.
critica, LAS, 1991, pag. 151.
[24]
Il Progetto di Vita
dei Salesiani di Don Bosco, pag.
155.
[25]
MB I, pag. 519.
[26]
GIOVANNI PAOLO II,
Juvenum patris,
n. 10.
[27]
J. E. VECCHI,
Spiritualità Salesiana,
LDC, 2000, pag. 114.
[28]
R. LATOURELLE, Milagros
de Jesús y Teología del Milagro,
Salamanca, Sígueme 2a, 1997, pag. 288.
[29]
M. RUA, citato in Cost.
21.
[30]
J. JEREMIAS, Abba.
El Mensaje central del Nuevo Testamento,
Salamanca, Sígueme 4a, 1993, pag. 240.
[31]
G. BOSCO, Il
sistema preventivo nell’educazione della gioventù,
in Costituzioni e Regolamenti,
pag. 239.
[32]
R. E. BROWN, Evangelio
de San Juan I, Madrid, Cristiandad,
1979, pag. 632.
[33]
G. VON RAD, Sermones,
Salamanca, Sígueme, pag. 26.
[34]
H. U. BALTHASAR, Relación
inmediata del hombre con Dios,
Concilium
29 (1967) pag. 418.
[35]
DON BOSCO, Ai
soci salesiani, in Costituzioni
e Regolamenti, pag. 236-237.
[36]
Veritatis splendor, n. 15.
[37]
VC 93.
[38]
CIVCSVA, Potissimum
Institutioni,
nn. 8-9, citando Redemptionis donum, n.
3.
[39]
Il Progetto di Vita
dei Salesiani di Don Bosco, pag.
153.
[40]
CIVCSVA, Potissimum
Institutioni, n. 8.
[41]
CIVCSVA, Ripartire
da Cristo, n. 23.
Don Pascual Chávez V.
Rettor
Maggiore