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GIOVANI E FORMAZIONE PROFESSIONALE
NELLA PRASSI SALESIANA
Giorgio Rossi
1. Industrializzazione e questione giovanile
Scorrendo i numerosi interventi contenuti nei tre ponderosi volumi dedi-
cati all’attività dei Salesiani nel mondo dal 1888 al 1922 (L’Opera Salesiana
dal 1880 al 1922. Significatività e portata sociale, a cura di F. Motto. Roma,
LAS 2001), ritroviamo un tema che ricorre molto spesso e che potremmo inti-
tolare: “Giovani e formazione professionale nella prassi salesiana”. Gli arti-
coli dedicati a questo argomento sono circa diciassette, a testimonianza della
diffusione mondiale di una delle iniziative più urgenti per il tempo e fortunate
dell’azione dei Salesiani vivente don Bosco, ma soprattutto durante il retto-
rato di don Michele Rua (1888-1910) e don Paolo Albera (1910-1921).
La cornice o il contesto storico, sociale ed ecclesiale entro cui è collo-
cata la formazione al lavoro dei giovani tra Otto e Novecento nell’ambito eu-
ropeo ed extraeuropeo è sinteticamente presentato da Stanisław Zimniak
quando si sofferma a considerare il dibattito sulla condizione giovanile in Au-
stria, facendo delle considerazioni valide a livello europeo, ma anche mon-
diale. L’inserimento salesiano si colloca in un’epoca di sconvolgimenti e tra-
sformazioni che interessano tutto il mondo, specie quello europeo. La rivolu-
zione industriale portava con sé l’urbanizzazione, l’emigrazione, la questione
operaia, la formazione del proletariato, nuove forme di povertà. L’incremento
demografico forniva abbondanza di mano d’opera a basso costo, ma lasciava
allo sbando una popolazione fluttuante, specie di giovani, in cerca di una
qualsiasi forma di sopravvivenza. La struttura sociale risultò sconvolta da fe-
nomeni prima sconosciuti, tanto da cambiare profondamente la fisionomia
della struttura politica e sociale europea. Infatti le trasformazioni capitali-
stiche delle campagne, anche se lente, e gli inizi della rivoluzione industriale
seppellirono definitivamente la tradizionale società di ordini o stati. Si assiste
ormai alla formazione di una classe nuova, almeno per numero e dimensioni,
individuata dal fatto di non aver altra ricchezza che le proprie braccia o la
propria prole, avviata al lavoro solitamente in età giovanissima (V. Castro-
novo, La rivoluzione industriale. Firenze, Sansoni 1973; G. Lefranc, Storia del
lavoro e dei lavoratori. Milano, Jaca Book 1978). Questo quadro è presente in
molte relazioni, soprattutto in quelle che si riferiscono all’America Latina.
A mano a mano che l’industria allargava il suo raggio d’azione, si faceva

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254 Giorgio Rossi
più evidente la crisi dei mestieri tradizionali, delle botteghe, presenti invece
massicciamente a Roma ancora per molti anni dopo la caduta del governo
pontificio, come ho fatto rilevare a proposito dell’istruzione professionale a
Roma, delle produzioni artigiane tecnicamente superate, assorbendo masse di
operai salariati provenienti dalle campagne. Mario Belardinelli, nel suo inter-
vento, nota che la mano d’opera proviene in buona parte proprio dalle cam-
pagne flagellate dalla crisi agraria: “una popolazione contadina in forte au-
mento non può trarre sostentamento dai campi allorché giungono sui mercati i
cereali a buon prezzo dalle Americhe o dalla Russia” e allora emigra verso le
città industriali o verso mete più lontane, cioè i paesi avanzati dei continenti e
soprattutto i paesi d’oltreoceano a bassa popolazione ed elevato tasso di svi-
luppo. Individui e gruppi familiari, fa notare ancora Belardinelli, si allonta-
nano dall’ambiente umano e geografico conosciuto, senza punti di riferi-
mento, in società ormai disomogenee per mentalità, tipo di relazioni, valori
morali, determinando un profondo senso di disagio, causato dalla sensazione
della perdita delle radici culturali e dall’umiliazione dello sfruttamento.
Questa trasformazione così marcata si ripercuoteva particolarmente sui
giovani. Il fenomeno dei figli illegittimi diventò preoccupante, così quello
dello sfruttamento dei ragazzi da parte delle industrie, dei ragazzi di strada o
di piazza, come piazza Vittorio di Torino, descritta nelle Memorie Biografiche
di don Bosco, dei ragazzi abbandonati o lasciati soli dai genitori costretti a la-
vorare dalle prime ore del mattino alle ore inoltrate della sera. La questione
giovanile cominciò ad entrare nel dibattito culturale e politico della società
moderna, perché realtà che non poteva più essere ignorata. In Italia solo nel
1886 si ebbe una prima legge sul lavoro minorile, definita iniqua da socialisti,
che prevedeva il lavoro in fabbrica all’età di 9 anni per un totale di ore 8, e al-
l’età di 12 per un totale di ben 10 ore. Ancora la legge del 19 giugno del 1902
sul lavoro delle donne e dei fanciulli all’art. 1 diceva: “I fanciulli dell’uno e
dell’altro sesso ammessi al lavoro negli opifici industriali, nei laboratori,
nelle arti edilizie e nei lavori non sotterranei delle cave, delle miniere e delle
gallerie devono avere almeno l’età di 12 anni compiuti”; nei lavori sotterranei
possono essere impiegati ragazzi di 14 anni compiuti; per i lavori pericolosi o
insalubri devono avere 15 anni compiuti (A. Cabrini, L’Italia d’oggi. La legi-
slazione sociale 1859-1913. Roma, Bontempelli 1914; O. Antozzi, I socialisti
e la legislazione sul lavoro delle donne e dei fanciulli, in “Movimento ope-
raio e socialista”, 1974, n. 4).
C’è da rilevare che purtroppo le relazioni non si fermano ad analizzare il
rapporto tra società civile e formulazione legislativa, facendo così emergere
la poca attenzione o almeno la poca incidenza dei Salesiani in un settore deli-
cato, che interessava da vicino la classe giovanile e che proprio in quegli anni
era fatto oggetto di discussione da parte dei governi di tante nazioni. È però

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Giovani e formazione professionale nella prassi salesiana 255
vero che i Salesiani, come diremo, sono attenti a osservare le leggi sul lavoro
minorile e a fugare ogni parvenza di sfruttamento.
Nel decennio 1852-62 don Bosco istituiva nell’Oratorio di Torino tutti i
laboratori che si impianteranno poi negli istituti da lui fondati o che si apri-
ranno dopo la sua morte in quasi tutte le parti del mondo: calzoleria, sartoria,
falegnameria, legatoria, meccanica, tipografia. Era questo il momento del pas-
saggio di Torino, come scrive Rosanna Roccia, da capitale dello Stato a capi-
tale dell’industria, il quinquennio più esaltante, contraddittorio e drammatico
di Torino risorgimentale. Torino si avvia ad essere l’ “Amérique d’Italie” o la
Mecca d’Italia (P. Gabert, Turin ville industrielle. Étude de géographie écono-
mique et humaine. Paris, Presses Universitaires de France 1964; R. Sacchetti,
La Mecca d’Italia, in Torino 1880. Torino, Roux e Favale [1880]).
Quanto don Bosco era consapevole di operare in un contesto, quale era
quello di Torino, per formare artigiani o operai adatti per l’inserimento nel tes-
suto cittadino o professionale? La risposta esigerebbe parecchi distinguo,
come si può vedere del resto dagli scritti di Pietro Stella (Don Bosco nella
storia economica e sociale 1815-1870. Roma, LAS 1980), José Manuel Pre-
llezo (La “parte operaia” nelle case salesiane. Documenti e testimonianze
sulla formazione professionale, in “Ricerche Storiche Salesiane”, 31 (1997)
353-391), Pietro Bairati (Cultura salesiana e società industriale, in Don Bosco
nella storia della cultura popolare, a cura di F. Traniello. Torino, SEI 1986),
Vittorio Marchis (La formazione professionale. L’opera di don Bosco nello
scenario di Torino, città di nuove industrie, in Torino e don Bosco, a cura di G.
Bracco. Torino, Archivio Storico della Città di Torino 1989), Luciano Pazza-
glia (Apprendimento e istruzione degli artigiani a Valdocco 1846-1886, in Don
Bosco nella storia della cultura popolare…). Don Bosco era indirizzato verso
un obiettivo semplice: aiutare, formare, giovani poveri abbandonati, emargi-
nati, che la società di allora in via di industrializzazione, nel contesto di un vi-
stoso aumento demografico e urbanizzante, trascurava o abbandonava a se
stessi; nello stesso tempo qualificarli secondo quanto le nuove esigenze di la-
voro o professionali esigevano. È interessante notare dai vari interventi sul
tema come questa finalità sia presente nei Salesiani più della consapevolezza
dei processi di trasformazione e di industrializzazione delle varie società.
Del resto che il rapporto tra industrializzazione, questione giovanile, av-
viamento e formazione al lavoro dei giovani non fosse solo un fatto europeo,
ma che, a livello delle opere salesiane descritte nei tre volumi che stiamo ana-
lizzando, fosse presente anche in America, Asia e Africa, risulta evidente, se-
condo modalità e spessori senz’altro differenti, dagli autori che hanno trattato
di questo tema. Pedro Creamer, per esempio, a proposito delle scuole profes-
sionali di arti e mestieri fondate in Equador e precisamente nelle città di
Quito, Cuenca e Riobamba, già alla fine dell’Ottocento, scrive: “In effetti il

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256 Giorgio Rossi
paese, allo stesso modo dei paesi latino americani, stava vivendo un periodo
di pre-industrializzazione. Per questo era necessario qualificare la manodo-
pera, soprattutto giovanile”. Così anche Lilia Cardona Agudelo a proposito
della scuola professionale di Medellin (Colombia) delle Figlie di Maria Ausi-
liatrice fondata nel 1906, mette in rilievo l’enorme incremento della popola-
zione della città e la motivazione della fondazione come risposta alle neces-
sità che si venivano a creare per il processo di industrializzazione e di moder-
nizzazione che richiedevano operaie qualificate per le fabbriche. Jorge Ata-
rama Ramirez scrive: “Arequipa [Perù], tra il 1896 e il 1929, visse un periodo
di inserimento nel mercato mondiale del capitalismo grazie all’esportazione
di lana”. Ma gli esempi si possono moltiplicare, scorrendo le fitte e ben curate
pagine sia dal punto di vista tipografico che per l’apparato bibliografico e
scientifico. Le stesse osservazioni ritroviamo negli interventi di Carlo Socol
su Macao: “una istituzione che si occupa della classe operaia”, di Luiz de Oli-
veira su Pernambuco (Brasile), “importante contributo per la soluzione del
problema sociale”, di Maria Guadalupe Rojas Zamora su Morelia (Messico)
delle Figlie di Maria Ausiliatrice, fondata nel 1902, per la formazione di ca-
meriere, operaie e madri di famiglia, come risposta, anche se lenta, alla
Rerum Novarum di Leone XIII del 1891.
La formazione dei giovani a un mestiere, dal punto di vista cristiano e
professionale, è stato al centro dell’iniziativa prima di don Bosco e poi dei
Salesiani che l’hanno seguito. La preoccupazione fondamentale era di natura
religiosa-umanitaria. La strategia dei Salesiani era fortemente collegata alla
tradizione cattolica e all’aderenza alla dottrina, in questo campo sociale, della
Chiesa. Non erano preoccupazioni di natura ideologica o politica, alla quale i
salesiani per consuetudine derivata da don Bosco guardavano con molta cau-
tela. Forse è per questo che la storiografia sul movimento cattolico italiano
non ha dato finora molto spazio ai Salesiani e alle loro iniziative, tolte alcune
indicazioni su don Bosco, su alcune figure, su scuole professionali, agricole e
stampa (P. Stella, I salesiani e il Movimento cattolico in Italia fino alla prima
guerra mondiale, in “Ricerche Storiche Salesiane” 3 (1983) 223-251). Mo-
rand Wirth nel suo articolo, sulla scia degli studi di José Manuel Prellezo, fa
notare che a partire dagli anni 1880 i documenti ufficiali cominciano a parlare
con maggior insistenza della “parte operaia” e più cautamente della “classe
operaia”. Dopo la pubblicazione della Rerum Novarum del 1891, il sesto Ca-
pitolo Generale del 1892 iscrisse nei temi da trattare, soprattutto nelle scuole
professionali di arti e mestieri, lo studio della enciclica sociale. Si chiedeva di
tenere conferenze sopra i grandi temi della società quali il capitale, il lavoro,
la merce, il riposo festivo, cui si aggiunsero via via altri argomenti, quali il li-
berismo, il socialismo, la democrazia cristiana, lo sciopero, la proprietà pri-
vata, il capitalismo, l’organizzazione operaia, il contratto di lavoro, la legisla-

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Giovani e formazione professionale nella prassi salesiana 257
zione sociale, temi cioè che facevano parte del “programma di sociologia”
per il corso superiore triennale insegnato nelle scuole professionali (G. Rossi,
L’istruzione professionale in Roma capitale. Le scuole professionali dei sale-
siani al Castro Pretorio 1883-1930. Roma, LAS 1996). L’educazione degli
artigiani comportava un triplice indirizzo: religioso-morale, intellettuale
(lingua nazionale, storia, geografia, matematica, geometria, contabilità), pro-
fessionale (falegnami, sarti, tipografi, meccanici, calzolai), ginnastica, canto
corale, banda, teatro, gioco, passeggiate. Cambiando comunque il mondo
della tecnica e dell’industria i vecchi laboratori diventano prima scuole di arti
e mestieri e poi scuole professionali.
I Salesiani hanno tenuta ben ferma la qualifica di “scuola” data alla for-
mazione professionale, contro ogni tentativo di farla passare come attività
produttiva. Già il successore di don Bosco, don Michele Rua, nel 1895 riven-
dicava questa specificità e insisteva perché tutti i Salesiani si situassero su
questa linea. Quando uscì nel 1902 la legge circa il lavoro delle donne e dei
fanciulli negli opifici e nei laboratori, i Salesiani, come ho scritto anni fa,
erano persuasi che gli istituti di artigiani fossero considerati vere scuole di
arti e mestieri e non potessero essere sottoposte all’osservanza della legge.
Ma il Ministero dell’Industria intimò che si facessero certe modifiche nell’o-
rario e nel programma, oppure si applicasse la legge in tutte le sue parti.
Mentre il s. Michele e l’Orfanotrofio di Roma, scuole di arti e mestieri, accet-
tarono di essere considerati vere officine produttive, il S. Cuore dei Salesiani
al Castro Pretorio di Roma ingaggiò una dura battaglia legale al fine di far ri-
conoscere l’istituto come vera scuola professionale, con l’esonero dall’ob-
bligo di provvedere il libretto di lavoro ai fanciulli di età inferiore ai 15 anni.
Per i Salesiani era disonorevole essere considerati dall’opinione pubblica
come sfruttatori di giovani: “lungi adunque ogni idea di guadagno e di sfrut-
tamento delle nostre scuole. Siamo ben lontani da questo”.
La stessa situazione si ritrova nella scuola professionale di Cartago
(Costa Rica), come scrive Leonardo Andrade Acosta nel suo intervento. La
scuola di Cartago è stata la prima scuola professionale (1907) del Paese. Le
difficoltà maggiori venivano dal settarismo, dagli industriali timorosi della
concorrenza, dalla classe degli artigiani, che male digerivano le innovazioni
portate dall’estero. Il direttore ha dovuto rassicurare tutti scrivendo sulla
stampa locale: “La scuola professionale salesiana è scuola e non laboratorio”.
2. Significatività e portata sociale delle opere
I volumi hanno come sottotitolo “significatività e portata sociale”. Tutti
gli interventi hanno risposto a questa richiesta e la ricchezza dei tre volumi ri-

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258 Giorgio Rossi
siede nella panoramica mondiale che ci viene offerta circa il significato che
dal punto di vista sociale hanno rappresentato le realizzazioni dei Salesiani, e
per quel che ci riguarda, nel campo dell’istruzione professionale. Ci sofferme-
remo brevemente su un aspetto che riteniamo connesso con quello della signi-
ficatività e cioè l’impatto che il modello torinese-italiano di don Bosco ha
avuto e la novità o originalità che questo ha rappresentato nel mondo della
formazione professionale di allora.
Come prima osservazione c’è da rilevare il fatto che assistiamo da una
parte ad una grande uniformità e rigidità di applicazione del modello, come
per esempio l’orario, la scansione giornaliera, le materie e le professioni inse-
gnate, la costituzione della banda, in molti casi l’insegnamento della lingua
italiana. Così, per esempio, sia a Torino che a Roma o in Argentina i ragazzi
si alzavano alle 6 o alle 6.15 secondo un orario definito “esigente” da Mar-
celo Cañizares nel suo saggio sulla scuola di Rodeo del Medio (Argentina). Il
punto di riferimento era Torino e l’Italia. Significativo a questo riguardo è
studiare, la diffusione della lingua italiana all’estero ad opera dei Salesiani
(G. Rossi, Emigrazione e diffusione della lingua italiana: l’opera dei Sale-
siani dall’espansionismo crispino al nazionalismo fascista, in La lingua ita-
liana nel mondo attraverso l’opera delle Congregazioni religiose. Soveria
Mannelli, Rubbettino 2001). Dal punto di vista storiografico c’è da osservare
che non si è mai preso sul serio il tema dell’esportazione della “cultura” ita-
liana nel mondo tramite le tante Congregazioni che sorgono in Italia tra Otto
e Novecento e gli antichi Ordini preesistenti. Scuole, missioni, oratori, par-
rocchie, società di soccorso, patronati, alcune volte anche macchinari e pro-
dotti, sembrano essere nei paesi esteri molto più efficaci della stessa azione
politica o diplomatica esercitata da uno Stato.
D’altra parte però i volumi ci offrono anche l’adattabilità e la varietà del
modello salesiano. Francesco Casella, nel suo documentato intervento, mostra
la riuscita dell’azione dei Salesiani nei confronti dei sordomuti di Napoli,
tanto che nell’aprile del 1922 la giuria della mostra nazionale artigianale di
Firenze assegnò ai laboratori della Pia Casa dei sordomuti la medaglia d’oro.
In Polonia si istituisce una scuola particolare, quella per organisti, che con-
vive con quella di giardiniere, sarto, contabile. A Città del Capo (Sud Africa),
a Elisabethville (Congo Belga), a Macao (Cina) sono presenti problemi raz-
ziali o razzisti di non lieve entità per cui a Città del Capo si può fondare solo
una scuola professionale per bianchi “poveri”, ma non per i neri, e a Elisa-
bethville lo Stato affida ai Salesiani una scuola primaria per bianchi e una
professionale per neri quasi a dire che la formazione professionale è anche
una modalità per discriminare neri da bianchi, poveri da ricchi; a Macao i Sa-
lesiani sono nel tiro incrociato dei filocinesi e dei filoportoghesi. A Mendoza,
in Argentina, nasce una scuola di vitivinicultura; a Sergipe – Tebaida (Brasile)

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Giovani e formazione professionale nella prassi salesiana 259
convive scuola agricola e scuola professionale; a Jaboatão, vicino a Recife in
Brasile, c’è solo una scuola agricola. Già verso la fine dell’Ottocento, a pochi
anni dalla morte di don Bosco, sono documentate le fondazioni di opere pro-
fessionali nell’America Latina. In Perù si aprono le scuole professionali di
Lima, Arequipa, Cusco, Piura, Collao per cui i Salesiani furono indicati come
quelli che più di altri enti privati o pubblici operarono per l’educazione tec-
nica. A Città del Messico e a Bahia (Argentina) studenti e artigiani convivono
in grandiosi istituti, riproducendo quel modello di istituzione il più possibile
completa che ritroviamo in origine a Valdocco-Torino e anche a Roma S.
Cuore nel 1886, vivente don Bosco. Ma nei volumi sono anche documentate
le scuole professionali per orfani e poveri in Spagna, Francia, India, Mozam-
bico. È una panoramica certo non completa, come dice il curatore Francesco
Motto, perché mancano all’appello varie iniziative che pure rientrano nella
logica del Convegno da cui sono scaturiti gli Atti stampati, ma comunque già
sufficiente per esprimere un giudizio non superficiale.
3. L’apporto nuovo e originale delle scuole professionali
L’ultimo punto da analizzare, e su cui si sono soffermati molti interventi,
per esempio quello di Carlo Socol su Macao, di Leonardo Andrade Acosta su
Cartago (Costa Rica), di Alejandro Hernandez su Santa Tecla (El Salvador) è
quello che concerne il contributo nuovo e originale delle scuole professionali
salesiane dato al contesto e alla società in cui hanno operato. Mi rifaccio es-
senzialmente alla situazione dei Salesiani a Roma al Castro Pretorio, presen-
tata da chi scrive questa nota, ma anche altre relazioni accentuano questi
aspetti che crediamo più significativi.
3.1. Direzione e conduzione dell’istituzione
Tra ‘800 e ‘900 si discuteva molto sulla fisionomia della comunità edu-
cante e sulle modalità per il conseguimento di un’efficace promozione peda-
gogica e professionale. L’esigenza dei nuovi tempi comportava un corpo edu-
cativo stabile, omogeneo, esperto nell’educazione popolare, e non membri di-
saggregati, senza specifiche idealità educative. Come si può vedere una con-
gregazione religiosa, come quella salesiana, rispondeva bene alle esigenze
educative così postulate, anche in regioni molto diverse da quelle europee.
I Salesiani potevano contare su un’organizzazione piramidale che aveva
il vantaggio di far defluire dal centro, in questo caso Torino con la casa di
Valdocco e i superiori maggiori, esperienze, novità e impulsi. Già nel 3° Ca-
pitolo Generale della Società Salesiana del 1883, come documenta J. M. Prel-

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260 Giorgio Rossi
lezo, si deliberò la nomina di un “consigliere professionale generale” come
membro del Capitolo Superiore, con la funzione di curare quanto spettava al-
l’insegnamento delle arti e dei mestieri (Rapporto “scuola-lavoro” nella
esperienza educativa di don Bosco e dei primi salesiani, in “Selenotizie”,
aprile 1996, n. 4).
3.2. L’istruzione professionale
Un altro aspetto fortemente innovativo ci sembra essere quello contenu-
tistico e didattico concernente l’apprendimento di arti e mestieri. Larga parte
era dedicata non solo all’apprendimento di materie comuni, come la lingua e
le scienze, ma anche all’insegnamento teorico vero e proprio dei segreti del-
l’arte. Quella dei salesiani era una vera “scuola”, dove si insegnavano sia gli
aspetti teorici che l’attuazione pratica. I Salesiani sembrano più attenti, più
meticolosi nella istruzione da dare. Anche i programmi professionali paiono
più rispondenti alla società di allora:
“Per l’insegnamento professionale furono composti seri programmi su
programmi elaborati in Italia e anche all’estero (…) dopo essere stati
corretti e ampliati da persone tecniche competentissime che se ne servi-
rono per insegnare la loro arte(Ordinamento scolastico e professionale
degli alunni artigiani dell’Ospizio S. Cuore di Gesù in Roma. Roma,
Scuola Tipografica Salesiana 1910).
Le scuole professionali laiche di Roma tendevano a riprodurre la situa-
zione che si aveva nelle botteghe artigiane romane. Infatti si appaltavano da
parte dei dirigenti del s. Michele e dell’Orfanotrofio Comunale a artigiani ro-
mani gli ambienti e i macchinari delle scuole; questi dovevano prendersi cura
dell’apprendimento dei vari mestieri da parte dei garzoni interni loro affidati.
Se diamo inoltre uno sguardo ai programmi professionali, possiamo no-
tare la minuzia e la ricchezza di competenze che si cercava di far apprendere
dai tipografi, dai legatori, dai librai, dai falegnami, dai sarti e dai calzolai. I
programmi prevedevano un rigido cammino di apprendimento lungo l’arco
dell’anno e la valutazione due volte all’anno delle cognizioni e abilità conse-
guite; erano incentivati anche ad una preparazione amministrativa e dirigen-
ziale. Carlo Socol ritiene attendibile l’affermazione che, intorno agli anni
Venti e Trenta, tutte le calzolerie e tutte o quasi le sartorie alla moda occiden-
tale esistenti a Macao erano avviate da exallievi della scuola professionale dei
Salesiani.
3.3. Socialità e formazione dei giovani
La portata sociale delle istituzioni salesiane incentrate nella scuola di
formazione professionale è specificata dalla condizione dei ragazzi che veni-

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Giovani e formazione professionale nella prassi salesiana 261
vano accettati: molti orfani, molti proprio poveri, altri poveri o di classe ap-
pena superiore alla povertà.
La socializzazione all’interno delle istituzioni salesiane si differenzia da
altre istituzioni soprattutto dallo stile che legava coloro che erano proposti
alla direzione e i giovani. La struttura tipica, secondo il sistema pedagogico di
don Bosco, era quella familiare:
“Lo stile della famiglia diventa metodologicamente struttura, cioè defi-
nita organizzazione di rapporti tra quanti la compongono: del direttore
con i collaboratori e gli allievi; di questi nei confronti dei ‘superiori’
educativamente padri, fratelli, amici” (P. Braido, Prevenire non repri-
mere. Il sistema educativo di don Bosco. Roma, LAS 1999, p. 312).
Negli altri istituti non c’era questo clima di famiglia, perché la mentalità
educativa era un’altra. Ricordiamo che il direttore dell’Orfanotrofio Comu-
nale di Roma era scelto tra i graduati dell’esercito o dei carabinieri.
Stanisław Zimniak scrive che la novità salesiana per l’ambiente viennese
si manifestò soprattutto nello stile di rapporto verso il giovane come tale,
della immediatezza nell’entrare in sintonia. Un’atmosfera del tutto particolare
che viene definita con il termine di clima familiare, che si concretizza nelle
modalità di accoglienza e di trattamento dei giovani.
L’aspetto pedagogico più importante riguarda il “metodo” usato nell’e-
ducazione dei giovani. Al di là delle modalità educative e formative, si può
subito affermare che nelle istituzioni laicali, se erano ben individuati i fini,
carente e occasionale appare il metodo educativo messo in atto nei confronti
degli allievi. I salesiani potevano invece far riferimento al metodo donbo-
schiano, il cosiddetto “sistema preventivo”, su cui ormai c’è abbondante lette-
ratura anche con specifici riferimenti all’educazione dell’artigiano e su cui
tutte le relazioni si soffermano.
Non ci dilunghiamo sulle modalità messe in atto per raggiungere la fina-
lità educativa dei ragazzi, perché dovremmo approfondire vari temi, quali
l’organizzazione professionale, il protagonismo giovanile, la formazione reli-
giosa, la pedagogia della gioia e della festa con il teatro, la musica, il canto e
le passeggiate, i castighi, le correzioni e le premiazioni e soprattutto il sistema
pedagogico messo in opera in ogni parte del mondo dove i Salesiani impian-
tavano le loro opere.
Qualche accenno però è doveroso farlo, al fine di fornire elementi atti a
formulare un giudizio complessivo discretamente attendibile. È certamente
innovativo lo sforzo dei Salesiani nell’organizzazione dei giovani. Anche
nelle scuole laiche romane, per esempio, vi erano ragazzi con qualche incom-
benza, come quella di essere aiutanti nelle camere o capi di gruppo, ma man-
cava del tutto un’esperienza e un’organizzazione come le cosiddette “compa-

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262 Giorgio Rossi
gnie religiose” che, secondo Braido, possono configurarsi come “una qualche
autogestione da parte dei giovani”.
3.4. Situazione economica
Le istituzioni salesiane traevano le fonti di guadagno dalle poche entrate
dei ragazzi, dal lavoro dei laboratori e in buona o massima parte dalla benefi-
cenza che ricevevano, che, per esempio, per l’Ospizio S. Cuore di Roma era
anche abbondante. Questo vale come regola generale, che mi pare possa rife-
rirsi a quasi tutte le opere che abbiamo analizzato.
Nel 1910 si dice che gli artigiani del S. Cuore, quando possono, pagano
la “meschina” pensione di lire 20 mensili, ma spessissimo, data la ristrettezza
finanziaria delle loro famiglie, la retta veniva ridotta a 15, 10, 5 lire mensili,
“seppure non è condonata completamente supplendovi colla oblazione di per-
sone caritatevoli”. Se vediamo la tabella riportata dalla Coniglione per il de-
cennio 1885-1895 riguardante le pensioni degli artigiani, notiamo che su 650
pensioni complessive, solo 84 erano regolari, mentre 225 erano ridotte, 205
ridotte al 50% e 136 erano gratuite. Lo stesso andamento fino al 1915 (C. Co-
niglione, Presenza salesiana nel quartiere romano di Castro Pretorio (1880-
1915), in “Ricerche Storiche Salesiane” 4 (1984) 3-89).
Seguendo una buona norma pedagogica e psicologica si cercava di im-
mettere negli artigianelli, anche se poveri, la convinzione che non erano dei
mantenuti, ma che anche loro, secondo quanto permettevano le loro possibi-
lità, contribuivano al buon andamento di tutta l’istituzione.
Conclusione
Come impressione generale, con tutte le cautele possibili, si può co-
munque condividere ciò che Carlo Socol afferma su quello che hanno signifi-
cato le scuole professionali di Macao: “La Escola de Artes e Officios poteva
vantare di offrire un tipo di insegnamento, con programmi e metodologie spe-
rimentali, che a Macao erano unici nel loro genere. Era il modello delle
scuole professionali promosso dalla Congregazione Salesiana, trapiantato con
opportuni adattamenti e con i limiti imposti dalle possibilità reali […] in un
ambiente così diverso da quello in cui era nato”.
È vero comunque che molti aspetti sono assenti o comunque poco svi-
luppati nelle relazioni che invece avrebbero dovuto essere evidenziati, come
per esempio il rapporto tra società civile, legislazione e intervento dei Sale-
siani, cui abbiamo accennato; la formazione pedagogica specifica degli edu-
catori delle scuole professionali e infine la considerazione, che avrebbe esi-

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Giovani e formazione professionale nella prassi salesiana 263
gito un’indagine comparativa, di quanto in realtà era dovuto alla situazione
ancora embrionale della formazione al lavoro dei giovani in nazioni che solo
allora si affacciavano a nuove esperienze politiche e di sviluppo e quanto in-
vece alla reale capacità e modernità del modello salesiano, soprattutto in rap-
porto alle nuove professioni che si profilavano all’orizzonte.