Venire alla fede. I cammini della fede per i giovani oggi
A cura di Giancarlo De Nicolò
Articolo tratto da: NOTE DI PASTORALE GIOVANILE. Proposte per la maturazione umana e cristiana dei ragazzi e dei giovani, a cura del Centro Salesiano Pastorale Giovanile - Roma
Indifferenza e disponibilità al discorso religioso
D. Abbiamo già pubblicato una sua intervista sulla pastorale giovanile nel 2003. Vorremmo oggi - attraverso un’altra intervista a Lei che guida una Congregazione votata per missione all’educazione dei giovani, dove la fede è il cuore della stessa educazione - ritornare sul tema sotto un’altra angolatura, come evidenziata dal titolo stesso. E cioè i processi attraverso cui oggi si viene alla fede.
Abbiamo ormai constatato - e la Chiesa lo ha ampiamente riconosciuto - come oggi non si diventa più cristiani attraverso le modalità di socializzazione religiosa che erano state valide per tanti secoli, perché sono saltati i canali di trasmissione intergenerazionale, e la fede è diventata una scelta soggettiva, frutto di una scoperta e decisione personale.
In una visione mondiale oltre i confini dell’Occidente italiano ed europeo, Lei trova diversità nella situazione giovanile rispetto ai temi della fede? Trova che la secolarizzazione, l’indifferenza, la diffidenza siano una situazione abbastanza generalizzata presso i giovani di tutti i continenti o è un problema tipicamente europeo? E, in ogni caso, quali i diversi tratti di religiosità tra i giovani nel mondo?
R. Questa situazione di secolarizzazione, indifferenza e diffidenza è presente soprattutto nel mondo occidentale, ma purtroppo si sta estendendo rapidamente anche ad altri continenti o contesti attraverso una cultura globalizzata, marcata da una visione materialista e individualista della vita.
Le inchieste sui giovani mettono in evidenza che tra loro non esiste una vera crisi della religiosità e della ricerca di senso; esiste anzi un gruppo notevole di giovani che avvertono il bisogno di scavare nella dimensione della spiritualità per trovare l’equilibrio e l’armonia personale in questo mondo frenetico, frammentato e in rapida evoluzione.
Ma la dimensione religiosa tende ad essere relegata nella sfera del privato e ad essere assorbita dentro la logica della soddisfazione dei bisogni individuali. Si tratta di una religiosità ad uso individuale, per il conforto personale; una religione di consolazione e non di responsabilità, che coinvolge l’aspetto emotivo e quello psicologico e agisce come una sorta di solletico spirituale perché mette in gioco i sentimenti, la passionalità, il coinvolgimento emozionale, ma trascura i valori che servono a sostenerla nel tempo, come la fedeltà, la costanza, la coerenza delle scelte, l’assunzione di responsabilità.
È una religiosità non istituzionale, ma privata, con presenza di credenze eterogenee e talvolta formalmente incompatibili (tipo New Age). I giovani percorrono così una continua migrazione spirituale da un’esperienza ad un’altra, nel ripetuto tentativo di abbeverarsi di nuove emozioni, più o meno mistiche, che li soddisfano individualmente ma non placano mai la sete, perché ogni scelta viene presto abbandonata nel momento in cui arriva il peso da sostenere, la comunità da incontrare o con cui confrontarsi.
Una religiosità, inoltre, distaccata dall’etica: se in epoche precedenti la fede religiosa era collegata all’etica e all’impegno per la trasformazione del mondo, oggi è collegata all’estetica e allo spirito di convivenza e comunione. In questo senso l’identità religiosa dei giovani (identità che in molti conserva ancora il riferimento alla fede cattolica) diviene un’identità-rifugio, senza un vero approfondimento interiore, spirituale ed etico.
Le stesse ricerche tuttavia non mancano di sottolineare l’efficacia della partecipazione associativa per la costruzione di un’identità religiosa personale, favorendo la formazione e l’adesione di fede, il cammino religioso personale e anche la pratica sacramentale.
Resta dunque fermo – e non posso non sottolinearlo con piacere - il dato della larga fascia di giovani che manifesta una rilevante disponibilità ad un discorso religioso, che tuttavia ritengo debba evolvere verso forme più mature di identificazione e di appartenenza. Per questo – e anticipo cose su cui tornerò - è urgente rinnovare l’offerta religiosa delle Chiese: superare una razionalità strumentale, sviluppando la dimensione estetica e mistica della fede, spezzare una burocratizzazione alienante, promuovendo la dimensione di comunità e d’incontro personale, affrontare l’assenza di cuore e di esperienza con un maggiore sviluppo del linguaggio simbolico e affettivo, e una maggiore presenza di esperienze di vita condivise.
D. Vede un risveglio sui temi della fede nei giovani, in Occidente e nel mondo? Attraverso che cosa e come si manifesta? E’ più un ricupero di domande di senso, esistenziali, o ha dei tratti religiosi? E di che tipo di religiosità si tratta? Dove vede le difficoltà dei giovani a vivere oggi la fede e una scelta di vita cristiana?
R. Continuando l’analisi e allargando la riflessione anche a partire dai tanti incontri con giovani ed educatori nel mondo, constato che il giovane è sempre aperto alla fede perché è aperto al futuro, alla ricerca della propria identità, alla vita e ai valori. Ma sovente quest’apertura è offuscata da un eccesso di cose e di soddisfazioni immediate e superficiali. Capita a molti giovani come alla “Samaritana” del racconto evangelico di Giovanni: hanno bisogno che qualcuno in nome di Gesù risvegli in loro quel desiderio profondo di salvezza e di felicità che si trova nascosto dalle attese immediate di piacere.
Le domande di senso, se sono sincere, sono sempre spiragli che aprono alla trascendenza, soprattutto quando sono accolte con sincerità e sviluppate attraverso percorsi pazienti di profondità.
Un impegno dell’educatore è di aprire queste vie verso l’interiorità, aiutare i giovani a fare esperienze significative che riempiano il cuore: esperienze di silenzio, di contemplazione della natura, di comunicazione profonda, di accoglienza gratuita dell’altro, di servizio generoso, ecc. Vie tutte che, usate saggiamente, sviluppano l’apertura alla Trascendenza e risvegliano la sete di Dio, anche se non ancora conosciuto. Oggi questo primo passo di un cammino di fede è molto importante e in alcuni casi imprescindibile.
Certo, ci sono anche difficoltà e impedimenti per vivere la fede e fare una scelta di vita cristiana oggi. Tra i principali mi sembra che si possano segnalare:
- uno stile di vita che addormenta o acceca il desiderio profondo di senso, di verità, di Dio: la fretta, il rumore, la molteplicità di rapporti superficiali, la ricerca frenetica di esperienze nuove e sempre più forti che rispondano ai bisogni immediati, la poca capacità di interiorizzazione, ecc.;
- ma anche, da parte della Chiesa e delle comunità cristiane, un modo di esprimere e vivere la fede troppo lontana della forma con cui i giovani vedono e vivono la realtà: una certa rottura culturale che fa sentire loro che la fede vissuta, celebrata e proclamata dalla Chiesa è una realtà estranea al loro universo mentale e affettivo. Per questo nella risposta precedente parlavo della necessità di rinnovare l’offerta religiosa da parte delle Chiese.
D. Lei è un biblista come formazione teologica e un educatore come vocazione salesiana. Vorremmo parlare dei processi della fede per i giovani oggi, tenendo presente entrambe le prospettive.
In un confronto vitale con la Parola di Dio (che appare particolarmente limpida soprattutto nei momenti di crisi), quali sono i processi del “venire alla fede”, visto che i giovani vivono in una situazione in cui non se la ritrovano come eredità, come possesso già acquisito? Si possono scandire i passaggi che la Parola di Dio ritiene più rilevanti in questo processo? Anche questi possono essere visti come momenti della “pedagogia di Dio”... ma possono anche essere assunti in una prospettiva educativa oggi?
Esiste qualche figura o personaggio biblico particolarmente indicativo, paradigmatico per confrontarsi con tali processi di “accesso alla fede”?
R. Per quel che riguarda i processi del “venire alla fede”, Paolo li sintetizza magistralmente nella lettera ai Romani quando scrive: «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza... Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati?» (Rm 10, 9-10.14-15a).
Ma per arrivare a questa comunicazione e accettazione della fede in Gesù ci sono itinerari diversi, che dipendono dalle situazioni in cui si trovano i destinatari del Vangelo.
*Ad esempio, la vocazione dei primi discepoli di Gesù, stando al quarto evangelista, incomincia dall’indicazione fatta da Giovanni Battista che addita Gesù ai suoi discepoli, i quali lo seguono, gli domandano “dove abiti?”, restano con lui e rimangono talmente affascinati che abbandonano il loro maestro Giovanni e incominciano a rendere testimonianza di Gesù (cf Gv 1,35-42).
* L’incontro di Gesù con Nicodemo (Gv 3,1-21) o con la Samaritana (Gv 4,5-42), sempre secondo il quarto evangelista, sono altrettanti itinerari di fede che portano, attraverso un dialogo, da bisogni immediati ad un progressivo riconoscimento degli aneliti più profondi, fino all’accettazione di Gesù come Colui in cui può essere appagata la loro sete di senso, di felicità e di vita.
* La predicazione fatta dagli Apostoli, che invitano al riconoscimento di Gesù Crocifisso e Risorto come Signore e quindi alla conversione dai propri peccati, suscita negli ascoltatori l’adesione di fede e il cambiamento di vita sino a formare comunità, con un solo cuore e una sola anima, che diventano una vera alternativa culturale e sociale (cf At 2,14-41; 4,23-37).
* La conversione di Paolo avviene invece direttamente attraverso un intervento di Dio, proprio mentre egli perseguita la Chiesa, senza agenda né preparazione, ma come frutto dell’elezione di Dio che conta su di lui come apostolo delle Genti, e diventa uno degli eventi più importanti della storia del cristianesimo (cf Gal 1, 13-24; Fil 3,3-9 At 9,1-20).
* Vediamo una diversa modalità nel racconto di quel giovane che si avvicina a Gesù e gli domanda che cosa deve fare per ottenere la vita eterna; dopo aver risposto a Gesù che lui era stato fedele sin dalla infanzia alla legge del Signore, dice il testo che Gesù lo contemplò con amore e lo invitò ad andare oltre, distanziandosi da quanto poteva essere di ostacolo per raggiungere la pienezza («Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi»). Ma, a differenza dei discepoli che avevano lasciato tutto per seguire Gesù, questo giovane “rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni”. E Gesù conclude con un giudizio molto severo: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio” (Mc 10,17-23).
* Mi sembra che il modo migliore – sempre efficace ed attuale – di venire alle fede sia descritto nel racconto di Emmaus: dalla disillusione al ritorno agli inizi senza Gesú, dal camminare soli al camminare col Gesú non ancora riscoperto, dal raccontare tutto quello che era accaduto al lasciarsi raccontare tutto illuminato dalla Parola, dall’incontro fortuito all’invito a restare a casa, dalla spiegazione biblica alla dimostrazione eucaristica, dall’incontro con Gesú vivo al vivere riscoprendo la comunità.
Nella tradizione biblica la figura prototipo di credente è stata sempre quella di Abramo, che a ragione è chiamato “padre della fede” o “padre dei credenti”, innanzitutto perché con lui inizia la storia della salvezza e perché egli incarna l’apertura più umana al disegno di Dio, che vuole salvare l’Uomo ma vuole farlo contando sulla collaborazione di uomini e donne. Ad Abramo si chiede di tagliare con il proprio passato, lasciare patria, familiari e beni, e lasciarsi guidare dalla promessa di Dio (cf Gen 12,1-9), e, quando avrà finalmente un figlio, Isacco, gli si domanderà anche di sacrificare quel figlio, che era il suo futuro (cf Gen 22,1-19). A volte Dio sembra chiedere troppo, ma in fondo non ci domanda altro che di liberarci da tutto quanto non sia Dio, sì da poter vivere la vita con tutte le sue vicende, gioie e tristezze, soddisfazioni e frustrazioni, speranze ed angosce, come si vedessimo l’Invisibile.
Insieme ad Abramo, dobbiamo anche parlare di Maria come modello di credente. Così appare, sin dal primo momento nel vangelo di Luca, che nel racconto dell’Annunciazione la fa vedere aperta in forma incondizionata alla volontà di Dio, anche se questa non coincideva con il suo progetto personale e anche se non capiva tutto (cf Lc 1, 26-38; 2,19.50.51). Stando alla testimonianza dello stesso Gesù, la grandezza di sua madre è quella di aver ascoltato la Parola di Dio e averla custodita con amore (cf Lc 11,28). Ecco la sua vera maternità! Questa visione di Maria come modello di fede e madre di credenti appare anche nel Vangelo di Giovanni, che la nomina solo due volte, e come “donna”, all’inizio nelle nozze di Cana (Gv 2,1-11), suscitando con la propria fede nel Figlio la fede dei discepoli, e alla fine ai piedi della croce (Gv 19,25-27), quando viene affidato alla sua “scuola” il discepolo amato e a questi viene consegnata Lei come madre. La grandezza di Maria è dunque la sua fede e in questo ci viene offerta come modello da imitare e come madre da accogliere.
Tuttavia l’iniziatore e consumatore della nostra fede, come dice benissimo la Lettera agli Ebrei dopo aver fatto l’elogio dei grandi credenti della storia, è Gesù Cristo, che imparò a vivere da Figlio non cercando altro che la Volontà del Padre sino alla morte di croce. Ed il Padre rispose alla sua fedeltà filiale risuscitandolo dai morti e rendendolo Cristo e Signore (cf Eb 12,1-2; Fil 2.6-11).
D. Ci sono sempre state delle vie privilegiate per accedere alla fede, esperienze particolarmente significative che mettono in moto, sollecitano, approfondiscono, interiorizzano personalmente i processi del venire alla fede. I vescovi del Québec, in un prezioso documento, parlano di cinque vie: la via della vita dolce e amara, del servizio reso, della parola condivisa, della preghiera interiore, del pane spezzato.
Quali sono, secondo Lei, quelle particolarmente illuminanti nella Sacra Scrittura?
R. Penso che nella Sacra Scrittura la via privilegiata per venire alla fede sia l’incontro personale con Dio, per la semplice ragione che – come diceva un grande teologo – “l’unica cosa degna di fede è l’Amore”. E la fede è prima di tutto l’esperienza dell’uomo che incontra Dio e trova risposta ai suoi grandi interrogativi. Tale è stata l’esperienza personale dei grandi credenti, uomini e donne, come Abramo, Mosè – il quale ha dovuto soffrire un grosso fallimento alle proprie attese ed iniziative di liberazione prima di trovare Dio e tornare al suo popolo –; così, per Samuele, Davide, Elia, Maria, Giuseppe, Pietro, Paolo. Tutti quanti si sono sentiti avvolti dall’amore tenero di Dio e coinvolti nel suo disegno di salvezza, e dimentichi di tutto si sono protesi in avanti, non perché capissero tutto, anzi senza capire affatto, ma afferrati da Dio e con una missione da svolgere.
Certo ci sono altri incontri, in circostanze diverse, che possono essere anche delle vie per venire alla fede. Si pensi ad esempio alla partecipazione dei discepoli alle nozze di Cana, dove la fede di Maria è causa della loro fede: “Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in Lui” (Gv 2,11). O all’incontro di Gesù con la Samaritana, che provoca la sua confessione di fede e la conversione dei samaritani dietro la testimonianza della donna: “Quando i samaritani giunsero da Lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e dicevano alla donna: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (cf Gv 4, 41-42). O al dialogo di Marta con Gesù dopo la morte di Lazzaro in cui Marta arriva ad una delle confessioni di fede più perfette: “Sì, o Signore, io so che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo” (Gv 11,27). O al caso del centurione, la cui figlia morta e risuscitata da Gesù porta alla confessione di fede del centurione e di tutta la sua casa (cf Gv 4,1-4).
Una scena particolarmente illuminante – come già accennavo – è il cammino di fede dei due discepoli di Emmaus, disincantati dalla non realizzazione delle loro speranze, distrutti per la morte in croce di Gesù, e che ritrovano la fede mentre incontrano un pellegrino che fa con loro il cammino, illumina la loro mente e riscalda il loro cuore con l’interpretazione della Scrittura, e si fa riconoscere da loro nella “frazione del pane” (cf Lc 24, 13-35). In questo rinomato brano, tanto bello dal punto di vista letterario, ma soprattutto tanto ricco sotto il profilo catechetico, abbiamo gli elementi fondamentali della esperienza di fede: la Parola che illumina e riscalda, il Sacramento che nutre e rinsalda, la Testimonianza che ci rende evangelizzatori, la Comunità che nasce dalla fede comune.
D. E quali nella sua esperienza educativa le più significative?
R. Io ho cercato sempre di parlare ai ragazzi e ai salesiani molto esperienzialmente, a partire da quanto ho vissuto fin dal momento in cui mia mamma, due giorni prima di morire, mi confessò che aveva chiesto un figlio prete e io le risposi dicendo che io era il frutto della sua preghiera. Allora avevo 11 anni. Successivamente nella mia vita sono stati decisivi innanzitutto il lavoro con i giovani, l’esercizio del ministero sacerdotale, lo studio e l’insegnamento della Sacra Scrittura, l’anno trascorso nella Terra Santa, il bellissimo mestiere di formatore dei futuri preti salesiani, la presa di coscienza della povertà nel mondo.
Parlando ai ragazzi mi piace parlare di Gesù, di quello che significa nella mia vita, di quello che sarebbe se Lui mi venisse a mancare. Penso che ad essi faccia impressione la parola ma soprattutto la testimonianza di gioia, d’impegno.
L’identikit del credente
D. Il venire alla fede è un percorso che apre a un’esperienza, con tratti significativi e peculiari che definiscono il credente, il cristiano. Può tracciare un identikit del credente come emerge dal confronto col Vangelo e con la figura di Gesù?
R. A me affascina molto l’esperienza di San Paolo, anche perché è l’unico che parla biograficamente, in forma testimoniale. Sentirlo raccontare che cosa era prima dell’incontro con Cristo, che egli perseguitava accanitamente nei suoi seguaci, e che cosa è stato dopo, fa vedere i criteri di verifica di ogni autentica esperienza cristiana (cf Gal 1,13-17). Sovente ci illudiamo di aver avuto una esperienza di Dio perché ci siamo sentiti commossi, ma dopo, dietro quel sentimento psicologico religioso, non c’è stato nessun cambiamento di vita. Sentire Paolo, come si esprime nella lettera ai Filippesi, che tutto quanto era per lui prezioso lo reputa “una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose (quelle che umanamente potrebbero essere la fonte e il fondamento della sua fierezza) e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo” e prendere parte alla sua risurrezione (cf Fil 3,8-10). Sentire Paolo che non si lascia condizionare da nessuno e difende con coraggio, senza cedere a compromessi, “la verità del Vangelo” (Gal 2,5.14). Sentire Paolo che confessa che per lui “il vivere è Cristo” (Fil 1,21), sì che è “stato crocifisso con Cristo” e non è più lui che vive ma Cristo che vive in lui: “Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,19-20). Sentire Paolo che non ha voluto altra scienza “se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor 2,2), e che ha dei criteri di verifica per rendere palese e credibile il suo amore alla Chiesa come nessun altro apostolo può vantarsene (2Cor 11,18-30). Sentire infine Paolo che è fiero di portare nel proprio corpo le stigmate di Cristo per cui il mondo è crocifisso per lui e lui per il mondo (Gal 6,14-17).
Ecco i tratti che definiscono l’identikit del vero credente!!!
D. Il giovane è chiamato a essere cristiano, restando giovane in questa società. Quale l’identikit del giovane credente oggi, a confronto con i problemi e le sfide del suo esistere oggi, dunque della sua vita personale e sociale?
R. Indico di seguito alcuni tratti che ritengo essenziali e significativi. Tutti avrebbero bisogno di maggiore esplicitazione.
Il giovane credente:
- è una persona che vive la vita come vocazione, come realizzazione di un progetto che dà senso e unità a tutte la diversità di azioni e preoccupazioni; una persona che vive la vita come risposta di amore all’amore di Dio, capace di assumerla come un dono, sviluppare i suoi aspetti migliori con gratitudine e viverla con gioia;
- è una persona di speranza, che sa vedere sempre il positivo, anche se piccolo e imperfetto, che sa rallegrarsi per i piccoli passi, che sa credere nel futuro e impegnarsi per esso, perché crede che la forza della risurrezione è presente e agisce nella vita quotidiana delle persone e della storia;
- è una persona interiore, capace di fare silenzio, di ascoltare la voce di Dio nella sua vita quotidiana, alla luce della Parola; di sviluppare un rapporto di amicizia con Gesù attraverso i sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione e mediante l’accoglienza e il servizio dei più poveri e dei più piccoli;
- è una persona di comunione, di dialogo, di accoglienza e di collaborazione, capace di creare amicizia e comunità attorno a lui;
- è una persona che vive l’impegno quotidiano dello studio, del lavoro, della professione, della vita di famiglia, con fedeltà, con competenza, come risposta d’amore al Signore e servizio agli altri;
- è una persona che sente e partecipa delle grandi aspirazioni e prospettive dell’umanità e della Chiesa: la pace, la giustizia, la difesa del creato, l’evangelizzazione e la costruzione di una civiltà dell’amore, attraverso l’impegno nel concreto della vita quotidiana e tra i propri compagni.
D. Uno dei temi o inviti ai giovani che oggi sovente ricorre è quello della santità. Anche Lei in una sua strenna lo ha indicato come meta per i giovani oggi, d’altra parte sulla scia del papa nella Novo Millennio Ineunte. Non pensa che il linguaggio sia un pochino... antiquato, che allontani più che sollecitare, che sia per una élite e non per tutti, che i ragazzi poveri (in ricerca, o che vivono nel loro quotidiano fatto di altre cose) lo sentano non solo fuori della loro portata ma anche fuori del loro orizzonte e dunque inutile?
R. Una delle povertà del nostro tempo è la reticenza e il sospetto davanti agli ideali; ci accontentiamo e ci affidiamo soltanto a progetti a nostra misura, di piccola prospettiva; pensiamo soltanto ad una navigazione di ordinario cabotaggio, escludendo a priori i sogni di nuove rotte planetarie. Presentiamo ai giovani come ideali di vita le piccole mete del quotidiano: avere un buon lavoro, denaro, una famiglia, ecc. Ma i giovani hanno bisogno di grandi orizzonti, capaci di risvegliare e orientare il dinamismo delle loro vite. In modo particolare i giovani più poveri, che vivono e soffrono nel quotidiano tante limitazioni e difficoltà per realizzare la loro crescita umana, hanno bisogno di credere e affidarsi a possibilità di vita piena alla loro portata. Dobbiamo aiutare i giovani a sognare, a concepire grandi ideali, capaci di ispirare e motivare il loro sforzo per superare la strettoia del quotidiano e credere nelle possibilità inedite in loro presenti.
Il linguaggio della santità usato nella catechesi, nella pastorale e nella predicazione sovente è caratterizzato da una visione antropologica e teologica poco integrale, moralista, talvolta narcisista (la ricerca dell’auto-perfezione), individualista, spiritualista e dualista. Ma questa visione non corrisponde al concetto evangelico di santità. Santità, secondo il Nuovo Testamento, è seguire ed imitare Gesù con tutto il cuore e con tutta la vita, lasciarsi condurre dallo Spirito Santo da figli, amare come siamo amati da Dio, vivere secondo la grazia del nostro battesimo. La santità cristiana è un dono, prima di essere frutto del nostro sforzo, è lasciarsi amare da Gesù, affidarsi a Lui e seguirlo con tutta la vita e con tutto il cuore. Allora la santità non si misura per lo sforzo di perfezione morale, ma per la grandezza del cuore che ama e si dona totalmente per amore.
Soltanto così si può superare una concezione della santità per una élite di privilegiati, che esclude quasi per principio i più poveri o lontani. Ritengo che pensare questo sia un gran peccato contro il cuore del Vangelo. Gesù stesso diceva che il Regno di Dio è dei poveri e dei semplici; Paolo nella sua lettera ai Corinzi ci ripete che Dio ha scelto “ciò che è stoltezza del mondo… debolezza del mondo… ignobile nel mondo…”(cf 1Cor 1, 26ss). Gesù affermava di essere venuto non per i sani, ma per i peccatori, e che i poveri e i peccatori sono i primi destinatari dell’amore di Dio… Come possiamo pensare che la santità non sia una proposta per loro, che la santità sia soltanto per quelli che hanno già superato certe tappe di sviluppo umano?
Evidentemente, credere questo ci impegna, come fece Don Bosco, a cercare un cammino educativo e pedagogico che apra con efficacia questi giovani all’incontro con Gesù, che li incoraggi a darsi con tutto il cuore, che li accompagni nello sviluppo delle proprie qualità e risorse: un cammino di vita cristiana adatto a loro, sempre verso la santità.
L’appartenenza alla Chiesa
D. Vi sono strumenti e luoghi dove è possibile attingere stimoli, suggerimenti, esperienze per apprendere a vivere da giovane cristiano oggi?
Appartenere alla Chiesa oggi può risultare particolarmente stretto o problematico per il giovane, che vede il mondo come suo orizzonte, e che vive un orientamento portato alla tolleranza, all’accettazione di un pluralismo religioso. È ancora significativa e in quali termini l’appartenenza alla Chiesa?
R. Nessuno oggi, soprattutto nessun giovane, può vivere come cristiano da solo, ma integrato in un gruppo o in una comunità, nella quale possa condividere la propria fede, confrontare i propri dubbi e difficoltà, appoggiare i propri sforzi, sostenere il lungo cammino di maturazione.
I giovani in cammino di fede cercano gruppi e comunità con una chiara identità cristiana, nei quali si sentano stimolati e motivati a vivere e approfondire la propria fede; ma, allo stesso tempo, gruppi e comunità aperte, dialoganti, che assumano gli interrogativi, che sostengano la ricerca, capaci di accettare la diversità di ritmi e approcci.
Queste qualità sovente non le trovano nelle comunità cristiane che incarnano la Chiesa nei propri ambienti (parrocchie); si sentono delusi ed estraniati davanti al formalismo, la burocratizzazione e la lontananza delle comunità cristiane adulte; scandalizzati per la debolezza, la paura e il silenzio dei pastori. Ma quando trovano comunità aperte, accoglienti, disponibili al dialogo e al confronto, quando trovano pastori che si mettono al loro livello, disponibili al dialogo e alla ricerca condivisa quando fanno esperienza di apertura all’universalità e di un’espressione pubblica e chiara della fede, come possono essere le Giornate Mondiali o altri incontri internazionali…, allora si sentono stimolati e incoraggiati a confessare e vivere la fede e a collaborare alla costruzione di una tale comunità.
Una sfida importante per la Pastorale Giovanile è di trovare vie di sintonia tra i giovani e la Chiesa, tra la cultura giovanile e la ricchezza della tradizione della Chiesa di Gesù; trovare cammini che conducano ad una convergenza e approccio sempre più cordiale e fecondo. Non è facile rispondere a questa sfida; c’è bisogno di una pedagogia che aiuti i giovani ad aprire la loro soggettività alle ricchezze della tradizione, e che aiuti le comunità cristiane adulte a capire e dialogare con la cultura giovanile, cercando con loro di esprimere la fede in modo significativo.
Nel mio messaggio ai giovani del Movimento Giovanile Salesiano dello scorso 31 gennaio presentavo alcuni passi di questo cammino pedagogico: innanzitutto vivere nelle comunità e gruppi giovanili la passione per Dio che raduna la Chiesa in Cristo per mezzo dello Spirito, la fraternità tra tutti i battezzati, la spinta missionaria ed evangelizzatrice, la volontà di servizio alla società, la priorità verso i più poveri. Seguendo queste grandi opzioni, si supera la tentazione di piegarsi senza discernimento evangelico ai criteri, valori, atteggiamenti e comportamenti indotti da una società sommamente potente che, invece di essere sedotta dal Vangelo, tende ad erigersi in un idolo seducente per i credenti; si vince la tentazione della paura, che sovente ci rinchiude tra i muri della Chiesa con un atteggiamento di sfiducia e persino rivendicativo davanti alla società, la tentazione dell’individualismo e della passività o quella dell’affannosa ricerca di onori, dell’inclinazione al denaro e della paura di essere emarginati con gli emarginati.
Si devono anche curare i piccoli segni della Chiesa vissuti nella quotidianità: il segno dell’accoglienza cordiale ed evangelizzatrice, che manifesti un atteggiamento di apertura gratuita, di ascolto incondizionato, di volontà sincera di servizio; il segno della qualità umana e cristiana dei piccoli servizi di assistenza, di animazione, di volontariato; il segno di celebrazioni semplici, gioiose, partecipate, in sintonia con i problemi e le situazioni della società; il segno dell’apertura sincera e creativa ai compagni di lavoro, di università, di quartiere, condividendo le loro preoccupazioni, attese, speranze e difficoltà, con un atteggiamento di fiducia e di chiara fedeltà ai valori delle beatitudini.
Occorre condividere, giovani e adulti, una conoscenza sempre migliore della Chiesa, superando un’immagine parziale di essa, trasmessa dall’ambiente o da una catechesi e formazione cristiana superficiale e occasionale; e allo stesso tempo condividere insieme la vita concreta delle realtà ecclesiali: parrocchie, comunità, movimenti, associazioni…
D. Esistono modelli significativi oggi a cui il giovane può sentirsi ispirato nel suo cammino di fede... senza dover ricorrere a personaggi di un lontano passato?
R. Certamente! Disponiamo di un patrimonio molto ricco e variegato: partendo dalle figure più note, come quelle di Domenico Savio, Laura Vicuña, Zeffirino Namuncurá, passando per la categoria dei martiri come i cinque giovani polacchi, e giungendo alle figure con aureola come la beata Teresa Bracco, il beato Piergiorgio Frassati e il beato Alberto Marvelli, o senza aureola ma ugualmente esemplari, come i vari Salvo D’Acquisto, Giacomo Maffei, Sean Devereux, Sigmund Ocasion, Fernando Calò, Ninni Di Leo, Xavier Ribas, Paola Adamo, Flores Roderick, Domenico Zamberletti, Bartolomé Blanco, Petras Pérkumas, Willi De Koster, Cruz Atempa, Renato Scalandri …
Davanti a tanti giovani cresciuti negli ambienti salesiani delle diverse parti del mondo e che nella loro vita ordinaria hanno vissuto il Vangelo in una forma significativa ed esemplare, il vocabolo 'santità' non deve dunque intimidire, quasi volesse dire vivere un eroismo impossibile, proprio solo di pochi.
La mediazione educativa
D. L’educazione è la via della mediazione, della fiducia nell’uomo che è nel giovane. Di fronte a modelli più di impatto diretto col fatto cristiano, con i testimoni forti, con l’annuncio sic et simpliciter, essa ha ancora un senso per l’educazione religiosa? Insomma, la fede passa anche e ancora attraverso le mediazioni educative (ambienti, persone, esperienze di vita, apprendimento e sperimentazione di atteggiamenti “umani” ) o è tempo di saltarle e andare direttamente al dunque?
R. Se crediamo veramente nell’incarnazione sappiamo che in Gesù Cristo umanità e divinità si uniscono senza confondersi; tutto in Gesù è umano e pertanto soggetto alle leggi della crescita umana che guida e promuove l’educazione. Anche la fede cristiana, dono di Dio e frutto della sua grazia, s’incarna in una persona secondo le leggi dello sviluppo umano. Non possiamo, dunque, prescindere dall’educativo nel cammino di crescita della fede, anche se possiamo adoperarlo in forme diverse. Alcuni modelli pastorali e catechetici partono dall’annuncio diretto ed esplicito del fatto cristiano per aiutare dopo alla sua assimilazione graduale e alla trasformazione della mentalità e della vita; altri partono dal processo educativo che sviluppa nei giovani le domande e le attese di trascendenza, che lo aprono e lo preparano a ricevere l’annuncio del Vangelo come una risposta che supera le stesse domande e attese della persona. I due modelli devono essere complementari, perché ognuno ha i suoi vantaggi e anche i suoi pericoli.
Per i giovani d’oggi, che soffrono molte volte di una certa povertà educativa, risulta molto importante questa via della mediazione educativa (persone, esperienze di vita, sviluppo di atteggiamenti umani fondamentali, ecc.), senza la quale la fede può restare senza fondamenti, appoggiata nell’affettivo e soggettivo e non nella propria identità profonda.
È vero che esiste il pericolo di restare sempre a questi primi passi, senza arrivare al dunque, all’annuncio esplicito; per questo dobbiamo arricchire questo modello educativo con la convinzione del valore profondamente umanizzante della stessa fede cristiana e dunque realizzare l’annuncio esplicito, senza attendere una situazione ideale che non arriva mai. Un annuncio diretto e chiaro, fatto con saggezza e pedagogia, apre prospettive e orizzonti capaci di sviluppare la persona anche nei suoi aspetti umani e psicologici. La fede obbliga la persona a uscire da se stessa, a fidarsi dell’Altro, a pensarsi in rapporto con Lui, superando la tendenza al narcisismo, oggi tanto comune tra i giovani. Per questo credo che sono due elementi da combinare saggiamente secondo i soggetti e le circostanze.
Il sogno
D. Come successore di un “sognatore”, può esprimere un sogno, una scommessa, una profezia sui giovani d’oggi?
R. Questo mi piace fare, sognare! Sognare con la stessa passione apostolica di Don Bosco, che voleva felici i giovani in questa vita e per sempre. Nella sua prima intervista, rilasciata a Radio Vaticana pochi giorni prima del suo viaggio a Colonia per la XX Giornata Mondiale della Gioventù, il Papa Benedetto XVI diceva:
«Vorrei far capire loro (i giovani) che è bello essere cristiani! L’idea genericamente diffusa è che i cristiani debbano osservare un’immensità di comandamenti, divieti, principi e simili e che quindi il cristianesimo sia qualcosa di faticoso e oppressivo da vivere e che si è più liberi senza tutti questi fardelli. Io invece vorrei mettere in chiaro che essere sostenuti da un grande Amore e da una rivelazione non è un fardello, ma sono ali e che è bello essere cristiani. Questa esperienza ci dona l’ampiezza, ci dona però soprattutto la comunità, il fatto cioè che come cristiani non siamo mai soli: in primo luogo c’è Dio, che è sempre con noi; e poi noi, tra di noi, formiamo sempre una grande comunità, una comunità in cammino, che ha un progetto per il futuro: tutto questo fa sì che viviamo una vita che vale la pena di vivere. La gioia di essere cristiano: è bello ed è giusto, anche, credere!».
Questo era quanto Don Bosco aveva già scritto nel Giovane Provveduto quando diceva ai suoi ragazzi che c’erano due pregiudizi da cui li voleva liberare: pensare che servire Dio è una cosa noiosa, e che la giovinezza si deve sfruttare godendo, lasciando per domani la dedizione a Dio. Il mio sogno è proprio questo, vedere i giovani che incontrano Cristo e vi trovano il senso e la gioia della vita, la risposta alle loro attese e ideali, il loro ruolo nella Chiesa e nel mondo. Il mio sogno è appunto di vedere i giovani come risorsa del presente, cui si devono offrire tutte le opportunità per lo sviluppo dei loro talenti e delle loro energie di bene, in modo da ringiovanire la società e la Chiesa.
A me fa pena lo spettacolo di folle di giovani che girovagano senza bussola né traguardi, preda di adulti che li vorrebbero semplicemente consumatori di prodotti, anche religiosi nel cosiddetto “mercato delle religioni”, consumatori di sensazioni ed esperienze, ma senza mai maturare e raggiungere l’autotrascendenza negli altri e in Dio.
Don Bosco però non era soltanto un grande sognatore. Era ugualmente uno straordinario realizzatore dei suoi sogni, come sta a dimostrare tutto ciò che mise in piedi per venire incontro ai bisogni dei giovani. Perciò il mio sogno va accompagnato dall’impegno mio, della Congregazione e di tutta la Famiglia Salesiana per diventare sempre più chiaramente ed esplicitamente missionari evangelizzatori dei giovani, guide intelligenti e capaci per accompagnarli nella ricerca di progetti di vita.
Invito tutti voi a scommettere sui giovani, sulla loro educazione, sul loro protagonismo, e vi incoraggio a non restare sempre alle soglie dell’evangelizzazione, ma ad essere propositivi, ad annunciare loro la Buona Novella, a portarli ad un incontro col Cristo, a dire e dare loro Gesù.