RM-Omelia al funerale di Don Giovanni Fedrigotti

« Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli »

Omelia nel funerale di don Giovanni Fedrigotti

1Gv 3,11-21; Sal 99; Gv 1,43-51



Carissimi Familiari e Confratelli,


Gentilissime Figlie di Maria Ausiliatrice,


Cari Cooperatori ed Exallievi,


Fratelli e Sorelle della Famiglia Salesiana,


Il Signore si è fatto presente ancora una volta nella nostra comunità. Ci ha visitati prima con la malattia di don Giovanni Fedrigotti, arrivata all’improvviso, senza agenda né calendario, con la passione che lo ha unito più intensamente a quella del Signore Gesù, ed ora con la sua morte.


Sono passati pochi giorni dalla celebrazione del mistero dell’ Incarnazione, nella quale abbiamo ascoltato le parole di San Paolo: “Ecco, è giunta la pienezza dei tempi. Dio ha mandato il suo Figlio nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge, e perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,4); e Don Fedrigotti ha potuto sperimentare pienamente il compimento di quanto ci è venuto a portare il Cristo.


Abbiamo cominciato così l’anno nuovo 2004 con questa manifestazione chiara, umanamente contundente, della volontà di Dio e, come diceva Suor Lucia facendosi voce dei sentimenti e degli atteggiamenti della mamma e dei familiari, “l’accogliamo con dolore ma con fede”.


Non era stato diverso l’atteggiamento di don Giovanni che, sapendo delle numerosissime preghiere che si innalzavano al Signore per la sua salute attraverso l’intercessione del Ven. Mons. Cimatti, e vedendo nel contempo l’aggravarsi della sua condizione fisica, si esprimeva in questi termini: “Sono sicuro che Dio non può non ascoltare e accogliere tutte queste orazioni che in tante parti del mondo, nella Congregazione e nella Famiglia, fanno per me. Egli saprà poi come versarle su di me”.


Per un uomo come lui, pieno di tanta vitalità e ottimismo, questo abbandono alla volontà di Dio era la manifestazione filiale della sua profonda fede.


Ricordo ancora la prima volta che andai a trovarlo, quando erano stati compiuti gli accertamenti medici e la prognosi non era affatto allettante. Alla mia domanda su come si sentisse, mi rispose: “Ho predicato tanto sul mistero della croce, e ora che devo caricarmela non la dovrei accettare? Il Signore mi darà la forza necessaria per portarla sino alla fine”. Ed è stato così!



Certo, come distano i cieli dalla terra, così sono i nostri pensieri nei confronti di quelli di Dio. Infatti don Fedrigotti, dopo aver finito il suo brillante e generoso servizio di dodici anni come Consigliere Regionale per l’Italia e il Medio Oriente, aveva ricevuto e accolto la nuova obbedienza che gli era stata data, di andare nella nostra Università e inserirsi come professore. Amando tanto Don Bosco e conoscendolo tanto bene, si sentiva di poter dare un contributo nel campo della pedagogia e della spiritualità salesiana. In un anno era riuscito a adempiere le condizioni richieste per essere annoverato tra i professori, mentre allo stesso tempo portava a termine la relazione su Mons. Cognata per poterla consegnare alla Santa Sede, e si dava da fare in mille altre cose. Così era don Giovanni, sempre sognatore, entusiasta, con progetti e iniziative da portare avanti. I piani del Signore erano però ben diversi: più che la sua azione importava adesso la sua passione, più che continuare a predicare sul tema della croce, adesso doveva caricarla su di sé; e questi piani di Dio li seppe accogliere, e mettere tutto in disparte pur di fare quello che il Signore voleva da lui: una unione più intima e intensa attraverso la passione e la morte.


Questo è possibile quando si vive in pienezza la nostra condizione di figli, secondo quello che dice l’autore della prima lettera di Giovanni: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (3,1).


È appunto questa nuova condizione umana che ci ha portato l’Incarnazione di Dio tra noi, che ci rende capaci di amare i fratelli e così “passare dalla morte alla vita”, come abbiamo sentito nella prima lettura. Ecco la grandezza dell’amore! Ecco il suo primato: ci fa assomigliare a Dio, che nella sua essenza è Amore, e ci fa vincere la morte, perché “nessuno ha amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici”.



In questa liturgia vogliamo dare voce a don Fedrigotti e, con il salmista, cantare al nostro Dio, proclamare il suo amore e la sua fedeltà per ogni generazione. Egli, che è il nostro creatore (“egli ci ha fatti e noi siamo suoi”) e il nostro salvatore (noi siamo “suo gregge e popolo del suo pascolo”), non delude la fede e la speranza di quanti si affidano a Lui.



Quanti come Filippo trovano Gesù e lo seguono, diventano discepoli ed evangelizzatori che possono raccontare agli altri: “Abbiamo trovato colui che aspettavamo, colui del quale hanno scritto Mosé nella Legge e i Profeti”, e vedere “il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo”.



Ecco le “cose maggiori” che vedono coloro che, come don Giovanni, hanno fatto di Gesù l’opzione fondamentale della propria vita e si sono impegnati a vivere fino in fondo la bella e avvincente missione di seguirlo ed imitarlo.



Ma vorrei lasciare spazio a quanti di noi meglio hanno amato e conosciuto don Fedrigotti e possono rendere la propria testimonianza per farci scoprire la sua identità più genuina, le sue motivazioni più profonde, i suoi ideali più grandi.



Ecco le parole di don Antonio Martinelli:


“Caro Rettor Maggiore.


Esprimo le più vive condoglianze per la morte di don Giovanni Fedrigotti. Manifesto la mia simpatia per la sua persona. L’ho conosciuto nel lontano 1973, quando giunsi a Verona come ispettore, sconosciuto ai tanti confratelli dell’Ispettoria.


Nacque una sincera amicizia. Ho spesso parteggiato per lui, assumendo la sua … fraterna difesa … anche in momenti difficili, istituzionalmente.



Ne apprezzai subito la lucida intelligenza e il pensiero chiaro. Era ancora studente universitario, giovane sacerdote, quando gli proposi la direzione della casa ispettoriale di Verona. Ubbidiente, si mise a disposizione. Con semplicità fece alcune difficoltà, che ritenni sufficienti per rimandare di un anno la chiamata in responsabilità. Quell’anno gli servì per concludere gli studi e per prepararsi interiormente al nuovo compito, che assunse serenamente e impegnandosi intensamente per … rianimare … la comunità del don Bosco di Verona.



La parola facile e la voglia di esprimere quanto andava leggendo (era un divoratore di libri, di volumi ponderosi, di studi profondi), lo hanno reso un conferenziere e un predicatore richiesto. Il suo ufficio era pieno di volumi di autori antichi e moderni. Leggeva con passione.



Non ricordo di aver ricevuto mai un «no», quando si trattava di annunciare il Vangelo. Rendeva questo servizio con un piglio “scanzonato”, ma allegro e amabile. Non si lasciava vincere dalle prime reazioni che riceveva. Continuava nel suo progetto. Riusciva a cattivarsi la simpatia e a creare facili relazioni.



Era attaccatissimo a don Bosco. Fedelissimo ai rappresentanti di don Bosco. Difensore strenuo di quanto aveva scoperto come «verità» salesiana, non transigendo con nessuno su alcuni criteri fondamentali della vita «alla don Bosco». Ammirava i salesiani che avevano speso tutta la vita per diffondere lo spirito di don Bosco e il suo sistema. Si prodigava nell’aiutare quanti gli chiedevano una mano.



Personalmente ho goduto per molti anni della sua amicizia. Ho ricevuto da lui sincera stima.



Ricordando gli anni di Verona, continuava a darmi del «lei» come gesto di deferenza e di rispetto, nonostante i ripetuti inviti di passare al pronome «tu».


Abbiamo perduto un carissimo confratello. Prego perché il Signore gli dia il premio meritato.



Affido all’Ausiliatrice la sua Famiglia. Don Bosco lo tenga accanto a sé nella gloria del Risorto”.



Ecco le parole di don Giannantonio Bonato, suo successore come Ispettore della Ispettoria di Verona.


“Fra i tanti elementi che si possono cogliere dalla testimonianza di don Giovanni vorrei mettere in evidenza la sua allegria. E’ vero che essa assumeva, talora, modi scomposti e sbarazzini (e ciò era dovuto al suo temperamento) ma in realtà rispondeva a due precisi intenti. Me lo rivelò lui stesso in una conversazione. Il primo risulta ovvio: creare fraternità, riaccendere il clima di famiglia, celebrare quel gusto dello stare insieme che è valore centrale della nostra tradizione. Il secondo tocca ancor più il profondo: egli lo sentiva come un modo per ricondurre le difficoltà entro l’orizzonte della fede, quando diventa sereno abbandono a Dio e perciò volontà di operare nonostante tutto. Era quel colpo d’ala che rimetteva le cose al loro posto sottraendole alla presa dell’immediato negativo per ricondurle al positivo di Dio, creduto, e già accolto, per la fede. Non semplice cameratismo, dunque, ma precisa volontà di far trionfare la speranza su ogni tentazione di scoraggiamento e di pessimismo. E non certo espressione di superficialità, come dimostrava la profondità del suo pensiero e talora la serietà delle sue decisioni. Non di questo si trattava, ma di un bene che avvertiva essenziale; e quando doveva constatare che in alcune comunità stesse venendo meno questa allegria semplice e schietta, ne soffriva e si prodigava per ripristinarla. Più volte, durante il suo ministero di ispettore e di regionale, ho riscontrato come fosse fedele a tale impegno: quanto più densa era l’oscurità, tanto più si prodigava per dissiparla scatenando l’allegria, quella che a me sembrava forzatura inopportuna e che invece era sapienza, frutto d’un non facile controllo sugli stati d’animo e di una abituale unione con Dio. Ovunque passava, lasciava questa traccia: essa diventa ora memoria collettiva, dono prezioso che mette in luce un aspetto importante della grazia di unità”.



O la testimonianza di don Umberto Benini:


“Nella vita di don Giovanni Fedrigotti, con il quale sono vissuto insieme al “don Bosco” per molti anni, condividendo la passione e la fatica educativa, ho scorto i segni di quella sapienza umana e di quella Presenza operante dello Spirito che bene mi sembrano espressi in alcuni detti del libro sacro dei Proverbi. Sono per me e penso per molti dei suoi affezionati ex-allievi quasi un suo testamento spirituale non scritto su carte ingiallite dal tempo ma inciso nel cuore con i gesti, i suggerimenti e le opere di un raro ed appassionato educatore salesiano.


Il gioioso cammino esistenziale di don Giovanni fa correre il pensiero anche all’immagine evangelica del granello di senape che, cresciuto, è più grande di tutte le piante dell’orto, diventa un albero tanto grande che gli uccelli vengono a fare il nido tra i suoi rami. In lui, anche se più giovane di me, mentre si intrecciavano i nostri animati dialoghi, scorgevo l’uomo saggio della Bibbia, che scriveva, attraverso i giorni, pagine di storia sacra, perenne e viva, mai oscurata da vuote banalità. Consigliere, incaricato della disciplina, Direttore, Ispettore, per tanto tempo a servizio della Congregazione in questa terra veneta, di cui ha sempre serbato in cuore simpatia e nostalgia, nonostante l’alto incarico di Regionale per l’Italia ed il Medio Oriente, ha sempre conservato i tratti dell’amico semplice e sereno, cantando la sua canzone d’ottimismo e speranza per i giovani, senza perdere mai il colore dell’uomo serio ed impegnato, di religioso e sacerdote, forte nella fede, come le rocce del suo Trentino.


Con Lui il “don Bosco” era più casa che scuola. Lui stesso scriveva: “Non sarete anonimi volti velati dall’ombra che confonde. Qui non dovrete venire timorosi di bisbigliar parole inascoltate. Qui non potrete starvene furtivi guardando febbrilmente l’orologio, come fuggiaschi cui soltanto preme fuggire ancora. Qui il vostro piede non potrà cessare l’agile danza della vita ch’è il fascino vostro e il vostro sogno. Ma volentieri si viene a questo luogo come si corre al fuoco della casa…”.



Con don Giovanni, i salesiani del don Bosco, sulla scia dei grandi maestri del passato, hanno trascorso felici giorni di lavoro nel desiderio che i giovani si aprissero agli orizzonti sempre più complessi della realtà civile e politica in grande trasformazione. Gli ex-allievi e i tanti amici che lo rimpiangono restano le radici forti e robuste di quella grande quercia di dirittura morale, sapienza e fede che Lui è stato. Appare certamente povero ed inaridito il cortile della nostra vita senza questa grande pianta alla cui ombra abbiamo respirato l’aria pura dell’allegria, della schiettezza, della cordialità.



Ha continuato, anche se lontano, ad amare e stimare i suoi fratelli ed amici di lavoro che ricambiavano la sua cristallina amicizia con il desiderio di ritrovarsi per stare bene insieme, “per muovere - diceva Lui - passi ritmati da gridi di gioia, così come fanno, per intimo slancio, i salvati; per drizzare insieme lo sguardo all’unico Sole il cui raggio a sorpresa, crea e ricrea”.



Oggi, senza di Lui, ci sentiamo più poveri e fragili. Alla luce, però, di quella fede, di cui è stato maestro fino all’ultimo giorno della sua vita terrena, noi lo sentiamo vivo, fratello che ci ha consegnato la casa solida, dalle sicure fondamenta che nessuna tempesta può far tremare.



Commosso e turbato, a denti stretti e con fede debole e messa alla prova Ti prego, caro don Giovanni, a nome di tutti quelli che Ti hanno voluto bene, di continuare ad infonderci ottimismo e coraggio


“ per giungere,


insieme,


a quel porto, ove,


al riso dell’ultimo sole,


cala l’ultima vela stracciata


la trepida nave,


scossa dal grande


vento di Dio”.



Tuttavia, la testimonianza più preziosa è quella data da don Fedrigotti stesso, che in occasione del suo 30º anniversario di ordinazione sacerdotale scrisse:



Che cosa ho imparato


in 30 anni di vita sacerdotale?


(Trento,09.04.1972 – Roma, 09.04.2002)



1. Che dire messa ogni giorno, anche quando non c’è gusto, è come bere l’acqua: non ha, forse, grandi sapori, ma mantiene la vita.


2. Che il sacramento della Penitenza ci è dato perché, a forza di confessare e di confessarci e di saperci perdonati, ci convinciamo – finalmente! – che il Signore ci ama e vuol farci scoprire la fedeltà del Suo Amore.



3. Che meditare la Sacra Scrittura per preparare una predica è una pro-vocazione continua a vivere ciò che siamo chiamati a predicare. Che la meditazione della Sacra Scrittura rivela prospettive sempre nuove, in risposta a tutte le stagioni della vita e della storia. E’ lo Spirito che l’abita e l’aggiorna. Che la verità annunciata – anche quando brucia – è sempre Parola di Consolazione e di Speranza. Che l’annuncio della Parola, cominciato come uno sport interessante e gratificante, si trasforma poco a poco in un servizio austero e mortificante.



4. Che Maria è davvero Madre dei sacerdoti e Aiuto dei cristiani e non abbandona chi si affida continuamente a Lei.


5. Che don Bosco non è un personaggio storico, ma un vero Padre biblico, che si è preso cura di me fin dalla nascita (quando ho cominciato a portare il suo nome), ha creato un’atmosfera intensamente salesiana nella mia casa, e si è fatto potente intercessore, fino ad oggi.



6. Che il modo più normale con cui il Signore ci ama è di darci una buona famiglia cristiana, in cui la grazia matrimoniale continua a fiorire, e a dare frutti di unità, di solidarietà fraterna, di gaudiosa reciprocità vocazionale.



7. Che non il sapere - che mi vede oggi sepolto in una caterva di libri e che nutre una parola brillante - ma l’amare – che mi trova ancora come un acerbo narciso – che nutre una vita di dono, è quello che conta, alla fine.



8. Che il senso profondo della mia indegnità si può accompagnare con la convinzione serena, che al Signore piace servirsi di me, per fare del bene. Perché dovrebbe dispiacersi – ragliando scompostamente – l’asina di Balaam, se al Signore piace montare anche su di lei?



9. Che le vie del Signore non sono le mie vie, e i suoi tempi e le sue stagioni sono diverse dalle mie. E che bisogna attendere in silenzio il Suo Giorno.



10. Che, per grazia di Dio, non ho mai sognato altro che d’essere prete, prete dei giovani e del popolo di Dio, prete che, per primo, invoca e gusta la misericordia, di cui si fa testimone in mezzo ai fratelli.



Prete di don Bosco, prete come don Bosco. Certo, non gli somiglio molto.



Roma, 09.04.2002

D. Giovanni Fedrigotti



Ecco, carissimi nel Signore, penso che questi tratti di un profilo intensamente umano, profondamente spirituale e decisamente salesiano di don Giovanni Fedrigotti possano essere la parola migliore con cui Dio ci parla oggi, ridandoci fiducia e speranza, e chiamandoci al servizio fedele, generoso e gioioso nella propria vocazione .




Don Pascual Chávez V.


Roma – Nostra Sig.ra della Speranza – 5 gennaio 2004