LETTERA DEL RETTOR MAGGIORE
PASCUAL CHÁVEZ
ACG 382 ‘03
«SEI TU IL MIO DIO, FUORI DI TE NON HO ALTRO BENE» (Sal 16,2)
1.«Rendo grazie a Dio riguardo a tutti voi» (Rm 1,8)-2. «Ho promesso a Dio che fin l'ultimo mio respiro...» (MB XVIII, 258) -3. Il malessere odierno della vita consacrata - 4. L'eccellenza oggettiva della vita consacrata - 5. Un modello in crisi - 6. CG25, un invito a orientarsi in questa linea - Per concludere
8 Giugno 2003
Solennità
di Pentecoste
Carissimi confratelli,
all’inizio della
sessione estiva del Consiglio generale mi metto in comunicazione con
voi, seguendo il ritmo trimestrale delle lettere che abitualmente
invio a tutta la Congregazione. Lo faccio nella festa di Pentecoste,
che celebra l’irruzione dello Spirito Santo nel cenacolo dove si
trovavano radunati i discepoli di Gesù con Maria. Secondo il
racconto degli Atti degli Apostoli (cf. At
2, 1-11), questo fu un evento che
sconvolse profondamente il cuore di ciascuno di loro, appunto «come
un vento che si abbatte gagliardo». Lo Spirito Santo, che è la
potenza con cui Dio interviene nella storia, li avvolse e «come
fuoco» li penetrò nel profondo. La paura crollò e cedette il passo
al coraggio, l’indifferenza lasciò il campo alla compassione, la
chiusura fu sciolta dal calore, l’egoismo fu soppiantato
dall’amore. La Chiesa iniziava così il suo cammino nella storia.
Mi auguro che lo Spirito Santo, come vento e fuoco, aggiorni
l’esperienza di Pentecoste nella Chiesa e nella nostra cara
Congregazione, perché possiamo diventare testimoni sempre più
convinti, coraggiosi e credibili di Gesù e del suo Vangelo.
Nell’ultima mia lettera avete trovato la relazione delle
attività del mio primo anno di servizio a tutta la Congregazione;
perciò ora mi conoscete un po’ meglio e siete informati di ciò
che il Rettor Maggiore fa e pensa. Certamente la vita non si ferma;
negli ultimi tre mesi ho avuto un’agenda molto fitta d’impegni:
la giornata al Borgo Ragazzi di Roma, gli Esercizi Spirituali a
Fatima, la visita all’Ispettoria del Portogallo, il viaggio in
Terra Santa, il raduno intermedio del Consiglio Generale, la visita
in Gran Bretagna, i giorni a Treviglio e Chiari, la visita alle
Ispettorie di Sicilia, Bilbao e Monaco di Baviera, la giornata a Bonn
e Colonia, la visita alla Ispettoria di Verona, il raduno dell’Unione
Superiori Generali, la visita all’Ispettoria Adriatica.
Vi
posso dire che conosco sempre meglio la realtà della Congregazione,
le sue risorse, i suoi problemi, le sue sfide, le sue potenzialità.
Apprendo inoltre sempre più i compiti da svolgere come Rettor
Maggiore. È una missione assai bella ed esigente, dinanzi alla quale
mi sento inadeguato rispetto alle necessità ed alle aspettative.
Sento il bisogno quindi della vostra comprensione e soprattutto delle
vostre preghiere, affinché possa diventare, come desidero, un
Successore di Don Bosco paterno e lungimirante, fedele e dinamico.
1. «Rendo grazie a Dio
riguardo a tutti voi» (Rm
1,8)
Prima di condividere
con voi alcune riflessioni a riguardo della vita religiosa, sperando
che vi siano utili come stimolo spirituale, pastorale e vocazionale,
vorrei ringraziare ognuno di voi per il dono della sua vita a Dio sui
passi di Don Bosco.
Mi sento in obbligo di ringraziarvi; lo
faccio volentieri con questa lettera, come anche lo faccio
personalmente quando vi incontro visitando le Ispettorie e le
comunità. Da una parte ogni confratello è un tesoro per la
Congregazione; non mi stancherò mai di ripeterlo e di cercare di
farvelo sentire. Dall’altra la vocazione salesiana, sia laicale che
presbiterale, è un dono straordinario per ognuno di voi. Questa è
la mia esperienza ed immagino sia anche la vostra. Mi piace pregare
alcuni salmi in questa luce, come per esempio il Salmo 16 (15), dove
leggiamo: «Ho detto al Signore: sei tu il mio Dio, fuori di te non
ho altro bene… Sei tu, Signore, la mia eredità, il calice che mi
dà gioia… Splendida è la sorte che mi è toccata, magnifica
l’eredità che ho ricevuto» (vv. 2.6). E non mi riferisco al fatto
di essere Rettor Maggiore, che è un ministero da svolgere
temporaneamente, ma al dono inestimabile della vocazione come
progetto di vita centrato su Gesù, che ci chiama per nome, ci
sceglie per essere con sé e per condividere la sua passione per Dio
e per l’uomo (cf. Mc
3,13-15). Avere una vocazione significa aver scoperto che la vita ha
senso: c’è un bel “sogno”- quello di Dio - da realizzare, una
missione - da Dio concessa - da svolgere, un traguardo - persone che
ci sono state affidate - da raggiungere. E questo riempie di forza e
di gioia tutta una vita, che risulta unificata come fu quella di Don
Bosco (cf. Cost.
21). Questa è la vocazione salesiana.
Essa è un dono del
Signore talmente prezioso, che va coltivata accuratamente e va
proposta decisamente ai giovani, perché vogliamo che essi siano
felici come noi. Mi convinco sempre più che il problema più grande
e più diffuso tra i giovani non è ciò che richiama l’
attenzione, come la droga, l’alcool, e neppure la confusione nel
campo della sessualità, anche se purtroppo tantissimi giovani vi
sono coinvolti – e questo è un problema che non ci può lasciare
indifferenti. Il vero problema è la mancanza di direzione, di
orizzonte, di senso, di progetto di vita. Questo li porta a vivere
superficialmente, consumando cose ed esperienze, senza un elemento
che unifichi e dinamizzi la loro vita. Vi ringrazio dunque per la
vostra vocazione, che sarà sempre più ricca della migliore
biografia. Come poter infatti raccogliere alla fine della vita, in un
libro o in una lettera mortuaria, una storia di fedeltà a Dio per i
giovani, tessuta di gioie e tristezze, sogni e disillusioni, speranze
e frustrazioni, sudore, lacrime e sorrisi?
Perciò, permettetemi
che faccia mie le parole di Paolo per ringraziare Dio per quello che
siete – consacrati da Dio ai giovani – e per quello che Dio è
per voi – l’unico e supremo Bene. Come l’Apostolo, anch’io
«rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti
voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo.
Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il vangelo
del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre di voi,
chiedendo sempre nelle mie preghiere che per volontà di Dio mi si
apra una strada per venire fino a voi. Ho infatti un vivo desiderio
di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale, perché ne siate
fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la
fede che abbiamo in comune, voi e io» (Rm
1,8-12).
2. «Ho
promesso a Dio che fin l’ultimo mio respiro …» (MB XVIII,
258)
Come ricordate, già
nella mia prima lettera vi ho espresso il desiderio di voler fare
della santità un programma di vita, una scelta di governo, una
proposta educativa. Da questo punto di vista mi ero azzardato a dire
che quella prima lettera non era una tra le altre, ma che voleva
diventare il testo programmatico del sessennio.
E quando parlo
di santità, non penso a qualcosa di generico o ad un ideale da
proporre indistintamente a tutti; sto pensando a noi salesiani.
Quando parlo di santità, penso dunque a una vita di santità che ci
è propria: la santità salesiana,
vissuta secondo il modello del nostro amato padre Don Bosco. Mi
riferisco appunto a quella santità che solo si può raggiungere e
vivere in qualità di consacrati da Dio
alla missione salesiana: «la nostra
vita di discepoli del Signore è una
grazia del Padre che
ci consacra col dono del suo Spirito e
ci invia ad essere apostoli dei giovani» (Cost.
2).
La nostra è quindi una santità
consacrata, un dono specifico che Dio
fa a noi per i giovani ai quali siamo inviati. Tutto ciò ha delle
conseguenze. Vorrei soffermarmi con voi su questo aspetto della
santità salesiana, che ritengo del tutto strategico, perché «noi
salesiani di Don Bosco» intendiamo «realizzare il progetto
apostolico del Fondatore in una
specifica forma di vita religiosa» e
perché «nel compiere questa missione, troviamo la
via della nostra santificazione»
(Cost. 2).
Non di rado, visitando la Congregazione, mi è capitato di
trovare confratelli strapieni di energie e coraggio apostolico, che
lavorano in opere stupende a favore di ragazzi, che non sembrano però
essere sorretti ed animati da una pari passione per Dio. Così che se
da un canto non si può che apprezzare una tale dedizione, dall’altro
non si può tralasciare di domandarsi qual è il movente reale di
così grande attività. Noi sappiamo che la missione salesiana e la
Congregazione, che è sorta al suo servizio, sono nate da Dio e in
Dio rinascono: il salesiano infatti è stato «mandato ai giovani da
Dio» (Cost.
15); la Società alla quale appartiene «è nata non da solo progetto
umano, ma per iniziativa di Dio» (Cost.
1); inoltre il tratto più caratteristico della nostra vocazione,
quello a noi più caro, «la predilezione per i giovani», «è uno
speciale dono di Dio» (Cost.
14). Dio è all’origine, come fonte e fondamento, della nostra
missione salesiana; e così deve rimanere. Questa realtà oggettiva
viene vissuta da ciascuno e traspare attraverso la propria vita.
Non
diversa è stata l’esperienza personale di Don Bosco. Prete pastore
dei giovani per vocazione, diventa per loro e con loro sollecito
educatore; e l’ educatore-pastore dei giovani si fa fondatore di
Istituti religiosi, «religioso egli stesso, formatore di consacrati
e, più tardi, di consacrate… Il problema giovani, infatti, gli era
apparso troppo complesso e impegnativo da ritenersi risolto con il
solo coinvolgimento saltuario e volontaristico di collaboratori
fluttuanti»[1]
. «L’esperienza stava
a dimostrare che il personale volontario non garantiva stabilità,
continuità, omogeneità di azione, quando, invece, il pianeta
giovani si rivelava sempre più complesso e l’abbandono e la
povertà più estesi e articolati. Era consequenziale il ripensamento
radicale del problema degli operatori, del loro status
spirituale e giuridico e della loro organizzazione. Don Bosco avrebbe
scelto infine la forma della Società religiosa, affiancata da altre
forze associate»[2]
.
Cosicché,
consapevole che la missione fra i giovani, specialmente i più
poveri, abbandonati o a rischio, richiedeva «un vasto movimento di
persone» (Cost.
5), Don Bosco dovette cercare tra i propri giovani i suoi
collaboratori migliori, quelli che condividevano con lui una stessa
esperienza spirituale e apostolica, quella di Valdocco, e che,
invitati da Don Bosco a “restare con lui”, divennero i primi
salesiani. «Egli era partito da ragazzi, che non avevano alcuna idea
di vita religiosa… Dall’ essere nella casa di don Bosco egli li
ha gradualmente indotti al desiderio di vivere e di lavorare
stabilmente, in comunità, con don Bosco, infine alla decisione di
condividere la sua stessa missione e legarvisi mediante i voti
religiosi, diventando membri di una vera e propria Società di
consacrati»[3]
.
Vero è che,
almeno per noi salesiani, è stata la missione a richiedere la
nascita di un gruppo di consacrati: i giovani ci hanno portato a Dio,
e non per svago o come passatempo, ma come meta e motivo. Per
assicurare il lavoro coi giovani Don Bosco ha scoperto che aveva
bisogno di persone dedite per intero a Dio; per avere dei
collaboratori completamente consacrati ai suoi giovani, Don Bosco
divenne fondatore. Non so se questa sia stata una scelta pragmatica
del nostro amato padre, quando si rese conto che i collaboratori
ordinari non garantivano lo sforzo quotidiano del lavoro apostolico,
lungo le 24 ore del giorno, tutti i giorni della settimana, o
piuttosto una conclusione logica della sua propria esperienza,
marcata dal “sogno” dei nove anni, che lo portò a pensare che
Dio ha un “sogno” per ciascuno di noi, una vocazione speciale che
irrompe nella consacrazione da parte di Dio per una specifica
missione. A partire dalla propria esperienza spirituale e pastorale,
Don Bosco scopri così le potenzialità di una vita religiosa, nata
al servizio della missione salesiana.
3.
Il malessere odierno della vita consacrata
È
evidente che oggi esiste un certo disagio nei confronti della vita
religiosa, di cui risente anche la nostra Congregazione. Il declino
numerico e l’aumento dell’età media dei confratelli, almeno in
alcune delle Regioni, ne sono un segnale, oltre al fatto della
fragilità vocazionale che è un fenomeno ricorrente in tutti gli
Ordini, Congregazioni e Istituti. Questo malessere è tanto più
difficile da comprendere e da assumere, quando si ritenga che la
Congregazione sia stata fedele alle richieste della Chiesa, alle
esigenze del mondo e della cultura, ai bisogni sempre nuovi dei
giovani, e che essa abbia cercato di rispondervi con fedeltà e con
creatività.
Si deve pure ammettere che un certo disagio risulta
connaturale alla vita consacrata odierna, che avendo sempre come suo
primo compito «l’affermazione del primato di Dio e dei beni
futuri», si trova oggi a vivere in un mondo «dove sembrano spesso
smarrite le tracce di Dio» (VC
85). Per di più sperimentare Dio, soggetto al di là del probabile e
persino del narrabile, è sempre un compito assai arduo; di
conseguenza può diventare eroico, qualora sia possibile,
testimoniare Dio dove Lui non viene più sentito o dove Lui è stato
messo in silenzio; e ciò capita spesso. Ma il malessere che la vita
religiosa oggi soffre non nasce solo dall’esterno, dalla sua
naturale incompatibilità col mondo[4]
, ma scaturisce anche dal
suo interno, perché fra l’altro all’ improvviso essa si è vista
privata di quei compiti sociali che le diedero per tanto tempo
sicurezza e rilevanza sociale[5]
.
Il modo in cui si
parla oggi di “ri-nnovamento”, “ri-creazione”,
“ri-fondazione” della vita religiosa non diventa certo comodo o
gradevole, ma ci obbliga a verificare se veramente l’atteso
rinnovamento messo in atto dal Concilio Vaticano II non sia rimasto
una «accommodata renovatio» di forme, senza avere raggiunto in
profondità la mente e il cuore delle persone.
È molto comune
affermare che nei giorni precedenti al Concilio Vaticano II era
facile “identificare” i religiosi, la loro forma di vita ed il
loro posto nella Chiesa. La vita religiosa era una forma di vita
caratterizzata dalla professione dei consigli evangelici di povertà,
castità e ubbidienza, secondo le Costituzioni di una Congregazione,
approvate dall’autorità della Chiesa. I religiosi abitavano
in case religiose, monasteri o conventi, e si distinguevano, dentro e
fuori dei loro Istituti, per il loro abito e per le loro abitudini.
Lo stile della loro vita e la chiara visibilità dei loro membri li
separavano realmente dal ‘mondo’ e li rendevano differenti dai
‘laici’ dentro la stessa Chiesa.
Il Concilio iniziò un
cambiamento copernicano, nel quale tutte le istituzioni furono
coinvolte ed evidentemente modificate, per essere state invitate a
ricollocarsi dentro la Chiesa ‘nel’
mondo (GS),
con una nuova ecclesiologia di comunione
(LG),
secondo cui tutti i battezzati formano un unico popolo di Dio con
diversità di vocazioni, ruoli e carismi.
È vero che,
dopo tutto il processo di rinnovamento fatto, la vita religiosa è
rimasta talmente trasformata che oggi non è facile “identificarla”
e definire il suo luogo nella Chiesa, cosa che succede invece per i
laici e i pastori (vescovi, preti e diaconi). È ovvio che la
difficoltà non proviene dall’esterno, dal fatto per esempio che
l'abito sia stato tralasciato e si sia adottata una forma borghese di
vestire; piuttosto sorge da una interpretazione della chiamata
universale alla santità e da una serie di fattori esterni ed interni
che hanno cancellato, o quanto meno offuscato, i tratti
caratteristici del suo vero volto. Questo spiega l’insistenza
odierna circa la sua «eccellenza oggettiva» (VC
32), la sua «visibilità» (VC
25), e quindi la sua significatività, la sua credibilità, il suo
primo fascino.
Possiamo dunque dire che la vita religiosa sia
stata messa in crisi, esternamente dalla secolarizzazione e
internamente dalla perdita di identità.
Crisi
esterna
Il fenomeno più
grave del nostro tempo non è più l’ateismo (GS
19)[6]
, ma la
secolarizzazione
della società che ha raggiunto livelli di secolarismo esacerbato ed
è riuscita a creare una cultura della non-credenza, una cultura
a-religiosa, praticamente a-tea. Si vive in un clima di indifferenza
e relativismo. Non si nega l’esistenza di Dio, Gli si nega però
uno spazio dove sopravvivere; non si discute la ragionevolezza della
fede, ma si vive facendo a meno praticamente di essa; ormai non si
deve giustificare l’ incredulità, ma la fede; Dio non è più
problema, perché la sua presenza non è più evidente[7]
. La pratica religiosa
diventa meno visibile; il vangelo non risuona più in una società
logorata da nuovi messaggi; Dio e il sacro, se persistono tra noi, è
perché sono stati interiorizzati. Il profano conquista terreno, si è
fatto padrone del sociale e si sta impadronendo del privato; la
coscienza individuale e la propria intimità non sono più il
focolare di Dio.
Potrebbe sembrare eccessiva la diagnosi; cito
a questo punto un testo di Don Viganò che, scrivendo in termini
simili alla fine dell’anno 1991, continua ad essere valido ed
eloquente:
«Finora molte espressioni sociali e culturali erano
permeate da una dimensione religiosa. È andata crescendo, invece,
l’irrilevanza sociale di ciò che è religioso, che rende più
difficili e lunghi i ritmi della maturazione della fede, come
conoscenza dei suoi contenuti e, ancor più, come pratica di vita. E
questo sia per i giovani delle nostre opere che per i giovani
salesiani in formazione.
Essere cristiani – ossia vivere
l’opzione battesimale – in una società pluralista, diviene una
modalità sociale tra tante altre, con lo stesso diritto di
cittadinanza. Può affiorare così un clima di relativismo, di
offuscamento degli ideali tradizionali, di perdita del senso della
vita: molti giovani sembra che galleggino alla deriva su
un’imbarcazione senza bussola. Perdono la prospettiva del
trascendente, che è il traguardo della fede, e si chiudono in
piccole risposte sul senso della vita, assolutamente insufficienti
per le grandi ansie del cuore umano. Le stesse risposte che la
scienza intende offrire loro risultano carenti nell’ottica della
ricerca di significato, perché non si riferiscono alla finalità
ultima della vita e al senso globale della storia».[8]
Questa
secolarizzazione può avere un triplice volto nella vita consacrata.
Infatti si può manifestare in forma di:
-
Perdita di trascendenza,
che diviene evidente quando si indebolisce o si smarrisce la fede
come orizzonte della vita e della vocazione, che diventano così un
puro progetto umano; si rende più difficile, o persino scompare, la
motivazione di vivere come consacrato a Dio e centrato sulla missione
da Lui affidata.
-
Antropocentrismo,
che non pone più Dio come centro della vita o come ultimo punto di
riferimento, ma l’Uomo, in modo tale che la vita viene modellata a
misura delle esigenze e sullo sviluppo dei dinamismi propri della
natura, senza nessun margine di spazio per i valori del Regno.
- Prassi
socioeconomica, che porta a sentire con
passione il fatto che l’uomo sviluppa se stesso nel lavoro
creatore, nel dominio del mondo e nell’accompagnare altri nel loro
maturare personale e nel loro successo sociale; la missione
apostolica si riduce a lavoro sociale o si identifica con l’impegno
per il cambio.
A mio avviso, in questa prospettiva secolarizzata
della vita religiosa ha influito anche – e molto – una lettura
teologica riduttiva del principio della incarnazione, che insiste in
tal modo sul primo termine, quello del «quod non assumptum» di
Ireneo, da mettere in secondo ordine o tralasciare assolutamente la
novità che ci viene da Dio attraverso l’incarnazione. Attirati
dalla decisione di Dio di diventare uomo, si dimentica spesso il
fatto portante che mai il Dio-uomo ha smesso di essere Dio e di
conseguenza che non è l’uomo che è diventato divino, ma Dio che
si è fatto uomo e, anche se vero uomo, rimane pure vero Dio.
Crisi
interna
Naturalmente la
crisi della vita religiosa non ha né esclusivamente né
prevalentemente un’origine da fattori esterni, sebbene dobbiamo
riconoscere che questi la condizionino fortemente; essa sorge
piuttosto dall’interno di essa e si manifesta soprattutto
attraverso alcuni sintomi:
-
L’indebolimento dell’identità
ecclesiale della vita religiosa.
Eravamo abituati a definire la vita religiosa come stato di
perfezione;il Concilio Vaticano II ha affermato che la vocazione alla
santità è di tutti i battezzati. Come definire il significato e il
compito della vita religiosa all’interno della universale vocazione
alla santità?
Ancora più radicale diventa lo svigorimentosul
versante della missione.Noi siamo cresciuti in un clima in cui si
riteneva che il duplice compito dell’annuncio del vangeloe della
diaconia della carità fosse un’esclusiva dei presbiterie
dellepersone consacrate. Il Vaticano IIci ha ricordatoche la missione
è responsabilità di tutti i battezzati, ognuno secondo la propria
vocazione;la crescita del laicato a tutti i livelli è un segno che
lo conferma. Quale può essere allora il significato della presenza
della vita religiosa?
Ci siamo perfino accorti che neanche il
carisma, con la spiritualità e la missione che vi sono incluse, può
essere posseduto in esclusiva, come proprietà dell’Istituto. Esso
ha per destinatari tutti coloro che ne vengono in contattoe raggiunge
il suo traguardoquando è vissuto anche da loro. Che compito hanno i
consacrati nei confronti del carisma?
Questi interrogativi,
anche se non sono sempre proposti esplicitamente, rendono meno chiara
e meno forte la coscienza della propria identità e funzione nella
Chiesa.
-
La visione della vita religiosa centrata sulla funzione,
cioè la visione funzionalista più che ontologica della vita
consacrata. La vita religiosa dell’Ottocento era definita, e molto
più eravissuta, come un mezzo per la missione. Lo richiedevano i
tempi ed iservizi offerti erano evangelicamentesignificativi. Ma
l’evoluzione delle nostre società moderne ha fatto sì che lo
Stato o i gruppi sociali assumessero molti servizi creati e
realizzati dalla vita religiosa.Oggi nelle opere stesse, che
lecomunità religiose hanno, i laici partecipano sempre di più alla
gestione e allaresponsabilità di direzione.
Le opere dei
religiosi funzionano bene, generalmente assai meglio di quelle
pubbliche;ma c’è anche qualcosa che lascia profondamente inquieti:
non solo le vocazioni continuano a non venire, ma si constatache la
gente viene a prendere da noi prestazioni e servizi, mentre le
ragioni per vivere le cerca altrove. Allora comincia a serpeggiare un
interrogativo che si va intensificando: che senso hala nostra
presenza in una tale situazione?.
-Il superamento
delle strutture passate. La vita
consacrata ha corso il rischio di rinchiudere i suoi membri in una
rete di precetti e norme, che non sempre hanno aiutato le persone a
maturare e a vivere secondo la libertà dei figli di Dio.Ancora di
più,le forme di vita religiosa, anche quelle rinnovate, non
corrispondono sempre alle nuove situazioni nelle quelli oggi dobbiamo
realizzare la nostra vita e missione:basta pensare aglischemi di vita
comunitaria o alle forme di preghieraPer altro verso,queste forme e
strutture tradizionali non riescono ad esprimere i nuovi valori,quali
quelli dell’autonomia personale, del senso del dialogo e della
partecipazione.
C’è la sensazione che sappiamo bene la
direzioneverso la quale dobbiamo camminare, ma nella realtà ancora
non abbiamo trovato un modello divita e di azione che faciliti e
appoggi questo cammino.Ci troviamo in una situazione molto
scomoda:abbiamo abbandonato le strutture passatee inadeguate, ma
ancora non abbiamo raggiunto e definito le nuove[9]
. I Superiori Generali
(USG) hanno espresso ciò con un’affermazione unpo’fortema
veritiera: essi diconoche un modello di vita religiosa è giunto a
esaurimento e non riesce più a motivare neanche quelli che ci stanno
dentro.Padre Maccise aggiunge che oggi noi non siamo in grado di
sapere quale sarà il modello di vita religiosa di domani.
Questi
sintomi erano già stati identificati da don Viganò[10]
e da don Vecchi[11]
, che avevano cercato di
indicarci la soluzione attraverso lo sviluppo del senso della
consacrazione apostolica, della grazia dell’unità, della
specificità della spiritualità salesiana. Forse oggi ci troviamo in
condizioni migliori per fare la diagnosi delle cause più profonde e
di conseguenza per trovare le soluzioni.
4.
L’eccellenza oggettiva della vita consacrata
Conferma
quanto ho detto sopra, cioè che la vita consacrata attraversa un
“periodo delicato e faticoso”, la testimonianza di Giovanni Paolo
II, il quale scrive: «Èstato un periodo ricco di speranze, di
tentativi e proposte innovatrici miranti a rinvigorire la professione
dei consigli evangelici. Ma è stato anche un tempo non privo di
tensioni e di travagli, in cui esperienze pur generose non sono state
sempre coronate da risultati positivi»(VC
3). Queste difficoltà non riescono ad oscurare «lo speciale valore
della vita consacrata»nella Chiesa, anzi rendono più urgente una
chiarificazione della identità teologica, anche in confronto con gli
altri stati di vita (cf. VC
31-32).
In questa linea, nell’ultimo raduno della Conferenza
Episcopale Italiana del maggio scorso, in occasione dei 25 anni della
Mutuae Relationes,
uno dei Vescovi ha scritto: «Alla luce delle indicazioni suddette il
carisma della vita consacrata va
ricompreso e vissuto con maggior chiarezza teologico-pastorale,
sia in rapporto alle altre espressioni vocazionali nella Chiesa, sia
in rapporto alla missione nel mondo. L’interpretazione
più diffusa, anche all’interno della
comunità cristiana, evoca più una
visione funzionalistica che ontologica
della vita consacrata… La consacrazione non è mezzo per garantire
la funzionalità dei servizi nelle opere, ma è il contenuto
fondamentale della missione dei consacrati: è dire il primato di
Dio, il valore delle realtà ultime, nel mondo dell’oblio di Dio,
per un uomo troppo curvo sulle cose penultime»[12]
.
Come ricordava
ilP. Tillard, «allaradice di ogni vita religiosa autentica troviamo
come motivazione prima e onnicomprensiva non un “per” ma un “a
causa di”. E l’oggetto di questo “a causa di” altro non è
che Gesù Cristo. Non ci si fa religiosi “per” qualche cosa, ma
“a causa di” qualcuno: di Gesù Cristo e del fascino che egli
esercita».[13]
Non c’è spazio per
indugiare su questo punto. Generalmente lo si dà per scontato,
mentre se c’è qualcosa che non lo è, è proprio questo. La vera
sfida attuale della vita consacrataè quelladi restituire Cristo alla
vita religiosa e la vita religiosa a Cristo, senza darlo per
assicurato.
Penso che parte del problema si sia originato,
quando una comprensione riduttiva della Lumen
Gentium portò a cancellare proprio
l’identità specifica della vita religiosa, annullando, o per lo
meno sminuendo, l’eccellenza oggettiva
della “sequela Christi” che essa rappresenta. Ripensare lo
“status” teologico della vita religiosa «è una delle sfide più
grandi che debbono affrontare i religiosi e le religiose oggi»[14]
.
Senza pregiudicare
la santità soggettiva di tanti laici e preti, dobbiamo ribadire con
decisione che la “sequela Christi” e la “imitatio Christi”
trovano nella vita religiosa il loro campo più favorevole; essa è,
appunto, «memoria vivente del modo di
esistere e di agire di Gesù come Verbo
incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli». (VC
20). «I consigli evangelici, con i quali Cristo invita alcuni a
condividere la sua esperienza di vergine, povero e obbediente,
richiedono e manifestano, in chi li accoglie, il
desiderio esplicito di totale conformazione a Lui…
La sua forma di vita casta, povera e obbediente, appare infatti il
modo più radicale di vivere il Vangelo su questa terra, un modo –
si può dire – divino,
perché abbracciato da Lui, Uomo-Dio, quale espressione della sua
relazione di Figlio Unigenito col Padre e con lo Spirito Santo. È
questo il motivo per cui nella tradizione cristiana si è sempre
parlato della obiettiva eccellenza della
vita consacrata»(VC
18).
Nell’armonioso insieme di doni che formano la Chiesa, «a
ciascuno dei fondamentali stati di vita è affidato il compito di
esprimere, nel suo proprio ordine, l’unao l’altra dimensione
dell’unico mistero di Cristo. Se nel far risuonare l’annuncio
evangelico all’interno delle realtà temporali ha una
particolare missione la vita laicale,
nell’ambito della comunione ecclesiale un
insostituibile ministero è svolto da coloro che sono costituiti
nell'Ordine sacro, in modo speciale dai
Vescovi… Quanto alla significazione della santità della Chiesa,
un’oggettiva eccellenza è da
riconoscere alla vita consacrata, che
rispecchia lo stesso modo di vivere di Cristo. Proprio per questo, in
essa si ha una manifestazione particolarmente ricca dei beni
evangelici e un'attuazione più compiuta del fine della Chiesa che è
la santificazione dell'umanità»(VC
32).
Non c’è dubbio che la missione della vita religiosa è
quella di essere segno, metafora:
- Segno
della memoria viva di Gesù, il quale
prolunga la sua presenza rivelatrice attraverso la vita di quelli che
portano nel proprio corpo “le stigmate” della passione del
Signore (Gal
6,17). Alla vita consacrata corrisponde di vivere ed esprimere
pubblicamente «l'adesione
“conformativa”a Cristo dell’intera esistenza»(VC
16), che porta alla configurazione
con il Signore Risorto. «Questo
comporta una particolare comunione d’amore con Lui, diventato il
centro della vita e la fonte continua di ogni iniziativa»(RdC
22).
Infatti, la vita consacrata è in se stessa una
«progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo»(RdC
15; cf. VC
65). «È necessario quindi aderire sempre di più a Cristo, centro
della vita consacrata, e riprendere con vigore un cammino di
conversione e di rinnovamento che, come nell’esperienza primigenia
degli apostoli, prima e dopo la sua risurrezione, è stato un
ripartire da Cristo.
Sì, bisogna ripartire da Cristo»(RdC
21).
- Segno
della presenza e delprimato di Dionel
mondo, del Dio di Gesù, fonte di vita e di umanità, che si
manifesta nella stoltezza e debolezza della croce (cf. 1
Cor 1,22-31), che denuncia il peccato e
apre all’azione vivificante dello Spirito nella Risurrezione. C’
è bisogno dunque che diamo veramente a Dio il primato che gli
corrisponde, come valore assoluto della nostra vita, personale e
comunitaria, intima e istituzionale.
Fare esperienza
di Dio non
è per noi saltuaria occupazione né compito secondario, ma nostra
ragione d’essere nella Chiesa e nostra prima missione: «nella
semplice quotidianità, la vita consacrata cresce in progressiva
maturazione per diventare annuncio di un modo di vivere alternativo a
quello del mondo e della cultura dominante. Con lo stile di vita e la
ricerca dell’Assoluto, suggerisce quasi una terapia spirituale per
i mali del nostro tempo»(RdC
6).
- Segno
della novità del Regno di Dioche è
nel mondo, ma che non è di questo mondo (cf. Gv
18,36), che assume i valori umani, ma anche li trascende e li redime,
introducendo in essi una vera e assoluta novità. «La stessa vita
consacrata, sotto l’azione dello Spirito Santo, diventa missione.
Più i consacrati si lasciano conformare a Cristo, più lo rendono
presente e operante nella storia per la salvezza degli uomini»(RdC
9).
Questo comporta di vivere con gioia e radicalità le
Beatitudini come programma di vita e come lievito capace di
trasformare il mondo. Peculiare missione
della vita consacrata è, infatti, «tener
viva la consapevolezza dei valori fondamentali del Vangelo,
testimoniando in modo splendido e singolare che il mondo non può
essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle
Beatitudini»(VC
33).
- Segno
della comunione ecclesiale, che è
vissuta da chi fa professione di vivere fino in fondo il comandamento
di Gesù nella vita di comunità,
dove si fa «in qualche modo tangibile che la comunione fraterna,
prima d’essere strumento per una determinata missione, è
spazio teologale in cui si può
sperimentare la mistica presenza del Signore risorto (cfr Mt
18, 20)»(VC
42). Il contributo dei consacrati e delle consacrate
all’evangelizzazione «sta perciò innanzi tutto nella
testimonianza di una vita totalmente donata a Dio e ai fratelli, ad
imitazione del Salvatore»(VC
76; cf. RdC
34).
Questo avviene grazie all’amore reciproco di quanti
compongono la comunità, che prima di diventare progetto umano, è
parte del progetto divino (cf. VFC
7). «La vita di comunione rappresenta il primo annuncio della
vita consacrata, poiché è segno
efficace e
forza persuasiva che conduce a credere
in Cristo. La comunione, allora, si fa essa stessa missione, anzi la
comunione genera comunione e si
configura essenzialmente come comunione
missionaria»(RdC
33; cf. ChL
31-32): «chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per
sé, deve annunciarlo»(NMI
40).
«La vita consacrata oggi ha bisogno soprattutto di un
rilancio spirituale, che aiuti a passare nel concreto della vita il
senso evangelico e spirituale della consacrazione battesimale e della
sua nuova e speciale consacrazione.
La vita spirituale dev’essere dunque al primo posto nel programma
delle Famiglie di vita consacrata, in modo che ogni Istituto e ogni
comunità si presentino come scuole di vera spiritualità
evangelica»(RdC
20; cf. VC 93).
Chiamati ad essere segnidella novità profetica
del Vangelo, novità che deve illuminare ed essere punto di
riferimento per ogni battezzato, abbiamo una grande
responsabilitànella Chiesa: se tutti sono chiamati alla santità,
noi dobbiamo fare della santità uno stile di vita, la nostra vera
“professione”, per divenire tra i cristiani una chiamata vivente.
Vivere consacrati a Dio è la nostra prima missione apostolica.
E
questo è tanto più urgente per noi come educatori dei giovani, i
quali cercano e hanno bisogno di persone che siano per loro stimolo e
proposta di vita, persone che con la propriaforma di vita diano loro
ragioni di vita e di speranza e li accompagnino nel loro sviluppo
umano e cristiano.
5.
Un modello in crisi
A
partire daquesta identità possiamo individuare meglio le radici
della crisi attuale della vita religiosa, di cui la mancanza di
vocazioni, la poca visibilità e la debole significatività non sono
che un sintomo.
È stata una concezione – direi – “liberale”
e riduttiva di vita religiosa, che ha ritenuto che il rinnovamento
doveva essere un adeguamento alla modernità, assumendo il meglio
dell’Illuminismo, dell’emancipazione, dei diritti umani. Così si
è passati a collocare al centro la persona, la sua coscienza, la sua
dignità, il proprio progetto. Questo ha contribuito a suscitare una
salutare liberazione, consistente in una maturazione umana più ricca
e rispettosa della persona, ma anche ha introdotto elementi di segno
negativo:
- Il rifiuto
di qualsiasi distintivo
particolare della VC; si sono andati abbandonando i tratti sociali di
appartenenza, come l’abito, le strutture, le abitudini, il
linguaggio, un modo caratteristico di presentarsi davanti alla gente;
si evitava di essere riconosciuti e di apparire differenti. Si
riteneva importante l’invisibilità e
il lasciar sepolto il tesoro (cf. Mt
13,44).
Ma se la stessa vita consacrata nega d’essere segno
visibile di qualcosa, allora che senso ha? Proprio per questo oggi si
parla tanto del bisogno di ricuperare un luogo nel mondo e nella
Chiesa attraverso la sua visibilità,
per mezzo della quale appaiono «i tratti caratteristici di Gesù»
(VC 1).
- La voglia
ardente di diventare normali,
come tutto il mondo, senza che ci sia qualche cosa che ci possa
distinguere dagli altri, senza portare con noi il nostro tratto
caratteristico d’essere stati guadagnati dal Cristo e di Lui
innamorati, cioè
impegnati «a vivere con amore
appassionato la forma di vita di Cristo» (RdC 8)
Ma se la vita
consacrata non spicca per nulla in più,
se non desta sentimenti più profondi e risorse meno comuni, perché
diventare religiosi? Se i voti
non hanno niente di straordinario, d’insolito, di “pazzesco”,
non sarà forse perché sono stati ridotti a nostra misura? Se la
vita consacrata si è installata nella normalità, vuol dire che ha
perso tutta la sua forza profetica[15]
; se fa di tutto, ma
niente di speciale, se non anticipa nulla di meglio, né annuncia né
denuncia qualcosa, a cosa serve?
-
A questo si aggiunge la riaffermazione della professionalizzazione.
Prima, forse, si voleva che la grazia della vocazione venisse a
sostituire la nostra incompetenza professionale; “l’obbedienza fa
miracoli”, si diceva spesso. Oggi invece la necessaria preparazione
professionale diventa sovente un pretesto per non essere disponibili
per la missione. Stiamo perdendo la freschezza della disponibilità
evangelica, la spontaneità dell’apostolo, per diventare semplici
professionisti dell’educazione. Mi domando se tutti i Salesiani
sarebbero disposti a lasciare la propria professione per un servizio
alla Congregazione? La mia esperienza mi convince che sono in molti
quelli che lo fanno, e volentieri; ma purtroppo non siamo tutti.
Ma
se la vita consacrata conta soltanto su dei professionisti della
sanità, dell’educazione, dell’emarginazione, si deve pur
ammettere che ha sbagliato, cambiando tragicamente il fine per il
mezzo. Il fare prende il sopravvento sull’essere; ma è giusto
privilegiare il lavoro delle nostre mani più che la volontà di Dio
su di noi?
- Si è
introdotta così una grande dose di individualismo,
che rende l’obbedienza quasi impossibile. Il fatto è tanto più
grave, quanto meno è cosciente; o se risulta notorio, allora è più
ragionato. Dinanzi ai propri diritti, al proprio progetto, alla
realizzazione della vocazione personale, non c’è niente da fare:
essi non vengono messi in questione e neppure valutati.
Ma se la
vita consacrata interpreta se stessa dalla prospettiva
dell’auto-realizzazione,
ha perso la strada del vangelo. Ricordiamo le parole decisive di
Gesù: chi vuol conservare la propria vita, la perde (cf. Mc
8,35; Gv
12,25). L’auto-realizzazione mette al centro il proprio io e i
propri interessi. Il vangelo, al rovescio, ci de-centra, mettendo al
centro Dio e il prossimo. La cultura dell’auto-realizzazione
stravolge il discernimento comunitario;
esso viene preso non tanto come un processo di distacco e di
purificazione per sintonizzarsi con la volontà di Dio, ma come una
strategia per imporre una decisione personale, sovente già presa.
Dov’è dunque la sequela Christi,
dove il fare, come Gesù, della volontà di Dio il proprio cibo (Gv
4,34)?
Facendo così si perde il senso della missione
comunitaria, perché il primato dell’io
comporta la perdita della missione comune. Ma se la vita consacrata
acconsente e lascia spazio a questa visione individualistica di
vocazione e di missione, essa è orientata all’autodistruzione. Il
rischio non è immaginario; è così reale che oggi è diventato un
problema per la formazione e per il governo.
-
La riduzione della preghiera
è un altro elemento di questo modello di vita consacrata “liberale”.
Le pratiche di pietà si riducono “ad usum privatum”, perdono
frequenza, visibilità ed obbligatorietà; si fanno quando c’ è
tempo, perché non c’è altro di più urgente da fare; o quando se
ne sente il bisogno, perché c’ è qualcosa da chiedere. È vero
che prima ci poteva essere una certa routine e formalismo e poteva
mancare spontaneità e autenticità; ma è anche vero che senza
praticare la preghiera, che esige disciplina e metodo, regolarità di
vita e fedeltà quotidiana, si produce uno svuotamento interiore e
una profonda frammentarietà nella persona credente.
Ma è un
controsenso che la vita consacrata si allontani da Dio, perché non
lo frequenta. Infatti, «dalle persone consacrate si espande sulla
Chiesa un persuasivo invito a considerare il primato della grazia e a
rispondervi mediante un generoso impegno spirituale» (RdC
8; cf. NMI
38). Come spiegare che per un salesiano ci siano occupazioni più
importanti di Dio? In questo modo si produce quello che era stato già
detto dai latini: Corruptio optimi
pessima; niente di peggio che un
religioso secolarizzato. A che serve il sale, se diventa insipido (Mt
5.13)?
- Il tipo di
comunità
che si promuove in questo modello è visto come uno spazio di
tranquillità, di rispetto mutuo, di personale benessere, di star
bene senza sentirsi scomodati. Per riuscire in questo si preconizza
il valore di comunità omogenee, formate da uguali; e se questo non è
sono possibile, si fa ricorso al pluralismo e alla tolleranza, come
l’ideale da raggiungere. La cosa più importante sarebbe la
mancanza di conflitti, di scontri, o semplicemente di diversità di
vedute; e dunque si lascia correre, facendo sì che ognuno si senta
bene, non andando oltre quello che tutti sono disposti a dare, né
domandando quello che richiede il vangelo. Aumentano così il numero
di macchine, le sale di TV, l’indipendenza economica dei
confratelli, l’autonomia per i viaggi e le vacanze, l’apertura ai
rapporti con persone di altro sesso; la povertà si rilassa, il
superiore diventa un facilitatore, non più l’animatore e il padre,
e la casa si trasforma in una residenza di singoli.
Ma se la vita consacrata non forma personalità robuste, uomini di
comunione che vedono il fratello come «uno che mi appartiene» (NMI
43), non ha ragione di esistere, perché la comunione vissuta e
testimoniata è uno degli elementi che la fanno significativa,
luminosa ed evangelica. Oggi infatti «la Chiesa affida alle comunità
di vita consacrata il particolare compito di far
crescere la spiritualità della comunione
prima di tutto al proprio interno e poi nella stessa comunità
ecclesiale ed oltre i suoi confini, aprendo o riaprendo costantemente
il dialogo della carità, soprattutto dove il mondo di oggi è
lacerato dall'odio etnico o da follie omicide» (VC
51).
- Forse
l’elemento più debole e il più doloroso di questo modello è la
difficoltà a far sorgere vocazioni.
Fa pensare molto che siano appunto i nuovi movimenti e le
congregazioni appena fondate che hanno più successo in questo campo.
Qualcosa, senza dubbio, ci è mancato. Chissà se il modello
“liberale” di vita consacrata, che si è imposto qua e là e che
indubbiamente ha dei tratti anti-vocazionali, non spieghi la
situazione! Difatti i gruppi, che hanno più successo vocazionale,
presentano tre elementi fondamentali: una spiritualità robusta,
visibile, condivisa; una vita di comunità intensa, gioiosa,
attraente; un impegno sicuro, chiaro, forte a favore dei poveri, che
porta a vivere per loro e come loro.
Ecco, penso che il problema più grande del modello “liberale”
sia quello di pretendere di evangelizzare la cultura moderna,
assumendo questa a scapito delle scelte e dei valori evangelici. La
conseguenza è che così noi restiamo trasformati dalla logica del
mondo, anziché diventare evangelizzatori della cultura. Dovremmo
essere come il sale, che ha la virtù di poter immergersi fino a
dissolversi, ma senza perdere mai la sua identità, la sua efficacia,
così da poter di nuovo tornare al suo stato originale.
Questo è
il modello di vita consacrata che è in crisi. Noi salesiani abbiamo
ragione d’essere se ci manteniamo fedeli alla nostra vocazione e
missione: essere segni e portatori di Dio. Rifondare la vita
religiosa non vuol dire altro che tornare all’essenziale,
all’assoluto di Dio, ai valori del Vangelo, alle beatitudini e ai
consigli evangelici, alla forza della comunità, alla presenza in
mezzo ai ragazzi, come ci esortava Don Bosco nella sua lettera da
Roma del maggio 1884.
5. CG25, un invito a
orientarsi in questa lineain merito al tema
Leggendo il CG25, mi
rendo conto che la Congregazione ha voluto rispondere a queste sfide
quando ha affrontato la realtà della Comunità
Salesiana Oggi, presentando una visione
d’insieme di tutta la nostra vita consacrata. Il tema è la
comunità, ma il contenuto comprende l’esperienza e la
testimonianza di Dio, la comunità fraterna e la presenza tra i
giovani. In questo modo missione, fraternità e vita evangelica sono
viste nella prospettiva del tipo di comunità che la Congregazione si
sente chiamata a promuovere, cercando il suo rinnovamento più
profondo.
La comunità infatti non è stata vista come un “club
d’amici” o come una équipe di lavoro, anche se importa – e
molto, perché appartiene allo spirito salesiano – che ci sia
un’atmosfera cordiale e attraente dal punto di vista umano e
un’efficacia professionale dal punto di vista educativo pastorale.
Essa è stata presentata anzitutto come una comunità consacrata, di
apostoli, con una chiara identità carismatica, erede di un
patrimonio spirituale a cui attingere per poter rispondere con
competenza alle nuove sfide.
La seconda scheda, che porta come
titolo Testimonianza Evangelica,
ha trattato esplicitamente questo tema ispirandosi al “Sogno
dei dieci diamanti”, dove viene
descritto il modello del vero salesiano. Stando alle parole del
commento di Don Viganò, possiamo affermare che proprio lo stesso Don
Bosco «è stato sempre in tutta la sua vita l’incarnazione vivente
di questo simbolico personaggio»[16]
. Contemplato di faccia,
il personaggio fa vedere la vita salesiana innanzitutto «nella sua
attività» (i diamanti del lato anteriore); contemplato di spalle,
il personaggio ci fa vedere la vita salesiana «nella sua
spiritualità interiore» (i diamanti a tergo). Se si vuole,
davanti,
la sua figura sociale, il volto, il “da mihi animas”; a
tergo, il segreto di costanza e di
ascesi, la nervatura e il fondamento, il “cetera tolle”.[17]
Applicando queste
caratteristiche fondamentali alla comunità salesiana, il CG25
afferma: «Ogni comunità è formata da uomini, immersi nella
società, che esprimono la passione evangelica del “da
mihi animas, cetera tolle” con
l’ottimismo della fede, con la dinamicità e la creatività della
speranza, e con la bontà e la donazione totale della carità. Questo
impegno è sostenuto da una struttura spirituale forte ed essenziale,
caratterizzata in particolare dalla dimensione ascetica dei consigli
evangelici e da uno stile di vita laborioso e temperante»(CG25,
20).
Si è consapevoli che l’ambiente culturale odierno,
segnato dal secolarismo, dall’individualismo e dall’edonismo, non
favorisce tanto la stima, l’assunzione personale e la maturazione
di una vita consacrata; e quindi si rendono più chiare le sfide da
affrontare.Ma anche si capisce la forza profetica che può avere la
vita religiosa vissuta in pienezza, come forma di vita
alternativa,che manifesti nuove vie di umanesimo secondo il
Vangelo.
«I consigli evangelici non vanno considerati come una
negazione dei valori inerenti alla sessualità, al legittimo
desiderio di disporre di beni materiali e di decidere autonomamente
di sé. Queste inclinazioni, in quanto fondate nella natura, sono in
se stesse buone. La creatura umana, tuttavia, debilitata com’è dal
peccato originale, è esposta al rischio di tradurle in atto in modo
trasgressivo. La professione di castità, povertà e obbedienza
diventa monito a nonsottovalutare le ferite prodotte dal peccato
originale e, pur affermando il valore dei beni creati, li
relativizzaadditando Dio come il bene
assoluto. Così coloro che seguono i consigli evangelici, mentre
cercano la santità per se stessi, propongono, percosì dire, una
“terapia spirituale”per l'umanità, poiché rifiutano l'idolatria
del creato e rendono in qualche modo visibile il Dio vivente. La vita
consacrata, specie nei tempi difficili, è una benedizione per la
vita umana e per la stessa vita ecclesiale»(VC87;
cf. CG25,
33).
Non fa meraviglia quindi che si parli del primato
di Dio, «che è entrato nella nostra
vita, ci ha conquistati e ci ha mesi a servizio del suo Regno, come
segni e portatori del suo amore»(CG25,
22); del valore umanizzante e profetico della sequela
di Cristo come risposta all’idolatria
del potere, dell’avere e del piacere; della grazia
dell’unità, «che è dono dello
Spirito Santo e sintesi vitale tra unione con Dio e dedizione al
prossimo, tra interiorità evangelica ed azione apostolica, tra cuore
orante e mani operose, tra esigenze personali e impegni comunitari.
In tal modo si integrano armonicamente, nell’alleanza con Dio, la
missione apostolica, la comunità fraterna e la pratica dei consigli
evangelici»(CG25,
24).
Tutto questo si dovrebbe tradurre nella centralità della
Parola di Dio nella vita personale e comunitaria, nella celebrazione
dell’Eucaristia, nella qualità della vita di preghiera fino a fare
della comunità una “scuola di preghiera”, nella revisione di
vita, nella direzione spirituale, nel progetto di vita personale e
comunitario. Ancora una volta, il punto su cui far leva è la
comunità locale e la vita fraterna della comunità presente nella
vita dei giovani.
Per
concludere
Non posso
non concludere questa lettera senza fare memoria di Maria Vergine,
modello di consacrazione e di sequela. Se «fissare gli occhi sul
volto di Cristo, riconoscerne il mistero nel cammino ordinario e
doloroso della sua umanità, fino a coglierne il fulgore divino
definitivamente manifestato nel Risorto glorificato alla destra del
Padre, è il compito di ogni discepolo di Cristo» (RMV
9), noi salesiani vogliamo fare questa contemplazione del volto di
Cristo con e come Maria: Ella è «modello insuperabile»; poiché
«alla contemplazione del volto di Cristo nessuno si è dedicato con
altrettanta assiduità di Maria» (RMV
10), «nessuno meglio di Lei conosce Cristo, nessuno come la Madre
può introdurci a una conoscenza profonda del suo mistero» (RMV
14)
«Guardiamo [dunque] a Maria, Madre e Maestra per ciascuno
di noi. Lei, la prima Consacrata, ha vissuto la pienezza della
carità. Fervente nello spirito, ha servito il Signore; lieta nella
speranza, forte nella tribolazione, perseverante nella preghiera;
sollecita per le necessità dei fratelli (cfr.
Rm 12, 11-13). In Lei si rispecchiano e
si rinnovano tutti gli aspetti del Vangelo, tutti i carismi della
vita consacrata» (RdC
46). Mi domando se non risiede proprio in questo la sua bellezza, il
suo fascino, la sua novità, il suo splendore!
Vorrei farlo
citando un testo di Vita Consecrata,
perché anche questo dato ci dovrebbe spronare a conoscere meglio
questo importante documento; e raccomando vivamente anche
l’approfondimento dell’Istruzione “Ripartire da Cristo”[18]
:
«In tutti (gli
Istituti di vita consacrata) vi è la convinzione che la presenza di
Maria abbia un'importanza fondamentale sia per la vita spirituale di
ogni singola anima consacrata, sia per la consistenza, l’unità, il
progresso di tutta la comunità. Maria, in effetti, è esempio
sublime di perfetta consacrazione,
nella piena appartenenza e totale dedizione a Dio. Scelta dal
Signore, il quale ha voluto compiere in Lei il mistero
dell'Incarnazione, ricorda ai consacrati il
primato dell'iniziativa di Dio. Al
tempo stesso, avendo dato il suo assenso alla divina Parola, che si è
fatta carne in Lei, Maria si pone come modello
dell'accoglienza della grazia da parte
della creatura umana…La vita consacrata guarda a Lei come a modello
sublime di consacrazione al Padre, di unione col Figlio e di docilità
allo Spirito, nella consapevolezza che aderire “al genere di vita
verginale e povera” di Cristo significa far proprio anche il genere
di vita di Maria» (VC
28).
A Lei chiediamo che ci insegni ad aprirci all’azione
trasformante e santificatrice dello Spirito. A Lei affidiamo la
nostra vocazione salesiana perché ci renda “segni e portatori
dell’amore di Dio ai giovani”.
Don Pascual Chávez V.
Rettor
Maggiore
[1]
P. Braido, Don
Bosco Prete dei giovani nel secolo delle libertà. Vol.
I. Roma, LAS, 2003, pag. 14.
[2]
P. Braido, Don
Bosco Prete dei giovani nel secolo delle libertà. Vol.
I. Roma, LAS, 2003, pag. 360.
[3]
P. Braido, Don
Bosco Prete dei giovani nel secolo delle libertà. Vol.
II. Roma, LAS, 2003, pag. 56.
[4]
C. J. B. Metz – T. R. Peters, Gottespassion.
Zur Ordensexistenz heute
(Friburgo-Basilea-Vienna: Herder, 1991) pag. 29.
[5]
Cf. D. O’ Murchu,
Rehacer la vida religiosa. Una mirada
abierta al futuro(Madrid: Ediciones
Claretianas, 2001) pag. 14-15.
[6]
Paolo VI, “Ecclesiam
Suam”: AAS (1964), pag. 650-651.
[7]
J. Gómez Caffarena,
Raíces culturales de la increencia
(Santander: Sal Terrae, 1988).
[8]
E. Viganò, “C’
è ancora terreno buono per i semi”:
ACG (1991)
339, pag. 12-13.
[9]
Cf. Angelo Arrighini,
“Carisma e Istituzione. Intervista a Rino Cozza’: Testimoni
10 (2003) pag. 9-11.
[10]
E. VIGANO’, Invitati
a testimoniare meglio la nostra “consacrazione”,
ACG 342; Il Convegno dei Superiori
Generali su “La vita consacrata oggi”,
ACG 347; Il Sinodo sulla Vita
consacrata, ACG 351; Come
rileggere oggi il carisma del Fondatore,
ACG 352.
[11]
J. VECCHI, Il
Padre ci consacra e ci invia, ACG
365.
[12]
“A
25 anni dalla Promulgazione del Documento Mutuae Relationes”,
pag. 4 (ciclostilato, con sottolineature personali).
[13]
J. Ma. R. Tillard,
Carisma e sequela
(Bologna: EDB 1987) pag. 54.
[14]
0’ Murchu,
Rehacer la
vida religiosa... pag. 67.
[15]
F. J. Moloney, Disciples and Prophets: A
Biblical Model for Religious Life (London: Darton, Longman &
Todd, 1980) pag. 155-170.
[16]
E. Viganò, Profilo
salesiano del sogno del personaggio dei dieci diamanti,
ACS 300
(1981) pag 13.
[17]
Ib, pag. 14.
[18]
CIVCSVA, Ripartire
da Cristo. Un rinnovato impegno della vita consacrata nel terzo
millennio, Roma 2002.