DIREZIONE GENERALE OPERE DON BOSCO
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Il Rettor Maggiore
Conferimento della cittadinanza onoraria della Città di Torino
Torino, 18 Dicembre 2009
INDIRIZZO DI RINGRAZIAMENTO
Eccellentissimo Signor Sindaco
Presidente del Consiglio comunale
Consiglieri tutti,
Innanzitutto vorrei ringraziare, a nome mio personale ma anche a nome di tutta la Congregazione salesiana, del dono della Cittadinanza Onoraria che mi è appena stata conferita. So molto bene che è un gesto di riconoscenza a don Bosco, di cui sono indegnamente nono successore, e alla Congregazione Salesiana che, nata qui 150 anni or sono, è diventata una famiglia spirituale apostolica tra le più estese nel mondo.
Vorrei aggiungere che, appunto per la sua presenza in più di 130 paesi del mondo, Torino, Valdocco, come altri siti del Piemonte, sono conosciuti e amati ovunque. Don Bosco è il dono più prezioso che l’Italia, e più concretamente il Piemonte, abbia donato ai giovani di tutto il mondo. E noi siamo diventati “ambasciatori” di Torino.
Don Bosco e la città di Torino
È noto a tutti quanto don Bosco fosse rispettoso verso le autorità civili. Senza mai perdersi in atteggiamenti servili, mostrava sincera stima e fiducia, non mancando di chiedere la comprensione per la sua opera, e anche il possibile aiuto.
È bello ricordare che il rapporto tra la Famiglia Salesiana e il municipio di Torino inizia con l’inizio dell’opera di don Bosco. La lettera più antica inviata dal nostro fondatore al Sindaco di Torino, chiamato allora Vicario di città, è del 13 marzo del 1846. In essa don Bosco descrive la nascita del suo oratorio e così sintetizza al Sindaco di allora, Michele Benso di Cavour: “lo scopo di questo catechismo si è di raccogliere nei giorni festivi quei giovani che abbandonati a se stessi non intervengono ad alcuna chiesa. L’insegnamento si riduce precisamente a questo: 1° Amore al lavoro, 2° Frequenza dei Santi Sacramenti, 3° Rispetto ad ogni autorità”.
Don Bosco strinse subito un rapporto stretto con le autorità cittadine, chiedendo aiuti, ma informando della sua attività e invitando a Valdocco i Sindaci che si susseguirono alle varie “prime pietre” dell’Oratorio che cresceva.
Nel 1851 don Bosco venne a fare l’estrazione della prima grande lotteria lanciata per sostenere l’Oratorio dal balcone del Palazzo municipale, insieme al Vicesindaco.
E il rapporto non diminuì nei momenti di difficoltà della cittadinanza, come nell’epidemia di colera del 1854, anzi! Don Bosco mise a disposizione i suoi giovani per prendersi cura degli ammalati e accettò nel suo ospizio figli rimasti orfani di colerosi e il Sindaco lo ringraziò con stima ed ammirazione.
E non è da pensare che i Sindaci succedutesi dall’inizio fossero tutti di partiti clericali, anzi. Solo poco a poco don Bosco e poi i salesiani entrarono nel DNA della città come qualcosa di profondamente torinese, maturando una collaborazione duratura e sentita da ambo le parti pur nel “libera Chiesa in libero Stato” del risorgimento italiano.
Questo rapporto continuò saldamente anche con i successori di don Bosco; basti citare la commemorazione funebre che il municipio volle tributare a don Rua, primo successore di don Bosco, nel giorno della sua morte il 6 Aprile del 1910. Il Sindaco di allora, senatore Rossi, si introduceva così al Consiglio comunale: “permettetemi di fare un’eccezione al regolamento che ci impedisce di fare interruzioni durante l’approvazione del bilancio comunale, ma stamane si è spenta un’esistenza che incarnava non solo un uomo, ma una grande idea, anzi una grande missione: l’educazione del popolo”.
Una città che cambia, un rapporto che dura
Il centro di questo rapporto è sempre stato camminare con la città nei continui cambiamenti. Scrive Don Bosco nelle Memorie dell’Oratorio, scritte tra 1873 e 1876: “a frequentare il primitivo catechismo domenicale, tra 1842 e 1845, erano ragazzi e giovani di provenienza assai varia: savoiardi, valdostani, biellesi, novaresi, lombardi; giovanetti per lo più stranieri, i quali passano a Torino soltanto una parte dell’anno; scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori, quadratori e altri che provenivano di lontani paesi.
Da sempre abituati a ragionare in termini educativi e quindi secondo criteri di cambiamento e di sviluppo, i Salesiani hanno fatto della loro presenza sul territorio torinese un punto indiscusso del loro programma di lavoro, adattandosi in questo modo ali molti cambiamenti dell’assetto cittadino, ma allo stesso tempo mantenendo fede ai propri obiettivi e alla propria vocazione.
In questo momento sono presenti nel territorio del Comune di Torino dieci comunità religiose salesiane, corresponsabili, insieme a molti laici adulti, di sette oratori, due scuole materne, una scuola elementare, quattro scuole medie, quattro tra licei e istituti tecnici, tre centri di formazione professionale, due università e quattro collegi universitari, per un totale giornaliero di presenze nei vari ambienti che supera tranquillamente quota diecimila.
Tutte queste opere hanno sempre avuto, tra le altre, due caratteristiche precise: in primo luogo, l’apertura al territorio e alla formazione di reti educative, in primis con i soggetti pubblici, ma anche altri organismi impegnati nell’ambito educativo, e in secondo luogo la volontà di contribuire, grazie allo stile salesiano, alla formazione di persone che potessero dedicare la propria vita, anche in modo professionale e continuativo, alla “cosa pubblica”, in ruoli politici o amministrativi per il bene dell’intera società torinese.
Questo ha dato vita, solo riferendomi agli ultimi anni, a progetti nati e sviluppati insieme ai vari assessorati del Comune di Torino. Per citare soltanto degli esempi non esaustivi: la rete dei Centri Diurni aggregativi; il progetto, durato molti anni, “Giovani per i giovani” finalizzato ad un lavoro educativo sulla strada; l’accoglienza diurna e anche sotto forma di comunità di accoglienza, di giovani immigrati non accompagnati; l’accompagnamento solidale, alcune forme di affidamento a volontari e giovani; la più che ventennale esperienza di collaborazione nei progetti dedicati alla estate ragazzi; la gestione col Comune del novello “Condominio solidale”. Allo stesso tempo, dalle case e dai cortili di don Bosco sono uscite persone che hanno dato e tuttora stanno dedicando la propria vita nelle istituzioni comunali e nella formazione di altri a questa sensibilità per il bene comune, che diventa anche impegno personale e capacità di gestione della cosa pubblica.
Questo rapporto privilegiato è stato più volte confermato dalla città di Torino, in primo luogo dalla persona del Sindaco Chiamparino, anche con la sua presenza familiare, competente e disponibile al confronto in molte occasioni di feste e manifestazioni, e anche, proprio recentemente, ad un incontro di formazione per i giovani torinesi sulla cittadinanza attiva, indicando la necessità di unire le forze delle istituzioni e della Congregazione per far sognare dei giovani e per invitarli e rendere effettive le conseguenze di quella “buona e cristiana educazione” che hanno ricevuto nella casa di don Bosco.
Assolutamente rilevante, eppure non quantificabile perché ormai capillarmente distribuito in tutto il territorio torinese, è il numero di exallievi, amici di don Bosco, adulti e famiglie, che venendo in contatto con la Congregazione Salesiana hanno poi portato nel proprio lavoro e nel proprio essere cittadini lo stile di don Bosco: essere cristianamente e solidalmente corresponsabili con gli altri del bene di tutti, a servizio di tutta la cittadinanza, in modo particolare, dentro e fuori le opere salesiane, mantenendo fede al mandato di don Bosco, cioè operando, come lui stesso scrive, per “raccogliere i più pericolanti fanciulli e di preferenza quelli usciti dalle carceri”, facendo emergere allo stesso tempo una attenzione privilegiata per i giovani “che si trovavano lontani dalle proprie famiglie, perché forestieri in Torino” con l’intento “di poter diminuire il numero dei discoli e di quelli che vanno ad abitare le prigioni”.
Oggi, come allora, la Congregazione salesiana in questa città vuol continuare a farsi carico dei ragazzi a rischio che attraversano gli oratori e frequentano i corsi di formazione professionale e lo fa con un’attenzione particolare ai ragazzi stranieri di seconda generazione, non trascurando con le attività formative, ricreative e pastorali i tanti giovani “normali” che incontra nella quotidianità della sua azione pastorale ed educativa.
Perché oltre i minori stranieri non accompagnati che accogliamo in modo residenziale in alcuni oratori, quasi comunità a bassa soglia, che non significa basso contenuto educativo, si vuole prendere cura dei ragazzi in difficoltà, figli di immigrati, che a Torino, lo sappiamo, sono presenti in modo consistente. Ci è ben noto quanto questa Città con le sue Istituzioni pubbliche, religiose e del privato sociale abbia costruito per loro una rete di protezione, che a noi piace chiamare, con Don Bosco, di prevenzione.
La Congregazione salesiana a Torino su questo impegno c’è e continuerà ad esserci, perché «Basta che siate giovani perché vi ami», diceva don Bosco, ed anche perché ci sembra bello ricordare che siamo parte di “un sistema Torino”, integrato ed in rete tra Istituzioni pubbliche, religiose e private, che tante altre città ci invidiano.
Perché siamo coscienti delle difficoltà che questi ragazzi incontrano nella fase difficile dell’integrazione, del mettere insieme le loro diverse culture, quella di provenienza che non ha ragione di essere sradicata, ma anche quella di questa Città che dell’accoglienza e dell’integrazione di movimenti migratori si è sempre fatta carico. Forse perché i Santi sociali dell’800 ancora oggi continuano la loro protezione, e perché il carattere introverso e schivo dei “bôgianen” del torinese è anche scevro di eccessi di ostentazione, ma sopratutto carico di buon senso.
Ragazzi tuttavia che se non si arriva prima (la prevenzione di don Bosco) qualcun altro ci pensa a intercettarli e irretirli in circuiti di facile benessere, ma, si sa, anche di rovina fisica e morale. Aiutarli a costruire un’identità formata dall’integrazione dei valori delle differenti culture, è una strategia non solo di sopravvivenza, che permette all’adolescente di mantenere la propria tradizione etnica e nello stesso tempo di stabilire il contatto con la cultura di accoglienza. E’ il nostro modo di “prendersi cura di loro”.
Tutto questo sono convinto va nella linea del “dare di più a chi ha avuto di meno”1. In altri termini, ci sembra prioritario approfondire le caratteristiche tipiche dei destinatari preferenziali della missione salesiana: “giovani poveri, abbandonati e in pericolo”. Una predilezione che presuppone un “amore universale”, con alcune accentuazioni; non esclude nessuno, ma non privilegia tutti. Una predilezione, la nostra, evangelica che realizza la pratica del “dare il massimo a colui che nella propria vita ha ricevuto il minimo”.
E la nostra pratica educativa deve rinnovarsi anche per il cambiare dei nuovi ragazzi cui ci sentiamo mandati, in altri termini, deve continuare ad avere il sapore dello straordinario che diventa ordinario. Che si tinge di una presenza quotidiana, radicata nel contesto sociale e territoriale nel quale opera, per esprimere la sua azione sociale attraverso la quotidianità fatta di incontri, presenza, attenzione.
Per finire, sono convinto che la cifra del nostro stare con i ragazzi in difficoltà, sarà quella di garantire anche a loro l’opportunità dell’educazione. Un’educazione che si traduce nel “aiutare ciascuno a diventare pienamente persona attraverso l’emergere della coscienza, lo sviluppo dell'intelligenza, la comprensione del proprio destino”.2
Anche per questi nuovi arrivati il Santo torinese oggi direbbe: «Nelle cose che tornano a vantaggio della pericolante gioventù o servono a guadagnare anime a Dio, io corro avanti fino alla temerità» (MB XIV, 662.). Forse la temerità si è un po’ frenata a volte, ma rimaniamo convinti che «L’educazione è cosa di cuore, e Dio solo ne è padrone e noi non potremo riuscire a cosa alcuna se Dio non ce ne insegna l’arte e ce ne dà in mano le chiavi».3
E tutto questo come salesiani, lo abbiamo imparato, non può mai esser fatto da soli, ma sempre in dialogo con chi condivide la missione di fare dei giovani “buoni cristiani e onesti cittadini”. Tutto questo nel 150º di fondazione della Congregazione è bello poterlo ricordare anche qui, nel Comune di Torino, che la Congregazione considera la città culla da cui tutto è nato.
Torino, 18 Dicembre 2009
Don Pascual Chávez V., SDB
Rettor Maggiore
1 Pascual Chávez in CISI/FEDERAZIONE SCS/CNOS, Dare di più a chi ha avuto di meno, un ripensamento educativo per un cambio culturale, Atti Seminario Frascati 27-30 dicembre 2004
2 Pascual Chávez, Educhiamo con il cuore di Don Bosco, per lo sviluppo integrale della vita dei giovani, soprattutto i più poveri e svantaggiati, promuovendo i loro diritti. Atti Consiglio Generale, n. 400. Roma 2008
3 Lettere di Don Bosco, Epistolario, Torino 1959