PER ME DIO È SEMPRE STATO UN BUON PAPÀ
Una premessa necessaria
Tutta la mia esistenza è nata, cresciuta e si è sviluppata in un intimo contatto con il soprannaturale. Se il mondo è stato il mio banco di prova, la fede è stata la mia risposta di credente. Ero solito affermare: «In mezzo alle prove più dure ci vuole gran fede in Dio».
Questo lo dicevo agli altri. Per primo, a me stesso. D’altronde, alla scuola di mia madre avevo imparato a leggere negli avvenimenti e nelle vicende della vita i segni della presenza amorosa e provvidente di Dio.
Le certezze che mi hanno sempre sorretto
Mi ha sempre guidato una certezza: in ogni cosa ho sempre sentito una garanzia dall’alto. Pur nella consapevolezza dei miei limiti, sentivo bruciare nel mio cuore l’ardore del servo biblico, la vocazione del profeta che sa di non potersi sottrarre ai voleri divini. Anche se, quando parlavo dei miei “sogni” non ho mai usato il termine biblico di “annunciazione”, pure ho sempre ritenuto che essi fossero autentici avvertimenti dell’alto da valutare con prudente umiltà e fiducioso ascolto. Quando, negli anni della mia piena maturità rileggevo la mia esperienza apostolica, provavo in me una specie di vertigine, di stupore evangelico che mi faceva esclamare: «Ero un povero prete, solo, abbandonato da tutti, assai peggio che solo, perché dispregiato e perseguitato; avevo un vago pensiero di fare del bene… Sembrava allora un sogno il pensiero del povero prete, eppure Iddio realizzò, compì i desideri di quel poveretto. Come si siano fatte le cose, io appena saprei dirvelo. Non me ne so dare ragione io stesso. Questo io so, che Dio lo voleva».
Mi sentivo come il servo inutile di cui parla il Vangelo. Come la Madonna benedicevo il Signore perché con la mia pochezza Lui, l’Onnipotente, aveva fatto cose grandi.
E incoraggiavo i miei primi Salesiani, che avevo tirato su da ragazzi: «Il Signore aspetta da voi cose grandi: io le vedo chiaramente… Dio ha incominciato e continuerà le sue opere, alle quali tutti voi avrete parte… Il Signore fu Colui che incominciò le cose. Egli stesso diede loro l’avviamento e l’incremento che hanno. Egli col volgere degli anni le sosterrà. Egli le condurrà a compimento. Iddio è pronto a fare queste grandi cose… Una sola cosa Egli richiede da noi: che noi non ci rendiamo indegni di tanta sua bontà e misericordia».
Mi lasciavo guidare da una frase raccolta tante volte dalle labbra di mia madre: «Siamo nelle mani del Signore, il quale è il più buono dei padri che veglia di continuo al nostro bene, e sa ciò che è meglio per noi e quello che non è».
Occorreva una buona dose di fede, di coraggio e di abbandono alla Provvidenza del Signore; questa non mi mancava, anche se verso la fine della vita dovrò umilmente ammettere: «Se io avessi avuto cento volte più fede, avrei fatto cento volte più di quello che ho fatto».
Affrontavo la vita con tutte le sfide che essa mi presentava con serena e filiale fiducia nel Signore. Ai miei ragazzi scrivevo già nel 1847 in quel libro di preghiere e di formazione cristiana che avevo intitolato Il Giovane Provveduto e che si stava rivelando un autentico bestseller indovinato nello stile e nel contenuto: «Non sei al mondo solamente per godere, per farti ricco, per mangiare, bere e dormire, come fanno le bestie, ma il tuo fine si è di amare il tuo Dio». Descrivevo il cristiano come «un viaggiatore in cammino verso il Cielo». Per me, il Signore e il Cielo sostanzialmente si equivalevano. Infatti volevo i miei giovani «felici nel tempo e nell’eternità». Quando parlavo di Dio come «Padre misericordioso e provvidente» la mia preghiera cambiava di tono: in genere, era una preghiera semplice e cordiale la mia, senza eccessive inflessioni di voce. Ma quando pronunciavo le parole Padre nostro le dicevo con un accento che – e me lo riferivano con molta semplicità i presenti – tradiva un insolito trasporto del cuore. Avevo pianto la morte di mio papà Francesco con quell’innocente e straziante dolore che è capace di manifestare solo un bambino che non ha ancora compiuto due anni d’età. Quella morte mi aveva introdotto nel mistero di un Dio che non abbandona mai i suoi figli. E sin dai primi anni di vita mi rapportai con Lui come un padre buono e misericordioso. Suggerivo sempre: «Mettiamo la nostra confidenza in Dio e andiamo avanti». La mia fiducia mi faceva dire: «Per ottenere un buon risultato quando si è senza mezzi, bisogna mettersi all’opera con la più intera fiducia nel Signore».
Un impegno per sempre
Ti voglio svelare qualcosa del mio mondo intimo. Forse è uno dei rarissimi sprazzi di luce in cui ho rivelato me stesso. Lo faccio con le mie stesse parole scritte nel 1854. «Quando mi sono dato a questa parte di sacro ministero intesi consacrare ogni mia fatica alla maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime, intesi adoperarmi per fare buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del Cielo. Dio mi aiuti di poter continuare fino all’ultimo respiro di mia vita. Così sia». Come vedi, più che una promessa era una preghiera, una consacrazione di vita e di pensieri alla causa dei giovani. Quel “Così sia” a conclusione del mio impegno suggellava la mia offerta per sempre.
A distanza ormai di tanti anni, queste parole impegnative rappresentano il programma definitivo della mia intera esistenza, cui non sono mai venuto meno. Tanto è vero che, nella presentazione del libro Il Giovane Provveduto, potevo fare un’affermazione molto coraggiosa, ma soprattutto vera: «Miei cari, io vi amo tutti di cuore, e basta che siate giovani, perché io vi ami assai, e vi posso accertare che troverete libri propostivi da persone di gran lunga più virtuose e più dotte di me, ma difficilmente potrete trovare chi più di me vi ami in Gesù Cristo, e che desideri la vostra vera felicità».
Mi stavo impegnando per sempre ai giovani, anche se storicamente vivevo un momento di grande incertezza. Poco prima (siamo a luglio 1846) avevo sofferto un collasso fisico che mi aveva portato alle soglie della morte; poi, dopo un breve periodo di convalescenza trascorso ai Becchi, ero tornato a Torino. Là c’era stato un dialogo teso e difficile con la buona Marchesa Barolo. Ebbene, son contento di poter ripetere oggi la mia netta presa di posizione di allora fatta alla generosa benefattrice (che mi amava come il figlio che non aveva mai avuto), il mio “sì” ufficiale e definitivo, il mio “credo” a favore dei giovani. Proprio oggi, quando vedo la Congregazione dilatata e presente in oltre 130 nazioni: «La mia vita è consacrata al bene della gioventù. La ringrazio delle profferte che mi fa, ma non posso allontanarmi dalla via che la divina Provvidenza mi ha tracciato». E senza nessun appoggio umano mi ero abbandonato «a quello che Dio avrebbe disposto di me».
Mi fidavo di Dio, Colui che era sempre stato il mio buon “papà”.
GESÙ, L’AMICO
Un ricordo della mia infanzia
Sono sempre vissuto tra amici. Ricordo gli anni della mia fanciullezza: «In mezzo ai miei coetanei ero molto amato e molto temuto… Dal mio canto facevo del bene a chi potevo, ma del male a nessuno. I compagni mi amavano assai… Sebbene fossi più piccolo di statura avevo forza e coraggio da incutere timore ai compagni di assai maggior età». Ero consigliato da mia madre che mi suggeriva: «Nell’amicizia l’esperienza e non il cuore deve ammaestrarci». Questa lezione di vita mi avrebbe portato in seguito a orientare i miei ragazzi, raccomandando loro: «Gli amici sceglieteli sempre tra i buoni ben conosciuti, e tra questi i migliori e anche nei migliori imitate il buono e schivate i difetti, perché tutti ne abbiamo».
Nei dieci anni trascorsi a Chieri, prima come studente e poi come seminarista, avevo coltivato tante meravigliose amicizie. Assieme a tanti coetanei avevo condiviso gli impegni di pietà sincera, di studio appassionato, di allegria contagiante e serena alla ricerca di stupendi ideali che arricchivano la nostra vita.
L’amicizia, quel tocco in più nell’educazione
Per me l’amicizia era un valore da prendere sul serio e non come un’avventura di adolescenti. Ordinato sacerdote, ero entrato in contatto con tanti giovani strappati dalla famiglia e dai legami culturali e catapultati in una città effervescente come Torino. Le prime esperienze sul campo mi avevano convinto di una cosa: o conquistavo questi ragazzi con la bontà o li avrei persi per sempre. Era un cammino nuovo, da pioniere.
Mi viene spontaneamente alla memoria un episodio. Non sapevo nemmeno il nome di quel ragazzo che si era rintanato al calduccio della sacrestia della chiesa di San Francesco d’Assisi quel mercoledì mattino 8 dicembre 1841. Non l’avevo mai visto prima d’allora. Eppure quando m’accorsi che il sacrestano stava per scaricargli addosso la pertica dello spolverino, intervenni con una frase che mi sarebbe diventata abituale: «È un mio amico». Parola magica che avrei usato sin sul letto di morte. Sarebbe diventato il mio biglietto da visita; diremmo oggi il mio tweet.
Lo ripetevo costantemente: «Fa’ che tutti quelli con cui parli, diventino tuoi amici». E additavo ai ragazzi un programma di vita dicendo loro: «Ricordatevi che sarà sempre per voi una bella giornata quando vi riesce di vincere con i benefici un nemico o farvi un amico».
Gesù, l’amico
Per arrivare ad essere prete ho affrontato rinunce, sacrifici, umiliazioni perché avevo nel cuore il sogno di dedicarmi ai giovani. Ma, bada bene: non volevo essere un filantropo (parola che a quei tempi andava per la maggiore) che si prendeva cura di tanti ragazzi sbandati e senza famiglia e che era anche prete. No! Io ero un sacerdote che amava così intensamente il Signore che lo voleva far conoscere ed amare da quei ragazzi. L’affetto che dimostravo ai giovani era un riflesso dell’amore che mi univa a Dio. Era Lui la mia guida e a Lui dovevo indirizzare i giovani che mi attorniavano e che trovavo sulle piazze o nelle osterie, che andavo a visitare sul posto di lavoro, che trovavo in carcere.
Credo sia stata una bella, una definitiva scoperta quando, ancora adolescente, avevo incominciato a vivere un’intima amicizia con Gesù. I libri di devozione quasi non ne parlavano; nell’esperienza religiosa, questa era ancora una novità. Infatti si respirava un clima rigorista, frutto di quella corrente giansenista per cui Dio era visto più come giudice che come padre. Non era facile impostare la vita cristiana come una risposta d’amore tra amici. Provvidenziali erano stati per me i tre anni trascorsi al Convitto Ecclesiastico. Avevo imparato a diventare prete con idee chiare e con il cuore aperto alla fiducia sia nell’essere umano come nella misericordia del buon Dio.
Molti dei ragazzi con cui stringevo amicizia erano orfani: avevano bisogno di poter scoprire nel Signore un amico fedele, qualcuno di cui fidarsi senza riserve. Quando ascoltavo le loro confessioni indicavo loro un segreto: Gesù è un amico che ci garantisce sempre il perdono del Padre. Insistevo sulla misericordia divina. Dicevo poche parole, ma erano sufficienti per suscitare nei loro cuori la nostalgia di Dio. Rifioriva nella loro vita la speranza e la gioia, perché si sentivano amati. Dicevo loro: «Il confessore è un amico che niente altro desidera che il bene dell’anima nostra, è un medico capace di guarirci nell’anima, è un giudice non per condannarci ma per assolverci e liberarci». Ai miei salesiani raccomandavo: «Non rendete odiosa e pesante la confessione con impazienza o con sgridate».
Concepivo la vita cristiana come una continua ascesi. Non bastava ricevere il perdono, c’era bisogno anche di un alimento speciale. Ecco perché insistevo sul valore della santa comunione. Ai miei ragazzi non imponevo ma semplicemente suggerivo: «Alcuni dicono che per fare la Comunione spesso bisogna essere santi. Non è vero. La Comunione è per chi vuole farsi santo. I rimedi si danno ai malati, il cibo si dà ai deboli». Ero convinto che «tutti hanno bisogno della Comunione: i buoni per mantenersi buoni, i cattivi per farsi buoni».
Accostarsi a Gesù amico, presente nell’Eucarestia, non poteva diventare un’abitudine, anche se buona. Occorreva impegno e coerenza di vita. Su questo punto non transigevo, perché con i miei giovani non sono mai stato un educatore facilone. Li conoscevo capaci di generosità, di sacrificio. L’esperienza me lo garantiva. Per questo non avevo paura di dire loro: «Come saranno quelle comunioni che non producono alcun miglioramento?».
Nel 1855 ero riuscito a convincere il ministro Rattazzi a permettermi di portare tutti i giovani racchiusi alla Generala per una gita festiva, ma senza la presenza di guardie e secondini. Quando la sera vi fecero ritorno non ne mancava nemmeno uno all’appello. Al ministro che, meravigliato mi domandava il segreto, potevo dirgli: «Lo Stato non sa che comandare e punire, noi invece parliamo al cuore della gioventù e la nostra è la parola di Dio».
Ai miei salesiani raccomandavo che «facessero innamorare i giovani di Gesù». Non erano espressioni molto frequenti ai miei tempi, specie in bocca a un prete! Parlavo di Gesù come amico e suggerivo ai ragazzi: «Quanto bene vi procurerà questo amico. Voi già capite che vi parlo di Gesù. Andate a riceverlo con frequenza, ma bene; custoditelo del vostro cuore; andatelo a visitare molto e fervorosamente questo amico. È tanto buono e non vi abbandonerà mai».
Con frequenza stuzzicavo i miei ragazzi con domande che arrivavano dritte dritte al loro cuore: «Da quale cosa deriva mai che noi proviamo sì poco gusto per le cose spirituali? Questo avviene dall’essere il nostro cuore poco innamorato di Gesù».
SANTITÀ ALLA PORTATA DI TUTTI
Una premessa necessaria
Tra i molti e svariati scritti che ho prodotto, cercheresti invano un mio diario dell’anima, un racconto del mio itinerario intimo, un’autobiografia spirituale. Non era il mio stile. Forse per quell’innato pudore che è tipico dei contadini, probabilmente perché per formazione non mi sentivo portato ad aprirmi in questa maniera, certamente perché preferivo conservare nel mio cuore il ricordo di tante esperienze spirituali ed apostoliche anziché manifestarle in pubblico.
Per questo, non troverai nei miei libri o nelle mie parole né descrizioni né testimonianze del mio personale rapporto con Dio e con il suo mistero.
La mia esperienza con il Signore
Non sono nato santo, te lo dico con tutta semplicità e schiettezza. Ho lottato parecchio per essere fedele al Signore e coerente con i miei impegni di cristiano. Ti posso garantire che non sempre è stato facile. Santi si diventa, a poco a poco. Non è ancora stato inventato uno strumento che misuri il grado di santità raggiunto. Tutto è grazia, anche la collaborazione della creatura. E la grazia sfugge al controllo umano, perché è un dono di Dio.
Sono sempre stato un ottimista per naturale formazione e personale convinzione. Non ero facilone e tanto meno un ingenuo. La vita mi era stata – e continuava ad esserlo – maestra esigente e saggia. Sapevo che essa comporta sfide e non esclude mai né difficoltà né prove.
Perché tu possa capire l’ideale che avevo nel cuore, ti trascrivo alcune riflessioni fatte quando stavo per entrare in seminario a Chieri. Avevo già 20 anni! Non ero più un ragazzino ingenuo o un adolescente sognatore… «La vita fino allora tenuta doveva essere radicalmente riformata. Negli anni addietro non ero stato uno scellerato, ma dissipato, vanaglorioso, occupato in partite, giuochi, salti, trastulli ed altre cose simili, che rallegravano momentaneamente, ma che non appagavano il cuore». Dal canto suo, mia madre – pur nella intensa commozione provata al vedermi vestito con la talare – era stata categorica: «Tu hai vestito l’abito sacerdotale. Ricordati che non è l’abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Amo meglio di avere un povero contadino, che un figlio prete trascurato nei suoi doveri».
Con umile sincerità ho sempre cercato di servire Dio e la sua gloria. Non è una frase fatta, credimi; nel tempo in cui io vissi era un vero programma di vita. Significava il segreto del mio rapporto con Dio, sintetizzato in una frase che spiegava anche il mio servizio ai giovani. Ci credevo, sai? Ero convinto, e l’esperienza me lo confermava giorno dopo giorno, che i giovani che incontravo nelle bettole, sulle piazze di Torino, nelle carceri, o presso padroni disumani avevano veramente bisogno di una mano amica, di qualcuno che si prendesse cura di loro, li coltivasse, li guidasse alla virtù e li allontanasse dal vizio. Il sogno fatto ai Becchi quando avevo appena 9-10 anni continuava a martellarmi la mente e il cuore. Mi convinsi che solo un prete tutto di Dio, un prete santo sarebbe stato in grado di offrire loro sicurezza e fiducia, senso pieno della vita, gioia nel cuore e tanta speranza. Ecco la conclusione cui arrivai: la santità sarebbe stato il più bel regalo che avrei potuto fare loro.
Quando mi incontrai con san Francesco di Sales
Evidentemente, non fu un incontro tra persone: sono nato 250 anni dopo di lui! Leggendo uno dei suoi libri che circolavano anche in Piemonte trovai una frase che mi colpì e che divenne il programma della mia vita sacerdotale. Ricordo di aver letto: «È un errore, anzi un’eresia, voler escludere l’esercizio della devozione dall’ambiente militare, dalla bottega degli artigiani, dalla corte dei principi, dalle case dei coniugati… Dovunque ci troviamo possiamo e dobbiamo aspirare alla vita perfetta». Divenne il mio ideale! Cercai di viverlo e offrirlo anche ai miei ragazzi. Ce ne voleva del coraggio! Parlare di santità (sì, io usavo proprio questa parola!) ai ragazzi sembrava ai più una meta impossibile. Invece, io ci credevo. E dicevo con convinzione che essere santi è un ideale meraviglioso, persino facile; la nostra amicizia e lealtà con il Signore un giorno sarà premiata. Presentavo la santità come una vocazione “simpatica” e attraente, ma spiegavo pure che essa era esigente, che richiedeva sacrifici e rinunce. Era una santità concreta, fatta di dovere compiuto con esattezza, di amicizia con il buon Dio che ci rendeva amici di tutti. Una santità che ci rendeva apostoli dei compagni con garbo e semplicità, una santità del quotidiano. Poi aggiungevo una caratteristica che ho sempre ritenuto fondamentale: doveva essere una santità gioiosa, che trascina al bene, che affascina e ci fa «salvatori di altri giovani».
Quasi quasi fui bocciato in Vaticano…
A quel tempo, io ero già in Paradiso. Sapevo che in terra si stava discutendo su un problema che, a mio avviso, non era mai esistito. Data la mole immensa di lavoro e di preoccupazioni che mi assillavano, qualcuno era convinto che mi mancasse il tempo per pregare. La domanda: “Quando don Bosco pregava?” non poteva essere elusa; anzi, meritava una risposta. Scoprirono allora un segreto che non mi pareva necessario spargere ai quattro venti: tutta la mia vita era una preghiera, perché io pregavo la vita! Additavo questo programma ai miei salesiani; e lo raccomandavo pure ai giovani. Preghiera era stare ore in confessionale, scrivere decine di lettere alla luce tremula del candeliere la sera inoltrata, salire e scendere gli interminabili scalini di marmo di tanti palazzi, chiacchierare famigliarmente con i ragazzi in cortile, celebrare la santa Messa, fissare estatico il volto dell’Ausiliatrice. Preghiera era vivere alla presenza di Dio, come avevo imparato sin da ragazzo dalla mia buona Mamma; per me, pregare era abbandonarmi con fiducia alla Provvidenza, era insegnare una professione, un lavoro a tanti ragazzi perché potessero essere sempre «buoni cristiani e onesti cittadini». Pregavo quando davo l’abbraccio di addio ai primi missionari in partenza per l’Argentina, quando visitavo il papa, accoglievo vescovi sfrattati dalle loro diocesi, scrivevo uno dei tanti libretti delle Letture Cattoliche, quando moltiplicavo le pagnotte nella cesta o le ostie al momento della comunione Ero in preghiera quando viaggiavo da Torino a Barcellona, a Parigi per trovare i soldi necessari alla costruzione del tempio al Sacro Cuore a Roma, o urgenti per diffondere il Vangelo nelle pampas argentine…Sempre in piena attività ma sempre col cuore in intimità con il Signore.
Santo giovane per i giovani
L’ho già affermato tante volte: mi sentivo chiamato per i giovani, specialmente quelli che avevano maggior bisogno di amore e di speranza. Essi sono sempre stati la ragione del mio essere e del mio agire. Ma non li volevo per me. Come giunse ad affermare un prete, mio carissimo amico: «Come la madre nutre se stessa per poi nutrire il proprio figliuolo, così Don Bosco nutrì se stesso di Dio, per nutrire di Dio anche noi». Con tutta umiltà ti assicuro che mi ritrovo in questa parole così semplici e vere. I giovani io li volevo amici miei perché li desideravo appassionatamente amici di Dio. E quando uno è amico di Dio è sulla strada della santità!
MARIA, LA MAMMA DI TUTTI I GIORNI
Mi prese con bontà per mano
C’è un bellissimo e delicato ricordo nella mia fanciullezza. Avevo appena 9-10 anni quando sognai. Fu un sogno che lasciò un segno indelebile nella mia vita. Avevo visto un gruppo di ragazzi intenti a giocare; ad un tratto il passatempo era degenerato in una lotta furibonda: volavano pugni, calci, parolacce e purtroppo anche bestemmie. Ero partito all’attacco. Poi un Signore maestoso mi aveva interrotto, indicandomi un modo ben diverso per migliorarli. Subito dopo era apparsa una stupenda Signora, affettuosa e bella: aveva fatto cenno di accostarmi a lei. Siccome ero confuso con questo rapido susseguirsi di scene, mi aveva preso per mano. Questo gesto di squisita bontà materna mi conquistò per sempre. Con molta semplicità ti posso assicurare che non mi sono mai staccato da questa mano; anzi l’ho sempre tenuta ben stretta, sino alla fine…
Quando sei venuto al mondo…
Fin da bambino ho assorbito il clima religioso e devozionale mariano del mio tempo. Maria era di casa da noi. So pure ciò che scrisse di me un buon salesiano: “Maria era ovunque attorno a lui”. Mi ha fatto piacere leggere questa asserzione perché era proprio così. C’era la recita quotidiana del rosario in famiglia, ogni sera. La preghiera dell’Angelus scandiva puntualmente la nostra giornata, alle sei del mattino, a mezzogiorno e alle sei di sera. Ho imparato dalla mamma a venerare e festeggiare la Madonna attraverso le devozioni popolari dei luoghi ove sono vissuto: la Vergine del Rosario, la Madonna del Castello, la Vergine della Scala, la Madonna delle Grazie, l’Addolorata, la Consolata. Tante forme di tenerla per mano…
Ricordo ancora l’ultima notte che precedette il mio ingresso nel seminario di Chieri. Nell’umile casetta dei Becchi la mamma stava piegando il mio corredo. Scelse questo momento per una importante rivelazione, un segreto tra madre e figlio: «Gioanni mio, quando sei venuto al mondo ti ho consacrato alla Beata Vergine; quando hai cominciato i tuoi studi ti ho raccomandato la divozione a questa nostra Madre; ora ti raccomando di esserle tutto suo». La mia santa mamma sapeva come a quei tempi era paurosamente alta la mortalità infantile, sia nella casupola dei poveri come nel palazzo del re. “Ti ho consacrato” voleva dire: ti ho affidato a Maria, ti ho offerto a Lei, sei suo! Un atto di fiduciosa consegna alla Mamma che tutto può. «Speriamo molto da chi molto può»: ripetevo agli altri ciò che tante volte avevo udito da mia madre. Così, quando sarò in mezzo ai ragazzi, trasmetterò loro lo stesso stile di devozione: non come un abito festivo, quello che si usa solo alla domenica, ma l’incontro quotidiano, familiare, feriale con Maria, la mamma di tutti i giorni!
Immacolata e Ausiliatrice: è lei che ha fatto tutto
Era una devozione molto concreta, soda, quasi scarna, mai sfarfaleggiante, senza sdolcinature. Ricordavo costantemente ai ragazzi: «Maria vuole la realtà e non l’apparenza». Perciò insistevo: «Per essere cari alla Madonna bisogna onorare il Figlio». Maria la presentavo come colei che ci porta a Gesù. Condensavo tutto nel «fuggire quel che è male, e fare quello che è bene per amor di Maria». Più pratico e concreto di così…
Mi sostenevano due certezze.
Anzitutto insistevo nel presentare Maria come l’Immacolata. C’erano motivi storici, come la definizione di questo dogma (1854) e poi, quasi a conferma, le apparizioni a Lourdes (1858). Erano date importanti. Nella mia piccola esperienza non potevo dimenticare l’8 dicembre 1841 quando era avvenuto il provvidenziale incontro con Bartolomeo Garelli. Quarantacinque anni dopo, mentre stavo rientrando in treno dalla Spagna alla volta di Torino, ricordavo quell’incontro con commozione e gratitudine: «Tutte le benedizioni piovuteci dal cielo sono frutto di quella prima Ave Maria detta con fervore e con retta intenzione».
C’erano anche motivi pastorali: a contatto con la fragilità giovanile, mi rendevo conto del bisogno immenso che i miei ragazzi avevano di fissare il loro sguardo in Maria, la piena di grazia e da lei accogliere un attraente messaggio di purezza e di santità per poter vivere la gioia di sentirsi figli di Dio.
A Valdocco, nel 1854, potevo contare con Domenico Savio, quello stupendo ragazzo che si era proposto l’ideale di diventare “un bell’abito per il Signore”. Con lui altri giovani (quasi tutti futuri salesiani!) facevano parte della Compagnia dell’Immacolata diventando prezioso lievito di bene nella massa. Nel loro Regolamento si proponevano di essere “superiori ad ogni ostacolo, tenaci nelle risoluzioni, rigidi verso noi stessi, amorevoli col nostro prossimo, ed esatti in tutto”. Grazie a loro, stava nascendo un nuovo cammino di santità giovanile.
Poi, col passar degli anni, accorgendomi che la fede stava diminuendo anche tra la gente semplice, sentivo che era sempre più urgente diffondere la devozione alla Madonna con il titolo di Ausiliatrice, colei che ci dà la mano, che ci aiuta, che mai ci perde di vista, che ci mantiene uniti alla Chiesa. Non sono stato io a inventare la devozione all’Ausiliatrice; ne sono stato instancabile e convinto divulgatore, questo sì. Spiegavo ai miei primi salesiani: «Non sono più i tiepidi che debbono essere infiammati, i peccatori che devono essere convertiti, gli innocenti che devono essere preservati, ma è la stessa Chiesa cattolica che è attaccata».
Ricordo, anche se un brivido di paura mi assale ancor oggi, la mattina in cui diedi inizio agli scavi per costruire il bel santuario a lei dedicato. Con tutta solennità svuotai nelle mani del capomastro il mio povero borsellino: ne uscirono otto miseri soldini di rame, il primo acconto. Ma in me c’era una certezza: «In lei ho posto tutta la mia fiducia». Quella stessa mattina le varie lettere che avevo scritto nella notte precedente giacevano ancora sul mio tavolino; in casa non avevamo nemmeno i soldi per comprare i francobolli! La Madonna sarebbe stata la mia «questuante». Ti posso assicurare: si rivelò una questuante con i fiocchi!
Quando riuscii a concludere la costruzione, potevo dire ai fedeli che vi accorrevano: «Vedete questa chiesa? Maria la fece venir su, direi, a forza di miracoli».
Adesso e nell’ora della nostra morte
Gli studiosi salesiani che con tanto amore e puntigliosa esattezza hanno scritto tante cose su di me si sono accorti che nelle ultime preghiere fatte sul letto dell’agonia, non è l’abituale invocazione Maria Ausiliatrice che fiorisce sulle mie labbra, ma la supplica: Madre, Maria Santissima, Maria, Maria. Dimenticanza mia? No! Una spiegazione certamente c’è.
Alla fine della vita, negli estremi rantoli dell’agonia, ero finalmente giunto a comprendere tutto. Volevo morire proprio come il bambino del sogno di 62 anni prima. Con la Madonna che mi prendeva con bontà per mano, mentre io le sussurravo: «Oh Madre… Madre… apritemi le porte del paradiso».
ECCELLENZA, SAPPIA CHE DON BOSCO È PRETE…
Il mio biglietto da visita
Nel dicembre 1866 mi trovavo a Firenze su invito di Bettino Ricasoli, presidente del Consiglio dei Ministri. Mi diressi a palazzo Pitti per l’udienza. Poco prima, un salesiano mi aveva imprestato la sua talare perché i miei abiti, logori e già sfilacciati, non gli sembravano appropriati. Mi era stata assegnata una missione spinosa e molto delicata, che esigeva tatto diplomatico, pazienza e una buona dose di accortezza. Si doveva procedere alla scelta e alla nomina di molti vescovi per altrettante diocesi che ne erano prive da tempo. Prima di iniziare i colloqui, mi parve opportuno presentare al ministro il mio biglietto da visita; lo feci pronunciando queste parole: «Eccellenza, sappia che don Bosco è prete all’altare, prete in confessionale, prete in mezzo ai suoi giovani, e come è prete in Torino, così è prete a Firenze, prete nella casa del povero, prete del palazzo del re e dei ministri». A quei tempi, la parola “prete” era spesso usata in tono dispregiativo; la usai volutamente 7 volte. Non era ripicca meschina la mia; era l’onesta professione di fede in un valore che mi era costato sofferenze enormi per raggiungere e che sempre consideravo come il mio distintivo più bello e sublime. Infatti ero solito affermare che «un prete è sempre prete e tale deve manifestarsi in ogni sua parola».
Quando diventai “don Bosco”
Non mancavano i preti a Torino quando mons. Luigi Fransoni mi conferì il sacerdozio. Ricordo: era un sabato quel 5 giugno 1841, vigilia della festa della Trinità. Da allora diventai “don Bosco”. Avevo 26 anni: alle spalle una dura e splendida esperienza di vita, mille mestieri imparati, notti rubate al sonno per leggere e studiare, tante amicizie coltivate. E un sogno! Quello che era avvenuto tra i 9-10 anni, in un povero casolare dei Becchi. Un sogno che mi si era ripresentato molte volte, in un replay sempre più ricco e più chiaro: lavorare con i giovani, per loro a tempo pieno.
Non mi consideravo un prete in più, l’852º sacerdote di Torino. Di buoni preti ce n’erano, e molti! Zelanti e generosi, impegnati nella pastorale parrocchiale, preoccupati del decoro ecclesiastico. Però, sacerdoti amici dei giovani e loro confidenti, pochini davvero. Non dimenticavo la delusione provata negli incontri fortuiti con loro quando ero bambino, ricordavo pure le parole di mia madre che cercava di giustificare il loro atteggiamento di lontananza e di apparente distacco; erano parole che ammiravo ma che non mi convincevano appieno.
Non riuscivo a identificarmi con nessun tipo di “lavoro”: né semplicemente parroco, né precettore privato e nemmeno come cappellano in Istituti religiosi femminili. Erano lavori che non “stonavano”, esercitavano una funzione sociale degna di rispetto e offrivano pure una buona sicurezza economica. Io, però, mi sentivo chiamato ad un’ altra missione. Provvidenziali furono i tre anni trascorsi al Convitto Ecclesiastico; in quella scuola, che oggi potremmo definire di alto perfezionamento pastorale, imparai davvero a diventare sacerdote! Più che “fare il prete”, scelsi di “essere prete” per i giovani. Non ero (e non lo fui mai!) un libero battitore. Essere prete era il mio ideale. Essere prete per i giovani era la risposta a tanti sogni. Volevo essere un prete di strada, da cortile! Proprio come un giorno vorrò i miei salesiani. D’altronde, mi sentivo in comunione con il mio arcivescovo che valorizzava il mio lavoro, tanto che mi aveva designato “direttore degli oratori in Torino”. Non ero il primo a interessarmi del mondo giovanile; ero stato preceduto da altri sacerdoti attenti e coraggiosi. Tuttavia, non ripetevo schemi. Capivo che i tempi esigevano una risposta al fenomeno dell’immigrazione giovanile, all’agonia dei piccoli lavoratori sfruttati e cresciuti a suon di sberle e di bestemmie per produrre e così poter reggere la concorrenza straniera, all’orrore di carceri stipate all’impossibile con ladruncoli appena ragazzi mescolati promiscuamente a pericolosi banditi e incalliti assassini. Io avevo conosciuto altri ragazzi e giovani: erano i contadini sgobboni ai Becchi, gli studenti con ideali belli e degni a Chieri. Ma la gioventù che ora cominciavo a conoscere erano i “lupi”, gli animali feroci che mi erano apparsi sin dal primo sogno. Con loro non bastavano più gli innocenti giochi di prestigio o le acrobazie su una corda. Ci voleva ben altro! Questi ragazzi avevano bisogno di qualcuno che li avvicinasse senza prevenzioni, con affetto e molta pazienza.
Avevo deciso: sarei stato prete per i giovani con due caratteristiche: anzitutto, la carità pastorale verso i giovani mi avrebbe portato a vivere la vocazione sacerdotale a tempo pieno. Ero convinto che l’attività di un prete non poteva restringersi a funzioni da svolgere; io sentivo che dovevo occuparmi totalmente della vita e della felicità di quei ragazzi. Doveva essere un lavoro continuato: da me e da altri. I sogni che si ripetevano e si completavano mi mostravano animali pericolosi che si trasformavano in agnelli mansueti; alcuni di questi diventavano pastori. Con l’esperienza accumulata da anni e da fatiche, definivo il mio ideale con chiarezza: «Vi voglio felici nel tempo e nell’eternità».
In secondo luogo, sentivo sempre più forte e impellente l’urgenza di dare una fisionomia umana, sensibile, comprensibile alla carità verso i giovani. Dopo la metà luglio 1846 c’era stata una svolta radicale nella mia vita. Avevo toccato con mano quanto era importante la presenza di un prete che fosse un amico per questi giovani. Dopo che, grazie anche ai loro sacrifici, alle preghiere, ai tanti “voti” fatti per ottenere la mia guarigione da quel pericoloso crollo fisico che mi aveva portato alle soglie della morte, riuscii a trascinarmi sino a Valdocco per ringraziarli, io avevo capito che si era creata una relazione di fiducia e di vita tra me e loro, era nata una vera alleanza tra noi. In quel momento mi impegnai con una promessa cui sarei rimasto fedele sino alla fine :«Debbo la mia vita a voi. Sappiate che la spenderò tutta intera, per voi, fino all’ultimo mio respiro». In quel prato di Valdocco, accanto alla povera tettoia Pinardi un sacerdote appassionato della sua missione e contento di essere prete aveva fatto la sua “professione solenne” di consacrarsi totalmente e per sempre alla causa dei giovani. Stavo identificandomi sempre più con la missione sacerdotale, senza complessi e senza inutili rimpianti. Fissando i loro volti attenti, un giorno sarei arrivato ad affermare con umiltà e gioia: «Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono disposto anche a dare la vita».
Quella sera mia madre mi disse
Il 10 giugno 1841, giovedì della festa del Corpus Domini, celebrai per la prima volta al paese. Ci fu Messa “grande” con cantoria, poi si snodò la processione eucaristica per le strade addobbate; il parroco organizzò il pranzo con tanti invitati. La sera, dopo una cena frugale, mia madre mi prese in disparte; era raggiante e commossa. Mi disse: «Ora sei prete, sei più vicino a Gesù. Io non ho letto i tuoi libri, ma ricordati che cominciare a dir Messa vuol dire cominciare a soffrire. Non te ne accorgerai subito, ma a poco a poco vedrai che tua madre ti ha detto la verità. D’ora innanzi pensa soltanto alla salvezza delle anime, e non prenderti nessuna preoccupazione di me». Parole sacre, un vero testamento spirituale che mai avrei dimenticato!
Rileggendo la mia vita
Come stile personale di vita avevo scelto l’aiuto educativo ai giovani, in particolare a quelli che si trovavano in uno stato di “precarietà” umana e sociale. Non ho voluto fare il politico di professione, né il riformatore sociale, né il sapiente nel campo della cultura, né l’imprenditore affaccendato in mille progetti. Con tutto me stesso mi sono dedicato alla gloria di Dio e alla salvezza delle anime. Ero convinto che solo un prete santo, ricco della grazia divina, poteva seminare speranza e gioia nel cuore di tanti ragazzi. Puntavo a questo ideale perché ero convinto che «le anime sono un tesoro affidato ai sacerdoti». In altre parole, ma con uguale fermezza, dicevo che «quando si tratta di salvare un’anima non temo alcuna conseguenza». Alla scuola di don Cafasso avevo imparato che «il prete non va da solo al cielo, non va da solo all’inferno». Con la sincerità che ho sempre usato con i ragazzi confessavo loro una certezza che mi illuminava da sempre: «Quanto son contento d’essere sacerdote!». Era la mia fotografia interiore, con essa rivelavo la mia identità. Essere prete in quegli anni convulsi non era una vocazione facile e nemmeno tranquilla, ma era stupenda! Col passare del tempo capivo sempre meglio le parole che mia madre mi aveva detto nell’umile cucina dei Becchi la sera della prima messa al paese: “Vuol dire cominciare a soffrire”…
Anni più tardi, animavo i miei salesiani garantendo loro che «le spine che ci pungono nel tempo, saranno fiori per l’eternità».
Mamma Margherita, non era stata una “teologa” improvvisata… Anche se analfabeta, aveva dimostrato di aver pienamente ragione…
ANCHE NOI METTIAMO IL NOSTRO SASSOLINO…
Nella chiesa costruita in onore di Maria Ausiliatrice a Valdocco c’è un oggetto maestoso che ho sempre fissato con venerazione: il bel pulpito in legno pregiato, che una signora dell’alta nobiltà torinese aveva donato per grazia ricevuta. Questo pulpito era carico di storia e di ricordi. Pur sempre schivo e riservato, non riuscivo a trattenere l’emozione ogni qualvolta lo fissavo. Ritornava alla memoria del mio cuore la fisionomia di quei dieci salesiani, tutti giovani e coraggiosi, che avevo scelto a dito perché fossero i pionieri di una svolta storica della nascente Congregazione salesiana.
Un salto di qualità
Nel 1874 la mia famiglia religiosa era stata finalmente approvata dalla Santa Sede; erano stati anni lunghi e difficili. Ma ora era ufficialmente riconosciuta. L’anno seguente, a metà novembre, inviavo i primi salesiani missionari in Argentina: era una risposta coraggiosa, quasi temeraria. I miei figli, lo sentivo, non erano chiamati a lavorare solo con i giovani di Torino, di Lanzo o di Nizza, ma allargavano il loro raggio d’azione in terre lontane, in favore di altri popoli, di culture diverse. I miei salesiani, ora, erano impegnati nella Chiesa, con la Chiesa, per la Chiesa sparsa nel mondo. Un compito da capogiro! Tutto ciò non era frutto di entusiasmo passeggero. La Congregazione si metteva umilmente a disposizione della Chiesa, si affiancava a Ordini e Istituti religiosi vecchi di secoli e ricchi di storia.
Ricordo ancora quella sera dell’11 novembre 1875: la chiesa di Maria Ausiliatrice traboccava di fedeli quando io salii la scaletta che mi portava al pulpito. Era uno spettacolo commovente. Guardavo la massa compatta di fedeli, amici, benefattori; ma non vedevo nessuno, gli occhi imperlati di lacrime: era gioia, era nostalgia del distacco, era promessa di lavoro, sudore e sangue. I lupi” del primo sogno i miei figli li avrebbero avvicinati anche nelle sconfinate pampas argentine o nella pericolosa periferia di Buenos Aires, tra italiani e figli di italiani che vivacchiavano nel quartiere della Boca. Con la voce che tradiva commozione e speranza, parlai: «Diamo inizio ad una grand’opera non perché si abbia pretensioni o si creda di convertire l’universo intero in pochi giorni. No; chi sa, che non sia questa partenza e questo poco come un seme da cui abbia a sorgere una grande pianta? Chi sa che non sia come un granellino di miglio o di senapa, che a poco a poco vada estendendosi e non sia per fare un gran bene?». E concludevo: «Nella nostra pochezza anche noi mettiamo in questo momento il nostro sassolino nel grande edificio della Chiesa».
La prima squadra
Li avevo scelti personalmente i primi dieci missionari: 6 sacerdoti e 4 fratelli laici. Li voglio ricordare ad uno ad uno con infinita riconoscenza: don Giovanni CAGLIERO (37 anni, leader indiscusso), don Giuseppe FAGNANO (ex-garibaldino, anima di pioniere), don Domenico TOMATIS (professore e cronista della prima spedizione), don Valentino CASSINI, don Giovanni Battista BACCINO (morirà due anni dopo, stremato dal lavoro), don Giacomo ALLAVENA, tutti e tre maestri elementari, e quattro coadiutori, cui diedi il titolo ufficiale di “catechisti”: Bartolomeo SCAVINI (falegname), Vincenzo GIOIA (calzolaio e cuoco), Bartolomeo MOLINARI (maestro di musica vocale e strumentale), Stefano BELMONTE (intendente di musica e di economia domestica). Questo gruppo realizzava il sogno che un tempo io stesso avevo accarezzato di diventare missionario. Negli anni della mia formazione seminaristica si respirava un ampio clima in questo senso. Stavano sorgendo numerose congregazioni prettamente missionarie, molti vescovi convenuti a Roma per il Concilio Vaticano I avevano rivolto appelli appassionati scuotendo menti e cuori di tanti sacerdoti, vari vescovi erano stati di passaggio a Valdocco, accolti con entusiasmo e le loro richieste di personale avevano creato un’atmosfera missionaria incandescente.
Dal canto mio, più che perdermi in definizioni astratte, insistevo con fermezza: «Chi non ha la Chiesa per madre non può avere Dio per Padre». Per questo ero convinto che «qualunque fatica è poca quando si tratta della Chiesa». Raccomandavo: «Intendo che tutti i salesiani lavorino per la Chiesa fino all’ultimo respiro».
Quante giravolte su quel povero mappamondo!
La scelta dell’Argentina non fu facile né immediata. “Sogni missionari” si accavallavano nella mia mente; fu necessario un lento e minuzioso processo di selezione e discernimento di aspetti oscuri e poco conosciuti. Cercavo di districarmi consultando gli atlanti geografici di allora, interessando studiosi di geografia. In ballottaggio c’erano varie nazioni distanti fra loro, di alcune non c’erano che pochissime nozioni. A poco a poco, fui scartando l’Etiopia, poi Hong Kong, poi fu la volta dell’Australia e per ultimo dell’India. Infine giunse una lettera dettagliata dall’Argentina con spiegazioni che fugavano tutti i dubbi. Mi convinsi che l’Argentina era il punto di partenza dell’attività missionaria, anche perché negli ultimi decenni erano sbarcati in quella nazione ben 210.000 italiani, di cui oltre 30.000 residenti in Buenos Aires.
Accompagnai i primi missionari a Genova, li salutai ad uno ad uno, consegnando a ciascuno quei 20 Ricordi che si sono poi rivelati una indovinata sintesi della spiritualità e della strategia missionaria salesiana. In quelle raccomandazioni c’era tutto il mio cuore pastorale. In poche righe avevo condensato cose essenziali: insistevo sulla testimonianza di vita, raccomandavo rispetto e collaborazione con le autorità, proclamavo la necessità di vivere una povertà gioiosa e trasparente, richiamavo alla vita di pietà e di famiglia, accennavo alle possibili vocazioni e concludevo con il pensiero dell’eternità: «Nelle fatiche e nei patimenti non si dimentichi che abbiamo un gran premio preparato in cielo».
Sempre con loro!
Li vedevo partire, ma il mio cuore non li dimenticava. Erano i miei “figli” che andavano lontano. Molti non li avrei mai più rivisti. Ma non li mandavo allo sbaraglio. Li volevo preparati, capaci di esprimersi in uno spagnolo corretto, con le conoscenze opportune dei luoghi ove avrebbero svolto la loro missione. Li accompagnavo con la mia preghiera; a nome loro e dei loro destinatari bussavo a tante porte, mi facevo mendicante, mantenevo una fitta corrispondenza con ognuno, arrivavo a lamentarmi se qualcuno tardava a rispondere alle mie lettere, inviavo le cose di cui abbisognavano.
A un confratello che sapevo facile allo scoraggiamento, scrivevo: «Ascoltami, caro: un missionario deve essere pronto a dare la vita per la maggior gloria di Dio: e non deve poi esser capace di sopportare un po’ di antipatia per un compagno, avesse anche notabili difetti?».
A don Cagliero, che sapevo ambientato appieno e di cui conoscevo l’ardore apostolico e ne apprezzavo la magnifica creatività, scrivevo il 31 ottobre 1876 (quindi, a distanza di appena 11 mesi dalla sua partenza!) : «Avrei proprio bisogno che pel 1877 potessi fare una passeggiata in Europa, per farne poi un’altra a Ceylan nelle Indie per aprire altra Missione assai importante, dove ci vuole proprio un Castelnuovese». Sognavo alla grande, ma sempre con molta concretezza.
Un coadiutore, in un momento di forte crisi, stava pensando di abbandonare la Congregazione. Il mio cuore di papà mi suggerì queste parole: «Non fare questo. Tu consacrato a Dio con voti, tu Salesiano Missionario, tu dei primi ad andare in America, tu grande confidente di D. Bosco vorrai ora ritornare a quel secolo dove vi sono tanti pericoli di perversione? Io spero che non farai questo sproposito. Scrivi le ragioni che ti disturbano, ed io qual padre darò consigli all’amato figlio, che varranno a renderlo felice nel tempo e nell’eternità». In poche righe avevo toccato tutti i tasti necessari per un possibile ravvedimento.
Ad un giovane chierico tracciavo un programma di vita: «Tu, o mio caro, sei sempre stato la delizia del mio cuore, ed ora ti sono ancora di più, perché ti sei totalmente dedicato alle Missioni, che è quanto dire: hai abbandonato tutto per consacrarti tutto al guadagno delle anime. Coraggio: preparati ad essere un buon prete, un santo salesiano».
Un “marketing” non calcolato, eppure provvidenziale
Con l’inizio dell’epopea missionaria, la nostra Congregazione “esportò” il suo carisma in altre culture. La parola “missioni” si rivelò provvidenziale, suscitando entusiasmo, vocazioni, consensi e benefattori. Alla mia morte, oltre 23 case in Italia, 6 in Francia, 2 in Spagna e 1 in Inghilterra, i salesiani erano presenti in Uruguay, Brasile, Cile. (I Salesiani erano giunti a Quito il 28 gennaio 1888 e immediatamente mi avevano inviato un telegramma che mi fu letto la mattina del 30 gennaio. Nei rantoli dell’estrema agonia feci un cenno con la testa di aver capito).
A poco a poco il lavoro missionario si rivelò un indovinato strumento storico grazie al quale il carisma salesiano si incarnò e si diffuse nelle svariate culture del mondo intero. Al primo chierico uruguayano, manifestandogli tutta la mia gioia, scrivevo: «Quel Signore che ti chiamò ad essere Salesiano, ma fervoroso ed esemplare Salesiano, ti aiuti a guadagnargli molte anime pel cielo, ciò farai col tuo buon esempio, coll’esatta osservanza delle nostre Regole». Si moltiplicavano le nostre presenze, nascevano pure nuovi operai per la vigna del Signore.
Con umiltà e gratitudine, a distanza di nemmeno tre mesi dalla prima spedizione missionaria, dicevo ai direttori riuniti attorno a me a Valdocco: «Il Signore aspetta da voi cose grandi. In verità, le meraviglie, a compiere le quali il Signore vuol servirsi di noi miserabili Salesiani, sono grandi. Voi stessi vi meraviglierete e sarete stupiti nel vedere come voi abbiate potuto fare tutto questo innanzi agli occhi dell’universo e pel bene dell’umana società. Il Signore fu Colui che incominciò le cose, Egli stesso diede loro l’avviamento e l’incremento che hanno, Egli col volgere degli anni le sosterrà, Egli le condurrà a compimento. Una sola cosa Egli richiede da noi: che noi non ci rendiamo indegni di tanta sua bontà e misericordia».
Mentre “estremamente commosso” (così mi ricordavano i presenti!) terminavo queste parole, un pensiero mi martellava insistente. Era una constatazione già manifestata altre volte: «Quanti prodigi ha operato il Signore in mezzo a noi. Ma quanti più ne avrebbe compiuti se don Bosco avesse avuto più fede».
COME VOLETE CHE IO MI RIPOSI SE IL DEMONIO NON RIPOSA MAI?…
Premesse
Le mie origini contadine mi abituarono al lavoro sin da piccolo, tanto che la laboriosità divenne uno degli aspetti più caratteristici del mio DNA. Una frase che spesso ricorreva sulle mie labbra era: «Al mondo malizioso non possiamo opporre solo dei ‘Pater noster’. Ci vogliono opere!». L’esperienza accumulata in tanti anni mi faceva dire: «Una volta bastava unirsi nella preghiera, ma oggi che sono tanti i mezzi di perversione, è necessario unirsi nell’azione e lavorare assieme». Era mia convinzione che «in terra lavoriamo per il cielo». Mi lasciavo guidare da questo principio: «Faccio ogni cosa come se fosse l’ultima della mia vita. Lavoro come se dovessi vivere ancora per lunghi anni». Non era attivismo il mio, no! Sentivo l’urgenza del Regno, vivevo la preghiera nella quotidianità dell’esistenza e immergevo ogni giorno la mia vita in Dio. Non era mio stile elaborare una dottrina spirituale sistematica; preferivo vivere e trasmettere un’esperienza, un itinerario di santità attraverso termini semplici, immediati e alla portata di tutti. Il lavoro che proponevo era per il Signore, certo che «il Paradiso paga tutto».
A Valdocco una delle condanne più umilianti e gravi con cui si poteva classificare un giovane era la parola “poltrone”. Metteva paura a tutti, perché voleva dire essere un estraneo alla famiglia, un giovane senza dignità, senza senso di appartenenza, un inutile. Insistevo con i miei ragazzi: «Nella mia casa c’è pane, e questo ce lo manda giorno per giorno la Provvidenza; c’è lavoro, ognuno deve faticare per tre; c’è paradiso, perché chi lavora per Dio ha diritto a un cantuccio in Paradiso».
Il primo sogno: l’inizio di tutto
La mia vita è stata tracciata da un susseguirsi quasi ininterrotto di sogni. Alcuni si potrebbero anche definire illuminazioni, annunciazioni, rivelazioni. Io non ho mai osato utilizzare questi termini. Mi sembravano troppo impegnativi e solenni, anche se so (in Paradiso si viene a sapere un po’ tutto…) che un salesiano, a me molto caro ma poco incline all’elogio del trionfalismo, un giorno scrisse di me: “La persuasione di essere sotto una pressione singolarissima del divino domina la vita di don Bosco. La fede di essere strumento del Signore per una missione singolarissima fu in lui profonda e salda. In tutto don Bosco sentì e vide una garanzia dall’alto. Ciò fondava in lui l’atteggiamento religioso caratteristico del servo biblico che non può sottrarsi ai divini voleri”. Tutto sommato, mi sento di dargli pienamente ragione. E lo ringrazio per questa percezione.
Qual era stata la missione che quell’uomo venerando apparso nel sogno mi aveva assegnato? “Mettiti immediatamente a fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù”. Io ero “un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que’ giovanetti”. Insegnare che è bello seguire il Signore, vivere nella gioia della sua amicizia, trasmettere ad altri la stessa esperienza fu lo scopo di tutta la mia vita di contadino, studente, seminarista e infine prete per 47 anni!
La mia vita: un’incessante lotta al peccato
Anzitutto in me stesso. Non sono nato santo: ho faticato parecchio, te lo assicuro! «Nel mio cuore la superbia aveva messo profonde radici»: ho proprio scritto così, e non era frase fatta, purtroppo corrispondeva a verità. Poi ero testardo, perdevo facilmente la pazienza, non accettavo i pareri altrui considerando sempre migliori i miei, mi irritavo per un nulla…Diventare sempre più amico intimo del Signore e del suo mistero non fu avventura di un giorno solo, ma di tutta la vita. Non ho lasciato nessun testo di ascesi e di spiritualità; ma potrai sempre leggere alcune righe in cui mi confesso con grande e serena umiltà. Eccole: «Se il Signore non mi incamminava per la via degli Oratori, io temo che sarei stato in gran pericolo di prendere una via storta». Non scendo a dettagli, ma credo di aver detto l’essenziale.
A Valdocco mi confessavo regolarmente il mattino di ogni lunedì. Avevo scelto questo giorno perché l’affluenza dei penitenti era poco numerosa. Verso le ore 8 arrivava don Giacomelli, un prete che era stato mio collega in seminario. Lui, prima, si confessava da me e poi ascoltava la mia confessione. Immancabilmente.
Nelle mie chiacchierate famigliari dopo le preghiere della sera il tema “peccato” ricorreva spesso. Li volevo allegri i miei ragazzi, gioiosi e liberi, ma non vuoti e spensierati. Sapevo molto bene che il peccato toglie la gioia e annulla la libertà. La mia catechesi sul peccato era stringata e semplice. Più che insistere sulla cattiveria del male commesso, insistevo con i giovani sulla bellezza e la gioia di vivere l’amicizia con il Signore. Spiegavo: «Quando io commetto un peccato volto le spalle a Dio creatore, a quel Dio di bontà che mi ha colmato di tanti benefizi, e io disprezzo la sua grazia e la sua amicizia. Chi pecca, dice al Signore: andate, o Dio, lontano da me, io non vi voglio più obbedire, non vi voglio più servire, non vi voglio più riconoscere per mio Dio». Insistevo sul «vuoto nel cuore» che il peccato opera: era un richiamo alla nostalgia di Dio, tema a me frequente e caro perché faceva facilmente presa su giovani e adulti. Tutte le mie parole tendevano a formare coscienze oneste e rette, coscienze convinte e mature, capaci di scelte coerenti e responsabili. Il mio istintivo orrore al peccato mi portava ad accentuare ora il tasto del dolore perfetto, ora il pensiero della presenza di Dio, ora il dovere di tutto sacrificare pur di non scendere a compromessi col male, ora a puntare coraggiosamente sulla forza che si trova nell’incontro con il Cristo eucaristico, in una filiale devozione a Maria.
Ai miei ragazzi parlavo sempre del perdono e della misericordia del Signore; li volevo pentiti e decisi nel bene, mai scoraggiati di fronte alle inevitabili debolezze umane. Assicuravo che «il confessore è padre» e «guarda alla buona volontà e non si meraviglia della mancanza; anzi prova la maggiore delle consolazioni che possa provare a questo mondo, vedendo che quel giovane è sincero, che desidera vincere il demonio e mettersi in grazia di Dio, che vuole crescere nella virtù. Nulla, o miei cari figlioli, vi tolga questa confidenza. Non ve la tolga la vergogna: le miserie umane si sa, sono miserie umane. Non andate mica a confessarvi per raccontare miracoli! Bisognerebbe che il confessore vi credesse impeccabili, e voi stessi ridereste di questa sua opinione».
Dammi le anime
Due sono state le parole che ho pronunciato o scritto con maggior frequenza: gloria di Dio e salvezza delle anime. Ho sempre lavorato per Dio, per il suo Regno, perché ero convinto che «Dio ci vuole in un mondo migliore di questo». Perciò, ho impostato la mia missione di prete e di educatore dei giovani sulle concrete basi di un sano umanesimo cristiano. Quando parlavo di ‘anime’, mi riferivo al giovane tutto intero, quello con cui stavo chiacchierando, il ragazzo che mi chiedeva un pezzo di pane e un’amicizia sicura, il ragazzo in cerca di un lavoro, che voleva dare un senso alla vita. Sono sicuro di non aver mai peccato né di angelismo né di terrenismo. Per me il giovane era un essere concreto, reale. Senza dubbio, tutto era visto in funzione dello spirito; nulla, però, era rifiutato, tranne l’offesa del Signore. La salvezza dell’anima era il movente remoto del mio agire, la meta prossima era trasformare i ragazzi che Dio mi faceva incontrare in “buoni cristiani e onesti cittadini”. Il pensiero della salvezza delle anime è stata la radice più profonda della mia vita interiore, del mio dialogo con Dio, del lavoro su me stesso. Il primo dei venti consigli consegnati a ciascuno dei primi missionari era un programma di vita, un condensato di vita apostolica: «Cercate anime».
Lavoravo per le ‘anime’ quando andavo a trovare l’apprendista muratore; provavo una pena indicibile vederlo trascinare con una carriola sgangherata un mucchio di mattoni su impalcature traballanti; cercavo ‘anime’ quando mi intrattenevo a Porta Palazzo con lo spazzacamino esile come uno stelo per poter sgattaiolare più facilmente lungo la cappa del camino o quando parlavo al piccolo venditore occasionale di zolfanelli, oppure al bambino, sfruttato in una fabbrica di lana e cotone; uno dei 7184 fanciulli con meno di 10 anni che si contavano in Piemonte (siamo nel 1844 e le cifre sono ufficiali!). Avevano un volto, un nome, cognome e un filo di speranza. Cercavo ‘anime’ quando trascorrevo ore su ore (e chi mai le potrà conteggiare?) confessando, predicando, parlando di un Dio buon papà, celebrando la santa Messa, pronunciando la classica “parolina all’orecchio” che tanti cambiamenti operava.
Fino all’ultimo
Anche sul letto di morte, assalito da incubi, mi scuotevo, battevo le mani, gridavo: “Accorrete, accorrete presto a salvare questi giovani!”. L’avevo fatto per tutta la vita…
Mi stavo spegnendo come una lampada cui viene mancare l’olio. Ma uno degli ultimi pensieri lo rivolsi, sotto forma di preghiera, ancora ai giovani. Riuscii a sussurrare all’orecchio di don Bonetti chino su di me: «Dite ai miei giovani che io li aspetto tutti in Paradiso!». Finalmente riuscivo a “comprendere tutto”, come quella voce misteriosa del primo sogno mi aveva assicurato. In Paradiso ci sarebbe stata festa grande per tutti. E per sempre!
ATTENTO A QUEL PERGOLATO DI ROSE!
Quello sguardo al Crocifisso
La battaglia tra “Piemontesi” e “Austriaci” era stata appassionante. Con 200 fucili senza canna, regalatici dal Governo, i ragazzi – addestrati da Brosio, il “bersagliere” - avevano trascorso un pomeriggio indimenticabile. Al tramonto, i “Piemontesi” erano riusciti ad avere la meglio; gli “Austriaci” battevano ormai in ritirata. Un’ultima carica, mentre il “bersagliere” suonava la mitica tromba. Purtroppo non si registrò appena una solenne batosta militare; chi soffrì le peggiori conseguenze di quella ritirata strategica fu l’orto di Mamma Margherita, invaso e calpestato da vincitori e vinti. Quando lei vide lo scempio fatto, mi disse in tono desolato: “Guarda, guarda, Giovanni cosa hanno fatto. Adesso, con che cosa preparerò la minestra? Hanno rovinato tutto!”. Poi, sciogliendosi il grembiule, concluse: “Non ce la faccio più. Io ritorno ai Becchi”. Mi vidi perduto. Come avrei fatto senza la sua presenza, i suoi consigli, il suo lavoro? Sulla parete c’era un crocifisso. Glielo indicai con un breve cenno della mano. La mamma chinò il capo e disse solo: “Ho capito”. E rimase sino alla fine.
Dall’esempio di forza cristiana di questa donna ho attinto tante volte il coraggio per resistere, per non scoraggiarmi. La mia maestra, ricca di fede e di pazienza, è stata lei.
“Non ne posso più”
Sì, questa frase è mia, l’ho scritta proprio io in una lettera del 1853 indirizzata al canonico De Gaudenzi, un vero amico, prete tutto d’un pezzo; più tardi, vescovo di Vigevano. Anni dopo, mi sfogavo scrivendo alla contessa Callori di Vignale: «Quante spese, quanti disturbi, quante incombenze caddero sopra le spalle di don Bosco. Non pensi, peraltro, che io sia abbattuto; stanco, e non altro». Con assoluta spontaneità e confidenza aprivo il mio cuore ad una munifica benefattrice, una di quelle signore cui con affetto riconoscente riservavo il bel nome di “Mamma”.
Piccole confidenze che facevo con molta naturalezza ai miei amici e che ora faccio anche a te. Credimi, però: non era vittimismo il mio, solo constatazione pura e semplice. Non dimenticare che a Valdocco correva voce che quanto maggiori erano le difficoltà e pesanti le tribolazioni e più i salesiani (e per primi i ragazzi!) mi vedevano più sereno del solito. E indovinavano concludendo: “Bisogna proprio che don Bosco oggi sia nei pasticci per mostrarsi così allegro e sorridente”.
L’incubo del “panattiere”
Da togliermi letteralmente il sonno, te lo assicuro. Forse è l’aspetto più appariscente di una vita segnata dalla povertà, dall’insufficienza di mezzi e dall’instancabile ricerca di aiuti. (Nelle lettere, quando mi riferisco a questo che per me era un problema assillante, usavo sempre scrivere “panattiere”; una piccola reminiscenza del mio dialetto piemontese, “panaté”). Credo sia necessario ricordarti la mia innata riluttanza a tendere la mano. Forse era la naturale ritrosìa del contadino che non è abituato a chiedere, dato che il suo faticoso lavoro gli offre sempre il minimo necessario per vivere; forse era a causa del mio temperamento orgoglioso non ancora totalmente domato. L’ho ricordato in faccia (siamo nel 1886) ad alcuni salesiani che erano con me dagli inizi; allora erano solo ragazzini, ora erano Superiori Maggiori, membri del Capitolo Superiore. Non ne avevano coraggio, mi avevano risposto per giustificarsi. Ai più riluttanti avevo rivelato: «Tu non sai quanto mi sia costato il chiedere la carità».
Scusa la digressione. Parlavo del “panattiere”, il sig. Magra. Scrivevo a un benefattore: «Ho ancora la nota del ‘panattiere’del mese di marzo da pagare e non so dove prendere il danaro; se mai Ella può ajutarmi, è proprio un dar da mangiare ai poveri affamati». (Da notare che la lettera è del 7 maggio!). Quando parlavo dei miei ragazzi alle tante persone generose che sempre mi aiutavano, li definivo tra il serio e il faceto: distruggitori di pagnottelle. Il pane che offrivo loro era molto di più di una semplice pagnotta: era segno di vita, di amicizia, di speranza. Il pane materiale non poteva certamente mancare; ma soprattutto l’alimento spirituale, fatto di impegno cristiano, di Eucaristia, di amicizia serena con il Signore, di devozione appassionata a Maria.
Costa anche a me!
Dal 10 al 18 settembre 1876 ci furono gli Esercizi Spirituali a Lanzo. Il gruppo dei salesiani era numeroso e ben affiatato. Diedi varie volte la buona-notte e feci loro tre conferenze. In una, mi dilungai sul tema della pazienza. Come sempre il mio linguaggio fu semplice, molto famigliare e incisivo. Tra l’altro dissi: «Me ne accorgo anch’io che costa. E non crediate che sia il più gran gusto del mondo stare tutte le mattine inchiodato a dare udienza o fermo al tavolino tutta la sera per dar corso alle faccende tutte, a lettere e simili. Oh! Vi assicuro che molte volte uscirei ben volentieri a prendere un po’ d’aria e forse ne avrei un vero bisogno… Non crediate che non costi anche a me, dopo di aver incaricato qualcuno d’un affare, o dopo di avergli mandato qualche incarico d’importanza o delicato o di premura, e non trovarlo eseguito a tempo, o malfatto, non costi anche a me il tenermi pacato; vi assicuro che alcune volte bolle il sangue nelle vene, un formicolio domina per tutti i sensi. Ma che?... impazientirsi?... Non si ottiene che la cosa non fatta sia fatta e neppure si corregge il suddito con la furia». Probabilmente, mentre dicevo queste parole mi ritornava alla memoria la figura di mia madre. E ricordavo la tristezza e la delusione del suo sguardo mentre con gli occhi contemplava lo sfacelo dell’orticello. Non dimenticavo la scena: lei fissava il crocifisso e poi chinava il capo.
Consideravo la mia vita come una missione, non solo un dono, ma un dovere, un talento da trafficare. Povero di nascita, mi sentivo solidale con le masse popolari da cui provenivo; come prete mi sentivo per vocazione chiamato a dare origine a una famiglia religiosa inedita, un gruppo di consacrati che con il popolo facesse causa comune. Ero convinto che per dare una risposta convincente «bisogna lavorare e far conoscere il bene che si fa. Se uno fa anche miracoli pregando giorno e notte e stando nella sua cella, il mondo non ci bada e non ci crede più. Il mondo ha bisogno di vedere e toccare».
Sognavo i miei salesiani con le “maniche rimboccate” (come gli operai), uomini del “pronto intervento”, con entusiasmo intraprendente. E scrivevo: «La croce sulla quale muore il salesiano è il suo lavoro coraggioso per la salvezza dei giovani». Questa frase coincideva con un profezia con cui concludevo il mio Testamento Spirituale: «Quando avverrà che un salesiano soccomba e cessi di vivere lavorando per le anime, allora direte che la nostra congregazione ha riportato un gran trionfo».
Le lezioni di un sogno
Nel 1847 feci un sogno. Fu la Madonna stessa che intervenne, sollecita e materna sempre. Anche se tra mille incertezze, stavo intraprendendo un cammino nuovo, irto di sfide e carico di responsabilità: iniziare una nuova famiglia religiosa che si donasse totalmente alla causa dei giovani. Sognai di trovarmi in un giardino incantevole con un pergolato coperto «da meravigliosi rosai in piena fioritura». Anche la strada era un delicato tappeto di rose; per non calpestarle mi tolsi le scarpe, ma ben presto mi accorsi che, nascoste tra tanti fiori, c’erano molte spine. Calzai di nuovo le scarpe che, tuttavia, non mi proteggevano; i piedi sanguinavano, le mani e le braccia sfioravano sì rose bellissime ma anche spine molto pungenti. C’era chi, osservandomi a distanza, concludeva: “Don Bosco cammina sempre sulle rose, tutto gli riesce bene”.
Un gruppetto di volenterosi mi seguiva, attratto da quel “mar di rose” . Ma a contatto con le spine, alcuni dei miei collaboratori alzavano la voce e si lamentavano dicendo che io li avevo ingannati. Qualcuno preferì tornare indietro; altri fecero altrettanto. Mi ritrovai quasi solo. «Ma tosto fui consolato. Vedo avanzare verso di me uno stuolo di preti, di chierici e di secolari, i quali mi dissero:’Eccoci, siamo tutti suoi, pronti a seguirla’. Giungemmo in un altro meraviglioso giardino e «mi trovai attorniato da un numero immenso di giovani e di chierici, di laici coadiutori ed anche di preti, che si posero a lavorare con me. Parecchi li conobbi, di fisionomia, molti non li conoscevo ancora». La Madonna era con noi e mi spiegò: “Sappi che la via da te percorsa tra le rose e le spine significa la cura che tu hai da prenderti della gioventù; tu devi camminare colle scarpe della mortificazione. Le spine sono simbolo della carità ardente che deve distinguere te e tutti i tuoi. Le spine significano gli ostacoli, i patimenti, i dispiaceri che vi toccheranno. Ma non perdetevi di coraggio. Con la carità e la mortificazione, tutto supererete».
Da un anno mi trovavo a Valdocco in piccola tettoia. Non sarebbero mancate le spine, ma la Madonna ci garantiva pure tante tante rose. L’esperienza, unita alla fiducia nel Signore, mi avrebbe convinto che «un pezzo di Paradiso aggiusta tutto». Proprio come mi aveva insegnato mia Mamma:«Le spine della vita saranno i fiori per l’eternità».
CHI RINGRAZIA AMA
Non ho mai dimenticato le mie origini di contadino povero, di studente bisognoso, di prete sempre costretto, (e mai abituato!), a tendere la mano. Ero solito affermare: «Ho sempre avuto bisogno di tutto e di tutti per andare avanti». Una constatazione che, al tempo stesso, era una serena presa di coscienza. Questa autentica lezione di vita, abbracciata senza nessun complesso di inferiorità o di invidia verso chi nuotava nell’abbondanza, mi aveva insegnato ad essere sempre riconoscente. Prima di suggerirlo agli altri, cercavo di vivere ciò che la mia buona mamma mi ripeteva: «Dimentica i servizi prestati e non i ricevuti». Per me, grazie era una parola dovuta. Dal grazie, nasceva in me il sentimento dello stupore, dell’adorazione e della meraviglia. Il grazie, in me, diventava preghiera. Piangevo di riconoscenza ogni qualvolta rileggevo o ristampavo la biografia di Domenico Savio. Sono mie queste parole: «Conobbi in quel giovane un animo tutto secondo lo spirito del Signore e rimasi non poco stupito considerando i lavori che la grazia divina aveva già operato in così tenera età». Lo stesso sentimento di gioia e di stupore lo proverò pochi anni dopo al constatare il cambiamento radicale che avveniva a poco a poco in Michele Magone. E ringraziavo il buon Dio che mi faceva incontrare ragazzi così.
Anche la nostalgia è segno di riconoscenza
Non sono mai stato sentimentale. Però un cuore grande e un cuore amico l’ho coltivato sin da piccolo e non mi sono mai pentito di questo atteggiamento così umano e vero.
Il 16 febbraio 1876 scrivevo una paterna e commossa lettera a don Cagliero che era partito da pochi mesi, come capo indiscusso della prima spedizione missionaria in Argentina. Sentivo la mancanza di questo salesiano, anche se ero fiero della sua incondizionata generosità. Tra l’altro gli scrivevo: «Ieri si fece teatrino che riuscì brillante. Mino cantò “Il figlio dell’esule” con ottimo successo. Ma il pensiero che l’autore della musica era cotanto lontano, mi ha profondamente commosso; quindi, in tutto il tempo del canto e della stessa rappresentazione, non ho fatto altro che pensare ai miei cari missionari d’America». C’è molta riconoscenza in queste mie parole! Con don Costamagna andavo oltre. Il 10 novembre 1883 c’era stata l’ottava spedizione missionaria, consegnando il Crocifisso a 20 salesiani e 12 Figlie di Maria Ausiliatrice; due giorni dopo scrivevo a don Costamagna una letterina che l’avrebbe raggiunto a Marsiglia: «Voi siete partiti, ma mi avete veramente straziato il cuore. Mi son fatto coraggio, ma ho sofferto e non fu possibile prendere sonno tutta la notte». Mi sentivo papà di questa famiglia che stava sciamando in terre lontane. Erano miei figli questi missionari che ammiravo e che volevo ringraziare. Ero solito dirlo ai miei ragazzi: «Sappiate essere riconoscenti verso chiunque vi fa del bene». Come avrei potuto non sentirmi grato verso questi intrepidi salesiani?
Un “memento” carico di riconoscenza
Il 6 giugno 1841, festa della SS. Trinità, celebrai la prima messa nella chiesa di San Francesco d’Assisi in Torino, all’altare dedicato all’Angelo Custode. Una trentina d’anni dopo scrivendo le “Memorie dell’Oratorio” ricordavo che «in quella memoranda messa ho procurato di fare divota memoria di tutti i miei professori, benefattori, e segnatamente del compianto don Calosso, che ho sempre ricordato come grande e insigne benefattore». Era il grazie per l’anziano cappellano di Morialdo; guidato da lui «ho cominciato a gustare che cosa sia vita spirituale». Colpito da un ictus cerebrale, moriva tra le mie braccia. La sua morte improvvisa mi aveva privato di colui che io amavo «più che padre». Accanto alla sua salma avevo promesso che avrei fatto ogni mattina preghiera per lui. E sono stato fedele a questo impegno.
Migliaia di lettere
Ho scritto migliaia e migliaia di lettere. Alcune, sono semplici bigliettini; altre, occupano pagine intere. Tutte scritte a mano; mica c’era il computer! Dal 1843 soffrivo mal d’occhi e pochi anni dopo perdevo totalmente l’occhio destro. Questo per scusare la mia scrittura poco calligrafica… Ebbene, in quasi tutte quelle migliaia di scritti, io chiedo aiuti e sollecito il buon cuore di tante persone. In tutte, però, c’è sempre il mio grazie. Un piccolo esempio: «Benemerita Sig. Contessa, con vera gratitudine ricevo fr. 100 per i nostri Missionari che si preparano per l’America. Io la ringrazio. Dio pagherà». Poche righe, ma dettate da un cuore riconoscente.
Non dimenticherò mai Blanchard, il figlio di quella brava signora che mi riforniva di mele quando ero studente ginnasiale. L’avevo riconosciuto per le strade di Chieri, una quarantina d’anni dopo, e l’avevo presentato come mio grande benefattore a un gruppo di preti; l’avevo invitato perché venisse a trovarmi a Valdocco. Di fatto, era riuscito a venire, ma solo dieci anni dopo, nel 1886, quando le mie condizioni di salute peggioravano. Vinte tutte le resistenze del portinaio, prima e del mio segretario dopo, era giunto in anticamera; lo riconobbi dalla sua voce che ripeteva: “Ditegli che c’è Blanchard, un amico”. Aprii di colpo la porta e fu gioia grande di noi due la lunga chiacchierata. Era l’ora di pranzo; non potevo più fare le scale, allora pregai che fosse riservato al buon vecchietto il mio posto in refettorio. Era il mio grazie per favori mai dimenticati. La riconoscenza diventava una naturale affettuosa risposta del cuore. Non era solo un ricordo; era una memoria che si trasformava in gioia!
Un grazie sul letto di morte
Anche per me giunse il momento di arrendermi. L’organismo era logoro, sdrucito come un vecchio abito troppo usato. Avrei dovuto metterlo a riposo. Ma, come avevo ripetutamente detto al celebre e carissimo dott. Combal, era questa l’unica medicina che rifiutavo. Il letto diventò il luogo del mio calvario, una stazione della mia ormai lunga Via Crucis. Avevo detto tante volte: «Tutti dobbiamo portare la nostra croce con Gesù». Ora toccava a me, convinto che «la via della Croce è quella che conduce a Dio». Avevo sempre accanto a me, come sollecito e delicato infermiere, il caro coadiutore Pietro Enria. Lo conoscevo sin da ragazzo. Anni prima, quando a Varazze mi ero gravemente ammalato, mi aveva assistito per mesi con affetto di figlio. Ora, negli ultimi mesi di vita non mi lasciava un momento e mi prestava anche i più umili servizi. Lo ringraziavo ogni volta e poi mi scusavo con lui: “Abbi pazienza, povero Pietro”. Al che egli: “Oh, don Bosco! Io darei la vita per la sua guarigione. E non solo io, sa?”. Commosso e riconoscente gli dicevo: “Sai, l’unica grande tristezza che provo è che dovrò separarmi da voi”. Mi comportavo proprio come un padre che soffre per staccarsi dai suoi figli. Era affetto, era riconoscenza.
Un grazie inedito
«Gli ingrati noi li compiangiamo, perché sono infelici». Era questa una frase che ero solito ricordare ai ragazzi per educarli al senso della riconoscenza.
Non vorrei sembrare un ingrato, dimenticando le “benemerenze” del ministro Urbano Rattazzi a favore della Congregazione Salesiana. Eravamo nel 1857. Ricordo: l’iniziativa era partita dal ministro, molto preoccupato per quegli assembramenti di giovani che si creavano attorno alla mia persona e che potevano degenerare in tumulti e disordini. Lo rassicurai in merito. In seguito mi comunicò la sua preoccupazione circa la continuità del mio lavoro con i giovani. “Lei è mortale come ogni altro”, mi disse. Risposi che non facevo «conto di morire sì presto». Poi la conversazione prese una piega inaspettata. Il ministro, anticlericale e massone, mi insegnò cosa fare per dar vita a una nuova Congregazione religiosa: dovevo creare una Società religiosa che davanti allo Stato figurasse come una società civile. Spiegò: “La nuova Società in faccia al Governo non sarebbe altro che un’associazione di liberi cittadini i quali si uniscono e vivono insieme ad uno scopo di beneficenza”: così si espresse e concluse: “Stia tranquillo, si decida, avrà tutto l’appoggio del Governo e del Re, perché si tratta di un’opera eminentemente umanitaria”. Questo accadeva nel 1857; due anni prima, lo stesso Rattazzi con un semplice colpo di penna aveva soppresso 331 conventi e spazzato via 4540 tra religiosi e religiose! I venti che spiravano non alimentavano certamente rosee speranze…
Vent’anni dopo, mi trovavo a Valdocco attorniato da un gruppo di salesiani; si parlava di quanto aveva fatto il ministro Rattazzi a nostro favore. Confermai il suo interessamento e aggiunsi dettagli che sino allora nessuno conosceva: «Rattazzi volle con me combinare vari articoli delle nostre regole riguardanti il modo col quale la nostra Società doveva regolarsi rispetto al codice civile ed allo Stato. Si può dire che certe previdenze, perché non potessimo essere molestati dalla potestà civile, furono cose tutte sue».
Rendendo pubblico l’operato del ministro, gli dimostravo tutta la mia riconoscenza in un modo molto significativo. Nel mio cuore l’avevo sempre considerato un autentico benefattore, un amico che in ore critiche e drammatiche mi aveva aiutato a discernere con maggior chiarezza qual era la volontà del Signore! Penso che, trascorsi tanti anni, i Salesiani farebbero bene a ricordare con riconoscenza chi ci aveva spianato un terreno che non si presentava per nulla esente di critiche e difficoltà. Consigli di un abile politico? Preferisco dire: orientamenti di un amico leale e sincero benefattore.
Valdocco? Un atomo…
Finisco questa chiacchierata riportando una frase che pronunciai verso il 1875; un salesiano, a me molto caro, la trascrisse subito in una specie di diario. Vale la pena ascoltare questa mia confidenza: «Che cosa è nel mondo il nostro Oratorio qui di Valdocco? Un atomo. Eppure ci dà tanto da fare, e da questo cantuccio si pensa a mandar gente di qua e di là. Oh, potenza della mente umana! Oh, bontà di Dio!». Avviandomi al tramonto della mia esistenza, incominciavo a capire il valore di quelle parole misteriose dettemi nel primo sogno: “A suo tempo, tutto comprenderai”. Come in una stupenda filigrana intravvedevo la mia vita. In essa si snodava il piano meraviglioso del buon Dio che aveva scelto un povero contadinello dei Becchi per portare nel cuore di tanti giovani il messaggio di gioia e di speranza. C’era da cadere in ginocchio, in atteggiamento di pura adorazione. Il grazie si trasformava in preghiera! Confidavo ai miei Salesiani: «Io sono sbalordito al vedere come il Signore ci copre di benedizioni, quasi direi, ci carica con la sua grazia».
Lo ricordavo anche al caro don Cagliero, l’intrepido missionario in terre argentine, eppure sempre vicino nel mio cuore, quando – dopo avergli parlato di «una serie di progetti che sembrano favole o cose da matti in faccia al mondo, ma appena esternati, Dio li benedice in modo che tutto va a gonfie vele» - concludevo con quattro verbi che suonano come concreto programma di vita: «pregare, ringraziare, sperare e vegliare». In questi quattro verbi ho racchiuso gran parte della mia spiritualità!
SE AVESSI SAPUTO PRIMA…
Imparando giorno dopo giorno
Oggi tu conosci certamente la storia della Congregazione con maggior chiarezza di quanto non l’abbia potuta scorgere io stesso. Costruivo la mia esperienza giorno per giorno, a tentoni. Era un cammino nuovo quello che percorrevo, da pioniere. È vero – e l’ho sempre ammesso con umile riconoscenza – che non mancavano illuminazioni dall’alto e da esse mi lasciavo guidare. Ma non sempre era facile discernere le scelte da fare, gli ostacoli da evitare, le sfide da affrontare, soprattutto le persone in cui confidare. Una cosa è certa: non agivo superficialmente, alla leggera. Non era il mio stile e non lo approvavo nemmeno negli altri. Dove non si poteva far tutto, mi accontentavo di fare ciò che stimavo possibile. Non approvavo chi diceva: o tutto o niente. Spiegavo il mio pensiero: «Se non si può completare tutto l’alfabeto, ma si può fare A B C D, perché non fare nemmeno questo poco con la scusa che non si potrà arrivare sino alla Z?». Mi sembrava una tattica rinunciataria quella che scorgevo in molti, anche religiosi: se temevano di non poter riuscire completamente e bene in un’attività, piuttosto che incominciarla, preferivano non dare il primo passo. Io no; vedevo che c’era tanto da fare nella vigna del Signore e mi rattristavo al vedere che nessuno osava prendere l’iniziativa. La smania di fare cose perfette non paralizzò mai le mie iniziative di bene.
Dicevo ai miei Salesiani: «Il mondo non ci pensa all’anima. A Parigi si parla di Opere, così nelle Camere di Firenze, di Pietroburgo, di Berlino si tratta di armi, di guerra, di conquiste. Ma nessuno ci pensa all’anima, come se non la si avesse».
E ricordavo loro: «Anche quando qualcuno ci critica, prendiamo questo proposito: far del bene e lasciar dire». Tu conosci la mia storia: mi hanno considerato visionario, pazzo, idealista. Ho provato sulla mia pelle cosa voglia dire sentirsi abbandonato, deriso, incompreso, compassionato, spiato, minacciato. Non sono stato un “super-uomo”. Ho avuto i miei timori, i miei momenti bui; anch’io ho provato la tentazione di mollare tutto. No! Non mi son mai considerato un eroe. «Mettiamoci nelle mani di Dio con piena fiducia»: lo dicevo agli altri. L’ho sempre vissuto come programma.
Io vedevo tutti quei disordini…
Conoscevo molto bene la Storia della Chiesa per non ricordare come erano sorti nei secoli i grandi Ordini Religiosi e tante Congregazioni. Accanto a Benedetto, Bernardo, Francesco di Assisi, Domenico, Ignazio di Loyola, Filippo Neri (solo per citarne alcuni) si erano subito affiancati adulti, gente culturalmente preparata. Io, al contrario, avevo incominciato con dei ragazzini. Era stata una scelta indovinata: pur rispettando l’indole di ciascuno potevo formare un gruppo affiatato, con gli stessi ideali di entusiasmo e dedizione alla causa giovanile. Prendevo esempio dal Vangelo, proprio come aveva fatto Gesù con i suoi primi discepoli: “Venite, vedete”, “Rimasero con lui”. Gesù aveva iniziato il gruppo dei suoi apostoli sulla base di autentici rapporti umani; il resto era venuto con il tempo. Ho copiato da Gesù, se posso osare dir tanto. Valdocco, pur in mezzo a mille difficoltà stava creando un caratteristico stile educativo, viveva una spiritualità più consona ai tempi, approfondiva un sempre più vincolante spirito di amicizia e famigliarità. I ragazzi mi crescevano attorno imparando. Lavoravano da “salesiani”, senza esserlo ancora. A loro promettevo pane, lavoro e Paradiso. Li volevo “con le maniche rimboccate”, come gli operai. Umili e fedeli operai nella Vigna del Signore.
Errori? Ce ne furono a bizzeffe!
A distanza di una ventina d’anni, attorniato da quelli che un tempo erano stati ragazzi vivaci e spensierati, ricordavo loro: «Se avessi voluto togliere tutti i disordini in una volta, avrei dovuto chiudere l’Oratorio, perché i chierici non si sarebbero adattati a un serio regolamento e se ne sarebbero andati tutti. E io vedevo che di quei chierici anche divagati molti lavoravano volentieri, erano di buon cuore, di moralità a tutta prova, e, passato questo fervore di gioventù, mi avrebbero poi aiutato molto. E debbo dire che vari dei preti della Congregazione, che erano di quel numero, adesso sono fra coloro che lavorano di più, che hanno miglior spirito ecclesiastico, mentre allora sarebbero certamente andati via dalla casa piuttosto che assoggettarsi a certe regole restrittive». (Ti lascio immaginare la reazione spontanea dei salesiani presenti e chiamati direttamente in causa…).
Vedete là un giardiniere
Erano tempi difficili per gli Ordini e le Congregazioni religiose: di questo argomento non si parlava, utopico era persino pensare a far nascere una nuova famiglia religiosa. Occorreva tatto, diplomazia, prudenza e molta speranza. Se avessi anche solo accennato alle mie reali intenzioni, avrei visto attorno a me il deserto. Lo stesso Cagliero, così ardente e affezionato, aveva detto chiaramente: “Stare con don Bosco, aiutarlo, sì, ma farmi frate, no, no!”.
In una riunione con i direttori spiegavo come mi ero comportato, affinché anch’essi imitassero il mio modo d’agire: «Vedete là un giardiniere: quanta cura mette per tirar su una pianticella, si direbbe fatica gettata al vento; ma egli sa che quella pianticella col tempo verrà a rendergli molto, e perciò non bada a fatiche… Noi, miei cari, siamo giardinieri, coltivatori nella vigna del Signore. Se vogliamo che il nostro lavoro renda, bisogna che mettiamo molta cura attorno alle pianticelle che abbiamo da coltivare».
Mentre parlavo fissavo i volti dei miei collaboratori. Erano adesso i miei uomini di fiducia, temprati e sicuri, fedelissimi, miei amici in ogni momento. Erano stati ragazzini “impossibili” alcuni decenni prima, santamente monelli; quante volte avevano messo a dura prova tutta la mia pazienza con le loro irrequietezze. Adesso erano gli agnelli del sogno che trasformati in pastori sparsi per l’Italia, la Francia, la Spagna, l’Inghilterra, ed ora anche nelle sterminate pampas argentine, nell’immenso Brasile, in Uruguay, in Cile ed Ecuador! Il mio sogno era diventato il loro sogno. Dalle missioni un superiore poteva scrivere ai suoi confratelli: «Noi qui viviamo di don Bosco». Non certamente della mia povera persona, ma del mio stesso ideale.
Una frase durissima
Eravamo nel 1885: sinora con 9 spedizioni missionarie 119 salesiani erano partiti per le frontiere più avanzate del Regno di Dio, molte opere si sviluppavano e si consolidavano. Eppure c’erano anche defezioni dolorose. Il pergolato di rose, che avevo sognato, si rivelava un cammino irto di spine, anche se molte erano le rose.
C’era stata una allettante e generosa offerta da parte di un prete della diocesi di Cuneo: era totalmente pronta una casa che avrebbe potuto accogliere un centinaio di ragazzi bisognosi. La proposta ricevuta aveva suscitato una risposta entusiasta e positiva. Se ne discusse a lungo a Valdocco. Fui tassativo: «Non possiamo accettare per mancanza di personale». Poi, con coraggio misi il dito sulla piaga e pronunciai una frase durissima, inusuale nel mio vocabolario: «Bisogna lamentare che certi Salesiani non hanno niente di spirito salesiano. Tutti gli anni ci sono defezioni e dopo tanto lavoro per educare tali individui ci troviamo delusi. Bisogna consolidarci». Come Fondatore sentivo il dovere di dare un chiaro segnale d’allarme, proprio nel momento in cui la nascente Congregazione sembrava espandersi con vigore e audace entusiasmo. Qualcuno mi accusò che non rispettavo i limiti della prudenza umana moltiplicando a dismisura opere grandiose senza mezzi adeguati o inviando a dirigere istituti educativi persone non sufficientemente preparate. Era un rischio che dovevo correre. Però a mio parere, non si trattava di problemi di competenza, bensì di fedeltà e di coerenza alla missione. Continuavo a ricordarlo ai miei confratelli, di cui conoscevo il grande coraggio e ne ammiravo la generosità a tutta prova.
Se avessi saputo prima…
«Avevo un vago pensiero di fare del bene, qui, proprio in questo luogo e far del bene ai poveri ragazzi. Questo pensiero mi dominava e non sapevo come realizzarlo; tuttavia non si partiva mai da me, anzi era quello che dirigeva ogni mio passo, ogni mia azione. Io volevo far del bene, fare molto del bene, ma farlo qui. Sembrava allora un sogno il pensiero del povero prete, eppure Iddio realizzò i desideri di quel poveretto. Come si siano fatte le cose, io appena saprei dirvelo. Non me ne so dare ragione io stesso. Questo io so: che Dio lo voleva». Con queste confidenze io aprivo il mio cuore ai direttori riuniti con me all’inizio del 1876. Alla luce della fede facevo una rilettura della vita passata e mi convincevo sempre più che «nelle grandi necessità è tempo di far vedere se veramente confidiamo in Dio». Era la classica cartina di tornasole (anche se detta con parole più semplici) che avevo imparato da mia madre. Per principio non lasciavo mai di metter mano a un’opera che sapevo essere buona nonostante spuntassero imprevisti e difficoltà. Mi guidava una convinzione, anche questa ereditata in famiglia: «Il Signore ai grandi bisogni manda sempre grandi aiuti».
Tra il 1859 e il 1874 c’era stata la lunga snervante Via Crucis intrapresa per l’approvazione definitiva della Congregazione: viaggi e soggiorni prolungati a Roma, un’infinità di lettere, dialoghi interminabili per spiegare e per difendermi, ore di anticamera. Un attento lavoro di diplomazia per non urtare altrui suscettibilità, nel saper attendere, nel ringraziare con grazia e senza servilismo. Alla fine, mi sgorgò una confessione che era anche uno sfogo: «Se avessi saputo prima quanti dolori, fatiche, opposizioni e contraddizioni costi il fondare una Società religiosa, forse non avrei avuto il coraggio di accingermi all’opera». Aveva trionfato la pazienza di un contadino e la perseveranza di un credente convinto che «bisogna abbandonarsi nelle mani della Divina Provvidenza, che non verrà mai meno».