ACG352-95_rileggere_il_carisma_vigano_it


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COME RILEGGERE OGGI
IL CARISMA DEL FONDATORE
Introduzione. - Un’esperienza vissuta. - Due convinzioni di base. - I cammini da seguire. - La rielaborazione delle Costituzioni. - Lo
spirito del Fondatore. - Dalla «missione» alla riscoperta del «carisma». - La durata e gli attori della rilettura. - Punti nevralgici nel
processo di discernimento. - Urgenza di concretezza metodologica. - Animazione e governo. - Una visita dello Spirito del Signore. -
Abbiamo una «carta d’identità» valida e aggiornata.
Lettera pubblicata in ACG n. 352
Roma, 8 febbraio 1995
Introduzione – a Valdocco – della Causa
di beatificazione e canonizzazione di Mamma Margherita
Cari confratelli,
oggi finalmente è iniziato a Torino nella basilica di Maria Ausiliatrice, in forma solenne, il processo ufficiale di
beatificazione e canonizzazione di Mamma Margherita; proprio lì a Valdocco dove ella ha testimoniato — si può dire
eroicamente per ben dieci anni — la sua generosa collaborazione con il figlio Giovanni per dar vita al provvidenziale
carisma salesiano dell’Opera degli oratori. Lo sa il nostro Padre e Fondatore quanto ciò sia costato alla mamma e
quanto ella stessa abbia apportato alla riuscita, allo stile, all’ambiente di famiglia, allo spirito di bontà e sacrificio, che
caratterizzano ancora oggi tutta l’istituzione salesiana di Don Bosco. Ringraziamo il Signore e preghiamo perché la
causa possa procedere positivamente e con rapidità.
Ebbene, in occasione di una data tanto significativa vi offro la riflessione su un argomento che mi è stato richiesto
per il 20° Convegno dell’Istituto di Teologia della Vita Religiosa «Claretianum» qui a Roma il 16 dicembre 1994. Mi
assegnarono il delicato e importante tema La rilettura fondazionale fatta dai Salesiani. Lo svolgimento non è stato
pensato direttamente per noi, ma in un certo senso ci può risultare più utile pensarlo insieme agli altri consacrati.
Nel presentare a voi i contenuti di questa mia conversazione, intendo invitarvi a fare una attenta considerazione di
sintesi storico-carismatica che serva a illuminare salesianamente i cammini di rinnovamento che stiamo percorrendo
dopo il Concilio Vaticano II.
Un’esperienza vissuta
L’ottica di questa mia relazione è sostanzialmente quella di una specie di cronistoria ripensata. Il tema del «come
rileggere oggi» il carisma viene sviluppato con una ottica «di fatto», non tanto per indicare il «come» si debba fare,
quanto piuttosto per indicare ciò che il nostro Istituto ha fatto. È un’esperienza che io ho vissuto personalmente dal
Concilio Vaticano II fino ad oggi.
L’esperienza vissuta non è una tesi da difendere, ma una realtà di vita — confortata da decenni di sperimentazione
— che può anche offrire dei suggerimenti (in parte collaudati) per saper rileggere sempre meglio le proprie origini
spirituali.
Due convinzioni di base
La rilettura del carisma del nostro Fondatore ci tiene impegnati ormai da ben trent’anni. Due grandi fari di luce ci
hanno aiutato in questo impegno: il primo è il Concilio Ecumenico Vaticano II, il secondo è il cambio epocale di
quest’ora di accelerazione della storia.
Siamo partiti dalla convinzione che il Concilio è stato una visita storica dello Spirito Santo alla Chiesa di Cristo
per una nuova ora della sua missione nel mondo: il più grande evento pastorale del secolo XX in vista di un autentico
rinnovamento. In esso c’erano da attingere luci e orientamenti anche per il rinnovamento della vita religiosa. Si trattava
di centrarsi sui punti strategici del grande messaggio conciliare, approfondirli, assumerli e applicarli alla rilettura del
nostro carisma.
In particolare, alla luce di quanto detto nella Lumen gentium, si è cercato di applicare ciò che chiedeva il decreto
Perfectae caritatis al n. 2: l’«accommodata renovatio» con le sue due componenti, il «ritorno alle fonti» e
l’«adattamento alle mutate condizioni dei tempi».

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La complementarità dei due criteri doveva evitare la minaccia di fissismo, di sclerosi e di formalismo, e allo stesso
tempo evitare la rottura con le origini.
L’applicazione di questi due criteri, semplici e chiari nell’enunciato, si è però dimostrata abbastanza complessa
nella prassi.
Il cambio epocale, già descritto con acuta percezione prospettica nella Costituzione conciliare Gaudium et spes, si
era presentato con vigore soprattutto in alcune zone occidentali dove opera con numerose presenze il nostro Istituto. Si
affrontava una crescente problematica di novità culturali che influivano fortemente sulla missione specifica dell’Istituto
e anche, almeno in parte, sullo stile di vita religiosa. D’altra parte si notavano già delle spinte in avanti di dubbia
autenticità che potevano far deviare o svuotare un sano processo di rinnovamento.
La novità culturale non poteva essere esclusa e disconosciuta, ma si doveva confrontare con la novità evangelica
inerente a un vero carisma. E questo apriva un orizzonte di lavoro assai vasto e delicato. Fu allora che si formulò la
famosa espressione: «Con Don Bosco e con i tempi, e non con i tempi di Don Bosco!».
L’aver avuto chiara coscienza di questa ineludibile sfida spinse i responsabili dell’Istituto a dare straordinaria
importanza al Capitolo Generale Speciale voluto dalla Sede Apostolica. Ci si è impegnati a prepararlo con una serietà
veramente inedita attraverso la partecipazione di tutte le Province e di tutti i confratelli. Si organizzarono delle équipes
di specialisti per una analisi assai dettagliata dei temi vitali da affrontare e si predispose anche un abbozzo di
rielaborazione delle stesse Costituzioni. Furono redatti con cura un insieme di ben 20 volumetti ad uso dei capitolari. Si
pensava a una grave responsabilità quasi di «rifondazione»: ciò che Don Bosco aveva fatto «personalmente» avrebbe
dovuto essere ripensato e rielaborato, in un certo senso, «comunitariamente», in rapporto alle esigenze del cambio
epocale e in piena fedeltà alle origini.
Ha aiutato molto, insieme agli studi storici, un’analisi seria, anche se sintetica, delle interpellanze dei cambiamenti
culturali (la secolarizzazione, la socializzazione, la personalizzazione, la liberazione, l’inculturazione, l’accelerazione
della storia, la promozione della donna, ecc.).
Mai si era fatto un lavoro così vasto e realista.
I cammini da seguire
La rilettura fondazionale non poteva essere semplicemente uno studio, più o meno scientifico, delle fonti, ma un
discernimento spirituale fatto da discepoli impegnati dal di dentro nella stessa esperienza vocazionale.
È la considerazione di chi sa cogliere l’anima del proprio Istituto, la sua intenzionalità, i suoi dinamismi, il suo
modo di seguire Cristo e di lavorare nella Chiesa, e di amare i giovani nel mondo così come sono. Il ritorno alle fonti
non doveva essere una passeggiata archeologica attraverso documenti antichi, ma la rivisitazione dei momenti di
fondazione e del cuore del Fondatore, nella sua esperienza originale di discepolo del Signore. Doveva essere una
rilettura organica e dinamica che implicasse autocoscienza di comunione con il Fondatore, mediante l’esperienza
collettiva di tutto un Istituto che attraverso il tempo ne ha condiviso lo spirito e la missione. Bisognava saper
armonizzare, con un dosaggio appropriato, sia il momento storico, sia quello teologale, sia quello cairologico.
Per incamminarsi verso una tale rilettura è stato necessario percorrere cammini complementari e interdipendenti,
cercando in ognuno di essi uno specifico apporto. I principali cammini seguiti sono stati:
a. Il cammino storico: il carisma è un’esperienza vissuta e non una teoria astratta. Si è fatto, perciò, uno studio
serio delle fonti che si riferiscono alla persona del Fondatore e alla fondazione stessa: il contesto culturale e sociale e il
suo influsso sul Fondatore; la sua vita e le sue opere; le persone che hanno influito su di lui e con cui ebbe speciali
contatti; gli scritti, ecc.
b. Il cammino esperienziale: nella rilettura fondazionale acquista rilievo e concretezza l’esperienza vissuta dalla
vasta comunità dei discepoli, i valori che questi hanno incarnato a partire dalla consapevolezza e dalla responsabilità
della stessa vocazione. Il cammino di fedeltà costituisce una specie di «sensus fidelium» congregazionale. Se viene a
mancare l’esperienza perseverante e fedele dei seguaci del Fondatore, si rischia
— di essere soggetti a mutazioni continue dell’identità, cercando una modernizzazione forzata del carisma secondo la
moda del tempo, confondendo ciò che è caduco con ciò che è essenziale;
— di spiazzare il Fondatore con il pretesto che i suoi scopi e fini non sono più attuali.
c. Il cammino dei segni dei tempi: il cammino «storico» e quello «esperienziale» permettono di avvicinarsi con
maggior sensibilità e tranquillità anche all’apporto dei segni dei tempi. Come ho già detto, ignorarli sarebbe condannare
il carisma a rimanere rinchiuso — contro natura — in un museo. Se da una parte i segni dei tempi esigono
approfondimenti e adattamenti da parte dell’Istituto, dall’altra permettono una comprensione nuova e di vera attualità
del dono dello Spirito. Aiutano a percepire fino a quali orizzonti il Signore spinge la sua Chiesa e i suoi carismi.
d. Il cammino spirituale: è un cammino che non esclude nessuno degli anteriori, ma che li unifica e li incorpora a
partire da un atteggiamento e un’ottica fondamentali: il discernimento della volontà del Signore, l’obbedienza alle sue
chiamate lungo il divenire della storia. Solo persone «spirituali», che coltivano cioè una speciale docilità allo Spirito,
possono percorrere questo cammino. Esso permette di oltrepassare il contesto socioculturale vissuto dal Fondatore, per

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far emergere nell’oggi le sue intenzioni evangeliche con le sue intuizioni fondanti, in modo tale da poterle realizzare
nel contesto attuale e nei nuovi tempi, e trasformarle in «cultura» di attualità.
La rielaborazione delle Costituzioni
Nella nostra rilettura fondazionale ha svolto un ruolo importante di concretezza e di guida dei lavori l’impegno di
rielaborare a fondo il testo costituzionale. Al principio ci furono delle resistenze per vari motivi; ed anche in seguito, a
lavoro già avviato, qualcuno pensava che bastasse ritoccare qua e là le Costituzioni anteriori. È risultata una decisione
molto saggia l’audacia di imbarcarsi a ripensare e rielaborare tutto in fedeltà.
Evidentemente il delicato lavoro è stato impostato secondo i nuovi orientamenti conciliari.1 Si doveva lavorare
per arrivare a un «Codice fondamentale» in cui descrivere autenticamente l’identità, i valori evangelici, l’indole
propria, la dimensione ecclesiale, le sane tradizioni, e anche le indispensabili norme giuridiche necessarie per assicurare
il carattere, i fini e i mezzi dell’Istituto.
A differenza della normativa anteriore, l’Ecclesiae Sanctae ha voluto che le Costituzioni rinnovate divenissero
ricche di principi evangelici, teologici ed ecclesiali; non però come un aggregato artificiale introdotto dall’esterno e ad
un livello teorico, ma piuttosto come percezioni ed esplicitazioni emananti dal vissuto stesso del Fondatore e
dall’interno del suo progetto di vita. Esse dovevano contenere la sintesi integrale di un progetto originale di vita
consacrata, indicando i principi sostanziali con cui il Fondatore vuole che i suoi siano discepoli di Cristo con un
determinato senso ecclesiale.
In esse bisognava raggiungere un’integrazione armonica tra l’ispirazione evangelica, la criteriologia apostolica e
la concretezza strutturale, mettendo in vista, più in là delle esigenze istituzionali, l’esperienza storica di Spirito Santo
vissuta dal Fondatore e da lui trasmessa all’Istituto.
Don Bosco, nostro Fondatore, si era sforzato al massimo di trasfondere la sua propria esperienza nelle
Costituzioni (nei limiti di ciò che si poteva fare allora), per lasciare un «testamento vivo» che fosse come lo specchio
che riflettesse i lineamenti più caratteristici del suo volto spirituale e apostolico. A ragione egli stesso aveva potuto
affermare che «amare Don Bosco è amare le Costituzioni»; e quando ne consegnò una copia a don Cagliero in partenza
per la Patagonia come capo della sua prima spedizione missionaria, esclamò con commossa persuasione: «Ecco Don
Bosco che viene con voi».
Giustamente, nella rielaborazione delle Costituzioni, si è cercato di rimandare il più possibile alla realtà spirituale
del Fondatore, ai suoi scritti più carismatici, alla sua esperienza collaudata, quale «modello» da cui deriva l’ottica
genuina e la chiave indispensabile di rilettura fondazionale.
Non è stato facile questo lavoro; è durato oltre un decennio, ma costituisce di fatto la sintesi più chiara e
autorevole della nostra rilettura fondazionale. Il tutto è stato arricchito da un autorevole commento, articolo per
articolo, come valido sussidio per la retta interpretazione delle Costituzioni. Inoltre si è elaborato un libro del governo
— in due volumi — uno per il Provinciale e un altro per il Superiore locale — in vista del rinnovamento dell’esercizio
dell’autorità. Si è anche potuto redigere una appropriata Ratio institutionis per la formazione iniziale e permanente dei
confratelli.
Lo spirito del Fondatore
Nella rielaborazione delle Costituzioni si è dato particolare rilievo alla strutturazione organica di esse, in una
visione globale e unitaria. Un progetto di vita non sopporta spezzettamenti che nascondano o danneggino la portata di
un disegno che è, in se stesso, vitalmente organico. Ma per poter fare questo era necessario per noi dilucidare due
concetti posti alla base del tutto: quello di «consacrazione» e quello di «missione» e i loro mutui rapporti. Si può dire
che su questo si scatenò una vera battaglia capitolare; essa non si risolvette tanto facilmente, come vedremo, ma, alla
fine, nella sua soluzione trovammo la chiave dell’organicità.
Intanto, come elemento a sé stante e basilare (almeno per il lavoro da fare), si volle assicurare la descrizione dei
tratti più significativi del volto spirituale del Fondatore. All’interno dei grandi valori evangelici comuni a tutti gli
Istituti di vita consacrata bisognava saper individuare lo stile quotidiano, gli atteggiamenti personali e comunitari, le
modalità di convivenza e di lavoro, ossia quel clima e quell’atmosfera di casa che costituisce la fisionomia propria;
certo, anche in questo bisognava gerarchizzare le componenti perché si trattava di una rilettura in profondità con un suo
centro motore, che non doveva diventare una teoria logica ma rimanere descrizione tipologica.
Nell’importante 1a Parte del nuovo testo costituzionale si è collocato un capitolo tutto nuovo di 12 articoli (dal 10
al 21) che condensano ciò che si è considerata la sostanza dello «spirito di Don Bosco».
Il Vaticano II — come abbiamo già detto — aveva invitato i religiosi a concentrare la loro attenzione sulla figura
del Fondatore, come espressione originale della pluriforme santità e vita evangelica della Chiesa. Ogni Fondatore è
nato da Essa ed è vissuto per Essa.
Paolo VI lo ha ricordato a tutti: «Il Concilio giustamente insiste sull’obbligo, per i religiosi e le religiose, di essere
fedeli allo spirito dei loro Fondatori, alle loro intenzioni evangeliche, all’esempio della loro santità, cogliendo in ciò

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uno dei principi del rinnovamento in corso ed uno dei criteri più sicuri di quel che ciascun Istituto deve eventualmente
intraprendere. Perché, se la chiamata di Dio si rinnova e si differenzia secondo le circostanze mutevoli di luogo e di
tempo, essa richiede tuttavia degli orientamenti costanti».2
Noi abbiamo usato la terminologia di «spirito», piuttosto che quella di «spiritualità», per rimanere più fedeli alla
storicità e al vissuto del Fondatore come un «kairós» divenuto modello; la «spiritualità», invece, suole far riferimento a
concetti piuttosto astratti.
Il lavoro realizzato costituisce oggi certamente uno dei pregi della nostra rilettura fondazionale; siamo convinti
che sarebbe piaciuto a Don Bosco stesso che, parlando con umiltà del testo costituzionale da lui redatto secondo le
normative dell’epoca, diceva che lo si poteva considerare come una «brutta copia» di ciò che lui stesso desiderava, ma
che essa sarebbe stata tradotta in «bella» dai suoi figli.
Il concentrare l’attenzione sullo spirito del Fondatore significava privilegiare l’interiorità e gli atteggiamenti del
cuore, avere gli stessi sentimenti con cui lui ha ricopiato quelli di Cristo.
Questo fa anche capire il salto di qualità voluto dal Concilio nella concezione delle Costituzioni: da un testo
piuttosto normativo e giuridico, alla sintesi geniale e stimolante dell’esperienza evangelica di un «capo-scuola» di
santità e di apostolato.
Lo spirito del Fondatore è certamente legato anche alla cultura del tempo, si manifesta in essa ma la trascende,
così da poter costituire un insieme di tratti spirituali incarnabili in altre culture. Esso appartiene, perciò, alla
trascendenza ed alla adattabilità del carisma. La sua trasmissione, però, non si fa semplicemente con parole, ma con una
continuata tradizione di vita legata di fatto a un lungo e delicato processo di sana inculturazione.
Dalla «missione» alla riscoperta del «carisma»
Ho già accennato al dibattito capitolare circa le nozioni fondamentali di «consacrazione» e «missione».
L’approfondimento del mutuo rapporto tra questi due aspetti vitali è stato al centro della nostra rilettura e ha costituito
una base per la sintesi conclusiva. Il Concilio ben interpretato ci ha condotti a una convergenza convinta e dinamica.
Quando si diede inizio ai lavori del Capitolo Generale Speciale si era stabilita una commissione, tra le altre,
dedicata specificamente a studiare il «carisma del Fondatore». Incontrò forti difficoltà e, dopo un certo spazio di tempo,
fu disciolta. Perché?
I motivi di fondo erano di due specie, fra loro mutuamente in contrasto. Alcuni non volevano lo studio del carisma
perché avrebbe potuto aprire il futuro ad avventure arbitrarie; altri, invece, non lo volevano perché avrebbe sacralizzato
elementi culturali e transitori del secolo scorso. La somma dei due gruppi ha prevalso numericamente; non c’era ancora
una mentalità sufficientemente illuminata al riguardo.
È utile anche ricordare che nei documenti del Concilio non si usa mai l’espressione «carisma» del Fondatore,
anche se vengono indicati gli elementi caratteristici dell’indole propria. Il primo uso ufficiale dell’espressione
«carisma» del Fondatore lo troviamo nell’Esortazione apostolica Evangelica testificatio di Paolo VI del 1971.3 Un
chiarimento autorevole più specifico e una descrizione più definita li ritroviamo poi nel documento Mutuae relationes
del 1978.4
D’altra parte si era convinti che, in un’ora di rapidi cambiamenti, l’aspetto che più ne sentiva le interpellanze era
quello della «missione». Così, evidentemente, la missione era al centro delle preoccupazioni di rilettura.
Ma, in che cosa consiste la «missione»? Era troppo facile dimenticare la sua natura teologica per restringerla
all’ambito operativo delle attività. E così una mentalità di tipo «essenzialista» affermava il primato ontologico della
«consacrazione» che non pochi pensavano dovesse precedere e guidare tutto il progetto.
Un problema non facile, alimentato tra i capitolari da concezioni riduttive e improprie sia del concetto di
«consacrazione» che di «missione».
La strada che ci ha aperto il senso autentico della rilettura del carisma è stata quella di capire il significato voluto
dai Padri conciliari nel famoso verbo «consecratur» della Lumen gentium n. 44. È stato un lavoro lungo e dibattuto per
arrivare a far cambiare la mentalità circa il concetto di «consacrazione» religiosa.
Prima la si identificava con gli aspetti più tipici dell’interiorità (preghiera, voti) e si considerava come suo
soggetto agente il singolo religioso («io mi consacro»). Questo portava a prescindere dal vero concetto di carisma e a
mettere in seconda linea la «missione» con le sue esigenze, quasi si trattasse solo dell’azione e delle opere e non fosse
teologicamente inerente alla consacrazione stessa. Tutto ciò influiva evidentemente sul modo stesso di strutturare le
Costituzioni. Ci fu un dibattito assai sofferto per superare questo dualismo tra «consacrazione» e «missione» che
intaccava alla radice l’identità della nostra vocazione apostolica.
È servito molto quanto afferma il Concilio nel n. 8 del Decreto Perfectae caritatis e, soprattutto, la considerazione
che è Dio l’agente attivo sia della consacrazione che della missione. Così si è ripensato il significato della professione e
se ne è rielaborata la formula.
In particolare si è approfondito il nesso teologico inseparabile tra «consacrazione» e «missione», dando un senso
rinnovato a tutto il progetto dell’indole propria e aprendo la possibilità di ripensare la struttura costituzionale. Questa
visione della nostra «consacrazione apostolica» è stata sintetizzata in un articolo delle Costituzioni che dice: «La nostra
vita di discepoli del Signore è una grazia del Padre che ci consacra col dono del suo Spirito e ci invia ad essere apostoli

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dei giovani. Con la professione religiosa offriamo a Dio noi stessi per camminare al seguito di Cristo e lavorare con Lui
alla costruzione del Regno. La missione apostolica, la comunità fraterna e la pratica dei consigli evangelici sono gli
elementi inseparabili della nostra consacrazione, vissuti in un unico movimento di carità verso Dio e verso i fratelli. La
missione dà a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto, specifica il compito che abbiamo nella Chiesa e determina
il posto che occupiamo tra le famiglie religiose».5
Si tratta, dunque, di vivere un’esistenza cristiana che è simultaneamente consacrata e apostolica, anzi che è
apostolica perché consacrata. Il dono dello Spirito al professo comporta in lui una grazia di unità che lo rende capace di
una sintesi vitale tra la pienezza della consacrazione e l’autenticità dell’operosità apostolica. «Questo tipo di vita —
affermò il Capitolo Generale Speciale — non è qualcosa di fisso e prefabbricato, ma è un progetto in permanente
costruzione. La sua unità non è statica, ma è un’unità in tensione, e nella continua necessità di equilibrio, di revisione,
di conversione e di adattamento».6
E questa grazia di unità, frutto della carità pastorale, è stata recentemente descritta anche dal Santo Padre
nell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis.7 E lo stesso Giovanni Paolo II in una allocuzione fatta ai Capitolari
del nostro CG23 il 1° maggio 1990: «Mi piace — disse — sottolineare anzitutto, come elemento fondamentale, la forza
di sintesi unitiva che sgorga dalla carità pastorale. Essa è frutto della potenza dello Spirito Santo che assicura
l’inseparabilità vitale tra unione con Dio e dedizione al prossimo, tra interiorità evangelica e azione apostolica, tra
cuore orante e mani operanti. I due grandi Santi, Francesco di Sales e Giovanni Bosco, hanno testimoniato e fatto
fruttificare nella Chiesa questa splendida “grazia di unità”. L’incrinatura di essa apre un pericoloso spazio a quegli
attivismi o intimismi che costituiscono una tentazione insidiosa per gli Istituti di vita apostolica».8
In questa visione di sintesi vitale abbiamo trovato la scintilla prima della nostra identità, quella che scocca nell’ora
zero, lì dove incomincia il tutto, dove esplode l’amicizia e si ratifica l’alleanza, dove palpita la grazia di unità. È
l’incontro di due amori, di due libertà che si fondono: il «Padre che ci consacra» e «ci invia» e noi che ci «offriamo
totalmente a Lui» nell’accettazione dell’«invio». In questa mutua fusione di amicizia l’iniziativa e la possibilità stessa
dell’alleanza apostolica proviene da Dio, ma è confermata dalle nostre libere risposte: è Lui che ci ha chiamato, ci ha
inviato e ci ha aiutato a rispondere, ma siamo noi che ci doniamo e facciamo i «missionari».
Per noi il termine «consacrazione» sottolineava soprattutto l’iniziativa di Dio: è Lui che consacra! Sapevamo
bene, poi, che il termine stesso di «consacrazione» — in quanto ai suoi contenuti — non è di per sé univoco; di fatto è
differenziato secondo vari livelli di vita ecclesiale. Non siamo entrati subito nella considerazione di tali
differenziazioni, lasciando alla elaborazione delle Costituzioni ciò che esso avrebbe significato concretamente per noi.
Ci interessava in primo luogo mettere in evidenza il salto di qualità da parte dell’iniziativa di Dio: «consecratur a
Deo»!
È questo il salto di qualità che ci ha aperto gli orizzonti.
In quest’ottica della consacrazione apostolica siamo stati portati a contemplare anche il Fondatore: Iddio, che lo
ha scelto e lo ha guidato, ha fatto della sua esistenza in missione una «esperienza di Spirito Santo» da continuare e da
far crescere nel tempo della Chiesa.
Ed eccoci, così, a una visione teologale del «carisma del Fondatore»: «un’esperienza dello Spirito, trasmessa ai
propri discepoli per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente sviluppata in sintonia con il Corpo
di Cristo in perenne crescita... con una indole propria che comporta anche uno stile particolare di santificazione e di
apostolato ».9
L’elemento dinamico che ha fatto maturare questa categoria teologica di «carisma» è stato appunto il
riconoscimento dell’iniziativa divina nella «consacrazione» come azione specifica di Dio. Di fatto, è stato questo un
vero capovolgimento conciliare che ha fatto ripensare il significato della professione e l’opera specifica del Fondatore.
È servito anche a dare il nome di «vita consacrata» agli Istituti che si solevano chiamare prima «stati di perfezione».
«Consacrazione apostolica» e «carisma» sono divenute per noi due categorie teologiche che si sovrappongono e si
interscambiano mutuamente. Si tratta, infatti, di una iniziativa esclusiva di Dio che non si svigorisce in un genericismo
senza volto, ma consiste in un intervento peculiare che determina una missione propria e un progetto evangelico di vita
per dare una fisionomia concreta («stile di santificazione e apostolato») all’Istituto.
Si può dire che la visione conciliare della «consacrazione» comporta un’ottica di iniziativa dello Spirito Santo
che, applicato al travaglio storico del fondare, ci manifesta la sostanza stessa del «carisma» donato sia al Fondatore che
all’Istituto, il quale ha come sorgente permanente della sua continuità la professione religiosa dei singoli soci.
Così, nella nostra rilettura fondazionale, anche se siamo partiti escludendo temporaneamente la categoria di
«carisma», siamo approdati fortemente ad essa attraverso il provvidenziale approfondimento dell’evento
«consacrazione» secondo il Concilio.
La durata e gli attori della rilettura
Possiamo considerare, «grosso modo», quattro tappe attraverso cui è passata questa nostra rilettura: il Capitolo
Generale Speciale e i tre Capitoli Generali seguenti; si tratta praticamente di due intensi decenni di lavoro: dal ’70 a
oltre il ’90.

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— Il CG20 (dal 10 giugno 1971 al 5 gennaio 1972: ben sette mesi!) è stato il Capitolo “Speciale” voluto dal
Motuproprio Ecclesiae sanctae ed è stato la tappa più lunga e laboriosa di ripensamento e di rielaborazione degli
elementi dell’identità; rimane il Capitolo fondamentale di tutto il lavoro fatto.
— Il CG21 (dal 31 ottobre 1977 al 12 febbraio 1978) fu un tempo ulteriore di revisione e di consolidamento.
Completò alcuni aspetti peculiari della nostra identità (per esempio il Sistema Preventivo, il ruolo del Direttore, la
figura del Salesiano Coadiutore) in armonia con la dottrina e gli orientamenti del Vaticano II e prolungò per un altro
sessennio l’esperimento delle Costituzioni rinnovate.
— Il CG22 (dal 14 gennaio al 12 maggio 1984) costituisce l’ultimo apporto e il traguardo che porta a conclusione
la sperimentazione vissuta lungo due sessenni e consegna alla Congregazione le Costituzioni e i Regolamenti in forma
rinnovata e organica.
— Il CG23 (dal 4 marzo al 5 maggio 1990) si differenzia dai tre Capitoli Generali anteriori perché propriamente
«ordinario». I tre anteriori appartengono, in qualche modo, alla categoria del Capitolo Generale «Speciale», perché si
riferiscono globalmente alla identità del carisma con svariati argomenti da discernere. Il CG23, invece, tratta solo di un
argomento concreto, scelto per intensificare il cammino del rinnovamento. Può essere interessante osservare che, se i
tre Capitoli «Speciali» approdano con chiarezza a una identità ormai ridescritta nelle Costituzioni, il CG23 lancia
l’identità carismatica sul campo di una accelerata evoluzione per una ortoprassi della missione, ci ricorda che la
rilettura dell’identità non chiude la porta, bensì la apre con più coraggio, alla ricerca di impegni da inventare nella
nuova evangelizzazione. Dunque: una rilettura anche per una miglior ricerca a favore della missione.
È interessante osservare che le quattro tappe costituiscono, si può dire, un unico processo continuo e
complementare. Questo significa che il testo rielaborato trascende non solo l’impegno di gruppi ristretti di determinati
confratelli, ma gli stessi singoli quattro Capitoli Generali. In ognuno di essi, distanti sei anni l’uno dall’altro, è cambiata
infatti una buona parte dei membri, e ogni volta c’è stata una novità di esperienza vissuta e riflessa; in ognuno dei
Capitoli che venivano dopo si è potuto attutire l’eventuale influsso di elementi anteriori che fossero stati frutto di
qualche considerazione circostanziale; una più profonda e prolungata riflessione ha potuto correggere imprecisioni od
eventuali ambiguità; il tempo ha fatto maturare l’approfondimento di aspetti delicati, mentre l’accelerazione dei
mutamenti ha portato a saper distinguere più chiaramente i valori permanenti da quelli caduchi, quelli d’identità da
quelli di estrazione solo culturale, accrescendo la coscienza della dimensione ecclesiale e mondiale del progetto
evangelico di Don Bosco.
Punti nevralgici nel processo di discernimento
Nella visione conciliare dell’Ecclesiae sanctae le Costituzioni dovevano essere la presentazione autorevole di un
progetto di vita evangelica; si chiedeva di indicare in esse i principi fondamentali della sequela del Cristo, la sua
dimensione ecclesiale, la sua originalità carismatica, le sane tradizioni e le strutture adeguate di servizio.
Esse presentano, di fatto, un’integrazione armonica tra ispirazione evangelica e concretezza di strutture. Sono il
documento fondamentale del Diritto particolare della Congregazione. Più che dedicarsi a stabilire prioritariamente
norme dettagliate da seguire, esse descrivono principalmente una modalità spirituale e apostolica da testimoniare
secondo lo spirito delle Beatitudini. Aiutano a rileggere il mistero di Cristo nell’ottica del Fondatore, per noi nell’ottica
salesiana di Don Bosco. Si è ripensata la loro struttura generale secondo un ordinamento ed uno stile che invitano ad
una lettura orante e stimolano ad un impegno di vita. Se chi le medita lo fa «nella fede», ossia con occhi «nuovi», vi
attinge luce e forza.
Si sono seguiti dei criteri orientativi, condivisi — magari dopo sofferte discussioni —, che si possono considerare
come dei punti nevralgici nel cammino percorso. Oltre al senso vivo del Fondatore, di cui ho già parlato, enumero i
seguenti:
1. La portata della professione religiosa
La rilettura del carisma ha risvegliato soprattutto la coscienza di un’ora germinale per la vita consacrata con un
globale impegno di ricominciamento per rilanciare davvero il progetto del Fondatore. Questa sensibilità di rilancio ha
portato con sé il ricupero del significato vitale della professione religiosa.
Si è compreso che non si può ridurre la professione alla sola emissione dei tre voti, come se essi fossero identici in
tutti gli Istituti di consacrazione. Non si trattava di scrivere nelle Costituzioni una specie di trattatello generico di vita
consacrata, ma offrire una descrizione tipologica di ciò che il Concilio chiama «indole propria» del progetto evangelico
professato. Bisognava descrivere i tratti spirituali e gli atteggiamenti esistenziali che ci devono distinguere e
caratterizzare nel Popolo di Dio. Senza dubbio questi aspetti suppongono ed esigono gli elementi costitutivi di ogni vita
cristiana e consacrata, che abbiamo necessariamente in comune con gli altri fedeli e religiosi.
L’indole propria è costituita da aspetti e colorazioni esistenziali, descritti e precisati nel testo costituzionale e
assunti esplicitamente nella professione come prassi di sequela del Cristo. Cosa, di fatto, né insignificante né

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trascurabile per i professi. Per noi il modo di essere discepoli e di vivere il Battesimo è quello di praticare la nostra
«Regola di vita». Per divenire veri cristiani noi dobbiamo vivere da buoni salesiani. «Non ci sono due piani — ci
diceva già il CGS —: quello della vita religiosa, un po’ più alto, e quello della vita cristiana, un po’ più basso. Per chi è
religioso, testimoniare lo spirito delle beatitudini colla professione è la sua unica maniera di vivere il battesimo e di
essere discepolo del Signore».
Nella professione religiosa scopriamo, in definitiva, il significato vivo e globale della nostra speciale Alleanza con
Dio.
2. Il criterio oratoriano
Si riferisce anche al problema dei destinatari: un punto cruciale nel Capitolo Generale Speciale. Don Bosco ha
avuto a cuore, come priorità, l’opera degli Oratori con i suoi destinatari privilegiati. Nella nostra rilettura del carisma il
primo Oratorio di Valdocco è stato assunto a modello apostolico di riferimento. Tale modello non si identifica con una
determinata struttura o istituzione, bensì comporta una specifica ottica pastorale per giudicare le presenze esistenti o da
creare.
Al centro di questo «cuore oratoriano» c’è la predilezione per i giovani, soprattutto i più bisognosi e dei ceti
popolari; prima e al di là delle «opere» ci sono i «giovani»: il discepolo di Don Bosco deve sentirsi un missionario dei
giovani.
L’ispirazione di tale criterio illumina gli impegni ecclesiali voluti da Don Bosco per la Congregazione. Essi sono:
l’evangelizzazione dei giovani, soprattutto poveri e del mondo del lavoro; la cura delle vocazioni; l’iniziativa apostolica
negli ambienti popolari, in particolare con la comunicazione sociale; e le missioni.
Per capire fedelmente l’ambito di questo criterio conviene aver presenti alcune esigenze costituzionali a tre
differenti livelli complementari:
— la scelta preferenziale dei destinatari, i giovani poveri e, simultaneamente, quelli con germi di vocazione;
— l’esperienza spirituale ed educativa del Sistema Preventivo;
— la capacità di convocazione di numerosi corresponsabili scelti soprattutto nel laicato e tra i giovani stessi.
Si tratta, quindi, di un criterio complesso ma concreto che ci invita a trascendere la materialità delle opere e ad
entrare nel cuore di Don Bosco per giudicare e programmare secondo l’angolatura specifica della sua carità pastorale.
Di fatto, tale criterio è sfociato, tra l’altro, in un coraggioso Progetto-Africa che, dopo 15 anni, vede più di 800
missionari salesiani in ben 36 Paesi del continente.
3. La dimensione comunitaria
Un altro punto nevralgico della rilettura è stato quello della dimensione comunitaria, intrinseca alla vita religiosa,
anche se — per noi — con un peculiare stile proprio.
Non si trattava, però, solo d’intensificare un genuino «spirito di famiglia» tra i confratelli — assai sottolineato fin
dalle origini —, ma di insistere sulla speciale comunione di responsabilità nella missione: questa è affidata in primo
luogo alla comunità, che ne è il soggetto responsabile.
Di qui il modo peculiare di esercitare l’autorità, di qui l’aspetto comunitario del progetto educativo-pastorale, di
qui l’impegno di formularlo, di realizzarlo e di rivederlo insieme, di qui lo stimolo agli apporti personali al di fuori di
ogni individualismo e di ogni arbitraria indipendenza. La comunità è chiamata a un continuo discernimento pastorale
per procedere poi unita e fedele nella realizzazione apostolica del carisma.
Questo punto nevralgico è risultato di grande influsso nel lungo cammino del rinnovamento.
4. La «forma» dell’Istituto
La «forma» dell’Istituto (che sia «clericale», «laicale», «misto», «indifferente»...) comporta dei tratti costitutivi
che esprimono ed assicurano, anche giuridicamente, l’indole propria e caratterizzante del carisma. Essa ha, di fatto,
un’importanza teologale e spirituale nella vitalità e crescita del carisma: «Secondo la nostra tradizione — si è affermato
nel testo delle Costituzioni — le comunità sono guidate da un socio sacerdote che, per la grazia del ministero
presbiterale e l’esperienza pastorale, sostiene e orienta lo spirito e l’azione dei fratelli».10
La missione, che dà il tono a tutta la vita dell’Istituto, è di natura pastorale e tutto lo spirito del Fondatore
promana dalla carità pastorale del suo cuore di prete.
Il nostro Istituto non è né strettamente «sacerdotale», né semplicemente «laicale», e neppure propriamente
«indifferente». I soci sono «chierici» e «laici» che vivono «la medesima vocazione in fraterna complementarità»;
ognuno ha coscienza di essere membro corresponsabile del «tutto», prima di considerarsi chierico o laico. «Le
componenti “sacerdotale” e “laicale” della Società non comportano un’addizione estrinseca di due dimensioni affidate
ognuna a categorie di confratelli in sé differenti che camminano parallelamente e sommano forze separate, bensì
costituiscono insieme una comunità che è, come abbiamo visto, il soggetto vero dell’unica missione salesiana (Cost
44). Ciò esige una formazione originale della personalità di ogni socio, per cui il cuore del “salesiano-chierico” si
sente intimamente attirato e coinvolto nella dimensione “laicale” della comunità, e il cuore del “salesiano-laico” si
sente a sua volta intimamente attirato e coinvolto in quella “sacerdotale”».11 È, questa, una caratteristica unitaria legata

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alla specifica «dimensione secolare» dell’Istituto. Per questo è veramente importante tra noi promuovere
simultaneamente una coscienza e una crescita armonica dei soci «chierici» e dei soci «laici» nello spirito della
tradizione salesiana.
Ebbene, il servizio dell’autorità in Congregazione è legato a questa originalità della «forma». Svolge una delicata
funzione di identità nello spirito e di unità nell’azione apostolica. Il suo ruolo specifico è quello di promuovere e
orientare quella «carità pastorale» che è il centro e la sintesi dello spirito salesiano e l’anima di tutta la nostra attività.
La grazia dell’Ordinazione sacerdotale (che è «il Sacramento della carità pastorale») ne arricchisce e avvalora la
capacità di servizio e fa che un genuino criterio «pastorale» guidi tutta la nostra partecipazione alla missione
evangelizzatrice della Chiesa, che comprende anche la promozione umana e l’incisività sulla cultura.
Si tratta di un apporto utile a tutti i soci perché intimamente unito al criterio oratoriano.
5. Il decentramento
Si era convinti dell’urgenza di saper incarnare, con duttile metodologia, l’identità comune nelle differenze delle
culture locali. È, questo, un compito arduo: richiede la chiarezza dell’identità nella formazione, e una vera sensibilità e
intelligenza di discernimento per le differenze culturali.
Ci siamo sentiti in pieno accordo con il P. Voillaume: «Si manifesta oggi una tendenza a rimettere in causa l’unità
di una Congregazione sotto il pretesto di sviluppare le caratteristiche regionali o nazionali delle fondazioni. Una tale
tendenza è ambigua. Legittima in quanto è la reazione contro l’impegno uniforme di una espressione univoca della vita
religiosa troppo dipendente da un’unica mentalità, essa rischia nondimemo di rimettere in causa una delle
caratteristiche del Regno di Dio che è il situarsi al di là di ogni cultura, nell’unità fraterna del Popolo di Dio che non
dovrebbe conoscere né frontiere né razze».12
Un carisma non aperto e duttile ai valori delle culture si sclerotizza e si emargina dal futuro; ma una cultura chiusa
alla sfida dei segni dei tempi, all’interscambio con le altre culture e alla trascendenza del mistero di Cristo e del suo
Spirito, rischia di presentarsi come un semplice museo del passato o come una interpretazione riduttiva della
universalità. Si percepisce qui quanto è divenuta delicata e impegnativa oggi nell’Istituto l’attività formativa.
E insieme si coglie anche quanto sia importante un esercizio dell’autorità adeguatamente decentrato per assicurare
nelle Province e nei gruppi di Province omogenee una concreta possibilità di inculturazione.
6. La Famiglia Salesiana
Convinti che il Fondatore ha lanciato il suo spirito e la sua missione più in là del nostro Istituto e che ad essa ha
lasciato in eredità particolari responsabilità di animazione e di coordinamento di tante forze apostoliche, abbiamo
considerato essere una delle grandi vie del nostro rinnovamento la cura di quella che si è chiamata «Famiglia
Salesiana».
Essa è composta di vari gruppi istituiti (sia di Istituti di vita consacrata, sia di Associazioni laicali o di
movimenti), che condividono — in forme differenziate — lo spirito e la missione di Don Bosco. Risulta, questo, un
campo vasto e fecondo che vede oggi speciali possibilità nell’ambito del laicato impegnato. Ci siamo già incamminati
decisamente, seguendo le orme del Fondatore, e vogliamo intensificare e perfezionare questa scelta nel prossimo
Capitolo Generale 24 (1996): «Salesiani e laici: comunione e condivisione nello spirito e nella missione di Don
Bosco».
Urgenza di concretezza metodologica
La rilettura fondazionale è stata, in se stessa, una intensa e non facile ricerca della nostra identità carismatica.
Siamo rimasti contenti di ciò che si è fatto e ne ringraziamo il Signore.
Dobbiamo aggiungere, però, che una così lunga rilettura non ha chiuso il periodo della ricerca: affatto. Anzi, ha
aperto — essa stessa — una modalità di ricerca ancor più accelerata ed intensa. È come se la rilettura fondazionale
avesse scatenato tutte le energie a disposizione in vista di una maggior significatività e creatività apostolica.
Non, dunque, una lettura terminata e ormai conclusa, ma una specie di profezia che rilancia il processo di
rinnovamento avviato su un doppio binario di novità: quello dell’assimilazione da parte di tutti i confratelli per un
rinnovamento spirituale delle persone e delle comunità, e quello del coinvolgimento operativo nell’affrontare le sfide
della nuova evangelizzazione.
Sapendo con più chiarezza e sicurezza «chi» siamo oggi nella Chiesa (= rilettura fondazionale), ci sentiamo
interpellati in quanto portatori di un «carisma di attualità». E ciò richiede una speciale capacità metodologica di
progettazione e di azione. Il cammino dall’identità carismatica all’attualizzazione della missione oggi (dall’ortodossia
all’ortoprassi) è assai complesso. Qui si concentra tutto il grande problema pastorale della Chiesa, «il nuovo ardore, la
nuova metodologia, le nuove espressioni», la capacità di progettazione, la serietà della revisione.
Quanto più chiara è la propria identità di consacrati, tanto più esigente è la ricerca di una dinamica aggiornata del
carisma.

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È per questo che il nostro primo Capitolo Generale «ordinario» del 1990 (CG23), dopo quelli «speciali» per la
rilettura dell’identità, ha avuto come preoccupazione di far rivivere la missione di Don Bosco oggi per «educare i
giovani alla fede».
Ci accorgiamo che la strada è lunga e con innumerevoli incognite e il costante avanzare su questa strada pastorale
sarà la miglior riprova dell’autenticità della rilettura fondazionale.
Sentiamo l’urgenza di promuovere tutto un settore di riflessione teologica che vada più in là delle discipline della
fede fondamentali e classiche. Si tratta di un tipo di «teologia pastorale», che si chini sulla vita reale entrando in
dialogo anche con le scienze umane (storiche, antropologiche, filosofiche, sociologiche, pedagogiche, politiche, ecc.)
tenendo saldamente in conto gli orientamenti ufficiali del Magistero che accompagnano una prassi ecclesiale animata
dallo Spirito del Signore: tale prassi precede di per sé anche la riflessione scientifica. Una mentalità pastorale ha
bisogno di molti apporti: insieme alla riflessione teologica di carattere biblico, storico, dogmatico e liturgico, deve
saper sviluppare una appropriata metodologia di intervento, frutto di una riflessione pedagogica e metodologica che
comporta strategia d’azione, studio e programmazione di tempi, di modi, di itinerari, di mezzi, ossia una elaborazione
di progetti onde passare da una situazione sfidante a una soluzione positiva come meta a cui si tende.
Chi vive in missione apostolica sente l’urgenza di qualificare sempre meglio la sua mentalità pastorale; guarda
con attenzione alla nascita di centri di seria «teologia pastorale»: una teologia «particolare», che non pretende di
erigersi a unica interpretazione del tutto, ma che illumina la prassi. Essa «si inserisce nella vasta area teologica come
una parte vitale e importante, ma non come un tutto o come l’unico criterio valido del tutto. La “pastorale” non cerca di
cambiare la formalità della teologia; soprattutto, non deve cambiarla quando volge la sua attenzione e riflessione su
qualcosa di concreto, urgentemente vitale. Se l’urgenza di riflessione è precisamente teologica, ossia polarizzata dalla
rivelazione e dalla luce del mistero di Cristo sotto la guida del Magistero, sarebbe un grave errore il privarla (come
purtroppo qualche volta è successo) di questa sua connaturale polarizzazione, sostituendola con un’ottica orizzontalista
che pretendesse manipolare a suo piacimento l’interpretazione del Cristianesimo».13
Così la nostra rilettura fondazionale ci ha portato a rivedere e a rinnovare anche le strutture accademiche della
nostra Università Pontificia affinché avessero una maggior proponibilità pastorale. Assicurando sempre una seria
riflessione teologica, perché è appunto nell’ambito di un certo entusiasmo cosiddetto «pastorale» che si corre anche il
pericolo di imboccare strade non giuste, svincolandosi a poco a poco dall’autenticità del carisma.
Animazione e governo
La concretezza metodologica in vista di una azione apostolica aggiornata e più incisiva ha fatto emergere in primo
piano l’indispensabilità di un impegno di formazione permanente per tutti i confratelli: assumere con chiarezza la
rilettura fondazionale e stimolare ogni comunità a una capacità di progettazione concreta per la nuova
evangelizzazione.
Tale ampio impegno ha cambiato lo stile dell’esercizio dell’autorità nel governo: il segreto di tale esercizio è la
competenza nell’animazione. Quante iniziative sono sorte al riguardo! Non è un lavoro semplice né a breve scadenza,
ma è assolutamente indispensabile; senza di esso la rilettura fondazionale finisce in biblioteca.
Così si è constatato che in un’ora di profondi cambiamenti il concetto di «formazione» ha il suo significato
fondamentale e prioritario («princeps analogatum») nella formazione permanente, che ogni casa religiosa autentica
diviene centro di formazione e che la formazione iniziale va rivolta verso quella permanente per preparare i formandi
ad essere soggetti capaci e impegnati nell’affrontare le svariate e incalzanti sfide del divenire culturale ed ecclesiale.
Il cambio epocale chiama tutti i religiosi a sentirsi in certa maniera ascritti a un «secondo noviziato» per rinnovare
la propria professione religiosa secondo la rilettura postconciliare.
Insieme alla fedeltà nello spirito viene stimolata la creatività nella missione con sensibilità verso la pluriformità
delle situazioni e spingendo il governo a strutturarsi e a muoversi in vista di un «pluralismo nell’unità» e di un’«unità
nel pluralismo».
Una visita dello Spirito del Signore
Noi eravamo e siamo convinti — come ho già detto — che il Concilio Vaticano II è stato una visita dello Spirito
del Signore alla sua Chiesa; è venuto a provocare un salto di qualità in tutta la pastorale, partendo dall’identità del
mistero della Chiesa, dalle sue relazioni con il mondo e dalla sua presenza di fermento nella storia.
Noi ci siamo accinti a fare la nostra rilettura fondazionale in questo clima di Pentecoste. Senz’altro abbiamo avuto
delle lentezze, dei residui preconciliari, delle miopie e dei timori che hanno prolungato molto la rilettura; forse sono
rimaste qua e là ancora delle zone oscure da illuminare in armonia con il tutto; però consideriamo, con semplicità di
fede, che tutto il lavoro fatto non si potrebbe spiegare senza la luce, la creatività, l’intuito di futuro propri di una
speciale presenza dello Spirito del Signore. Guardando indietro, rileggendo le Costituzioni rinnovate, osservando lo
sviluppo della vita dell’Istituto, le sue trasformazioni e la sua vitalità in tutti i continenti, noi crediamo che lo Spirito

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Santo, con l’intervento materno di Maria, ci ha regalato delle lenti appropriate e limpide per rileggere bene le nostre
origini e rilanciarci in avanti.
Ci sentiamo così nel Popolo di Dio chiamati dallo Spirito a collaborare, attraverso la nostra specifica missione, nel
faticoso cammino ecclesiale verso il terzo millennio.
Abbiamo una «carta d’identità» valida e aggiornata
Cari confratelli, ringraziamo ed esultiamo. Lo Spirito del Signore ci ha illuminati e accompagnati; ci ha indicato la
nostra strada maestra; ci ha arricchiti con un tesoro di vita; ci ha tolti dalle pene delle insicurezze e delle deviazioni e ci
ha assicurato la nostra identità nel Popolo di Dio; ma ci ha, proprio per questo, aperto un immenso campo di lavoro,
dove c’è da ricercare, da faticare, da creare, da profetizzare con quello spirito di iniziativa e di originalità che hanno
caratterizzato le origini apostoliche della nostra missione.
Maria ci guidi, attraverso questa nostra rilettura fondazionale, per rilanciare il carisma di Don Bosco verso le
immense possibilità e speranze del terzo millennio.
Insieme a Mamma Margherita guardiamo al futuro con intuizione e fecondità materne.
Auguri d’impegno.
Cordialmente,
D. Egidio Viganò
NOTE LETTERA 63
1 cf. ES II, 12 - anno 1966
2 ET 11-12, Roma 1971
3 cf. ET 11
4 MR 11
5 Cost 3
6 CGS 127
7 cf. Pastores dabo vobis 23 e 24
8 Osservatore Romano 2.5.90
9 MR 11
10 Cost 121
11 CG22 80
12 R. VOILLAUME, La vita religiosa: conversazioni di Béni-Abbès, Città Nuova 1973, pag. 95
13 cf. E. VIGANÒ, Per una teologia della vita consacrata, LDC Torino 1986, pag. 21-22