Come vede Lei la situazione della pastorale in generale e, in particolare, della pastorale giovanile in questo momento?
La vedo molto diversificata, con grandi ricchezze e possibilità, ma anche con grandi sfide e lacune.
Il Giubileo dell’anno 2000, con i tre anni precedenti di preparazione, secondo il piano proposto dal papa Giovanni Paolo II, ha comportato uno stimolo molto forte di rinnovamento della pastorale in tutta la Chiesa e in modo speciale per la Pastorale Giovanile. Basti pensare all’esperienza crescente delle Giornate Mondiali della Gioventù di questi anni: Parigi (1997), che sorprese e scosse la reticenza della Chiesa in Francia di fronte ai giovani; Roma (2000) con l’entusiasmo di quasi due milioni di giovani, provenienti da tutto il mondo, davanti alle proposte esigenti del Papa. Dopo il Giubileo le diverse Chiese hanno fatto propria la proposta pastorale del Papa, espressa nella sua Lettera NMI: un rinnovato impulso di vita cristiana centrata sulla persona di Cristo (29), ed hanno elaborato progetti pastorali concreti seguendo le indicazioni e le priorità segnalate dal Papa.
Altra realtà crescente nella Pastorale ecclesiale è il protagonismo della comunità cristiana, e in essa, concretamente, dei laici. Ricordo l’incontro dei movimenti laicali ecclesiali, convocato dal Papa nella Pentecoste dell’anno 1998: una moltitudine ingente di movimenti, associazioni e gruppi laicali, che nelle varie parti del mondo stanno assumendo con nuovo dinamismo e con rinnovata creatività la missione evangelizzatrice. Al nostro interno, è indubbio lo sviluppo che, in questi ultimi anni, ha avuto la Famiglia Salesiana e, in modo speciale, il Movimento Giovanile Salesiano in tutte le parti del mondo.
Ciò nonostante, la Pastorale della Chiesa, e in particolare la Pastorale Giovanile, deve affrontare alcune enormi sfide; una delle più importanti è quella dell’evangelizzazione della nuova cultura postmoderna, con fenomeni così influenti e universali come la globalizzazione, in tutti i suoi aspetti; lo sviluppo dell’informatica e dei moderni mezzi di comunicazione sociale; l’emergenza di nuovi valori, nuove concezioni della vita e stili di condotta; l’impatto della secolarizzazione e allo stesso tempo di una nuova sensibilità religiosa tipo “new age”… Come risposta a tale sfida il Papa, in questi anni, ha dato a tutta la Chiesa, come compito pastorale prioritario, la “nuova evangelizzazione”, che permetta di rifare il tessuto cristiano della società umana (cfr. ChFL 34).
Centrandomi più concretamente sulla Pastorale Giovanile, direi che scorgo dappertutto una grande vitalità con molteplicità di iniziative e di proposte, un fiorire di gruppi, associazioni e movimenti, molta buona volontà e sforzo da parte di molti adulti e animatori giovani.
Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che la nostra pastorale giovanile è più una pastorale di attività che una pastorale di processi, una pastorale individuale e poco coordinata più che una pastorale di comunità che condivide un progetto, una pastorale settoriale e frammentata più che un cammino unitario e integrale.
Il mondo giovane offre oggi alla pastorale una gran varietà di risorse e di possibilità: la sua ricerca appassionata di spiritualità, la sua apertura al linguaggio della vita e della testimonianza, la sua sensibilità per i valori umani, la qualità della vita e la solidarietà, la pace e la giustizia, un nuovo entusiasmo per incontrarsi ed esprimere pubblicamente la propria fede.
Spesso le comunità cristiane e le loro istituzioni fanno molta fatica a rinnovarsi e ad aprirsi ai giovani. La scarsità di educatori e di agenti di pastorale in rapporto alla crescita continua delle urgenze e al moltiplicarsi dei fronti di lavoro li spinge a trascurare i momenti di riflessione personale e comunitaria, cedendo ad un attivismo che impedisce loro di approfondire la realtà giovanile per comprenderne le sfide più profonde, trovare nuove risorse e possibilità, adattare le strutture ed iniziative.
I giovani hanno sete di proposte esigenti e dell’accompagnamento di adulti significativi; ma spesso costoro sono così assorbiti da compiti e funzioni amministrative e di gestione delle attività che non trovano il modo di stabilire con essi una presenza di qualità umana e spirituale, promovendo rapporti interpersonali gratuiti, dedicando tempo ed energie all’accompagnamento personale e di gruppo, assicurando proposte significative di crescita umana e di maturazione cristiana.
In alcune parti, soprattutto nel contesto della società secolarizzata, le comunità cristiane presentano una immagine di stanchezza e disorientamento; i giovani sentono che i loro adulti (la famiglia, la parrocchia, gli educatori in generale) hanno una specie di vergogna di parlare dell’essenziale; preferiscono dar ricette, indicare cose da fare, più che condividere con essi un’esperienza e un cammino di fede. In tal caso la presenza e la proposta pastorale ha poca chiarezza e forza evangelica.
In Europa Occidentale vi è una crisi generalizzata di trasmissione della fede e di irrilevanza del senso di Dio e della trascendenza, specialmente nel settore della popolazione giovanile. Quali opzioni pastorali ed evangelizzatrici concrete possono dare una risposta a questa crisi profonda?
Nelle ultime inchieste sui giovani in Europa appare tra loro una chiara apertura al tema religioso e una crescente ricerca di spiritualità e di trascendenza. E’ pur vero che questo si vive soprattutto dal punto di vista soggettivo, secondo una logica di soddisfazione dei bisogni individuali; una religiosità relegata alla sfera della vita privata, poco condivisa e istituzionale, vissuta attraverso esperienze multiple ed eterogenee, in un insieme sincretistico di credenze e di pratiche. Per questo direi che tra i giovani più che irrilevanza del senso di Dio e del trascendente, pare si stia sviluppando una specie di nuovo paganesimo in cui ognuno cerca e si costruisce un “dio” a misura personale e secondo le proprie necessità.
In questa situazione certamente si dà una crisi profonda di luoghi, istituzioni e momenti che costituivano, fino a poco tempo fa, i canali normali di trasmissione della fede alle giovani generazioni.
Come rispondere a questa crisi? Credo che il rapporto che si è stabilito tra il Papa Giovanni Paolo II e i giovani durante i suoi 25 anni di Pontificato può offrirci alcune indicazioni importanti.
Anzitutto il Papa vuole stare con i giovani, dimostra loro fiducia ed affetto, crede nelle potenzialità di bene, di verità e di bellezza che vi sono nei loro cuori e per questo li incoraggia e fa loro proposte esigenti e radicali. La prima opzione pastorale dev’essere il camminare con i giovani, aprirsi con loro ad un dialogo positivo e cordiale, affrontando con decisione e senza concessioni le sfide culturali e antropologiche che caratterizzano la nostra epoca.
Ma, soprattutto, il Papa propone ai giovani la persona di Gesù. Solo l’incontro con una persona è capace di trasformare una vita, non le regole o una dottrina. Per questo l’azione pastorale deve condurre i giovani all’incontro con la persona di Gesù. E’ questo che essi si aspettano ed a cui anelano, non del moralismo o dei discorsi socio-culturali od una accoglienza generica. La pastorale, soprattutto negli ambienti di secolarizzazione, deve orientarsi a facilitare ai giovani la conoscenza, l’incontro e la relazione personale con Gesù Cristo, di modo che essi scoprano il senso della propria esistenza e possano realizzare una opzione di vita piena e felice.
Insieme alla presentazione diretta della persona di Gesù è pure necessario sviluppare la dimensione educativa di un vero processo di trasformazione della mentalità e della vita. Occorre irrobustire una vera pedagogia dell’iniziazione cristiana, cioè proporre ai giovani processi sistematici e profondi di personalizzazione, comunicazione e socializzazione della fede, andando oltre alle esperienze totalizzanti, molto legate all’emotività e alla soggettività; educare alla preghiera, all’ascolto della Parola, a scoprire i segni della presenza e dell’azione di Dio nella storia, a tradurre in impegno di vita quanto si è sperimentato nella preghiera, ecc.
Il Papa inoltre invita i giovani ad essere “luce e sale” tra i compagni, nei loro ambienti di vita, nella società in generale, dando alla proposta pastorale un chiaro impulso missionario. La nostra pastorale deve superare il proprio complesso di colpa e la timidezza, per ricuperare il coraggio apostolico, che non può tacere ciò che ha vissuto e sperimentato. Non accontentarsi di coloro che vengono al nostro gruppo, ai nostri centri giovanili o alle nostre scuole, ma andare incontro agli indifferenti, ai lontani, al grosso gruppo dei giovani della strada. Ancor più, di fronte alla tendenza a ridurre la fede al privato, siamo invitati a rendere presente il vangelo nella vita e nella cultura, con una presenza chiara, attiva e critica dei cristiani in tutti gli ambiti della società, offrendo modelli di pensiero e di vita alternativi e coerenti col vangelo.
Quali cammini pastorali Lei pensa che ci sono serviti in passato ma non servono più? Perché? Quali cammini servono oggi in altre parti del mondo e possono apportare linee di realizzazione?
Molti itinerari di azione pastorale del passato possono conservare una loro validità se si inseriscono nel nuovo progetto ed assumono il nuovo stile e metodologia pastorale cui ho accennato nella risposta precedente.
Quando si analizzano i nuovi movimenti che stanno apparendo nella Chiesa durante questi anni e che attraggono molti giovani, ci si rende conto che tutti hanno tre caratteristiche fondamentali, vissute in forme e gradi diversi: una profonda spiritualità incentrata sulla preghiera, la Parola e i sacramenti; una forte esperienza di comunione, di attenzione alle persone, ai rapporti interpersonali, alla comunicazione profonda di vita; ed un impegno radicale verso i più poveri e gli ultimi. Mi pare che queste tre caratteristiche costituiscano tre linee di azione pastorale che devono caratterizzare tutte le forme di pastorale giovanile nel futuro: la spiritualità, la comunità e l’impegno. Inoltre mi pare che oggi occorre svilupparle in questo ordine, superando la tentazione di cadere in un impegno volontaristico che non nasce da una esperienza personalizzata di Gesù Cristo e del suo Vangelo e non sia sostenuto da una comunità vicina e aperta.
Si ha l’impressione che la crisi non è solo di destinatari, ma anche di pastori. Di fronte a dei soggetti pastorali demotivati e disorientati, quale sarebbe il profilo del soggetto pastorale (personale e comunitario) che occorre oggi per animare i progetti e le strutture educativo-pastorali? Come devono formarsi?
Anche se esistono, grazie a Dio, molti educatori e pastori generosi e dediti alla loro opera, vi è anche un buon gruppo che, davanti alla complessità delle situazioni e alle difficoltà incontrate, si è rifugiato molte volte nell’organizzazione e nella gestione delle istituzioni o in un generico impegno educativo e promozionale o che cerca di ripetere esperienze passate, pensando che continuino ad essere valide per i giovani di oggi.
Per poter affrontare la pastorale che esige la nuova evangelizzazione, l’educatore-pastore deve vivere una forte spiritualità apostolica, un solido rapporto personale con Cristo, vissuto nel quotidiano, un atteggiamento e una pratica del discernimento pastorale che sviluppi una visione di fede sulla vita, le persone e gli avvenimenti, che superi sia l’attivismo che rende superficiale e disperde come lo spiritualismo che non si traduce in scelte radicali di vita.
Inoltre oggi l’educatore-pastore dei giovani deve possedere una solida struttura personale, umana e cristiana, per poter essere anzitutto un testimone significativo e credibile per i giovani d’oggi, capace di offrire loro proposte stimolanti e valide e di accompagnarli nel cammino di realizzazione. Ciò suppone uno schema mentale solido e ben strutturato che gli permetta di nutrire una serena fiducia in se stesso e, allo stesso tempo, essere aperto e disponibile al dialogo e alla comunicazione con coloro che la pensano diversamente; coltivare un atteggiamento di formazione permanente evitando di rifugiarsi in un ritmo di vita troppo agitato, superficiale e abitudinario.
Si richiede inoltre un educatore-pastore disponibile e capace di condividere la sua vita con i giovani, di ascoltarli cordialmente, di valorizzarli e di accompagnarli gratuitamente; un educatore-pastore radicato nella comunità, che ne condivida il progetto pastorale, e lavori in équipe, con mentalità progettuale.
La sua formazione è un processo delicato che non termina mai e che esige un continuo atteggiamento di riflessione sulla propria esperienza e quella degli altri, per imparare da essa; disponibilità a condividere con gli altri, a lasciarsi accompagnare e correggere; fiducia nelle persone e in se stesso, sostenuta da una profonda vita di fede.
La dimensione comunitaria della fede pare particolarmente difficile da trasmettere in una cultura individualista e frammentaria come l’attuale. Come formare vere comunità cristiane giovanili? Non si perde l’attuale pastorale giovanile salesiana con i giovani, a partire da una certa età - mettiamo, 24 o 25 anni? Come evitare il rischio di intimismo, egocentrismo e mancanza di impegno socio-politico di queste comunità?
La domanda tocca una delle preoccupazioni e delle sfide più importanti che si presentano oggi alla pastorale giovanile in genere e, in particolare, a quella salesiana. Con la sensibilità e la metodologia preventiva di Don Bosco sappiamo che i grandi valori educativi si devono seminare durante la preadolescenza e se ne deve stimolare un primo sviluppo nell’adolescenza e nella prima gioventù. Ma questo cammino deve essere proseguito con un accompagnamento preciso e sistematico fino a condurre il giovane ad un progetto di vita, ad una scelta vocazionale matura, che oggi ritarda sempre più.
Riguardo alle prime due tappe abbiamo una ricca esperienza ed abbondanti strutture educative, scuole, oratori, gruppi, ecc.; ma abbiamo poche risorse e meno esperienza nell’accompagnamento dei giovani adulti che non hanno ancora maturato una scelta vocazionale nella vita; giovani dai 20 ai 30 anni che non frequentano più le nostre opere di educazione formale, ma che hanno ancora bisogno e cercano piattaforme adeguate che permettano loro di completare il cammino educativo e di fede iniziato nelle tappe anteriori.
In questi ultimi anni è aumentata in Congregazione l’attenzione a questa fascia di età, con diverse iniziative: la formazione degli animatori del MGS (gruppi, associazioni, centri giovanili); si tratta di giovani adulti che mediante il servizio di animazione continuano il loro processo formativo e di educazione nella fede; associazioni e movimenti che, senza trascurare le tappe precedenti, offrono una speciale attenzione a questi giovani adulti attraverso processi di catecumenato giovanile. Lo stesso volontariato salesiano, tanto sociale come missionario, è una piattaforma che permette a molti giovani adulti di sviluppare le proprie possibilità di formazione verso una scelta vocazionale adulta.
Credo che sia questo un campo in cui la Pastorale Giovanile Salesiana deve collaborare strettamente con la Famiglia Salesiana, soprattutto con quei gruppi laicali che offrono ai giovani possibilità di vita cristiana adulta, come sono i Cooperatori e gli Exallievi. Insieme dobbiamo cercare quelle piattaforme e quei servizi più convenienti per accompagnare questi giovani e per agevolare, coloro che lo desiderino, continuare a vivere la propria fede cristiana come adulti secondo lo stile salesiano nelle varie associazioni della FS o nelle comunità cristiane delle nostre parrocchie o in altri movimenti ecclesiali, ecc.
Tutto questo esige adulti significativi vicini, capaci di accompagnare e di stimolare questi giovani, tanto personalmente come in gruppo, richiede esperienze di spiritualità e di servizio sistematiche ed esigenti, un piano di formazione molto personalizzato, ma insieme ben strutturato e integrale, una metodologia che li inizi all'illuminazione cristiana della vita quotidiana nei loro ambienti di studio o di lavoro.
Credo che noi salesiani dobbiamo dedicare più personale e maggiori sforzi a questo scopo, impegnando, come dicevo, i gruppi laicali della Famiglia Salesiana.
Far sì che questi gruppi o comunità di giovani adulti superino il rischio di intimismo e di mancanza di impegno socio-politico, dev’essere uno degli obiettivi di questa tappa del cammino della fede, per portare il giovane ad incarnare la sua fede e la sua spiritualità nel campo delle proprie responsabilità familiari, sociali e politiche concrete.
Molti pensano che le nostre strutture pastorali tradizionali (scuole, parrocchie), nate per umanizzare ed evangelizzare, stentano a riuscirvi e, quel che è peggio, logorano molte persone solo per mantenersi in piedi. Che fare? Occorre inventare nuove strutture? Si può approfittare pastoralmente delle strutture esistenti? A quali condizioni minime?
Con le strutture educative e pastorali tradizionali succede quanto accade alle altre strutture sociali: nate e sviluppate in una società stabile e unitaria, trovano difficoltà ad adattarsi ad una società complessa e in continuo cambio. Siamo passati da un modello fortemente unitario e monolitico ad un altro chiaramente frammentato e molte volte contrastante. Gli educatori, cominciando dalle famiglie, non sanno come affrontare la loro missione educativa e corrono il rischio di rinunciare ad un autentico dialogo educativo, limitandosi ad un superficiale “lasciar fare”. Appaiono nuovi contesti e realtà educative, a volte in contrasto con le istituzioni tradizionali, come il gruppo di pari, la strada, il mondo della comunicazione sociale e di internet, ecc., che hanno una gran capacità di modellare mentalità e condotte, ma allo stesso tempo si manifestano deboli nel personalizzare valori e sostenere scelte radicali di vita.
Bisogna affrontare con decisione questa nuova situazione e le sue sfide. La nostra società ha bisogno più che mai di strutture educative e pastorali capaci di stabilire un dialogo dinamico e profondo col mondo giovanile, con la sua sensibilità e i suoi bisogni, ma senza rinunciare alla missione educativa di testimoniare e proporre valori e criteri di condotta, e suscitare e sostenere progetti di vita e di ricerca di senso. Le strutture tradizionali di educazione e di pastorale hanno ancora molto da offrire alla nostra società, purché sappiano rinnovarsi in profondità.
Queste strutture devono saper resistere alla dinamica burocratizzante e massificante verso cui le spinge la società attuale, per promuovere l’attenzione prioritaria alle persone e ai rapporti interpersonali, al dialogo e all’incontro fra generazioni, la partecipazione e il lavoro in gruppo, ecc., in modo da convertirsi in veri ambienti di vita e di cultura giovanile. Don Bosco lo aveva già intuito a suo tempo, quando voleva che tutte le sue istituzioni fossero vere case in cui i giovani si sentissero a loro agio, come in famiglia.
Devono promuovere un programma educativo veramente integrale, che tenga conto di tutte le dimensioni della persona umana e non solo di quelle immediatamente utili e redditizie per la produzione e il consumo. Un programma che sviluppi con particolare attenzione quegli aspetti a cui i giovani d’oggi sono particolarmente sensibili e aperti: come l’affettività, il corpo, la natura; valori come la pace, la solidarietà, la libertà; la partecipazione, la creatività, il dialogo; la ricerca di significato, l’interiorità, la qualità di vita…
Le istituzioni educative e pastorali devono trasformarsi in vere comunità educative nelle quali tutti i partecipanti all’opera educativa, i giovani stessi, gli educatori, le famiglie, si sentano identificati con un quadro di valori condiviso, assumano con solidarietà un medesimo progetto educativo e collaborino attivamente alla sua realizzazione; favoriscano una rete di rapporti interpersonali positiva e dinamica, promuovano metodologie di lavoro e di azione realmente partecipative e corresponsabili.
Quale dev’essere la pastorale in un istituto cattolico confessionale, sapendo che molti di coloro che vi si recano non cercano una formazione religiosa, ma una qualità di insegnamento o di controllo disciplinare? Che pastorale si deve fare in un centro scolastico confessionale con destinatari disinteressati a ciò che è '‘religioso'’?
La pastorale in un istituto cattolico non deve essere una specie di aggiunta religiosa a una cultura, a un ambiente e a una struttura neutra o indifferente al modello di vita ispirato al Vangelo. La pastorale è la qualità che dobbiamo dare a tutto l’insieme della vita scolastica, soprattutto a quegli elementi che la contraddistinguono, come la cultura, la metodologia, la disciplina, ecc. Vogliamo che tutti questi elementi siano ispirati e promuovano una visione della vita e della realtà aperta ai valori del Vangelo di Gesù, favoriscano un atteggiamento di ricerca e di approfondimento di un senso di vita integrale e trascendente, offrano ai credenti l’occasione per un dialogo critico e positivo tra cultura e fede.
L’istituto cattolico deve tradurre in pratica le condizioni segnalate nella risposta precedente e resistere con decisione alla pressione ambientale che lo spinge a incentrare la propria qualità sui risultati accademici, sull’efficacia della disciplina, sulla promozione dei “migliori”. In questo senso l’istituto cattolico deve assumere un atteggiamento veramente controculturale, offrendo a tutti, con rispetto, ma anche con decisione e chiarezza, una cultura della vita e della solidarietà, una educazione integrale e aperta alla dimensione religiosa della persona, un impegno deciso verso i più poveri e i più deboli.
Data la dialettica tra strutture pastorali tradizionali e le nuove povertà giovanili, in cosa consisterebbe, in questi momenti, l’atteggiamento profetico della Famiglia Salesiana? Come formularlo nell’ambito pratico?
Già, sei anni fa, don Vecchi, nella sua lettera sulle nuove povertà, aveva scritto che l’educazione è il contributo più specifico ed originale che, come salesiani, possiamo offrire per la prevenzione e la lotta contro le nuove povertà. Mi rendo sempre più conto della verità di tale affermazione. Oggi le nuove povertà dei giovani sono in gran parte conseguenza di certe condizioni di vita che privilegiano il profitto individuale al di sopra del bene comune, un progresso rapido e facile più che uno sviluppo sostenibile e accessibile a tutti, la priorità degli interessi economici al di sopra di tutto e, molte volte, contro i valori sociali e culturali. Non è sufficiente, pertanto, la ricerca di soluzioni immediate, è necessario un lavoro di educazione che promuova nuovi modelli di condotta e di vita che traducano nel concreto la cultura dell’altro di fronte all’individualismo possessivo, la cultura della sobrietà di fronte al consumo, la globalizzazione della solidarietà di fronte all'esclusione dei deboli.
Come Famiglia Salesiana, estesa a tutto il mondo, con molteplicità di risorse e con un ricco patrimonio spirituale, abbiamo grandi possibilità e, allo stesso tempo, una enorme responsabilità per promuovere, in uno sforzo collettivo, progetti concreti in cui, oltre a rispondere alle necessità immediate dei giovani, si promuova uno stile di vita più solidale e generoso.
In alcuni Paesi dell’America Latina, per esempio, l’azione congiunta di diversi gruppi della Famiglia Salesiana, in collaborazione con altre persone e istituzioni, ha creato tutto un movimento sociale che ha promosso leggi e consigli per la difesa dei diritti dei minorenni. In altri Paesi d’Europa, diverse organizzazioni di volontariato sociale e missionario vanno creando tutto un ampio movimento di solidarietà e di collaborazione con nazioni e popoli in via di sviluppo. Il lavoro a favore dei ragazzi di strada, le iniziative per aiutare i ragazzi e le ragazze emarginati dal sistema scolastico ufficiale, stanno suscitando una nuova sensibilità e una concreta volontà di collaborazione in molte ispettorie, gruppi e associazioni.
Vi sono possibilità, ma si deve lavorare congiuntamente, con progetti concreti e condivisi, con costanza e sistematicità, approfittando di tutte le risorse e possibilità che oggi ci offre l’enorme varietà di opere e di presenze animate dai diversi gruppi della Famiglia Salesiana in tutto il mondo. Perché, invece di opporre opere e strutture in una dialettica sterile e distruttiva, non ci impegniamo ad apportare ciascuno la propria originalità e a collaborare fra tutti alla promozione integrale dei giovani, soprattutto dei più poveri? Perché non impegnare tutte le componenti delle comunità educative delle nostre scuole, centri di formazione professionale, parrocchie, oratori, in progetti concreti di attenzione ai più poveri?
Quali devono essere, a suo parere, i principali tratti di una pastorale che risponda al fenomeno delle migrazioni? Come deve affrontare la pastorale la situazione di pluralismo culturale e religioso che cominciamo a sentire in Europa e che andrà via via crescendo?
Pochi mesi fa si tenne a Barcellona un incontro europeo per affrontare concretamente questo tema. Fu il punto di arrivo di molti sforzi, iniziative e riflessioni che si sono andate realizzando in questi ultimi anni nelle diverse ispettorie dell’Europa salesiana. Allo stesso tempo, in esso si pretendeva indicare alcune linee e criteri di azione che orientassero e rilanciassero l’impegno salesiano tra i migranti.
Penso che nel documento finale siano stati espressi molto bene i tratti di una pastorale salesiana di fronte al fenomeno delle migrazioni: una pastorale giovanile che “promuova l’apprendistato interculturale, aperta all’inserimento, con un comportamento etico universale, basato sulla cultura della solidarietà, dell’autenticità, del dialogo interreligioso, della costruzione di rapporti di pace e di rispetto tra uomo e donna, a partire dalla propria identità”.
Bisogna prendere consapevolezza che viviamo in un mondo che se, da una parte, è più globalizzato, dall’altra appare sempre più diviso da diversità culturali, sociali, economiche, politiche, religiose. Esso presenta nuove sfide alla formazione, di cui la principale è l’educazione all’interculturalità. E’ questa, a mio parere, la chiave per risolvere il difficile problema di arrivare ad armonizzare l’unità dell’umanità nella diversità dei popoli che la compongono. Implica una pedagogia di accoglienza delle differenze, di cultura del dialogo e della reciprocità, della solidarietà e della pace. Ciò è possibile solo nella misura in cui scopriamo che vi sono valori transculturali, validi sempre e dappertutto, e che, vivendoli nelle nostre comunità religiose ed educative, arriveremmo ad essere persone di comunione. Come ci ricordava il Papa nell’Esortazione Apostolica “Vita Consecrata” (51), le comunità multiculturali ed internazionali si rivelano in molte parti testimonianze significative e ambiti di addestramento al senso della comunione tra popoli, razze e culture.
In questo senso le linee di azione dell’incontro di Barcellona parlano di educare ai valori della multiculturalità, a partire da una base etica condivisa, da una educazione all’onestà e alla cittadinanza, con particolare attenzione al dialogo interreligioso, favorendo un’accoglienza incondizionata delle persone, promuovendo il loro protagonismo, favorendo tra di loro la presenza di mediatori culturali che facilitino il dialogo tra le diverse culture. Si chiede anche che l’attenzione all’immigrazione si inserisca nel progetto educativo-pastorale di ogni ispettoria, in modo che giunga ad essere una realtà presente in ogni opera, lavorando sempre più insieme.
Tutto questo suppone un cambio di mentalità, tanto tra i salesiani come tra i membri delle nostre comunità educative; promuovere una formazione all’interculturalità e alla diversità come ricchezza, mediante esperienze di lavoro interculturale adeguatamente riflettute e verificate, l’inserimento nelle comunità educative degli stessi immigrati come collaboratori.
Grazie a Dio tutte queste linee cominciano già ad essere realtà in molte nostre ispettorie; si tratta di estenderle e di far sì che siano patrimonio e realtà in tutte le nostre presenze.
Data la nostra vicinanza al mondo giovanile e ai suoi linguaggi…, cosa possono dire e apportare i salesiani rispetto al linguaggio, i riti, l’immagine pubblica, la testimonianza sociale... della cosiddetta “chiesa ufficiale o istituzionale”? Come avvicinare la Chiesa ai/alle giovani e viceversa?
Per avvicinare la Chiesa ai/alle giovani, dobbiamo anzitutto amarla profondamente, anche la Chiesa ufficiale e istituzionale, e questo amore farlo sentire ai giovani, aiutandoli a scoprire i valori e le realtà positive che vi sono in essa, i segni della presenza e dell’azione di Dio. E’ quanto fece Don Bosco al suo tempo, di fronte alla valanga protestante che disorientava e turbava la fede semplice della gente e dei giovani. Don Bosco, con un linguaggio semplice, ameno e accessibile a tutti, dà a conoscere la storia della Chiesa e del Papato, le vite dei santi e di persone buone, propaga devozioni e pratiche pie popolari e adatte ai giovani. Con tutto questo rafforza il loro amore alla Chiesa e irrobustisce la loro fede.
Oggi i giovani hanno dimostrato che sono molto sensibili e aperti a questi valori della fede e della Chiesa. La persona del Papa e i suoi incontri massivi con i giovani, le Giornate Mondiali della Gioventù, il fiorire di movimenti giovanili, sono alcuni di questi segni che, come educatori, dobbiamo valorizzare e di cui approfittare.
Dobbiamo anche accompagnare i giovani affinché possano vivere ed esprimere la fede della Chiesa, la sua liturgia e la sua preghiera nel loro linguaggio e stile giovanile, senza snaturarla né renderla superficiale. E’ un compito educativo importante che esige da noi che siamo autentici maestri di spiritualità giovanile, di essere capaci di veicolare e far vivere, mediante i segni e il linguaggio giovanile, una vera esperienza di fede e di Dio.
Su questo punto dovrebbero svolgere un ruolo importante le nostre comunità e i gruppi della Famiglia Salesiana, che dovrebbero essere per i giovani immagini significative di una Chiesa ad essi vicina, aperta e dialogante, appassionata di Gesù e della propria missione di vita piena, comunità felici, profonde e sensibili al mondo dei giovani, in modo da costituire vere esperienze di Chiesa e scuole di preghiera ecclesiale.
Oggi non è sufficiente l’impegno per gli altri ad avvicinare la Chiesa ai giovani; occorre che questo impegno, senza perder nulla della sua radicalità, manifesti chiaramente la propria sorgente e le motivazioni più profonde, il Dio di Gesù, il suo amore e il suo progetto di salvezza che si realizza attraverso la comunità dei credenti, presieduta dai suoi pastori.
Pascual Chávez V.
Rettor Maggiore dei Salesiani
Roma, 24 maggio 2003