Il tema che mi è stato assegnato è quello del Direttore come animatore e formatore della vocazione dei confratelli e come promotore dei progetti di vita dei giovani, accompagnandoli nella ricerca di senso e di traguardi.
Dal punto di vista prettamente biblico, l’uomo è vocazione, e tutta la sua vita altro non è che un appello di Dio che parla, o meglio una carta di indicatori di marcia, e una decisione dell’uomo che risponde all’invito, positivamente o negativamente, accogliendo o rifiutando gli stimoli.
Dal punto di vista filosofico, almeno stando al pensiero di Xabier Zubiri, l’uomo è missione; più che un problema è un mistero che si risolve alla luce dell’Uomo–Dio, Cristo Gesù.
Ma scoprire la vita come vocazione e mantenere vocazionalmente motivati è compito di coloro che hanno la missione di essere guide dei confratelli e dei giovani. Qui però io non pretendo affrontare il tema da un punto di vista concettuale, anche perché questo vi è noto, ma a partire da quanto sta cercando di portare avanti la Congregazione , specialmente alla luce del CG25, in questa area del mondo che è l’Europa, sempre più chiusa alla dimensione trascendente, più indifferente alla proposta religiosa, più restia a voler modellare la vita sul segno della croce.
Tutte e tre le Regioni dell’Europa hanno organizzato parecchi incontri sul tema e hanno tracciato delle linee programmatiche. Io vi presento alcuni suggerimenti che, a mio avviso, hanno una speciale importanza.
Identità e identificazione
A mo’ di premessa devo dire, anche se sembra assai ovvio, che non si può motivare nessuno se chi lo deve fare non è personalmente motivato. E questo per ragioni di onestà, di entusiasmo e di credibilità.
Da questo punto di vista, il Direttore è – o dovrebbe essere – una persona con identità vocazionale e identificata istituzionalmente, fiera della propria vocazione sì da non poterla tacere, e con volontà di coerenza nel modo di parlare di quello che crede, di vivere quello che professa e di annunciare quello che vive. La sua autorità più che giuridica deve essere morale. O meglio la sua autorità morale deve essere il fondamento della sua autorità giuridica.
Questo spiega il perché Don Bosco dava una grandissima importanza al Direttore di una comunità salesiana: dovrebbe essere una incarnazione del carisma salesiano, un’ interpretazione esistenziale di quanto significa essere SDB.
Niente infatti più sfavorevole che un doppio riferimento: da una parte il testo costituzionale che ci presenta il progetto di vita, e dall’altra il “modus vivendi” del capo di un corpo sociale. Perché allora si perde tutta l’autorità, si scivola nello smarrimento, e si apre la strada al riconoscimento ufficiale di qualsiasi condotta e atteggiamento.
Certo, c’è sempre una distanza tra l’ideale che si professa e la realtà della nostra vita, ma non è questa la via autorevole per raggiungere la felicità, la pienezza di vita nell’amore, la santità, che è la nostra vocazione. Le nostre mancanze ci lasciano vedere quanta strada c’è ancora da fare.
Ma passiamo agli elementi concreti del tema, del come essere promotori vocazionali.
Rafforzare nei confratelli e nelle comunità il dinamismo vocazionale che motivi e sostenga lo sforzo di rinnovamento che richiede una presenza significativa nelle nuove situazioni sociali ed ecclesiali
Vivere oggi una vita salesiana significativa richiede dalle comunità e dai confratelli molta energia e forza interiore; questa nasce soltanto da una profonda e personale esperienza di Dio che ci chiama e ci invia ai giovani come segni del suo amore.
Per questo il CG25 ci invitava a ricuperare il primato della vita spirituale e il consolidamento e approfondimento della vita fraterna in comunità. Senza irrobustire questi aspetti della vita personale e comunitaria sarà molto difficile motivare e sostenere lo sforzo di rinnovamento che oggi richiede la vita e la missione salesiana.
Il CG25 ci ha indicato alcune vie molto concrete per questo: il progetto personale di vita (CG25,14), il progetto di vita comunitario (CG 25, 5c e 74), la pratica della “lectio divina” e la meditazione quotidiana (CG25,31), momenti di comunicazione, di programmazione e di verifica in comunità (CG25,15b) ecc.
Aiutare a vivere con qualità e profondità questi elementi è la forma migliore per rafforzare le motivazioni e le energie per il rinnovamento.
Assicurare l’identità carismatica e la significatività delle opere e presenze salesiane
Fare delle nostre istituzioni e opere vere presenze salesiane, nelle quali si viva e si sviluppi l’integralità della missione e del carisma salesiano.
La missione salesiana non consiste fondamentalmente nel realizzare servizi educativi e pastorali per i giovani attraverso la gestione e amministrazione di opere educative, ma nel creare “presenze” , cioè, “reti di relazioni, insieme di progetti e di processi, attivati dalla carità pastorale e realizzati con i giovani, i laici e la Famiglia Salesiana ” (Cf. CG25, 42). Detto con altre parole, Don Bosco voleva creare una famiglia per i giovani senza famiglia.
In questa “famiglia” la presenza della comunità religiosa salesiana è fondamentale : “Don Bosco ha voluto persone consacrate al centro della sua opera, orientata alla salvezza dei giovani e alla loro santità. Voleva i suoi religiosi come punto di riferimento preciso del suo carisma: con la loro dedizione totale essi avrebbero dato solidità e slancio apostolico per la continuità e per l’espansione mondiale della missione” (CG24, 150). Senza la presenza di una comunità religiosa salesiana, dunque, non può svilupparsi integralmente il carisma e la missione salesiana.
La pedagogia maturata da Don Bosco e trasmessa ai suoi primi salesiani nasce dalla carità pastorale. Non è soltanto un darsi da fare per i giovani, ma tutto l’impegno educativo nasce e si alimenta dal desiderio di condurli alla persona del Signore risorto, affinché, scoprendo in Lui e nel suo Vangelo il senso supremo della propria esistenza, crescano come persone nuove (Cfr. Cost. 34). Don Vecchi presentava il compito della comunità salesiana come il “dare all’azione educativa della CEP il dinamismo missionario del Da mihi animas” (ACG 363, pag. 35); e lo stesso CG25 afferma: “La comunità salesiana vive la sua vocazione ad essere punto di riferimento per l’identità carismatica del nucleo animatore della CEP” (80).
Questo comporta:
centrare gli sforzi della comunità salesiana nella formazione spirituale e salesiana dei collaboratori laici e animatori giovani e nel loro accompagnamento personale ed educativo;
impostare e gestire l’opera salesiana come comunità di persone che condividono il progetto educativo-pastorale con e per i giovani;
promuovere lo sviluppo e il coinvolgimento della Famiglia Salesiana così come dei numerosissimi “Amici di Don Bosco” e collaboratori nella realizzazione della missione salesiana nel territorio e nella Chiesa locale.
In questo compito specifico tutti i confratelli della comunità possono partecipare attivamente, anche gli anziani che non possono già assumere compiti di responsabilità diretta nell’azione educativo-pastorale. Per questo la comunità deve rendere visibile la sua vita tra i giovani, facilitare l’accoglienza, la comunicazione e la testimonianza; deve condividere il progetto educativo-pastorale tra tutti i confratelli, facilitare momenti di informazione e comunicazione sul suo sviluppo, offrire a tutti i confratelli forme adeguate alla loro situazione per condividere la vita e la missione comunitaria.
Una rinnovata pastorale giovanile con proposte forti di evangelizzazione e con un chiaro orientamento vocazionale
La mancanza di vocazioni è una difficoltà presentata dalle tre Regioni e per tanto una delle sfide importanti da affrontare con decisione nei prossimi anni.
Il CG25 proponeva negli orientamenti operativi: “La comunità salesiana promuove la scelta vocazionale del giovane attraverso la sua testimonianza di vita; anima la comunità educativa pastorale perché diventi luogo di crescita vocazionale del giovane; attua una metodologia dell’accompagnamento e della proposta vocazionale” (CG25, 48).
Tre, credo, sono i fronti sui quali conviene concentrare gli sforzi delle comunità salesiana in tutte le Ispettorie di Europa:
comunità salesiane che vivano con profondità e con convinzione la propria vocazione, testimoniando uno stile di vita accogliente, gioioso e familiare; e in modo particolare scegliere alcune comunità disposte a condividere con i giovani alcuni momenti della vita: la festa, l’amicizia, la mensa, la preghiera, l’impegno educativo e pastorale, ecc.
comunità educativo pastorali nelle quali si offra ai giovani testimoni adulti di vocazione umana e cristiana realizzata, un ambiente educativo che apre i giovani al rispetto e al servizio generoso agli altri, in modo speciale i più poveri, una proposta di itinerario di fede con esperienze adeguate di spiritualità e di volontariato e servizio missionario, un’adeguata pastorale familiare, in particolare per quei genitori che hanno figli impegnati nel cammino di fede e in situazione di discernimento vocazionale;
un piano ispettoriale di animazione vocazionale pienamente integrato nella pastorale giovanile ispettoriale, nel quale si promuova tra i giovani i gruppi e associazioni di formazione cristiana e di apostolato, la formazione e l’accompagnamento dei giovani animatori e volontari nel loro discernimento vocazionale, la proposta di gruppi specifici di ricerca vocazionale per fasce d’età, l’accompagnamento vocazionale dei giovani adulti, comunità proposta o altre forme concrete di esperienza comunitaria (volontariato, aspirantato) per maturare la possibile opzione vocazionale.
I centri salesiani di spiritualità , che si sono sviluppati in questi anni nelle diverse ispettorie, possono e devono essere una risorsa importante per la pastorale giovanile e l’animazione vocazionale delle ispettorie stesse.
Una cura speciale della formazione iniziale che sostenga i giovani confratelli nella maturazione e personalizzazione dei valori vocazionali salesiani
In questo campo la comunità salesiana ha un ruolo strategico fondamentale, soprattutto per queste ispettorie, nella formazione intellettuale dei giovani confratelli, nell’accompagnamento e orientamento degli altri differenti aspetti del processo formativo salesiano.
Alcune misure di governo che orientino in questa direzione:
Ne presento tre importanti:
concentrare sforzi e persone in presenze e progetti significativi soprattutto nell’impegno di evangelizzazione, nell’attenzione ai giovani a rischio e nella promozione di vocazioni di speciale impegno nella Chiesa e società;
dedicarsi in modo speciale all’animazione spirituale, educativa e salesiana delle persone e comunità, tanto salesiane come dei laici collaboratori;
assicurare nell’ispettoria una solida équipe di animazione che accompagni e collabori con l’Ispettore nell’animazione della formazione dei confratelli e comunità, della Pastorale giovanile.
Per concludere, l’arte di guidare la comunità2
A mo’ di conclusione ritengo importante per i nostri doveri di pastori leggere con voi l’ultima delle esortazioni della prima Lettera di San Pietro, l’esortazione, molto breve ma molto densa, di 5,1-4: «Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce».
Sono parole rivolte ai presbiteri, gli anziani, a tutti coloro che sono responsabili di comunità. Le rileggiamo cercando di rispondere a tre domande: chi fa l’esortazione?, a che cosa esorta?, che cosa promette?
«Con-presbitero»
Chi esorta è lo stesso Pietro che all’inizio della lettera si era definito apostolo, il suo titolo di gloria. Si mette tuttavia al livello dei presbiteri; è sym-presbýteros, anziano come loro, uno di loro, come a dire: le mie parole esprimono l’esperienza che ho vissuto, un’esperienza simile alla vostra, affinché vi aiutino nel vostro servizio.
Aggiunge due qualifiche.
«Testimone delle sofferenze di Cristo», il che significa che anche l’arte di essere responsabile di comunità, il modo di presiedere è generato in Pietro da una lunga familiarità con le sofferenze di Cristo, e che sempre da qui nasce la sua esortazione.
«Partecipe della gloria che deve manifestarsi». «Partecipe» (nel greco koinonós) è un termine forte: comunicante, in comunione. Ancora una volta Pietro appare uomo aperto alla speranza; vive infatti la responsabilità di altri, non guardando semplicemente al presente bensì tenendo viva l’attesa della manifestazione gloriosa di Cristo. Ci insegna così che ogni presbitero e ogni responsabile di comunità deve assumere come orizzonte quello eterno; in caso contrario resterà prigioniero dei problemi e delle ansie proprie della quotidianità. È un insegnamento per noi assai importante, dal momento che spesso ci lasciamo travolgere o schiacciare dalle responsabilità e non fissiamo lo sguardo sulla gloria di Dio che si rivelerà. “Un pezzo di cielo aggiusta tutto”, diceva don Bosco.
«Pascete il gregge»
L’esortazione fondamentale di Pietro è: « Pascete il gregge che vi è stato affidato», e la specificherà con tre caratteristiche.
La parola chiave è «pascete», siate pastori. È la stessa che era stata rivolta a lui dal Risorto sul lago di Tiberiade, quando, dopo la triplice interrogazione: «Mi ami tu?», Gesù gli aveva per tre volte ripetuto: «Pasci i miei agnelli. Pasci le mie pecorelle. Pasci le mie pecorelle» (Cf. Gv 21,15 ss). Pietro trasmette ai presbiteri il mandato che ha ricevuto.
Ed è pure la parola usata da Paolo nel discorso di Mileto agli anziani di Efeso:
«Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue» (At 20,28).
Notiamo che Gesù dice: «Pasci le mie pecorelle»; Paolo: «Pascete la Chiesa di Dio»; e Pietro: «Pascete il gregge di Dio che vi è affidato».
La Chiesa perciò è di Dio, il gregge è di Cristo. Risulta chiaro che lui è il vero pastore, il pastore supremo. Il gregge è suo e di nessun altro, è lui che lo possiede e lo conduce; noi siamo vicari, collaboratori, aiutanti, delegati.
È fondamentale, per conservare la pace del cuore e liberarci dall’ansietà, sapere che, pur sacrificandoci per il gregge, non ne siamo i responsabili ultimi. Siamo certamente responsabili davanti a Dio, ma ricordando che non potremo mai aver cura della nostra gente più di quanto ne abbia il Signore. È lui il padrone unico. Noi abbiamo il compito di pascere «sorvegliando» (epi-skopoûntes), come chi vede dall’alto e non si lascia condizionare dalle situazioni, perché vede e giudica l’insieme, senza affannarsi o preoccuparsi per i particolari, ma valutando tutto in un ambito generale più vasto.
Un grande filosofo francese, Jean Guitton, diceva di sé: «Je suis le spécialiste des ensembles». È un’affermazione paradossale, in quanto chi è specialista si cura dei particolari. Tuttavia il filosofo, e pure l’Ispettore, il Direttore, il responsabile di comunità deve essere uno specialista dell’insieme, per non rischiare di lasciarsi risucchiare dall’una o dall’altra faccenda.
Seguono le tre caratteristiche del pascere: «non per forza ma volentieri, secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle pecore a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge».
Prima caratteristica: «Non per forza», non dando l’impressione di portare un peso. Non mancano Direttori e anche Ispettori che vivono molto il loro ministero come fatica e quasi fanno sentire ai confratelli e a tutta la gente il rimprovero per il peso che devono portare. Sovente raccomando ai Direttori: guardate che la tonalità di una comunità dipende in gran misura dalla qualità umana e spirituale vostra. Se voi siete tristi, affaticati e di cattivo umore, i confratelli si accorgono immediatamente e non sanno in che modo aiutarvi. Se invece sorridete, siete contenti, vi seguono volentieri. E lo stesso vale per un Ispettore.
Dunque «non per forza», ma «volentieri», come ministero bello e gioioso. Se si vive il proprio servizio con un certo gusto, volentieri, tutto va meglio e, malgrado le fatiche, le stanchezze, le delusioni, si può distribuire gioia attorno a sé.
In proposito sant’Agostino, nel De catechizandis rudibus ha un’espressione assai efficace, là dove esorta il catechista a catechizzare con gioia: gaudens catechizet. E c’è un passo della lettera agli Ebrei che recita: «Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi, come chi ha da renderne conto; obbedite, perché facciano questo con gioia e non gemendo: ciò non sarebbe vantaggioso per voi» (13,17).
Prosegue Pietro: «secondo Dio». L’espressione, molto pregnante, probabilmente va interpretata: «secondo la volontà di Dio», secondo ciò che lui vuole. Chi è responsabile deve essere sempre conscio di non compiere la propria volontà, ma quella del Signore e quindi la vive con pace, serenità, tranquillità. È il Signore che lo guida e si rende in qualche maniera responsabile delle sue azioni.
Seconda caratteristica : «non per vile interesse». Dobbiamo essere liberi da ogni interesse, sia di beni e di denaro, come pure di prestigio. Cito a chiarimento due passi della Scrittura. Il primo si trova nel Discorso di Paolo a Mileto: «Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani» (At 20, 33 - 34).
Ha vissuto in povertà il suo ministero, ha provveduto lui stesso a ciò che avrebbe potuto legittimamente chiedere. Di fatto fin dall’antichità era uso provvedere ai bisogni dei responsabili di comunità, al loro sostentamento. Il rischio però di passare da questo al desiderio di guadagno è forte; è l’avarizia di chi cerca di trarre vantaggio dalla propria posizione e distrugge la fiducia nella gente.
Un altro esempio di disinteresse lo leggiamo nel discorso che Samuele rivolge al popolo al termine della sua missione: «“Io ho vissuto dalla mia giovinezza fino ad oggi sotto i vostri occhi. Eccomi, pronunciatevi a mio riguardo alla presenza del Signore e del suo consacrato. A chi ho portato via il bue? A chi ho portato via l’asino? Chi ho trattato con prepotenza? A chi ho fatto offesa? Da chi ho accettato un regalo per chiudere gli occhi a suo riguardo? Sono qui a restituire!”. Risposero: "Non ci hai trattato con prepotenza, né ci hai fatto offesa, né hai preso nulla da nessuno". Egli soggiunse loro: “È testimonio il Signore contro di voi ed è testimonio oggi il suo consacrato, che non trovate niente in mano mia?”. Risposero: “Sì, è testimonio”» (1 Sam 12, 2 - 5 ).
È decisiva la testimonianza di disinteresse. E i confratelli, i giovani, i collaboratori sono molto sensibili nel cogliere qualunque segnale di avarizia nel salesiano o nel Direttore.
All’espressione «non per vile interesse» si contrappone l’affermazione positiva: «ma di buon animo». «Di buon animo» significa quel senso di spontaneità, per cui non si calcola a chi tocca questo o quel servizio. È la buona volontà, la dedizione gratuita con la quale si svolge il ministero per amore di Dio e per amore del gregge.
Non si nega ovviamente che si possa ricevere il giusto compenso per il proprio sostentamento, però la gratuità è la caratteristica evangelica di fondo. Ed è appunto la proprietà del responsabile che si spende nel servizio alla gente, senza calcolare troppo gli orari e le prestazioni. È certamente giusto fissare un orario, avere una regolarità, c’è però differenza tra il darsi un orario e il ritirarsi in casa, facendo capire ai confratelli, ai giovani, alla gente che non vogliamo essere disturbati.
Sono convinto che il ministero nella Chiesa e nella Congregazione sta o cade con la gratuità, che è la risposta alla parola di Gesù: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10, 8).
Viene alla mente la lettera di un Vescovo svizzero che fu pubblicata sulla rivista ufficiale della sua diocesi: “Vedo con sofferenza il crescere della professionalità e il diminuire della gratuità. Cresce la professionalità perché gli assistenti laici tengono molto alla loro professione e anche al loro stipendio; diminuisce la gratuità in quanto sono sempre meno le persone che si mettono liberamente a disposizione”. E concludeva con saggezza: “colgo in questo un segno preoccupante per il futuro della Chiesa”.
Anche la terza caratteristica è psicologicamente incisiva: «non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge».
Se Pietro ha scritto queste parole 2000 anni fa significa che il difetto di spadroneggiare sulle persone affidate è molto antico. La tentazione dell’autorità è quella che porta a non rispettare la dignità degli altri, a non farne dei veri collaboratori capaci di assumere una parte di responsabilità. «Ma facendovi modelli del gregge»: l’autorità nella Chiesa è anzitutto l’autorità dell’esempio, come ci insegna Gesù: «Chiamati a sé i Dodici, disse: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”» (Mt 20,24-28).
E in una circostanza simile Gesù ha detto ancora: «Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22, 27).
È questo l’ideale per un Direttore, per un responsabile di comunità: dare l’esempio, fare per primi ciò che chiediamo agli altri; insegnare, comandare col nostro modo di vivere. Allora le nostre parole saranno credibili.
Ritengo utile sottolineare che esiste un pericolo contrario allo spadroneggiare: è il caso del prete, del responsabile che non comanda affatto, facendosi anzi guidare dalla gente. Eppure l’esperienza dimostra che i confratelli, i giovani, i collaboratori laici hanno bisogno di una guida, non autoritaria, non imperiosa, non autocratica. Hanno molto bisogno di riferirsi e anche di obbedire a persone che fanno crescere e danno fiducia di volere il vero bene, in modo da essere accompagnati soprattutto nelle scelte decisive della vita. E allora si fa disponibile ad ascoltare più di quanto non si pensi, pur se dobbiamo riconoscere che l’obbedienza è oggi qualcosa di estremamente difficile.
Il premio finale
Le caratteristiche del pascere hanno uno sbocco, un orizzonte di premio, altrimenti sarebbero un puro dover essere. Così Pietro conclude: «Quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce».
Guarda dunque alla parousia, all’apparire del pastore supremo, colui che è il responsabile di tutti; e quando apparirà riceveremo «la corona della gloria che non appassisce», cioè l’eredità di cui l’apostolo ha parlato fin dal primo capitolo della lettera: un’eredità che «non si corrompe, non si macchia e non marcisce, conservata nei cieli per voi» (1,4).
L’orizzonte del Direttore, del responsabile di comunità non è necessariamente la gratificazione umana, che può esserci o meno. È la gratificazione che viene da Dio, il solo giudice del cuore umano, che sa se abbiamo lavorato davvero di buon animo, non per vile interesse, con spirito di servizio, con spirito di umiltà. Non sono gli uomini che danno il giudizio su di noi, pur se spesso ci giudicano e ci criticano.
Conclusione
Ecco, cari confratelli, siamo invitati a pregare molto per noi e per tutti i confratelli e le persone che ci sono state affidate, affinché possiamo compiere il nostro dovere con gioia e pregando, ricordandoci di questa massima: quanto più grande è la responsabilità, tanto più abbiamo bisogno di silenzio contemplativo. Non si può vivere una responsabilità senza compensare l’attivismo pur necessario con lunghi tempi di silenzio, onde evitare di essere mangiati dalle urgenze. Nei tempi lunghi di silenzio e di preghiera il cuore ha la possibilità di riorientarsi, la nostra psicologia si riorganizza e riaffrontiamo con gioia e buona volontà le asprezze della vita quotidiana.
1 Cf. P. Chávez, in Notiziario INE, giugno-agosto 2005.
2 C. M. Martini , Il segreto della prima lettera di Pietro , Piemme, Casale Monferrato 2005, 158 – 167