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La Santa Sede
LETTERA APOSTOLICA
MULIERIS DIGNITATEM
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
SULLA DIGNITÀ E VOCAZIONE
DELLA DONNA
IN OCCASIONE DELL'ANNO MARIANO
Venerati Fratelli, carissimi Figli e Figlie,
salute e Apostolica Benedizione!
I
INTRODUZIONE
Un segno dei tempi
1. LA DIGNITÀ DELLA DONNA e la sua vocazione - oggetto costante della riflessione umana e
cristiana - hanno assunto un rilievo tutto particolare negli anni più recenti. Ciò è dimostrato, tra
l'altro, dagli interventi del Magistero della Chiesa, rispecchiati in vari documenti del Concilio
Vaticano II, il quale afferma poi nel Messaggio finale: «Viene l'ora, l'ora è venuta, in cui la
vocazione della donna si svolge con pienezza, l'ora in cui la donna acquista nella società
un'influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto. E' per questo che, in un momento in
cui l'umanità conosce una così profonda trasformazione, le donne illuminate dallo spirito
evangelico possono tanto operare per aiutare l'umanità a non decadere» [1]. Le parole di questo
Messaggio riassumono ciò che aveva già trovato espressione nel Magistero conciliare, specie
nella Costituzione pastorale Gaudium et spes [2] e nel Decreto sull'apostolato dei laici
Apostolicam actuositatem [3].
Simili prese di posizione si erano manifestate nel periodo preconciliare, per esempio in non pochi
Discorsi del Papa Pio XII [4] e nell'Enciclica Pacem in terris di Papa Giovanni XXIII [5]. Dopo il
Concilio Vaticano II, il mio Predecessore Paolo VI ha esplicitato il significato di questo «segno dei
tempi», attribuendo il titolo di Dottore della Chiesa a santa Teresa di Gesù e a santa Caterina da

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Siena [6], ed istituendo, altresì, su richiesta dell'Assemblea del Sinodo dei Vescovi nel 1971,
un'apposita Commissione, il cui scopo era lo studio dei problemi contemporanei riguardanti la
«promozione effettiva della dignità e della responsabilità delle donne» [7]. In uno dei suoi Discorsi
Paolo VI disse tra l'altro: «Nel cristianesimo, infatti, più che in ogni altra religione, la donna ha fin
dalle origini uno speciale statuto di dignità, di cui il Nuovo Testamento ci attesta non pochi e non
piccoli aspetti (...); appare all'evidenza che la donna è posta a far parte della struttura vivente ed
operante del cristianesimo in modo così rilevante che non ne sono forse ancora state enucleate
tutte le virtualità» [8].
I Padri della recente Assemblea del Sinodo dei Vescovi (ottobre 1987), dedicata a «la vocazione e
la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent'anni dal Concilio Vaticano II», si sono di
nuovo occupati della dignità e della vocazione della donna. Essi hanno auspicato, tra l'altro,
l'approfondimento dei fondamenti antropologici e teologici necessari a risolvere i problemi relativi
al significato e alla dignità dell'essere donna e dell'essere uomo. Si tratta di comprendere la
ragione e le conseguenze della decisione del Creatore che l'essere umano esista sempre e solo
come femmina e come maschio. Solo partendo da questi fondamenti, che consentono di cogliere
la profondità della dignità e della vocazione della donna, è possibile parlare della sua presenza
attiva nella Chiesa e nella società.
E' quanto intendo trattare nel presente Documento. L'Esortazione post-sinodale, che verrà resa
pubblica dopo di esso, presenterà le proposte di indole pastorale circa il posto della donna nella
Chiesa e nella società, sulle quali i Padri sinodali hanno fatto importanti considerazioni, avendo
anche vagliato le testimonianze degli Uditori laici - donne e uomini - provenienti dalle Chiese
particolari di tutti i continenti.
L'Anno Mariano
2. L'ultimo Sinodo si è svolto durante l'Anno Mariano, che offre un particolare impulso ad
affrontare questo tema, come indica anche la Enciclica Redemptoris Mater [9]. Questa Enciclica
sviluppa e attualizza l'insegnamento del Concilio Vaticano II, contenuto nel capitolo VIII della
Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium. Tale capitolo reca un titolo significativo: «La
beata Vergine Maria, Madre di Dio, nel mistero di Cristo e della Chiesa». Maria - questa «donna»
della Bibbia (cf. Gen 3, 15; Gv 2, 4; 19, 26) - appartiene intimamente al mistero salvifico di Cristo,
e perciò è presente in modo speciale anche nel mistero della Chiesa. Poiché «la Chiesa è in
Cristo come un sacramento (...) dell'intima unione con Dio e della unità di tutto il genere umano»
[10], la speciale presenza della Madre di Dio nel mistero della Chiesa ci lascia pensare
all'eccezionale legame tra questa «donna» e l'intera famiglia umana. Si tratta qui di ciascuno e di
ciascuna, di tutti i figli e di tutte le figlie del genere umano, nei quali si realizza nel corso delle
generazioni quella fondamentale eredità dell'intera umanità che è legata al mistero del «principio»
biblico: «Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»
(Gen 1, 27) [11].

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Questa eterna verità sull'uomo, uomo e donna - verità che è anche immutabilmente fissata
nell'esperienza di tutti - costituisce contemporaneamente il mistero che soltanto nel «Verbo
incarnato trova vera luce (...). Cristo svela pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua
altissima vocazione», come insegna il Concilio [12]. In questo «svelare l'uomo all'uomo» non
bisogna forse scoprire un posto particolare per quella «donna», che fu la Madre di Cristo? Il
«messaggio» di Cristo, contenuto nel Vangelo e che ha per sfondo tutta la Scrittura, Antico e
Nuovo Testamento, non può forse dire molto alla Chiesa e all'umanità circa la dignità e la
vocazione della donna?
Proprio questa vuol essere la trama del presente Documento, che si inquadra nel vasto contesto
dell'Anno Mariano, mentre ci si avvia al termine del secondo millennio dalla nascita di Cristo e
all'inizio del terzo. E mi sembra che la cosa migliore sia quella di dare a questo testo lo stile e il
carattere di una meditazione.
II
DONNA - MADRE DI DIO
(THEOTÓKOS)
Unione con Dio
3. Quando «venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna». Con queste
parole della Lettera ai Galati (4, 4) l'apostolo Paolo unisce tra loro i momenti principali che
determinano in modo essenziale il compimento del mistero «prestabilito in Dio» (cf. Ef 1, 9). Il
Figlio, Verbo consostanziale al Padre, nasce come uomo da una donna, quando viene «la
pienezza del tempo». Questo avvenimento conduce al punto chiave della storia dell'uomo sulla
terra, intesa come storia della salvezza. E' significativo che l'apostolo non chiami la Madre di
Cristo col nome proprio di «Maria», ma la definisca «donna»: ciò stabilisce una concordanza con
le parole del Protovangelo nel Libro della Genesi (cf. 3, 15). Proprio quella «donna» è presente
nell'evento centrale salvifico, che decide della «pienezza del tempo»: questo evento si realizza in
lei e per mezzo di lei.
Così inizia l'evento centrale, l'evento chiave nella storia della salvezza, la Pasqua del Signore.
Tuttavia, vale forse la pena di riconsiderarlo a partire dalla storia spirituale dell'uomo intesa nel
modo più ampio, così come si esprime attraverso le diverse religioni del mondo. Appelliamoci qui
alle parole del Concilio Vaticano II «Gli uomini si attendono dalle varie religioni la risposta ai
reconditi enigmi della condizione umana che, ieri come oggi, turbano profondamente il cuore
umano: che cosa sia l'uomo, quale sia il senso e il fine della nostra vita, che cosa siano il bene e il
peccato, quale origine e fine abbia il dolore, quale sia la via per raggiungere la vera felicità, che
cosa siano la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che

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circonda la nostra esistenza, dal quale traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo» [13]. «Dai
tempi più antichi fino ad oggi, presso i vari popoli si trova una certa percezione di quella forza
arcana che è presente nel corso delle cose e negli avvenimenti della vita umana, e anzi talvolta si
ha riconoscimento della suprema Divinità o anche del Padre» [14].
Sullo sfondo di questo vasto panorama, che pone in evidenza le aspirazioni dello spirito umano in
cerca di Dio - a volte quasi «andando come a tentoni» (cf. At 17, 27) -, la «pienezza del tempo», di
cui parla Paolo nella sua Lettera, mette in rilievo la risposta di Dio stesso, di colui «in cui viviamo,
ci muoviamo ed esistiamo» (cf. At 17, 28). E' questi il Dio che«aveva già parlato nei tempi antichi
molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, e ultimamente ha parlato a noi per
mezzo del Figlio» (cf. Eb 1, 1-2). L'invio di questo Figlio, consostanziale al Padre, come uomo
«nato da donna», costituisce il culminante e definitivo punto dell'autorivelazione di Dio all'umanità.
Questa autorivelazione possiede un carattere salvifico, come insegna in un altro passo il Concilio
Vaticano II: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero
della sua volontà (cf. Ef 1, 9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne,
nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cf. Ef 2, 18; 2
Pt 1, 4)»[15].
La donna si trova al cuore di questo evento salvifico. L'autorivelazione di Dio, che è
l'imperscrutabile unità della Trinità, è contenuta nelle sue linee fondamentali nell'annunciazione di
Nazareth. «Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande e
chiamato Figlio dell'Altissimo». «Come avverrà questo? Non conosco uomo». «Lo Spirito Santo
scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà
dunque santo e chiamato Figlio di Dio (...). Nulla è impossibile a Dio» (cf. Lc 1, 31-37) [16].
E' facile pensare a questo evento nella prospettiva della storia d'Israele, il popolo eletto di cui
Maria è figlia; ma è facile anche pensarvi nella prospettiva di tutte quelle vie, lungo le quali
l'umanità da sempre cerca risposta agli interrogativi fondamentali ed insieme definitivi che più
l'assillano. Non si trova forse nell'annunciazione di Nazareth l'inizio di quella risposta definitiva,
mediante la quale Dio stesso viene incontro alle inquietudini del cuore dell'uomo? [17] Qui non si
tratta solo di parole di Dio rivelate per mezzo dei Profeti, ma, con questa risposta, realmente «il
Verbo si fa carne» (cf. Gv 1, 14). Maria raggiunge così un'unione con Dio tale da superare tutte le
attese dello spirito umano. Supera persino le attese di tutto Israele e, in particolare, delle figlie di
questo popolo eletto, le quali, in base alla promessa, potevano sperare che una di esse sarebbe
un giorno divenuta madre del Messia. Chi di loro, tuttavia, poteva supporre che il Messia
promesso sarebbe stato il «Figlio dell'Altissimo»? A partire dalla fede monoteista vetero-
testamentaria ciò era difficilmente ipotizzabile. Solamente in forza dello Spirito Santo, che «stese
la sua ombra» su di lei, Maria poteva accettare ciò che è «impossibile presso gli uomini, ma
possibile presso Dio» (cf. Mc 10, 27).
Theotókos

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4. In tal modo «la pienezza del tempo» manifesta la straordinaria dignità della «donna». Questa
dignità consiste, da una parte, nell'elevazione soprannaturale all'unione con Dio in Gesù Cristo,
che determina la profondissima finalità dell'esistenza di ogni uomo sia sulla terra che nell'eternità.
Da questo punto di vista, la «donna» è la rappresentante e l'archetipo di tutto il genere umano:
rappresenta l'umanità che appartiene a tutti gli esseri umani, sia uomini che donne. D'altra parte,
però, l'evento di Nazareth mette in rilievo una forma di unione col Dio vivo, che può appartenere
solo alla «donna», Maria: l'unione tra madre e figlio. La Vergine di Nazareth diventa, infatti, la
Madre di Dio.
Questa verità, accolta sin dall'inizio dalla fede cristiana, ebbe solenne formulazione nel Concilio di
Efeso (a. 431)[18]. Contrapponendosi all'opinione di Nestorio, che riteneva Maria esclusivamente
madre di Gesù-uomo, questo Concilio mise in rilievo l'essenziale significato della maternità di
Maria Vergine. Al momento dell'annunciazione, rispondendo col suo «fiat», Maria concepì un
uomo che era Figlio di Dio, consostanziale al Padre. Dunque, è veramente la Madre di Dio, poiché
la maternità riguarda tutta la persona, e non solo il corpo, e neppure solo la «natura» umana. In
questo modo il nome «Theotókos» - Madre di Dio - divenne il nome proprio dell'unione con Dio,
concessa a Maria Vergine.
La particolare unione della «Theotókos» con Dio, che realizza nel modo più eminente la
predestinazione soprannaturale all'unione col Padre elargita ad ogni uomo (filii in Filio), è pura
grazia e, come tale, un dono dello Spirito. Nello stesso tempo, però, mediante la risposta di fede
Maria esprime la sua libera volontà, e dunque la piena partecipazione dell'«io» personale e
femminile all'evento dell'incarnazione. Col suo «fiat», Maria diviene l'autentico soggetto di
quell'unione con Dio, che si è realizzata nel mistero dell'incarnazione del Verbo consostanziale al
Padre. Tutta l'azione di Dio nella storia degli uomini rispetta sempre la libera volontà dell'«io»
umano. Lo stesso avviene nell'annunciazione a Nazareth.
«Servire vuol dire regnare»
5. Questo evento possiede un chiaro carattere interpersonale: è un dialogo. Non lo comprendiamo
pienamente se non inquadriamo tutta la conversazione tra l'Angelo e Maria nel saluto: «piena di
grazia»[19]. L'intero dialogo dell'annunciazione rivela l'essenziale dimensione dell'evento: la
dimensione soprannaturale (kecaritoméne)
Ma la grazia non mette mai da parte la natura né la annulla, anzi la perfeziona e nobilita. Pertanto,
quella «pienezza di grazia», concessa alla Vergine di Nazareth, in vista del suo divenire
«Theotókos», significa allo stesso tempo la pienezza della perfezione di ciò «che è caratteristico
della donna», di «ciò che è femminile». Ci troviamo qui, in un certo senso, al punto culminante,
all'archetipo della personale dignità della donna.
Quando Maria risponde alle parole del celeste messaggero col suo «fiat», la «piena di grazia»

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sente il bisogno di esprimere il suo personale rapporto riguardo al dono che le è stato rivelato,
dicendo: «Eccomi, sono la serva del Signore» (Lc 1, 38). Questa frase non può essere privata né
sminuita del suo senso profondo, estraendola artificialmente da tutto il contesto dell'evento e da
tutto il contenuto della verità rivelata su Dio e sull'uomo. Nell'espressione «serva del Signore» si fa
sentire tutta la consapevolezza di Maria di essere creatura in rapporto a Dio. Tuttavia, la parola
«serva», verso la fine del dialogo dell'annunciazione, si inscrive nell'intera prospettiva della storia
della Madre e del Figlio. Difatti, questo Figlio, che è vero e consostanziale «Figlio dell'Altissimo»,
dirà molte volte di sé, specialmente nel momento culminante della sua missione: «Il Figlio
dell'uomo (...) non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mc 10, 45).
Cristo porta sempre in sé la coscienza di essere «servo del Signore», secondo la profezia di Isaia
(cf. 42, 1; 49, 3. 6; 52, 13), in cui è racchiuso il contenuto essenziale della sua missione
messianica: la consapevolezza di essere il Redentore del mondo. Maria sin dal primo momento
della sua maternità divina, della sua unione col Figlio che «il Padre ha mandato nel mondo,
perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (cf. Gv 3, 17), si inserisce nel servizio messianico di
Cristo[20]. E' proprio questo servizio a costituire il fondamento stesso di quel Regno, in cui
«servire (...) vuol dire regnare»[21]. Cristo, «servo del Signore», manifesterà a tutti gli uomini la
dignità regale del servizio, con la quale è strettamente collegata la vocazione d'ogni uomo.
Così, considerando la realtà donna-Madre di Dio, entriamo nel modo più opportuno nella presente
meditazione dell'Anno Mariano. Tale realtà determina anche l'essenziale orizzonte della riflessione
sulla dignità e sulla vocazione della donna. Nel pensare, dire o fare qualcosa in ordine alla dignità
e alla vocazione della donna non si devono distaccare il pensiero, il cuore e le opere da questo
orizzonte. La dignità di ogni uomo e la vocazione ad essa corrispondente trovano la loro misura
definitiva nell'unione con Dio. Maria - la donna della Bibbia - è la più compiuta espressione di
questa dignità e di questa vocazione. Infatti, ogni uomo, maschio o femmina, creato a immagine e
somiglianza di Dio, non può realizzarsi al di fuori della dimensione di questa immagine e
somiglianza.
III
IMMAGINE E SOMIGLIANZA DI DIO
Libro della Genesi
6. Dobbiamo collocarci nel contesto di quel «principio» biblico, in cui la verità rivelata sull'uomo
come «immagine e somiglianza di Dio» costituisce l'immutabile base di tutta l'antropologia
cristiana[22]. «Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li
creò» (Gen 1, 27). Questo passo conciso contiene le verità antropologiche fondamentali: l'uomo è
l'apice di tutto l'ordine del creato nel mondo visibile - il genere umano, che prende inizio dalla
chiamata all'esistenza dell'uomo e della donna, corona tutta l'opera della creazione -; ambedue

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sono esseri umani, in egual grado l'uomo e la donna, ambedue creati a immagine di Dio. Questa
immagine e somiglianza con Dio, essenziale per l'uomo, dall'uomo e dalla donna, come sposi e
genitori, viene trasmessa ai loro discendenti: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra;
soggiogatela» (Gen 1, 28). Il Creatore affida il «dominio» della terra al genere umano, a tutte le
persone, a tutti gli uomini e a tutte le donne, che attingono la loro dignità e vocazione dal comune
«principio».
Nella Genesi troviamo ancora un'altra descrizione della creazione dell'uomo - uomo e donna (cf.
2, 18-25) -, alla quale ci si riferirà in seguito. Fin d'ora, tuttavia, bisogna affermare che dalla
notazione biblica emerge la verità sul carattere personale dell'essere umano. L'uomo è una
persona, in eguale misura l'uomo e la donna: ambedue, infatti, sono stati creati ad immagine e
somiglianza del Dio personale. Ciò che rende l'uomo simile a Dio è il fatto che - diversamente da
tutto il mondo delle creature viventi, compresi gli esseri dotati di sensi (animalia) -l'uomo è anche
un essere razionale (animal rationale)[23]. Grazie a questa proprietà l'uomo e la donna possono
«dominare» sulle altre creature del mondo visibile (cf. Gen 1, 28).
Nella seconda descrizione della creazione dell'uomo (cf. Gen 2, 18-25) il linguaggio in cui viene
espressa la verità sulla creazione dell'uomo e, specialmente, della donna, è diverso, in un certo
senso è meno preciso, è - si potrebbe dire - più descrittivo e metaforico: più vicino al linguaggio
dei miti allora conosciuti. Tuttavia, non si riscontra alcuna essenziale contraddizione tra i due testi.
Il testo di Genesi 2, 18-25 aiuta a comprendere bene ciò che troviamo nel passo conciso di
Genesi 1, 27-28 e, al tempo stesso, se letto unitamente ad esso, aiuta a comprendere in modo
ancora più profondo la fondamentale verità, ivi racchiusa, sull'uomo creato a immagine e
somiglianza di Dio come uomo e donna.
Nella descrizione di Genesi 2, 18-25 la donna viene creata da Dio «dalla costola» dell'uomo ed è
posta come un altro «io», come un interlocutore accanto all'uomo, il quale nel mondo circostante
delle creature animate è solo e non trova in nessuna di esse un «aiuto» adatto a sé. La donna,
chiamata in tal modo all'esistenza, è immediatamente riconosciuta dall'uomo come «carne della
sua carne e osso delle sue ossa» (cf. Gen 2, 23) e appunto per questo è chiamata «donna». Nella
lingua biblica questo nome indica l'essenziale identità nei riguardi dell'uomo: 'is - 'issah, cosa che
in generale le lingue moderne non possono purtroppo esprimere. «La si chiamerà donna ('issah),
perché dall'uomo ('is) è stata tolta» (Gen 2, 23).
Il testo biblico fornisce sufficienti basi per ravvisare l'essenziale uguaglianza dell'uomo e della
donna dal punto di vista dell'umanità[24]. Ambedue sin dall'inizio sono persone, a differenza degli
altri esseri viventi del mondo che li circonda. La donna è un altro «io» nella comune umanità. Sin
dall'inizio essi appaiono come «unità dei due», e ciò significa il superamento dell'originaria
solitudine, nella quale l'uomo non trova «un aiuto che gli sia simile» (Gen 2, 20). Si tratta qui solo
dell'«aiuto» nell'azione, nel «soggiogare la terra»? (cf. Gen 1, 28). Certamente si tratta della
compagna della vita, con la quale, come con una moglie, l'uomo può unirsi divenendo con lei «una

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sola carne» e abbandonando per questo «suo padre e sua madre» (cf. Gen 2, 24). La descrizione
biblica, dunque, parla dell'istituzione, da parte di Dio, del matrimonio contestualmente con la
creazione dell'uomo e della donna, come condizione indispensabile della trasmissione della vita
alle nuove generazioni degli uomini, alla quale il matrimonio e l'amore coniugale per loro natura
sono ordinati: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela» (Gen 1, 28).
Persona - Comunione - Dono
7. Penetrando col pensiero l'insieme della descrizione di Genesi 2, 18-25, ed interpretandola alla
luce della verità sull'immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1, 26-27), possiamo comprendere
ancora più pienamente in che cosa consista il carattere personale dell'essere umano, grazie al
quale ambedue - l'uomo e la donna - sono simili a Dio. Ogni singolo uomo, infatti, è ad immagine
di Dio in quanto creatura razionale e libera, capace di conoscerlo e di amarlo. Leggiamo, inoltre,
che l'uomo non può esistere «solo» (cf. Gen 2, 18); può esistere soltanto come «unità dei due», e
dunque in relazione ad un'altra persona umana. Si tratta di una relazione reciproca: dell'uomo
verso la donna e della donna verso l'uomo. Essere persona ad immagine e somiglianza di Dio
comporta, quindi, anche un esistere in relazione, in rapporto all'altro «io». Ciò prelude alla
definitiva autorivelazione di Dio uno e trino: unità vivente nella comunione del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo.
All'inizio della Bibbia non sentiamo ancora dire questo direttamente. Tutto l'Antico Testamento è
soprattutto la rivelazione della verità circa l'unicità e l'unità di Dio. In questa fondamentale verità su
Dio il Nuovo Testamento introdurrà la rivelazione dell'imperscrutabile mistero della vita intima di
Dio. Dio, che si lascia conoscere dagli uomini per mezzo di Cristo, è unità nella Trinità: è unità
nella comunione. In tal modo è gettata una nuova luce anche su quella somiglianza ed immagine
di Dio nell'uomo, di cui parla il Libro della Genesi. Il fatto che l'uomo, creato come uomo e donna,
sia immagine di Dio non significa solo che ciascuno di loro individualmente è simile a Dio, come
essere razionale e libero. Significa anche che l'uomo e la donna, creati come «unità dei due» nella
comune umanità, sono chiamati a vivere una comunione d'amore e in tal modo a rispecchiare nel
mondo la comunione d'amore che è in Dio, per la quale le tre Persone si amano nell'intimo mistero
dell'unica vita divina. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, un solo Dio per l'unità della divinità,
esistono come persone per le imperscrutabili relazioni divine. Solamente in questo modo diventa
comprensibile la verità che Dio in se stesso è amore (cf. 1 Gv 4, 16).
L'immagine e somiglianza di Dio nell'uomo, creato come uomo e donna (per l'analogia che si può
presumere tra il Creatore e la creatura), esprime pertanto anche l'«unità dei due» nella comune
umanità. Questa «unità dei due», che è segno della comunione interpersonale, indica che nella
creazione dell'uomo è stata inscritta anche una certa somiglianza della comunione divina
communio»). Questa somiglianza è stata inscritta come qualità dell'essere personale di tutt'e
due, dell'uomo e della donna, ed insieme come una chiamata e un compito. Sull'immagine e
somiglianza di Dio, che il genere umano porta in sé fin dal «principio», è radicato il fondamento di

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tutto l'«ethos» umano: l'Antico e il Nuovo Testamento svilupperanno tale «ethos», il cui vertice è il
comandamento dell'amore [25].
Nell'«unità dei due» l'uomo e la donna sono chiamati sin dall'inizio non solo ad esistere «uno
accanto all'altra» oppure «insieme», ma sono anche chiamati ad esistere reciprocamente «l'uno
per l'altro».
Viene così spiegato anche il significato di quell'«aiuto», di cui si parla in Genesi 2, 18-25: «Gli darò
un aiuto simile a lui». Il contesto biblico permette di intenderlo anche nel senso che la donna deve
«aiutare» l'uomo - e a sua volta questi deve aiutare lei - prima di tutto a causa del loro stesso
«essere persona umana»: il che, in un certo senso, permette all'uno e all'altra di scoprire sempre
di nuovo e confermare il senso integrale della propria umanità. E' facile comprendere che - su
questo piano fondamentale - si tratta di un «aiuto» da ambedue le parti e di un «aiuto» reciproco.
Umanità significa chiamata alla comunione interpersonale. Il testo di Genesi 2, 18-25 indica che il
matrimonio è la prima e, in un certo senso, la fondamentale dimensione di questa chiamata. Però
non è l'unica. Tutta la storia dell'uomo sulla terra si realizza nell'ambito di questa chiamata. In
base al principio del reciproco essere «per» l'altro, nella «comunione» interpersonale, si sviluppa
in questa storia l'integrazione nell'umanità stessa, voluta da Dio, di ciò che è «maschile» e di ciò
che è «femminile». I testi biblici, a cominciare dalla Genesi, ci permettono costantemente di
ritrovare il terreno in cui si radica la verità sull'uomo, il terreno solido ed inviolabile in mezzo ai tanti
mutamenti dell'esistenza umana.
Questa verità riguarda anche la storia della salvezza. Al riguardo, è particolarmente significativo
un enunciato del Concilio Vaticano II. Nel capitolo sulla «comunità degli uomini» della Costituzione
pastorale Gaudium et spes leggiamo: «Il Signore Gesù, quando prega il Padre, perché "tutti siano
una cosa sola" (Gv 17, 21-22), mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha
suggerito una certa similitudine tra l'unione delle Persone divine e l'unione dei figli di Dio nella
verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l'uomo, il quale sulla terra è la sola creatura
che Dio ha voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero
di sé» [26].
Con queste parole il testo conciliare presenta sinteticamente l'insieme della verità sull'uomo e
sulla donna - verità che si delinea già nei primi capitoli del Libro della Genesi - come la stessa
struttura portante dell'antropologia biblica e cristiana. L'uomo - sia uomo che donna - è l'unico
essere tra le creature del mondo visibile che Dio Creatore «ha voluto per se stesso»: è dunque
una persona. L'essere persona significa: tendere alla realizzazione di sé (il testo conciliare parla
del «ritrovarsi»), che non può compiersi se non «mediante un dono sincero di sé».
Modello di una tale interpretazione della persona è Dio stesso come Trinità, come comunione di
Persone. Dire che l'uomo è creato a immagine e somiglianza di questo Dio vuol dire anche che
l'uomo è chiamato ad esistere «per» gli altri, a diventare un dono.

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Ciò riguarda ogni essere umano, sia donna che uomo, i quali lo attuano nella peculiarità propria
dell'una e dell'altro. Nell'ambito della presente meditazione circa la dignità e la vocazione della
donna, questa verità sull'essere umano costituisce l'indispensabile punto di partenza. Già il Libro
della Genesi permette di scorgere, come in un primo abbozzo, questo carattere sponsale della
relazione tra le persone, sul cui terreno si svilupperà a sua volta la verità sulla maternità, nonché
quella sulla verginità, come due dimensioni particolari della vocazione della donna alla luce della
Rivelazione divina. Queste due dimensioni troveranno la loro più alta espressione all'avvento della
«pienezza del tempo» (cf. Gal 4, 4) nella figura della «donna» di Nazareth: Madre-Vergine.
L'antropomorfismo del linguaggio biblico
8. La presentazione dell'uomo come «immagine e somiglianza di Dio» subito all'inizio della Sacra
Scrittura riveste anche un altro significato. Questo fatto costituisce la chiave per comprendere la
Rivelazione biblica come un discorso di Dio su se stesso. Parlando di sé sia «per mezzo dei
profeti, sia per mezzo del Figlio» (cf. Eb 1, 1. 2) fattosi uomo, Dio parla con linguaggio umano, usa
concetti e immagini umane. Se questo modo di esprimersi è caratterizzato da un certo
antropomorfismo, la ragione sta nel fatto che l'uomo è «simile» a Dio: creato a sua immagine e
somiglianza. E allora anche Dio è in qualche misura «simile» all'uomo, e, proprio in base a questa
somiglianza, egli può essere conosciuto dagli uomini. Allo stesso tempo il linguaggio della Bibbia è
sufficientemente preciso per segnare i limiti della «somiglianza», i limiti dell'«analogia». Infatti, la
rivelazione biblica afferma che, se è vera la «somiglianza» dell'uomo con Dio, è ancor più
essenzialmente vera la «non somiglianza»[27], che separa dal Creatore tutta la creazione. In
definitiva, per l'uomo creato a somiglianza di Dio, Dio non cessa di essere colui «che abita una
luce inaccessibile» (1 Tm 6, 16): è il «Diverso» per essenza, il «totalmente Altro».
Questa osservazione sui limiti dell'analogia - limiti della somiglianza dell'uomo con Dio nel
linguaggio biblico - deve essere tenuta in considerazione anche quando, in diversi passi della
Sacra Scrittura (specie nell'Antico Testamento), troviamo dei paragoni che attribuiscono a Dio
qualità «maschili» oppure «femminili». Troviamo in essi l'indiretta conferma della verità che
ambedue, sia l'uomo che la donna, sono stati creati ad immagine e somiglianza di Dio. Se c'è
somiglianza tra il Creatore e le creature, è comprensibile che la Bibbia abbia usato nei suoi
riguardi espressioni che gli attribuiscono qualità sia «maschili» sia «femminili».
Riportiamo qui qualche passo caratteristico del profeta Isaia: «Sion ha detto: "Il Signore mi ha
abbandonato, il Signore mi ha dimenticato". Si dimentica forse una donna del suo bambino, così
da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se una donna si dimenticasse, io invece
non ti dimenticherò mai» (49, 14-15). E altrove: «Come una madre consola un figlio, così io vi
consolerò; in Gerusalemme sarete consolati» (Is 66, 13). Anche nei Salmi Dio viene paragonato a
una madre premurosa: «Come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo
svezzato è l'anima mia. Speri Israele nel Signore» (Sal 131, 2-3). In diversi passi l'amore di Dio,
sollecito per il suo popolo, è presentato a somiglianza di quello di una madre: così come una

2 Pages 11-20

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2.1 Page 11

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11
madre, Dio «ha portato» l'umanità e, in particolare, il suo popolo eletto nel proprio seno, lo ha
partorito nei dolori, lo ha nutrito e consolato (cf. Is 42, 14; 46, 3-4). L'amore di Dio è presentato in
molti passi come amore «maschile» dello sposo e padre (cf. Os 11, 1-4; Ger 3, 4-19), ma talvolta
anche come amore «femminile» della madre.
Questa caratteristica del linguaggio biblico, il suo modo antropomorfico di parlare di Dio, indica
anche indirettamente il mistero dell'eterno «generare», che appartiene alla vita intima di Dio.
Tuttavia, questo «generare» in se stesso non possiede qualità «maschili» né «femminili». E' di
natura totalmente divina. E' spirituale nel modo più perfetto, poiché «Dio è spirito» (Gv 4, 24), e
non possiede nessuna proprietà tipica del corpo, né «femminile» né «maschile». Dunque, anche
la «paternità» in Dio è del tutto divina, libera dalla caratteristica corporale «maschile», che è
propria della paternità umana. In questo senso l'Antico Testamento parlava di Dio come di un
Padre e si rivolgeva a lui come ad un Padre. Gesù Cristo, che ha posto questa verità al centro
stesso del suo Vangelo come normativa della preghiera cristiana, e che si rivolgeva a Dio
chiamandolo: «Abbà Padre» (Mc 14, 36), quale Figlio unigenito e consostanziale, indicava la
paternità in questo senso ultra-corporale, sovrumano, totalmente divino. Parlava come Figlio,
legato al Padre dall'eterno mistero del generare divino, e ciò faceva essendo nello stesso tempo
Figlio autenticamente umano della sua Madre Vergine.
Se all'eterna generazione del Verbo di Dio non si possono attribuire qualità umane, né la paternità
divina possiede caratteri «maschili» in senso fisico, si deve invece cercare in Dio il modello
assoluto di ogni «generazione» nel mondo degli esseri umani. In un tale senso - sembra -
leggiamo nella Lettera agli Efesini: «Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni
paternità nei cieli e sulla terra prende nome» (3, 14-15). Ogni «generare» nella dimensione delle
creature trova il suo primo modello in quel generare che è in Dio in modo completamente divino,
cioè spirituale. A questo modello assoluto, non-creato, viene assimilato ogni «generare» nel
mondo creato. Perciò tutto quanto nel generare umano è proprio dell'uomo, come pure tutto
quanto è proprio della donna, ossia la «paternità» e «la maternità» umane, porta in sé la
somiglianza, ossia l'analogia col «generare» divino e con quella «paternità» che in Dio è
«totalmente diversa»: completamente spirituale e divina per essenza. Nell'ordine umano, invece, il
generare è proprio dell'«unità dei due»: ambedue sono «genitori», sia l'uomo sia la donna.
IV
EVA - MARIA
Il «principio» e il peccato
9. «Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l'uomo, però, tentato dal Maligno, fin dagli inizi della
storia abusò della sua libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori
di Dio»[28]. Con queste parole l'insegnamento dell'ultimo Concilio ricorda la dottrina rivelata sul

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12
peccato e, in particolare, su quel primo peccato che è quello «originale». Il biblico «principio» - la
creazione del mondo e dell'uomo nel mondo - contiene in sé al tempo stesso la verità su questo
peccato, che può essere chiamato anche il peccato del «principio» dell'uomo sulla terra. Anche se
ciò che è scritto nel Libro della Genesi è espresso in forma di narrazione simbolica, come nel caso
della descrizione della creazione dell'uomo come maschio e femmina (cf. Gen 2, 18-25), al tempo
stesso svela ciò che bisogna chiamare «il mistero del peccato» e, più pienamente ancora, «il
mistero del male» esistente nel mondo creato da Dio.
Non è possibile leggere «il mistero del peccato» senza fare riferimento a tutta la verità circa
l'«immagine e somiglianza» con Dio, che sta alla base dell'antropologia biblica. Questa verità
presenta la creazione dell'uomo come una speciale donazione da parte del Creatore, nella quale
sono contenuti non solo il fondamento e la fonte dell'essenziale dignità dell'essere umano - uomo
e donna - nel mondo creato, ma anche l'inizio della chiamata di tutt'e due a partecipare alla vita
intima di Dio stesso. Alla luce della Rivelazione creazione significa nello stesso tempo inizio della
storia della salvezza. Proprio in questo inizio il peccato si inscrive e si configura come contrasto e
negazione.
Si può dire paradossalmente che il peccato presentato in Genesi (c. 3) è la conferma della verità
circa l'immagine e somiglianza di Dio nell'uomo, se questa verità significa la libertà, cioè la libera
volontà, di cui l'uomo può usare scegliendo il bene, ma può anche abusare scegliendo, contro la
volontà di Dio, il male. Nel suo significato essenziale, tuttavia, il peccato è negazione di ciò che
Dio è - come creatore - in relazione all'uomo e di ciò che Dio vuole, sin dall'inizio e per sempre,
per l'uomo. Creando l'uomo e la donna a propria immagine e somiglianza, Dio vuole per loro la
pienezza del bene, ossia la felicità soprannaturale, che scaturisce dalla partecipazione alla sua
stessa vita. Commettendo il peccato l'uomo respinge questo dono e contemporaneamente vuol
diventare egli stesso «come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3, 5), cioè decidendo del
bene e del male indipendentemente da Dio, suo creatore. Il peccato delle origini ha la sua
«misura» umana, il suo metro interiore nella libera volontà dell'uomo ed insieme porta in sé una
certa caratteristica «diabolica»[29], come è messo chiaramente in rilievo nel Libro della Genesi (3,
1-5). Il peccato opera la rottura dell'unità originaria, di cui l'uomo godeva nello stato di giustizia
originale: l'unione con Dio come fonte dell'unità all'interno del proprio «io», nel reciproco rapporto
dell'uomo e della donna («communio personarum») e, infine, nei confronti del mondo esterno,
della natura.
La descrizione biblica del peccato originale in Genesi (c. 3) in un certo modo «distribuisce i ruoli»
che in esso hanno avuto la donna e l'uomo. A ciò faranno riferimento ancora più tardi alcuni passi
della Bibbia, come, per esempio, la Lettera paolina a Timoteo: «Prima è stato formato Adamo e
poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna» (1 Tm 2, 1314). Non c'è dubbio,
tuttavia, che, indipendentemente da questa «distribuzione delle parti» nella descrizione biblica,
quel primo peccato è il peccato dell'uomo, creato da Dio maschio e femmina. Esso è anche il
peccato dei «progenitori» al quale è collegato il suo carattere ereditario. In questo senso lo

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13
chiamiamo «peccato originale».
Tale peccato, come già è stato detto, non può essere compreso adeguatamente senza riferirsi al
mistero della creazione dell'essere umano - uomo e donna - a immagine e somiglianza di Dio. Per
mezzo di tale riferimento si può capire anche il mistero di quella «non-somiglianza» con Dio, nella
quale consiste il peccato e che si manifesta nel male presente nella storia del mondo; di quella
«non-somiglianza» con Dio, che «solo è buono» (cf. Mt 19, 17) ed è la pienezza del bene. Se
questa «non-somiglianza» del peccato con Dio, la stessa Santità, presuppone la «somiglianza»
nel campo della libertà, della libera volontà, si può allora dire che proprio per questa ragione la
«non somiglianza» contenuta nel peccato è tanto più drammatica e tanto più dolorosa. Bisogna
anche ammettere che Dio, come creatore e Padre, viene qui toccato, «offeso» e, ovviamente,
offeso nel cuore stesso di quella donazione che appartiene all'eterno disegno di Dio nei riguardi
dell'uomo.
Nello stesso tempo, però, anche l'essere umano - uomo e donna - viene toccato dal male del
peccato, di cui è autore. Il testo biblico di Genesi (c. 3) lo mostra con le parole che descrivono
chiaramente la nuova situazione dell'uomo nel mondo creato. Esso mostra la prospettiva della
«fatica» con cui l'uomo si procurerà i mezzi per vivere (cf. Gen 3, 17-19), nonché quella dei grandi
«dolori» con i quali la donna partorirà i suoi figli (cf. Gen 3, 16). Tutto ciò, poi, è segnato dalla
necessità della morte, che costituisce il termine della vita umana sulla terra. In questo modo
l'uomo, come polvere, «tornerà alla terra, perché da essa è stato tratto»: «Polvere tu sei e in
polvere tornerai» (cf. Gen 3, 19).
Queste parole trovano conferma di generazione in generazione. Esse non significano che
l'immagine e la somiglianza di Dio nell'essere umano, sia donna che uomo, è stata distrutta dal
peccato; significano, invece, che è stata «offuscata»[30] e, in un certo senso, «diminuita». Il
peccato, infatti, «diminuisce» l'uomo, come ricorda anche il Concilio Vaticano II[31]. Se l'uomo, già
per la sua stessa natura di persona, è immagine e somiglianza di Dio, allora la sua grandezza e la
sua dignità si realizzano nell'alleanza con Dio, nell'unione con lui, nel tendere a quella
fondamentale unità che appartiene alla «logica» interiore del mistero stesso della creazione.
Questa unità corrisponde alla profonda verità di tutte le creature dotate di intelligenza e, in
particolare, dell'uomo, il quale tra le creature del mondo visibile è stato sin dall'inizio elevato,
mediante l'eterna elezione da parte di Dio in Gesù: «In Cristo (...) egli ci ha scelti prima della
creazione del mondo (...) nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di
Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà» (cf. Ef 1, 4-6). L'insegnamento biblico nel
suo insieme ci consente di dire che la predestinazione riguarda tutte le persone umane, uommi e
donne, ciascuno e ciascuna senza eccezione.
«Egli ti dominerà»
10. La descrizione biblica del Libro della Genesi delinea la verità circa le conseguenze del peccato

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14
dell'uomo, come indica, altresì, il turbamento di quell'originaria relazione tra l'uomo e la donna che
corrisponde alla dignità personale di ciascuno di essi. L'uomo, sia maschio che femmina, è una
persona e, dunque, «la sola creatura che sulla terra Dio abbia voluto per se stessa»; e nello
stesso tempo proprio questa creatura unica e irripetibile «non può ritrovarsi se non mediante un
dono sincero di sé»[32]. Da qui prende inizio il rapporto di «comunione», nella quale si esprimono
l'«unità dei due» e la dignità personale sia dell'uomo che della donna. Quando dunque leggiamo
nella descrizione biblica le parole rivolte alla donna: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti
dominerà» (Gen 3, 16), scopriamo una rottura e una costante minaccia proprio nei riguardi di
questa «unità dei due», che corrisponde alla dignità dell'immagine e della somiglianza di Dio in
ambedue. Tale minaccia risulta, però, più grave per la donna. Infatti, all'essere un dono sincero, e
perciò al vivere «per» l'altro subentra il dominio: «Egli ti dominerà». Questo «dominio» indica il
turbamento e la perdita della stabilità di quella fondamentale eguaglianza, che nell'«unità dei due»
possiedono l'uomo e la donna: e ciò è soprattutto a sfavore della donna, mentre soltanto
l'eguaglianza, risultante dalla dignità di ambedue come persone, può dare ai reciproci rapporti il
carattere di un'autentica «communio personarum». Se la violazione di questa eguaglianza, che è
insieme dono e diritto derivante dallo stesso Dio Creatore, comporta un elemento a sfavore della
donna, nello stesso tempo essa diminuisce anche la vera dignità dell'uomo. Tocchiamo qui un
punto estremamente sensibile nella dimensione di quell'«ethos» che è inscritto originariamente dal
Creatore già nel fatto stesso della creazione di ambedue a sua immagine e somiglianza.
Questa affermazione di Genesi 3, 16 è di una grande, significativa portata. Essa implica un
riferimento alla reciproca relazione dell'uomo e della donna nel matrimonio. Si tratta del desiderio
nato nel clima dell'amore sponsale, che fa sì che «il dono sincero di sé» da parte della donna trovi
risposta e completamento in un analogo «dono» da parte del marito. Solamente in base a questo
principio tutt'e due, e in particolare la donna, possono «ritrovarsi» come vera«unità dei due»
secondo la dignità della persona. L'unione matrimoniale esige il rispetto e il perfezionamento della
vera soggettività personale di tutti e due. La donna non può diventare «oggetto» di «dominio» e di
«possesso» maschile. Ma le parole del testo biblico riguardano direttamente il peccato originale e
le sue durature conseguenze nell'uomo e nella donna. Gravati dalla peccaminosità ereditaria, essi
portano in sé il costante «fomite del peccato», cioè la tendenza a intaccare quell'ordine morale,
che corrisponde alla stessa natura razionale ed alla dignità dell'uomo come persona. Questa
tendenza si esprime nella triplice concupiscenza, che il testo apostolico precisa come
concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e superbia della vita (cf. 1 Gv 2, 16). Le
parole della Genesi, riportate precedentemente (3, 16), indicano in che modo questa triplice
concupiscenza, quale «fomite del peccato», graverà sul reciproco rapporto dell'uomo e della
donna.
Quelle stesse parole si riferiscono direttamente al matrimonio, ma indirettamente raggiungono i
diversi campi della convivenza sociale: le situazioni in cui la donna rimane svantaggiata o
discriminata per il fatto di essere donna. La verità rivelata sulla creazione dell'uomo come maschio
e femmina costituisce il principale argomento contro tutte le situazioni, che, essendo

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15
oggettivamente dannose, cioè ingiuste, contengono ed esprimono l'eredità del peccato che tutti gli
esseri umani portano in sé. I Libri della Sacra Scrittura confermano in diversi punti l'effettiva
esistenza di tali situazioni ed insieme proclamano la necessità di convertirsi, cioè di purificarsi dal
male e di liberarsi dal peccato: da ciò che reca offesa all'altro, che «sminuisce» l'uomo, non solo
colui a cui vien fatta offesa, ma anche colui che la reca. Tale è l'immutabile messaggio della
Parola rivelata da Dio. In ciò si esprime l'«ethos» biblico sino alla fine[33].
Ai nostri tempi la questione dei «diritti della donna» ha acquistato un nuovo significato nel vasto
contesto dei diritti della persona umana. Illuminando questo programma, costantemente dichiarato
e in vari modi ricordato, il messaggio biblico ed evangelico custodisce la verità sull'«unità» dei
«due», cioè su quella dignità e quella vocazione che risultano dalla specifica diversità e originalità
personale dell'uomo e della donna. Perciò, anche la giusta opposizione della donna di fronte a ciò
che esprimono le parole bibliche: «Egli ti dominerà» (Gen 3, 16) non può a nessuna condizione
condurre alla «mascolinizzazione» delle donne. La donna - nel nome della liberazione dal
«dominio» dell'uomo - non può tendere ad appropriarsi le caratteristiche maschili, contro la sua
propria «originalità» femminile. Esiste il fondato timore che su questa via la donna non si
«realizzerà», ma potrebbe invece deformare e perdere ciò che costituisce la sua essenziale
ricchezza. Si tratta di una ricchezza enorme. Nella descrizione biblica l'esclamazione del primo
uomo alla vista della donna creata è un'esclamazione di ammirazione e di incanto, che attraversa
tutta la storia dell'uomo sulla terra.
Le risorse personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della mascolinità,
ma sono solamente diverse. La donna dunque - come, del resto, anche l'uomo - deve intendere la
sua «realizzazione» come persona, la sua dignità e vocazione sulla base di queste risorse,
secondo la ricchezza della femminilità, che ella ricevette nel giorno della creazione e che eredita
come espressione a lei peculiare dell'«immagine e somiglianza di Dio». Solamente su questa via
può essere superata anche quell'eredità del peccato che è suggerita dalle parole della Bibbia:
«Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». Il superamento di questa cattiva eredità
è, di generazione in generazione, compito di ogni uomo, sia donna che uomo. Infatti, in tutti i casi
nei quali l'uomo è responsabile di quanto offende la dignità personale e la vocazione della donna,
egli agisce contro la propria dignità personale e la propria vocazione.
Protovangelo
11. Il Libro della Genesi attesta il peccato che è il male del «principio» dell'uomo, le sue
conseguenze che sin da allora gravano su tutto il genere umano, ed insieme contiene il primo
annuncio della vittoria sul male, sul peccato. Lo provano le parole che leggiamo in Genesi 3, 15
solitamente dette «Protovangelo»: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua
stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». E' significativo che l'annuncio del
redentore, del salvatore del mondo, contenuto in queste parole, riguardi «la donna». Questa è
nominata al primo posto nel Proto-vangelo come progenitrice di colui che sarà il redentore

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16
dell'uomo[34]. E, se la redenzione deve compiersi mediante la lotta contro il male, per mezzo
dell'«inimicizia» tra la stirpe della donna e la stirpe di colui che, come «padre della menzogna»
(Gv 8, 44), è il primo autore del peccato nella storia dell'uomo, questa sarà anche l'inimicizia tra lui
e la donna.
In queste parole si schiude la prospettiva di tutta la Rivelazione, prima come preparazione al
Vangelo e poi come Vangelo stesso. In questa prospettiva si congiungono sotto il nome della
donna le due figure femminili: Eva e Maria.
Le parole del Protovangelo, rilette alla luce del Nuovo Testamento, esprimono adeguatamente la
missione della donna nella lotta salvifica del redentore contro l'autore del male nella storia
dell'uomo.
Il confronto Eva-Maria ritorna costantemente nel corso della riflessione sul deposito della fede
ricevuta dalla Rivelazione divina ed è uno dei temi ripresi frequentemente dai Padri, dagli scrittori
ecclesiastici e dai teologi[35]. Di solito in questo paragone emerge a prima vista una differenza,
una contrapposizione. Eva, come «madre di tutti i viventi» (Gen 3, 20), è testimone del «principio»
biblico, in cui sono contenute la verità sulla creazione dell'uomo ad immagine e somiglianza di Dio
e la verità sul peccato originale. Maria è testimone del nuovo «principio» e della «creatura nuova»
(cfr. 2 Cor 5, 17). Anzi, ella stessa, come la prima redenta nella storia della salvezza, è «creatura
nuova»: è la «piena di grazia». E' difficile comprendere perché le parole del Protovangelo mettano
così fortemente in risalto la «donna», se non si ammette che in lei ha il suo inizio la nuova e
definitiva Alleanza di Dio con l'umanità, l'Alleanza nel sangue redentore di Cristo. Essa ha inizio
con una donna, la «donna», nell'annunciazione a Nazareth. Questa è l'assoluta novità del
Vangelo: altre volte nell'Antico Testamento Dio, per intervenire nella storia del suo Popolo, si era
rivolto a delle donne, come alla madre di Samuele e di Sansone; ma per stipulare la sua Alleanza
con l'umanità si era rivolto solo a degli uomini: Noè, Abramo, Mosè. All'inizio della Nuova
Alleanza, che deve essere eterna e irrevocabile, c'è la donna: la Vergine di Nazareth. Si tratta di
un segno indicativo che «in Gesù Cristo» «non c'è più uomo né donna» (Gal 3, 28). In lui la
reciproca contrapposizione tra l'uomo e la donna - come retaggio del peccato originale - viene
essenzialmente superata. «Tutti voi siete uno in Cristo Gesù», - scriverà l'Apostolo (Gal 3, 28).
Queste parole trattano di quell'originaria «unità dei due» che è legata alla creazione dell'uomo,
come maschio e femmina, ad immagine e somiglianza di Dio, sul modello di quella perfettissima
comunione di Persone che è Dio stesso. Le parole paoline costatano che il mistero della
redenzione dell'uomo in Gesù Cristo, figlio di Maria, riprende e rinnova ciò che nel mistero della
creazione corrispondeva all'eterno disegno di Dio Creatore. Proprio per questo, il giorno della
creazione dell'uomo come maschio e femmina «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa
molto buona» (Gen 1, 31). La redenzione restituisce, in un certo senso, alla sua stessa radice, il
bene che è stato essenzialmente «sminuito» dal peccato e dal suo retaggio nella storia dell'uomo.

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17
La «donna» del Protovangelo è inserita nella prospettiva della redenzione. Il confronto Eva-Maria
si può intendere anche nel senso che Maria assume in se stessa e abbraccia il mistero della
«donna», il cui inizio è Eva, «la madre di tutti i viventi» (Gen 3, 20): prima di tutto lo assume e lo
abbraccia all'interno del mistero di Cristo - «nuovo ed ultimo Adamo» (cf. 1 Cor 15, 45) -, il quale
ha assunto nella propria persona la natura del primo Adamo. L'essenza della Nuova Alleanza
consiste nel fatto che il Figlio di Dio, consostanziale all'eterno Padre, diventa uomo: accoglie
l'umanità nell'unità della Persona divina del Verbo. Colui che opera la Redenzione è al tempo
stesso un vero uomo. Il mistero della Redenzione del mondo presuppone che Dio-Figlio abbia
assunto l'umanità come eredità di Adamo, divenendo simile a lui e ad ogni uomo in tutto, «escluso
il peccato» (Eb 4, 15). In questo modo egli ha «svelato anche pienamente l'uomo all'uomo e gli ha
fatto nota la sua altissima vocazione», come insegna il Concilio Vaticano II[36]. In un certo senso,
lo ha aiutato a riscoprire «chi è l'uomo» (cf. Sal 8, 5).
In tutte le generazioni, nella tradizione della fede e della riflessione cristiana su di essa,
l'accostamento Adamo-Cristo spesso si accompagna con quello Eva-Maria. Se Maria è descritta
anche come «nuova Eva», quali possono essere i significati di questa analogia? Sono certamente
molteplici. Occorre, in particolare, soffermarsi su quel significato che vede in Maria la rivelazione
piena di tutto ciò che è compreso nella parola biblica «donna»: una rivelazione commisurata al
mistero della Redenzione. Maria significa, in un certo senso, oltrepassare quel limite di cui parla il
Libro della Genesi (3, 16) e riandare verso quel «principio» in cui si ritrova la «donna» così come
fu voluta nella creazione, quindi nell'eterno pensiero di Dio, nel seno della Santissima Trinità.
Maria è «il nuovo principio» della dignità e vocazione della donna, di tutte le donne e di
ciascuna[37].
Chiave per la comprensione di ciò possono essere, in particolare, le parole poste dall'evangelista
sulle labbra di Maria dopo l'annunciazione, durante la sua visita a Elisabetta: «Grandi cose ha
fatto in me l'Onnipotente» (Lc 1, 49). Esse riguardano certamente il concepimento del Figlio, che è
«Figlio dell'Altissimo» (Lc 1, 32), il «santo» di Dio; insieme, però, esse possono significare anche
la scoperta della propria umanità femminile. «Grandi cose ha fatto in me»: questa è la scoperta di
tutta la ricchezza, di tutta la risorsa personale della femminilità, di tutta l'eterna originalità della
«donna», così come Dio la volle, persona per se stessa, e che si ritrova contemporaneamente
«mediante un dono sincero di sé».
Questa scoperta si collega con la chiara consapevolezza del dono, dell'elargizione da parte di Dio.
Il peccato già al «principio» aveva offuscato questa consapevolezza, in un certo senso l'aveva
soffocata, come indicano le parole della prima tentazione ad opera del «padre della menzogna»
(cf. Gen 3, 1-5). All'avvento della «pienezza del tempo» (cf. Gal 4, 4), mentre comincia a compiersi
nella storia dell'umanità il mistero della redenzione, questa consapevolezza irrompe in tutta la sua
forza nelle parole della biblica «donna» di Nazareth. In Maria, Eva riscopre quale è la vera dignità
della donna, dell'umanità femminile. Questa scoperta deve continuamente giungere al cuore di
ciascuna donna e dare forma alla sua vocazione e alla sua vita.

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18
V
GESU' CRISTO
"Si meravigliavano che stesse a discorrere con una donna"
12. Le parole del Protovangelo nel Libro della Genesi ci permettono di trasferirci nell'ambito del
Vangelo. La redenzione dell'uomo, là annunciata, qui diventa realtà nella persona e nella missione
di Gesù Cristo, nelle quali riconosciamo anche ciò che la realtà della redenzione significa per la
dignità e la vocazione della donna. Questo significato ci viene maggiormente chiarito dalle parole
di Cristo e da tutto il suo atteggiamento verso le donne, che è estremamente semplice e, proprio
per questo, straordinario, se visto sullo sfondo del suo tempo: è un atteggiamento caratterizzato
da una grande trasparenza e profondità. Diverse donne compaiono nel corso della missione di
Gesù di Nazareth, e l'incontro con ciascuna di esse è una conferma della «novità di vita»
evangelica, di cui già si è parlato.
E' universalmente ammesso - persino da parte di chi si pone in atteggiamento critico di fronte al
messaggio cristiano - che Cristo si sia fatto davanti ai suoi contemporanei promotore della vera
dignità della donna e della vocazione corrispondente a questa dignità. A volte ciò provocava
stupore, sorpresa, spesso al limite dello scandalo: «Si meravigliavano che stesse a discorrere con
una donna» (Gv 4, 27), perché questo comportamento si distingueva da quello dei suoi
contemporanei. «Si meravigliavano», anzi, gli stessi discepoli di Cristo. Il fariseo, nella cui casa la
donna peccatrice andò per ungere con olio profumato i piedi di Gesù, «pensò tra di sé: " Se costui
fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice"» (Lc
7, 39). Di sgomento ancora più grande, o addirittura di «santo sdegno», dovevano riempire gli
ascoltatori soddisfatti di sé le parole di Cristo: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel
Regno di Dio» (Mt 21, 31).
Colui che parlava ed agiva così faceva capire che «i misteri del Regno» gli erano noti fino in
fondo. Egli anche «sapeva quello che c'è in ogni uomo» (Gv 2, 25), nel suo intimo, nel suo
«cuore». Era testimone dell'eterno disegno di Dio nei riguardi dell'uomo da lui creato a sua
immagine e somiglianza, come uomo e donna. Era anche consapevole fino in fondo delle
conseguenze del peccato, di quel «mistero d'iniquità» operante nei cuori umani come amaro frutto
dell'offuscamento dell'immagine divina. Quanto è significativo il fatto che, nel fondamentale
colloquio sul matrimonio e sulla sua indissolubilità, Gesù, davanti ai suoi interlocutori, che erano
per ufficio i conoscitori della Legge, «gli scribi», faccia riferimento al «principio». La questione
posta è quella del diritto «maschile» di «ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo» (Mt 19,
3); e, dunque, anche del diritto della donna, della sua giusta posizione nel matrimonio, della sua
dignità. Gli interlocutori ritengono di avere a loro favore la legislazione mosaica vigente in Israele:
«Mosè ha ordinato di darle l'atto di ripudio e di mandarla via» (Mt 19, 7). Gesù risponde: «Per la
durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu

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19
cosi» (Mt 19, 8). Gesù s'appella al «principio», alla creazione dell'uomo come maschio e femmina
e a quell'ordinamento di Dio, che si fonda sul fatto che tutt'e due sono stati creati «a sua immagine
e somiglianza». Perciò, quando l'uomo «lascia suo padre e sua madre» unendosi a sua moglie,
così che i due diventino «una carne sola», rimane in vigore la legge che proviene da Dio stesso:
«Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi» (Mt 19, 6).
Il principio di questo «ethos», che sin dall'inizio è stato inscritto nella realtà della creazione, viene
ora confermato da Cristo contro quella tradizione, che comportava la discriminazione della donna.
In questa tradizione il maschio «dominava», non tenendo adeguatamente conto della donna e di
quella dignità, che l'«ethos» della creazione ha posto alla base dei reciproci rapporti delle due
persone unite in matrimonio. Questo «ethos» viene ricordato e confermato dalle parole di Cristo: è
l'«ethos» del Vangelo e della redenzione.
Le donne del Vangelo
13. Scorrendo le pagine del Vangelo, passa davanti ai nostri occhi un gran numero di donne, di
diversa età e di diverso stato. Incontriamo donne colpite da malattia o da sofferenze fisiche, come
la donna che aveva «uno spirito che la teneva inferma, era curva e non poteva drizzarsi in nessun
modo» (cf. Lc 13, 11), o come la suocera di Simone che era «a letto con la febbre» (Mc 1, 30), o
come la donna «affetta da emorragia» (cf. Mc 5, 25-34), che non poteva toccare nessuno, perché
si riteneva che il suo tocco rendesse l'uomo «impuro». Ciascuna di loro fu guarita, e l'ultima,
l'emorroissa, che toccò il mantello di Gesù «tra la folla» (Mc 5, 27), fu da lui lodata per la grande
fede: «La tua fede ti ha salvata» (Mc 5, 34). C'è poi la figlia di Giairo, che Gesù fa tornare in vita,
rivolgendosi a lei con tenerezza: «Fanciulla, io ti dico, alzati!» (Mc 5, 41). E ancora c'è la vedova di
Nain, alla quale Gesù fa ritornare in vita l'unico figlio, accompagnando il suo gesto con
un'espressione di affettuosa pietà: «Ne ebbe compassione e le disse: "Non piangere!"» (Lc 7, 13).
E infine c'è la Cananea, una donna che merita da parte di Cristo parole di speciale apprezzamento
per la sua fede, la sua umiltà e per quella grandezza di spirito, di cui è capace soltanto un cuore di
madre: «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri» (Mt 15, 28). La donna
cananea chiedeva la guarigione della figlia.
A volte le donne, che Gesù incontrava e che da lui ricevevano tante grazie, lo accompagnavano,
mentre con gli apostoli peregrinava attraverso città e paesi, annunciando il Vangelo del Regno di
Dio; e «li assistevano con i loro beni». Il Vangelo nomina tra loro Giovanna, moglie
dell'amministratore di Erode, Susanna e «molte altre» (cf. Lc 8, 1-3).
A volte figure di donne compaiono nelle parabole, con le quali Gesù di Nazareth illustrava ai suoi
ascoltatori la verità sul Regno di Dio. Così è nelle parabole della dramma perduta (cf. Lc 15, 8-10),
del lievito (cf. Mt 13, 33), delle vergini sagge e delle vergini stolte (cf. Mt 25, 1-13). Particolarmente
eloquente è il racconto dell'obolo della vedova. Mentre «i ricchi (...) gettavano le loro offerte nel
tesoro (...), una vedova povera vi gettò due spiccioli». Allora Gesù disse: «Questa vedova, povera,

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20
ha messo più di tutti (...), nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere» (Lc 21, 1-4). In
questo modo Gesù la presenta come modello per tutti e la difende, poiché, nel sistema socio-
giuridico di allora, le vedove erano esseri totalmente indifesi (cf. anche Lc 18, 1-7).
In tutto l'insegnamento di Gesù, come anche nel suo comportamento, nulla si incontra che rifletta
la discriminazione, propria del suo tempo, della donna. Al contrario, le sue parole e le sue opere
esprimono sempre il rispetto e l'onore dovuto alla donna. La donna ricurva viene chiamata «figlia
di Abramo» (Lc 13, 16): mentre in tutta la Bibbia il titolo di «figlio di Abramo» è riferito solo agli
uomini. Percorrendo la via dolorosa verso il Golgota, Gesù dirà alle donne: «Figlie di
Gerusalemme, non piangete su di me» (Lc 23, 28). Questo modo di parlare delle donne e alle
donne, nonché il modo di trattarle, costituisce una chiara «novità» rispetto al costume allora
dominante.
Ciò diventa ancora più esplicito nei riguardi di quelle donne che l'opinione corrente indicava con
disprezzo come peccatrici, pubbliche peccatrici e adultere. Ecco la Samaritana, alla quale lo
stesso Gesù dice: «Infatti hai avuto cinque mariti, e quello che hai ora non è tuo marito». Ed essa,
sentendo che egli conosceva i segreti della sua vita, riconosce in lui il Messia e corre ad
annunciarlo ai suoi compaesani. Il dialogo, che precede questo riconoscimento, è uno dei più belli
del Vangelo (cf. Gv 4, 7-27).
Ecco poi una pubblica peccatrice, che, nonostante la condanna da parte dell'opinione comune,
entra nella casa del fariseo per ungere con olio profumato i piedi di Gesù. All'ospite che si
scandalizzava di questo fatto egli dirà di lei: «Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha
molto amato» (cf. Lc 7, 37-47).
Ecco, infine, una situazione che è forse la più eloquente: una donna sorpresa in adulterio è
condotta da Gesù. Alla domanda provocatoria: «Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di
lapidare donne come questa. Tu che ne dici?», Gesù risponde: «Chi di voi è senza peccato, scagli
per primo la pietra contro di lei». La forza di verità, contenuta in questa risposta, è così grande che
«se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani». Rimangono solo Gesù e la donna.
«Dove sono? Nessuno ti ha condannata?». «Nessuno, Signore». «Neanch'io ti condanno, va' e
d'ora in poi non peccare più» (cf. Gv 8, 3-11).
Questi episodi costituiscono un quadro d'insieme molto trasparente. Cristo è colui che «sa che
cosa c'è nell'uomo» (cf. Gv 2, 25), nell'uomo e nella donna. Conosce la dignità dell'uomo, il suo
pregio agli occhi di Dio. Egli stesso, il Cristo, è la conferma definitiva di questo pregio. Tutto ciò
che dice e che fa ha definitivo compimento nel mistero pasquale della redenzione.
L'atteggiamento di Gesù nei riguardi delle donne, che incontra lungo la strada del suo servizio
messianico, è il riflesso dell'eterno disegno di Dio, che, creando ciascuna di loro, la sceglie e la
ama in Cristo (cf. Ef 1, 1-5). Ciascuna, perciò, è quella «sola creatura in terra che Dio ha voluto
per se stessa». Ciascuna dal «principio» eredita la dignità di persona proprio come donna. Gesù

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21
di Nazareth conferma questa dignità, la ricorda, la rinnova, ne fa un contenuto del Vangelo e della
redenzione, per la quale è inviato nel mondo. Bisogna, dunque, introdurre nella dimensione del
mistero pasquale ogni parola e ogni gesto di Cristo nei confronti della donna. In questo modo tutto
si spiega compiutamente.
La donna sorpresa in adulterio
14. Gesù entra nella situazione concreta e storica della donna, situazione che è gravata
dall'eredità del peccato. Questa eredità si esprime tra l'altro nel costume che discrimina la donna
in favore dell'uomo ed è radicata anche dentro di lei. Da questo punto di vista l'episodio della
donna «sorpresa in adulterio» (cf. Gv 8, 3-11) sembra essere particolarmente eloquente. Alla fine
Gesù le dice: «Non peccare più», ma prima egli provoca la consapevolezza del peccato negli
uomini che l'accusano per lapidarla, manifestando così quella sua profonda capacità di vedere
secondo verità le coscienze e le opere umane. Gesù sembra dire agli accusatori: questa donna
con tutto il suo peccato non è forse anche, e prima di tutto, una conferma delle vostre
trasgressioni, della vostra ingiustizia «maschile», dei vostri abusi?
E' questa una verità valida per tutto il genere umano. Il fatto riportato nel Vangelo di Giovanni si
può ripresentare in innumerevoli situazioni analoghe in ogni epoca della storia. Una donna viene
lasciata sola, è esposta all'opinione pubblica con «il suo peccato», mentre dietro questo «suo»
peccato si cela un uomo come peccatore, colpevole per il «peccato altrui», anzi corresponsabile di
esso. Eppure, il suo peccato sfugge all'attenzione, passa sotto silenzio: appare non responsabile
per il «peccato altrui»! A volte si fa addirittura accusatore, come nel caso descritto, dimentico del
proprio peccato. Quante volte, in modo simile, la donna paga per il proprio peccato (può darsi che
sia lei, in certi casi, colpevole per il peccato dell'uomo come «peccato altrui»), ma paga essa sola,
e paga da sola! Quante volte essa rimane abbandonata con la sua maternità, quando l'uomo,
padre del bambino, non vuole accettarne la responsabilità? E accanto alle numerose «madri
nubili» delle nostre società, bisogna prendere in considerazione anche tutte quelle che molto
spesso, subendo varie pressioni, pure da parte dell'uomo colpevole, «si liberano» del bambino
prima della nascita. «Si liberano»: ma a quale prezzo? L'odierna opinione pubblica tenta in diversi
modi di «annullare» il male di questo peccato; normalmente, però, la coscienza della donna non
riesce a dimenticare di aver tolto la vita al proprio figlio, perché essa non riesce a cancellare la
disponibilità ad accogliere la vita, inscritta nel suo ethos dal «principio».
E' significativo l'atteggiamento di Gesù nel fatto descritto in Giovanni 8, 3-11. Forse in pochi
momenti come in questo si manifesta la sua potenza - la potenza della verità - nei riguardi delle
coscienze umane. Gesù è tranquillo, raccolto, pensieroso. La sua consapevolezza, qui come nel
colloquio con i Farisei (cf. Mt 19, 3-9), non è forse in contatto col mistero del «principio», quando
l'uomo fu creato maschio e femmina, e la donna fu affidata all'uomo con la sua diversità femminile,
ed anche con la sua potenziale maternità? Anche l'uomo fu affidato dal Creatore alla donna.
Furono reciprocamente affidati l'uno all'altro come persone fatte ad immagine e somiglianza di Dio

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22
stesso. In tale affidamento è la misura dell'amore, dell'amore sponsale: per diventare «un dono
sincero» l'uno per l'altro, bisogna che ciascuno dei due si senta responsabile del dono. Questa
misura è destinata a tutt'e due - uomo e donna - sin dal «principio». Dopo il peccato originale
operano nell'uomo e nella donna forze opposte, a causa della triplice concupiscenza, «fomite del
peccato». Esse agiscono nell'uomo dal profondo. Per questo Gesù nel Discorso della montagna
dirà: «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo
cuore» (Mt 5, 28). Queste parole, rivolte direttamente all'uomo, mostrano la verità fondamentale
della sua responsabilità nei confronti della donna: per la sua dignità, per la sua maternità, per la
sua vocazione. Ma esse riguardano indirettamente anche la donna. Cristo faceva tutto il possibile
perché - nell'ambito dei costumi e dei rapporti sociali di quel tempo - le donne ritrovassero nel suo
insegnamento e nel suo agire la propria soggettività e dignità. In base all'eterna «unità dei due»,
questa dignità dipende direttamente dalla stessa donna, quale soggetto per sé responsabile, e
viene nello stesso tempo «data come compito» all'uomo. Coerentemente Cristo si appella alla
responsabilità dell'uomo. Nella presente meditazione sulla dignità e vocazione della donna, oggi
bisogna riferirsi necessariamente all'impostazione che incontriamo nel Vangelo. La dignità della
donna e la sua vocazione - come, del resto, quelle dell'uomo - trovano la loro eterna sorgente nel
cuore di Dio e, nelle condizioni temporali dell'esistenza umana, sono strettamente connesse con
l'«unità dei due». Perciò ciascun uomo deve guardare dentro di sé e vedere se colei che gli è
affidata come sorella nella stessa umanità, come sposa, non sia diventata nel suo cuore oggetto
di adulterio; se colei che, in vari modi, è il co-soggetto della sua esistenza nel mondo, non sia
diventata per lui «oggetto»: oggetto di godimento, di sfruttamento.
Custodi del messaggio evangelico
15. Il modo di agire di Cristo, il Vangelo delle sue opere e delle sue parole, è una coerente
protesta contro ciò che offende la dignità della donna. Perciò le donne che si trovano vicine a
Cristo riscoprono se stesse nella verità che egli «insegna» e che egli «fa», anche quando questa è
la verità sulla loro «peccaminosità». Da questa verità esse si sentono «liberate», restituite a se
stesse: si sentono amate di «amore eterno», di un amore che trova diretta espressione in Cristo
stesso. Nel raggio d'azione di Cristo la loro posizione sociale si trasforma. Sentono che Gesù
parla con loro di questioni delle quali, a quei tempi, non si discuteva con una donna. L'esempio, in
un certo senso più significativo al riguardo, è quello della Samaritana presso il pozzo di Sichem.
Gesù - il quale sa che è peccatrice, e di questo le parla - discorre con lei dei più profondi misteri di
Dio. Le parla del dono infinito dell'amore di Dio, che è come una «sorgente di acqua che zampilla
per la vita eterna» (Gv 4, 14). Le parla di Dio che è Spirito e della vera adorazione, che il Padre ha
diritto di ricevere in spirito e verità (cf. Gv 4, 24). Le rivela, infine, di essere il Messia promesso ad
Israele (cf. Gv 4, 26).
E' questo un evento senza precedenti: quella donna, e per di più «donna-peccatrice», diventa
«discepola» di Cristo; anzi, una volta istruita, annuncia il Cristo agli abitanti di Samaria, così che
essi pure lo accolgono con fede (cf. Gv 4, 39-42). Un evento senza precedenti, se si tiene

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23
presente il modo comune di trattare le donne proprio di quanti insegnavano in Israele, mentre nel
modo di agire di Gesù di Nazareth un simile evento si fa normale. A questo proposito, meritano un
particolare ricordo anche le sorelle di Lazzaro: «Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella
Maria e a Lazzaro» (cf. Gv 11, 5). Maria «ascoltava la parola» di Gesù: quando va a trovarli in
casa, egli stesso definisce il comportamento di Maria come «la parte migliore» rispetto alla
preoccupazione di Marta per le faccende domestiche (cf. Lc 10, 38-42). In un'altra occasione
anche Marta - dopo la morte di Lazzaro - diventa interlocutrice di Cristo, ed il colloquio riguarda le
più profonde verità della rivelazione e della fede. «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non
sarebbe morto» «Tuo fratello risusciterà» - «So che risusciterà nell'ultimo giorno». Le disse Gesù:
«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in
me, non morrà in eterno. Credi tu questo?» - «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, Figlio di
Dio, che deve venire al mondo» (Gv 11, 21-27). Dopo questa professione di fede Gesù risuscita
Lazzaro. Anche il colloquio con Marta è uno dei più importanti del Vangelo.
Cristo parla con le donne delle cose di Dio, ed esse le comprendono: un'autentica risonanza della
mente e del cuore, una risposta di fede. E Gesù per questa risposta spiccatamente «femminile»
esprime apprezzamento e ammirazione, come nel caso della donna cananea (cf. Mt 15, 28). A
volte egli propone come esempio questa fede viva, permeata dall'amore: insegna, dunque,
prendendo spunto da questa risposta femminile della mente e del cuore. Così avviene nel caso di
quella donna «peccatrice» il cui modo di agire, in casa del fariseo, è assunto da Gesù come punto
di partenza per spiegare la verità sulla remissione dei peccati: «Le sono perdonati i suoi molti
peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco» (Lc 7, 47). In
occasione di un'altra unzione, Gesù prende la difesa, davanti ai discepoli e in particolare davanti a
Giuda, della donna e della sua azione: «Perché infastidite questa donna? Essa ha compiuto una
azione buona verso di me (...). Versando questo olio sul mio corpo, lo ha fatto in vista della mia
sepoltura. In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo Vangelo, nel mondo intero, sarà detto
ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei» (Mt 26, 6-13).
In realtà, i Vangeli non solo descrivono ciò che ha compiuto quella donna a Betania, nella casa di
Simone il lebbroso, ma mettono anche in rilievo come, al momento della prova definitiva e
determinante per tutta la missione messianica di Gesù di Nazareth, ai piedi della Croce, si siano
trovate, prime fra tutti, le donne. Degli apostoli solo Giovanni è rimasto fedele. Le donne, invece,
sono molte. Non solo c'erano la Madre di Cristo e la «sorella di sua madre, Maria di Cleofa e
Maria di Magdala» (Gv 19, 25), ma «molte donne che stavano ad osservare da lontano; esse
avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo» (Mt 27, 55). Come si vede, in questa che fu la più
dura prova della fede e della fedeltà, le donne si sono dimostrate più forti degli apostoli: in questi
momenti di pericolo quelle che «amano molto» riescono a vincere la paura. Prima c'erano state le
donne sulla via dolorosa, «che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui» (Lc 23, 27). Prima
ancora c'era stata la moglie di Pilato, che aveva avvertito il proprio marito: «Non avere a che fare
con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua» (Mt 27, 19).

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Prime testimoni della Risurrezione
16. Sin dall'inizio della missione di Cristo la donna mostra verso di Lui e verso il suo mistero una
speciale sensibilità che corrisponde ad una caratteristica della sua femminilità. Occorre dire,
inoltre, che ciò trova particolare conferma in relazione al mistero pasquale, non solo al momento
della croce, ma anche all'alba della risurrezione. Le donne sono le prime presso la tomba. Sono le
prime a trovarla vuota. Sono le prime ad udire: «Non è qui. E risorto, come aveva detto» (Mt 28,
6). Sono le prime a stringergli i piedi (cf. Mt 28, 9). Sono anche chiamate per prime ad annunciare
questa verità agli apostoli (cf. Mt 28, 1-10; Lc 24, 8-11). Il Vangelo di Giovanni (cf. anche Mc 16, 9)
mette in rilievo il ruolo particolare di Maria di Magdala. E' la prima ad incontrare il Cristo risorto.
All'inizio crede che sia il custode del giardino: lo riconosce solo quando egli la chiama per nome.
«Gesù le disse: "Maria". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbuní!", che
significa: "Maestro". Gesù le disse: "Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre;
ma va' dai miei fratelli e di loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria
di Magdala andò subito ad annunciare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva
detto» (Gv 20, 16-18).
Per questo essa venne anche chiamata «la apostola degli apostoli»[38], Maria di Magdala fu la
testimone oculare del Cristo risorto prima degli apostoli e, per tale ragione, fu anche la prima a
rendergli testimonianza davanti agli apostoli. Questo evento, in un certo senso, corona tutto ciò
che è stato detto in precedenza sull'affidamento delle verità divine da parte di Cristo alle donne, al
pari degli uomini. Si può dire che in questo modo si sono compiute le parole del Profeta: «Io
effonderò il mio spirito sopra ogni uomo, e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie» (Gl 3, 1).
Nel cinquantesimo giorno dopo la risurrezione di Cristo, queste parole trovano ancora una volta
conferma nel cenacolo di Gerusalemme, durante la discesa dello Spirito Santo, il Paraclito (cf. At
2, 17).
Quanto è stato detto finora circa l'atteggiamento di Cristo nei riguardi delle donne conferma e
chiarisce nello Spirito Santo la verità sulla eguaglianza dei due - uomo e donna. Si deve parlare di
un'essenziale «parità»: poiché tutt'e due - la donna come l'uomo - sono creati ad immagine e
somiglianza di Dio, tutt'e due sono suscettibili in eguale misura dell'elargizione della verità divina e
dell'amore nello Spirito Santo. Ambedue accolgono le sue «visite» salvifiche e santificanti.
Il fatto di essere uomo o donna non comporta qui nessuna limitazione, così come non limita per
nulla quella azione salvifica e santificante dello Spirito nell'uomo il fatto di essere giudeo o greco,
schiavo o libero, secondo le ben note parole dell'apostolo: «Poiché tutti voi siete uno in Cristo
Gesù» (Gal 3, 28). Questa unità non annulla la diversità. Lo Spirito Santo, che opera una tale
unità nell'ordine soprannaturale della grazia santificante, contribuisce in eguale misura al fatto che
«diventano profeti i vostri figli», e che lo diventano anche «le vostre figlie». «Profetizzare» significa
esprimere con la parola e con la vita «le grandi opere di Dio» (cf. At 2, 11), conservando la verità e
l'originalità di ogni persona, sia donna che uomo. L'«eguaglianza»evangelica, la «parità» della

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25
donna e dell'uomo nei riguardi delle «grandi opere di Dio», quale si è manifestata in modo così
limpido nelle opere e nelle parole di Gesù di Nazareth, costituisce la base più evidente della
dignità e della vocazione della donna nella Chiesa e nel mondo. Ogni vocazione ha un senso
profondamente personale e profetico. Nella vocazione così intesa ciò che è personalmente
femminile raggiunge una nuova misura: è la misura delle «grandi opere di Dio», delle quali la
donna diventa soggetto vivente ed insostituibile testimone.
VI
MATERNITA' - VERGINITA'
Due dimensioni della vocazione della donna
17. Dobbiamo ora rivolgere la nostra meditazione alla verginità e alla maternità, come due
dimensioni particolari nella realizzazione della personalità femminile. Alla luce del Vangelo, esse
acquistano la pienezza del loro senso e valore in Maria, che come Vergine divenne Madre del
Figlio di Dio. Queste due dimensioni della vocazione femminile si sono in lei incontrate e
congiunte in modo eccezionale, così che l'una non ha escluso l'altra, ma l'ha mirabilmente
completata. La descrizione dell'annunciazione nel Vangelo di Luca indica chiaramente che ciò
sembrava impossibile alla Vergine di Nazareth. Quando si sente dire: «Concepirai un figlio, lo
darai alla luce e lo chiamerai Gesù», ella subito chiede: «Come avverrà questo? Non conosco
uomo» (Lc 1, 31. 34). Nell'ordine comune delle cose la maternità è frutto della reciproca
«conoscenza» dell'uomo e della donna nell'unione matrimoniale. Maria, ferma nel proposito della
propria verginità, pone la domanda al divino messaggero, e ne ottiene la spiegazione: «Lo Spirito
Santo scenderà su di te»; la tua maternità non sarà conseguenza di una «conoscenza»
matrimoniale, ma sarà opera dello Spirito Santo, e la «potenza dell'Altissimo» stenderà la sua
«ombra» sul mistero del concepimento e della nascita del Figlio. Come Figlio dell'Altissimo egli ti
viene dato esclusivamente da Dio, nel modo conosciuto da Dio. Maria, dunque, ha mantenuto il
suo verginale «Non conosco uomo» (cf. Lc 1, 34) e, al tempo stesso, è diventata Madre. La
verginità e la maternità coesistono in lei: non si escludono reciprocamente e non si pongono dei
limiti. Anzi, la persona della Madre di Dio aiuta tutti - specialmente tutte le donne - a scorgere in
quale modo queste due dimensioni e queste due strade della vocazione della donna, come
persona, si spieghino e si completino reciprocamente.
Maternità
18. Per prender parte a questo «scorgere», occorre ancora una volta approfondire la verità sulla
persona umana, ricordata dal Concilio Vaticano II. L'uomo - sia il maschio che la femmina - è
l'unico essere nel mondo che Dio abbia voluto per se stesso: è una persona, è un soggetto che
decide di sé. Al tempo stesso, l'uomo «non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono
sincero di sé»[39]. E' stato già detto che questa descrizione, anzi, in un certo senso, questa

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26
definizione della persona corrisponde alla fondamentale verità biblica circa la creazione dell'uomo
- uomo e donna - a immagine e somiglianza di Dio. Questa non è un'interpretazione puramente
teorica, o una definizione astratta, poiché essa indica in modo essenziale il senso dell'essere
uomo, mettendo in rilievo il valore del dono di sé, della persona. In questa visione della persona è
contenuta anche l'essenza di quell'«ethos» che, collegandosi alla verità della creazione, sarà
sviluppato pienamente dai Libri della Rivelazione e, in particolare, dai Vangeli.
Questa verità sulla persona apre, inoltre, la strada ad una piena comprensione della maternità
della donna. La maternità è frutto dell'unione matrimoniale di un uomo e di una donna, di quella
«conoscenza» biblica che corrisponde all'«unione dei due nella carne» (cf. Gen 2, 24), e in questo
modo essa realizza - da parte della donna - uno speciale «dono di sé» come espressione di
quell'amore sponsale col quale gli sposi si uniscono tra loro così strettamente da costituire «una
sola carne». La «conoscenza» biblica si realizza secondo la verità della persona solo quando il
reciproco dono di sé non viene deformato né dal desiderio dell'uomo di diventare «padrone» della
sua sposa («Egli ti dominerà»), né dal chiudersi della donna nei propri istinti («Verso tuo marito
sarà il tuo istinto»: Gen 3, 16).
Il reciproco dono della persona nel matrimonio si apre verso il dono di una nuova vita, di un nuovo
uomo, che è anche persona a somiglianza dei suoi genitori. La maternità implica sin dall'inizio una
speciale apertura verso la nuova persona: e proprio questa è la «parte» della donna. In tale
apertura, nel concepire e nel dare alla luce il figlio, la donna «si ritrova mediante un dono sincero
di sé». Il dono dell'interiore disponibilità nell'accettare e nel mettere al mondo il figlio è collegato
all'unione matrimoniale, che - come è stato detto - dovrebbe costituire un momento particolare del
reciproco dono di sé da parte e della donna e dell'uomo. Il concepimento e la nascita del nuovo
uomo, secondo la Bibbia, sono accompagnati dalle seguenti parole della donna-genitrice: «Ho
acquistato un uomo dal Signore» (Gen 4, 1). L'esclamazione di Eva, «madre di tutti i viventi», si
ripete ogni volta che viene al mondo un nuovo uomo ed esprime la gioia e la consapevolezza della
donna di partecipare al grande mistero dell'eterno generare. Gli sposi partecipano della potenza
creatrice di Dio!
La maternità della donna, nel periodo tra il concepimento e la nascita del bambino, è un processo
bio-fisiologico e psichico che ai nostri giorni è conosciuto meglio che non in passato ed è oggetto
di molti studi approfonditi. L'analisi scientifica conferma pienamente come la stessa costituzione
fisica della donna e il suo organismo contengano in sé la disposizione naturale alla maternità, al
concepimento, alla gravidanza e al parto del bambino, in conseguenza dell'unione matrimoniale
con l'uomo. Al tempo stesso, tutto ciò corrisponde anche alla struttura psico-fisica della donna.
Quanto i diversi rami della scienza dicono su questo argomento è importante ed utile, purché non
si limitino ad un'interpretazione esclusivamente bio-fisiologica della donna e della maternità. Una
simile immagine «ridotta» andrebbe di pari passo con la concezione materialistica dell'uomo e del
mondo. In tal caso, andrebbe purtroppo smarrito ciò che è veramente essenziale: la maternità,
come fatto e fenomeno umano, si spiega pienamente in base alla verità sulla persona. La

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27
maternità è legata con la struttura personale dell'essere donna e con la dimensione personale del
dono: «Ho acquistato un uomo dal Signore» (Gen 4, 1). Il Creatore fa ai genitori il dono del figlio.
Da parte della donna, questo fatto è collegato in modo speciale ad «un dono sincero di sé». Le
parole di Maria all'annunciazione: «Avvenga di me quello che hai detto» significano la disponibilità
della donna al dono di sé e all'accoglienza della nuova vita.
Nella maternità della donna, unita alla paternità dell'uomo, si riflette l'eterno mistero del generare
che è in Dio stesso, in Dio uno e trino (cf. Ef 3, 14-15). L'umano generare è comune all'uomo e
alla donna. E, se la donna, guidata dall'amore verso il marito, dirà: «Ti ho dato un figlio», le sue
parole nello stesso tempo significano: «Questo è nostro figlio». Eppure, anche se tutti e due
insieme sono genitori del loro bambino, la maternità della donna costituisce una «parte» speciale
di questo comune essere genitori, nonché la parte più impegnativa. L'essere genitori - anche se
appartiene ad ambedue - si realizza molto più nella donna, specialmente nel periodo prenatale. E
la donna a «pagare» direttamente per questo comune generare, che letteralmente assorbe le
energie del suo corpo e della sua anima. Bisogna, pertanto, che l'uomo sia pienamente
consapevole di contrarre, in questo loro comune essere genitori, uno speciale debito verso la
donna. Nessun programma di «parità di diritti» delle donne e degli uomini è valido, se non si tiene
presente questo in un modo del tutto essenziale.
La maternità contiene in sé una speciale comunione col mistero della vita, che matura nel seno
della donna: la madre ammira questo mistero, con singolare intuizione «comprende» quello che
sta avvenendo dentro di lei. Alla luce del «principio» la madre accetta ed ama il figlio che porta in
grembo come una persona. Questo modo unico di contatto col nuovo uomo che si sta formando
crea, a sua volta, un atteggiamento verso l'uomo - non solo verso il proprio figlio, ma verso l'uomo
in genere -, tale da caratterizzare profondamente tutta la personalità della donna. Si ritiene
comunemente che la donna più dell'uomo sia capace di attenzione verso la persona concreta e
che la maternità sviluppi ancora di più questa disposizione. L'uomo - sia pure con tutta la sua
partecipazione all'essere genitore - si trova sempre «all'esterno» del processo della gravidanza e
della nascita del bambino, e deve per tanti aspetti imparare dalla madre la sua propria «paternità».
Questo - si può dire - fa parte del normale dinamismo umano dell'essere genitori, anche quando si
tratta delle tappe successive alla nascita del bambino, specialmente nel primo periodo.
L'educazione del figlio, globalmente intesa, dovrebbe contenere in sé il duplice contributo dei
genitori: il contributo materno e paterno. Tuttavia, quello materno è decisivo per le basi di una
nuova personalità umana.
La maternità in relazione all'Alleanza
19. Ritorna nelle nostre riflessioni il paradigma biblico della «donna», assunto dal Protovangelo.
La «donna», come genitrice e come prima educatrice dell'uomo (l'educazione è la dimensione
spirituale dell'essere genitori), possiede una specifica precedenza sull'uomo. Se la sua maternità
(innanzitutto in senso biofisico) dipende dall'uomo, essa imprime un «segno» essenziale su tutto il

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28
processo del far crescere come persona i nuovi figli e figlie della stirpe umana. La maternità della
donna in senso biofisico manifesta un'apparente passività: il processo della formazione di una
nuova vita «avviene» in lei, nel suo organismo, tuttavia avviene coinvolgendolo in profondità. Nello
stesso tempo, la maternità in senso personale-etico esprime una creatività molto importante della
donna, dalla quale dipende in misura principale l'umanità stessa del nuovo essere umano. Anche
in questo senso la maternità della donna manifesta una speciale chiamata ed una speciale sfida,
che si rivolgono all'uomo e alla sua paternità.
Il paradigma biblico della «donna» culmina nella maternità della Madre di Dio. Le parole del
Protovangelo: «Porrò inimicizia tra te e la donna» trovano qui una nuova conferma. Ecco che Dio
in lei, nel suo «fiat» materno («Avvenga di me»), dà inizio ad una Nuova Alleanza con l'umanità. E
questa l'Alleanza eterna e definitiva in Cristo, nel suo corpo e sangue, nella sua croce e
risurrezione. Proprio perché questa Alleanza deve compiersi «nella carne e nel sangue» il suo
inizio è nella Genitrice. Il «Figlio dell'Altissimo» solamente grazie a lei e al suo verginale e materno
«fiat» può dire al Padre: «Un corpo mi hai preparato. Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà»
(cf. Eb 10, 5. 7).
Nell'ordine dell'Alleanza, che Dio ha stretto con l'uomo in Gesù Cristo, è stata introdotta la
maternità della donna. E ogni volta, tutte le volte che la maternità della donna si ripete nella storia
umana sulla terra, rimane ormai sempre in relazione all'Alleanza che Dio ha stabilito col genere
umano mediante la maternità della Madre di Dio.
Questa realtà non è forse dimostrata dalla risposta che Gesù dà al grido di quella donna in mezzo
alla folla, che lo benediceva per la maternità della sua Genitrice: «Beato il grembo che ti ha
portato e il seno da cui hai preso il latte»? Gesù risponde: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la
parola di Dio e la osservano» (Lc 11, 27-28 ). Gesù conferma il senso della maternità in
riferimento al corpo; nello stesso tempo, però, ne indica un senso ancor più profondo, che si
collega all'ordine dello spirito: essa è segno dell'Alleanza con Dio che «è spirito» (Gv 4, 24). Tale
è soprattutto la maternità della Madre di Dio. Anche la maternità di ogni donna, intesa alla luce del
Vangelo, non è solo «della carne e del sangue»: in essa si esprime il profondo «ascolto della
parola del Dio vivo » e la disponibilità a «custodire» questa Parola, che è «parola di vita eterna»
(cf. Gv 6, 68). Sono, infatti, proprio i nati dalle madri terrene, i figli e le figlie del genere umano, a
ricevere dal Figlio di Dio il potere di diventare «figli di Dio» (Gv 1, 12). La dimensione della Nuova
Alleanza nel sangue di Cristo penetra l'umano generare rendendolo realtà e compito di «creature
nuove» (2 Cor 5, 17). La maternità della donna, dal punto di vista della storia di ogni uomo, è la
prima soglia, il cui superamento condiziona anche «la rivelazione dei figli di Dio» (cf. Rm 8, 19).
«La donna quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il
bambino, non si ricorda più dell'afflizione, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,
21). Le parole di Cristo si riferiscono, nella loro prima parte, a quei «dolori del parto» che
appartengono al retaggio del peccato originale; nello stesso tempo, però, indicano il legame che la

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29
maternità della donna ha col mistero pasquale. In questo mistero, infatti, è contenuto anche il
dolore della Madre sotto la Croce - della Madre che mediante la fede partecipa allo sconvolgente
mistero della «spogliazione» del proprio Figlio. «E questa forse la più profonda "kénosi" della fede
nella storia dell'umanità»[40].
Contemplando questa Madre, alla quale «una spada ha trafitto il cuore» (cf. Lc 2, 35), il pensiero
si volge a tutte le donne sofferenti nel mondo, sofferenti in senso sia fisico che morale. In questa
sofferenza ha una parte la sensibilità propria della donna; anche se essa spesso sa resistere alla
sofferenza più dell'uomo. E difficile enumerare queste sofferenze, è difficile chiamarle tutte per
nome: si possono ricordare la premura materna per i figli, specialmente quando sono ammalati o
prendono una cattiva strada, la morte delle persone più care, la solitudine delle madri dimenticate
dai figli adulti o quella delle vedove, le sofferenze delle donne che da sole lottano per sopravvivere
e delle donne che hanno subito un torto o vengono sfruttate. Ci sono, infine, le sofferenze delle
coscienze a causa del peccato, che ha colpito la dignità umana o materna della donna, le ferite
delle coscienze che non si rimarginano facilmente. Anche con queste sofferenze bisogna porsi
sotto la Croce di Cristo.
Ma le parole del Vangelo sulla donna che prova afflizione, quando per lei giunge l'ora di dare alla
luce il figlio, esprimono subito dopo la gioia: è «la gioia che è venuto al mondo un uomo». Ed
anch'essa è riferita al Mistero pasquale, ossia a quella gioia che viene comunicata agli apostoli il
giorno della risurrezione di Cristo: «Così anche voi, ora, siete nella tristezza» (queste parole
furono pronunciate il giorno prima della passione); «ma vi vedrò di nuovo, e il vostro cuore si
rallegrerà, e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16, 22-23).
La verginità per il Regno
20. Nell'insegnamento di Cristo la maternità è collegata alla verginità, ma è anche distinta da essa.
Al riguardo, rimane fondamentale la frase detta da Gesù ed inserita nel colloquio sull'indissolubilità
del matrimonio. Sentita la risposta data ai farisei, i discepoli dicono a Cristo: «Se questa è la
condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi» (Mt 19, 10). Indipendentemente
dal senso che quel «non conviene» aveva allora nella mente dei discepoli, Cristo prende lo spunto
dalla loro errata opinione per istruirli sul valore del celibato: egli distingue il celibato per effetto di
deficienze naturali, anche se causate dall'uomo, dal «celibato per il Regno dei cieli». Cristo dice:
«E vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il Regno dei cieli» (cf. Mt 19, 12). Si tratta, dunque, di
un celibato libero, scelto a motivo del Regno dei cieli, in considerazione della vocazione
escatologica dell'uomo all'unione con Dio. Egli poi aggiunge: «Chi può capire, capisca», e queste
parole sono una ripresa di ciò che aveva detto all'inizio del discorso sul celibato (cf. Mt 19, 11).
Pertanto il celibato per il Regno dei cieli è frutto non solo di una libera scelta da parte dell'uomo,
ma anche di una speciale grazia da parte di Dio, che chiama una determinata persona a vivere il
celibato. Se questo è un segno speciale del Regno di Dio che deve venire, nello stesso tempo
serve anche a dedicare in modo esclusivo tutte le energie dell'anima e del corpo, durante la vita

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temporale, per il regno escatologico.
Le parole di Gesù sono la risposta alla domanda dei discepoli. Esse sono rivolte direttamente a
coloro che ponevano la domanda: in questo caso erano uomini. Nondimeno, la risposta di Cristo,
in se stessa, ha valore sia per gli uomini che per le donne. In questo contesto essa indica l'ideale
evangelico della verginità, ideale che costituisce una chiara «novità» in rapporto alla tradizione
dell'Antico Testamento. Questa tradizione certamente si collegava in qualche modo anche con
l'attesa di Israele, e specialmente della donna di Israele, per la venuta del Messia, che doveva
essere della «stirpe della donna». In effetti l'ideale del celibato e della verginità per una maggiore
vicinanza a Dio non era del tutto alieno in certi ambienti giudaici, soprattutto nei tempi
immediatamente precedenti alla venuta di Gesù. Tuttavia, il celibato per il Regno, ossia la
verginità, è una novità innegabile connessa con l'incarnazione di Dio.
Dal momento della venuta di Cristo l'attesa del Popolo di Dio deve volgersi verso il Regno
escatologico che viene e nel quale egli stesso deve introdurre «il nuovo Israele». Per una simile
svolta e cambiamento di valori, infatti, è indispensabile una nuova consapevolezza della fede. Ciò
Cristo sottolinea due volte: «Chi può capire, capisca». Ciò comprendono solo «coloro ai quali è
stato concesso» (Mt 19, 11). Maria è la prima persona nella quale si è manifestata questa nuova
consapevolezza, poiché chiede all'Angelo: «Come avverrà questo? Non conosco uomo» (Lc 1,
34). Anche se è «promessa sposa di un uomo, chiamato Giuseppe» (cf. Lc 1, 27), ella è ferma nel
proposito della verginità, e la maternità che in lei si compie proviene esclusivamente dalla
«potenza dell'Altissimo», è frutto della discesa dello Spirito Santo su di lei (cf. Lc 1, 35). Questa
maternità divina, dunque, è la risposta del tutto imprevedibile all'attesa umana della donna in
Israele: essa giunge a Maria come dono di Dio stesso. Questo dono è divenuto l'inizio e il
prototipo di una nuova attesa di tutti gli uomini a misura dell'eterna Alleanza, a misura della nuova
e definitiva promessa di Dio: segno della speranza escatologica.
Sulla base del Vangelo si è sviluppato e approfondito il senso della verginità come vocazione
anche per la donna, in cui trova conferma la sua dignità a somiglianza della Vergine di Nazareth. Il
Vangelo propone l'ideale della consacrazione della persona, che significa la sua dedizione
esclusiva a Dio in virtù dei consigli evangelici, in particolare quelli della castità, povertà ed
obbedienza. La loro perfetta incarnazione è Gesù Cristo stesso. Chi desidera seguirlo in modo
radicale sceglie di condurre la vita secondo questi consigli. Essi si distinguono dai comandamenti
ed indicano al cristiano la via della radicalità evangelica. Sin dagli inizi del cristianesimo su questa
via s'incamminano uomini e donne, dal momento che l'ideale evangelico viene rivolto all'essere
umano senza alcuna differenza di sesso.
In questo più ampio contesto occorre considerare la verginità ancbe come una via per la donna,
una via sulla quale, in un modo diverso dal matrimonio, essa realizza la sua personalità di donna.
Per comprendere questa via bisogna ancora una volta ricorrere all'idea fondamentale
dell'antropologia cristiana. Nella verginità liberamente scelta la donna conferma se stessa come

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31
persona, ossia come essere che il Creatore sin dall'inizio ha voluto per se stesso[41], e
contemporaneamente realizza il valore personale della propria femminilità, diventando «un dono
sincero» per Dio che si è rivelato in Cristo, un dono per Cristo Redentore dell'uomo e Sposo delle
anime: un dono «sponsale». Non si può comprendere rettamente la verginità, la consacrazione
della donna nella verginità, senza far ricorso all'amore sponsale: è, infatti, in un simile amore che
la persona diventa un dono per l'altro[42]. Del resto, analogamente, è da intendere la
consacrazione dell'uomo nel celibato sacerdotale oppure nello stato religioso.
La naturale disposizione sponsale della personalità femminile trova una risposta nella verginità
così intesa. La donna, chiamata fin dal «principio» ad essere amata e ad amare, trova nella
vocazione alla verginità, anzitutto, il Cristo come il Redentore che «amò sino alla fine» per mezzo
del dono totale di sé, ed essa risponde a questo dono con un «dono sincero» di tutta la sua vita.
Ella si dona, dunque, allo Sposo divino, e questa sua donazione personale tende all'unione, che
ha un carattere propriamente spirituale: mediante l'azione dello Spirito Santo diventa «un solo
spirito» con Cristo-sposo (cf. 1 Cor 6, 17).
E' questo l'ideale evangelico della verginità, in cui si realizzano in una forma speciale sia la dignità
che la vocazione della donna. Nella verginità così intesa si esprime il cosiddetto radicalismo del
Vangelo: Lasciare tutto e seguire Cristo (cf. Mt 19, 27). Ciò non può esser paragonato al semplice
rimanere nubili o celibi, perché la verginità non si restringe al solo «no», ma contiene un profondo
«sì» nell'ordine sponsale: il donarsi per amore in modo totale ed indiviso.
La maternità secondo lo spirito
21. La verginità nel senso evangelico comporta la rinuncia al matrimonio, e dunque anche alla
maternità fisica. Tuttavia, la rinuncia a questo tipo di maternità, che può anche comportare un
grande sacrificio per il cuore della donna, apre all'esperienza di una maternità di diverso senso: la
maternità «secondo lo spirito» (cf. Rm 8, 4). La verginità, infatti, non priva la donna delle sue
prerogative. La maternità spirituale riveste molteplici forme. Nella vita delle donne consacrate che
vivono, ad esempio, secondo il carisma e le regole dei diversi Istituti di carattere apostolico, essa
si potrà esprimere come sollecitudine per gli uomini, specialmente per i più bisognosi: gli
ammalati, i portatori di handicap, gli abbandonati, gli orfani, gli anziani, i bambini, la gioventù, i
carcerati e, in genere, gli emarginati. Una donna consacrata ritrova in tal modo lo Sposo, diverso e
unico in tutti e in ciascuno, secondo le sue stesse parole: «Ogni volta che avete fatto queste cose
a uno solo di questi (...), l'avete fatto a me» (Mt 25, 40). L'amore sponsale comporta sempre una
singolare disponibilità ad essere riversato su quanti si trovano nel raggio della sua azione. Nel
matrimonio questa disponibilità, pur essendo aperta a tutti, consiste in particolare nell'amore che i
genitori donano ai figli. Nella verginità questa disponibilità è aperta a tutti gli uomini, abbracciati
dall'amore di Cristo sposo.
In rapporto a Cristo, che è il Redentore di tutti e di ciascuno, l'amore sponsale, il cui potenziale

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materno si nasconde nel cuore della donna-sposa verginale, è anche disposto ad aprirsi a tutti e a
ciascuno. Ciò trova una conferma nelle Comunità religiose di vita apostolica, ed una diversa
conferma in quelle di vita contemplativa o di clausura. Esistono inoltre altre forme di vocazione alla
verginità per il Regno, come, per esempio, gli Istituti Secolari oppure le Comunità di consacrati
che fioriscono all'interno di Movimenti, Gruppi e Associazioni: in tutte queste realtà la stessa verità
sulla maternità spirituale delle persone che vivono nella verginità trova una multiforme conferma.
Comunque, non si tratta solamente di forme comunitarie, ma anche di forme extra-comunitarie. In
definitiva la verginità, come vocazione della donna, è sempre vocazione di una persona, di una
concreta ed irripetibile persona. Dunque, profondamente personale è anche la maternità spirituale
che si fa sentire in questa vocazione.
Su questa base si verifica anche uno specifico avvicinamento tra la verginità della donna non
sposata e la maternità della donna sposata. Un tale avvicinamento muove non solo dalla
maternità verso la verginità, come è stato messo in rilievo sopra, essa muove anche dalla
verginità verso il matrimonio, inteso come forma di vocazione della donna in cui questa diventa
madre dei figli nati dal suo grembo. Il punto di partenza di questa seconda analogia è il significato
delle nozze. La donna, infatti, è «sposata» sia mediante il sacramento del matrimonio, sia
spiritualmente mediante le nozze con Cristo. Nell'uno e nell'altro caso le nozze indicano il «dono
sincero della persona» della sposa verso lo sposo. In questo modo - si può dire - il profilo del
matrimonio si ritrova spiritualmente nella verginità. E se si tratta della maternità fisica, non deve
forse anch'essa essere una maternità spirituale, per rispondere alla verità globale sull'uomo che è
un'unità di corpo e di spirito? Esistono, quindi, molte ragioni per scorgere in queste due diverse vie
- due diverse vocazioni di vita della donna - una profonda complementarietà e, addirittura, una
profonda unione all'interno dell'essere della persona.
«Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore»
22. Il Vangelo rivela e permette di capire proprio questo modo di essere della persona umana. Il
Vangelo aiuta ciascuna donna e ciascun uomo a viverlo e così a realizzarsi. Esiste, infatti, una
totale uguaglianza rispetto ai doni dello Spirito Santo, rispetto alle «grandi opere di Dio» (At 2, 11).
Non solo questo. Proprio di fronte alle «grandi opere di Dio» l'apostolo-uomo sente il bisogno di
ricorrere a ciò che è per essenza femminile, al fine di esprimere la verità sul proprio servizio
apostolico. Proprio così agisce Paolo di Tarso, quando si rivolge ai Galati con le parole: «Figlioli
miei, che io di nuovo partorisco nel dolore» (Gal 4, 19). Nella prima Lettera ai Corinzi (7, 38)
l'apostolo annuncia la superiorità della verginità sul matrimonio, dottrina costante della Chiesa
nello spirito delle parole di Cristo, riportate nel Vangelo di Matteo (19, 10-12), senza affatto
offuscare l'importanza della maternità fisica e spirituale. Per illustrare la fondamentale missione
della Chiesa, egli non trova di meglio che il riferimento alla maternità.
Troviamo un riflesso della stessa analogia - e della stessa verità - nella Costituzione dogmatica
sulla Chiesa. Maria è la «figura» della Chiesa[43]: «Infatti, nel mistero della Chiesa, la quale pure

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è giustamente chiamata madre e vergine (...), Maria è andata innanzi, presentandosi in modo
eminente e singolare, quale vergine e quale madre (...). Diede poi alla luce il Figlio, che Dio ha
posto quale primogenito tra i molti fratelli (cf. Rm 8, 29), cioè tra i fedeli, alla cui rigenerazione e
formazione essa coopera con amore di madre»[44]. «Orbene, la Chiesa, la quale contempla
l'arcana santità di lei e ne imita la carità e adempie fedelmente la volontà del Padre, per mezzo
della parola di Dio accolta con fedeltà, diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il
battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e
nati da Dio»[45]. Si tratta qui della maternità «secondo lo spirito» nei riguardi dei figli e delle figlie
del genere umano. E una tale maternità - come si è detto - diventa la «parte» della donna anche
nella verginità. La Chiesa «pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo
Sposo»[46]. Ciò trova in Maria il più perfetto compimento. La Chiesa, dunque, «ad imitazione della
Madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo, conserva verginalmente integra la fede,
solida la speranza, sincera la carità»[47].
Il Concilio ha confermato che, se non si ricorre alla Madre di Dio, non è possibile comprendere il
mistero della Chiesa, la sua realtà, la sua essenziale vitalità. Indirettamente troviamo qui il
riferimento al paradigma biblico della «donna», quale si delinea chiaramente già nella descrizione
del «principio» (cf. Gen 3, 15) e lungo il percorso che va dalla creazione, attraverso il peccato, fino
alla redenzione. In questo modo si conferma la profonda unione tra ciò che è umano e ciò che
costituisce l'economia divina della salvezza nella storia dell'uomo. La Bibbia ci convince del fatto
che non si può avere un'adeguata ermeneutica dell'uomo, ossia di ciò che è «umano», senza un
adeguato ricorso a ciò che è «femminile». Analogamente avviene nell'economia salvifica di Dio: se
vogliamo comprenderla pienamente in rapporto a tutta la storia dell'uomo, non possiamo
tralasciare, nell'ottica della nostra fede, il mistero della «donna»: vergine-madre-sposa.
VII
LA CHIESA - SPOSA DI CRISTO
Il «grande mistero»
23. Un'importanza fondamentale hanno al riguardo le parole della Lettera agli Efesini: «E voi,
mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per
renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua accompagnato dalla parola, al fine
di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di
simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il
proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno, infatti, ha preso mai in
odio la propria carne; al contrario, la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo
membra del suo corpo. Per questo, l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua
donna, e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo
e alla Chiesa!» (5, 25-32).

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In questa Lettera l'autore esprime la verità sulla Chiesa come sposa di Cristo, indicando altresì
come questa verità si radica nella realtà biblica della creazione dell'uomo maschio e femmina.
Creati a immagine e somiglianza di Dio come «unità dei due», entrambi sono stati chiamati ad un
amore di carattere sponsale. Si può anche dire che, seguendo la descrizione della creazione nel
Libro della Genesi (2, 18-25), questa chiamata fondamentale si manifesta insieme con la
creazione della donna e viene inscritta dal Creatore nell'istituzione del matrimonio, che, secondo
Genesi 2, 24, sin dall'inizio possiede il carattere di unione delle persone («communio
personarum»). Anche se non direttamente la stessa descrizione del «principio» (cf. Gen 1, 27 e
Gen 2, 24) indica che tutto l'«ethos» dei reciproci rapporti tra l'uomo e la donna deve
corrispondere alla verità personale del loro essere.
Tutto questo è già stato considerato precedentemente. Il testo della Lettera agli Efesini conferma
ancora una volta la suddetta verità, e nello stesso tempo paragona il carattere sponsale dell'amore
tra l'uomo e la donna al mistero di Cristo e della Chiesa. Cristo è lo Sposo della Chiesa, la Chiesa
è la Sposa di Cristo. Questa analogia non è senza precedenti: essa trasferisce nel Nuovo
Testamento ciò che già era contenuto nell'Antico Testamento, in particolare presso i profeti Osea,
Geremia, Ezechiele, Isaia[48]. I rispettivi passi meritano una analisi a parte. Riportiamo almeno un
testo. Ecco come Dio parla al suo popolo eletto per mezzo del profeta: «Non temere, perché non
dovrai più arrossire; non vergognarti, perché non sarai più disonorata; anzi, dimenticherai la
vergogna della tua giovinezza e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza. Poiché tuo
sposo è il tuo Creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; tuo redentore è il Santo di Israele, è
chiamato Dio di tutta la terra (...). Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? Dice il tuo
Dio. Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore. In un impeto di
collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il
tuo redentore, il Signore (...). Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si
allontanerebbe da te il mio aspetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace» (Is 54, 4-8.10).
Se l'essere umano - uomo e donna - è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, Dio può
parlare di sé per bocca del profeta servendosi del linguaggio che è per essenza umano: nel citato
testo di Isaia, «umana» è l'espressione dell'amore di Dio, ma l'amore stesso è divino. Essendo
amore di Dio, esso ha un carattere sponsale propriamente divino, anche se espresso con
l'analogia dell'amore dell'uomo verso la donna. Questa donna-sposa è Israele, in quanto popolo
eletto da Dio, e questa elezione ha la sua fonte esclusivamente nell'amore gratuito di Dio. Proprio
con questo amore si spiega l'Alleanza, presentata spesso come un'alleanza matrimoniale, che Dio
sempre nuovamente stringe col suo popolo eletto. Essa è da parte di Dio «un impegno» duraturo:
egli rimane fedele al suo amore sponsale, anche se la sposa più volte si è dimostrata infedele.
Questa immagine dell'amore sponsale insieme alla figura dello Sposo divino - un'immagine molto
chiara nei testi profetici - trova conferma e coronamento nella Lettera agli Efesini (5, 23-32). Cristo
è salutato come sposo da Giovanni Battista (cf. Gv 3, 27-29): anzi, Cristo stesso applica a sé
questo paragone attinto dai profeti (cf. Mc 2, 19-20). L'apostolo Paolo, che porta in sé tutto il

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patrimonio dell'Antico Testamento, scrive ai Corinzi: «Io, provo, infatti, per voi una specie di
gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo»
(2 Cor 11, 2). L'espressione più piena, però, della verità sull'amore di Cristo redentore, secondo
l'analogia dell'amore sponsale nel matrimonio, si trova nella Lettera agli Efesini: «Cristo ha amato
la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (5, 25), ed in ciò riceve piena conferma il fatto che la Chiesa
è la sposa di Cristo: «Tuo redentore è il Santo d'Israele» (Is 54, 5). Nel testo paolino l'analogia
della relazione sponsale va contemporaneamente in due direzioni, che compongono l'insieme del
«grande mistero» («sacramentum magnum»). L'alleanza propria degli sposi «spiega» il carattere
sponsale dell'unione di Cristo con la Chiesa; ed a sua volta questa unione, come «grande
sacramento», decide della sacramentalità del matrimonio quale alleanza santa dei due sposi,
uomo e donna. Leggendo questo passo, ricco e complesso, che ènell'insieme una grande
analogia, dobbiamo distinguere ciò che in esso esprime la realtà umana dei rapporti interpersonali
da ciò che esprime con linguaggio simbolico il «grande mistero» divino.
La «novità» evangelica
24. Il testo è rivolto agli sposi come a donne e uomini concreti e ricorda loro l'«ethos» dell'amore
sponsale che risale all'istituzione divina del matrimonio sin dal «principio». Alla verità di questa
istituzione risponde l'esortazione «Voi, mariti, amate le vostre mogli», amatele a motivo di quello
speciale e unico legame mediante il quale l'uomo e la donna diventano nel matrimonio «una carne
sola» (Gen 2, 24; Ef 5, 31). Si ha in questo amore una fondamentale affermazione della donna
come persona, un'affermazione grazie alla quale la personalità femminile può pienamente
svilupparsi ed arricchirsi. Proprio così agisce Cristo come sposo della Chiesa, desiderando che
essa sia «gloriosa, senza macchia né ruga» (Ef 5, 27). Si può dire che qui sia pienamente assunto
quanto costituisce lo «stile» di Cristo nel trattare la donna. Il marito dovrebbe far propri gli elementi
di questo stile nei riguardi della moglie: e, analogamente, dovrebbe fare l'uomo nei riguardi della
donna, in ogni situazione. Così tutt'e due, uomo e donna, attuano il «dono sincero di sé»!
L'autore della Lettera agli Efesini non vede alcuna contraddizione tra un'esortazione così
formulata e la costatazione che «le mogli siano sottomesse ai loro mariti come al Signore; il
marito, infatti, è capo della moglie» (5, 22-23). L'autore sa che questa impostazione, tanto
profondamente radicata nel costume e nella tradizione religiosa del tempo, deve essere intesa e
attuata in un modo nuovo: come una «sottomissione reciproca nel timore di Cristo» (cf. Ef 5, 21);
tanto più che il marito è detto «capo» della moglie come Cristo è capo della Chiesa, e lo è al fine
di dare «se stesso per lei» (Ef 5, 25) e dare se stesso per lei è dare perfino la propria vita. Ma,
mentre nella relazione Cristo-Chiesa la sottomissione è solo della Chiesa, nella relazione marito-
moglie la «sottomissione» non è unilaterale, bensì reciproca!
In rapporto all'«antico» questo è evidentemente «nuovo»: è la novità evangelica. Incontriamo
diversi passi in cui gli scritti apostolici esprimono questa novità, sebbene in essi si faccia pure
sentire ciò che è «antico», ciò che è radicato anche nella tradizione religiosa di Israele, nel suo

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36
modo di comprendere e di spiegare i sacri testi, come, ad esempio, quello di Genesi (c. 2)[49].
Le Lettere apostoliche sono indirizzate a persone che vivono in un ambiente che ha lo stesso
modo di pensare e di agire. La «novità» di Cristo è un fatto: essa costituisce l'inequivocabile
contenuto del messaggio evangelico ed è frutto della redenzione. Nello stesso tempo, però, la
consapevolezza che nel matrimonio c'è la reciproca «sottomissione dei coniugi nel timore di
Cristo», e non soltanto quella della moglie al marito, deve farsi strada nei cuori, nelle coscienze,
nel comportamento, nei costumi. E' questo un appello che non cessa di urgere, da allora, le
generazioni che si succedono, un appello che gli uomini devono accogliere sempre di nuovo.
L'apostolo scrisse non solo: «In Gesù Cristo (...) non c'è più uomo né donna», ma anche: «Non c'è
più schiavo né libero». E tuttavia, quante generazioni ci sono volute perché un tale principio si
realizzasse nella storia dell'umanità con l'abolizione dell'istituto della schiavitù! E che cosa dire
delle tante forme di schiavitù, alle quali sono soggetti uomini e popoli, non ancora scomparse dalla
scena della storia?
La sfida, però, dell'«ethos» della redenzione è chiara e definitiva. Tutte le ragioni in favore della
«sottomissione» della donna all'uomo nel matrimonio debbono essere interpretate nel senso di
una «reciproca sottomissione» di ambedue «nel timore di Cristo». La misura del vero amore
sponsale trova la sua sorgente più profonda in Cristo, che è lo Sposo della Chiesa, sua Sposa.
La dimensione simbolica del «grande mistero»
25. Nel testo della Lettera agli Efesini incontriamo una seconda dimensione dell'analogia che, nel
suo insieme, deve servire alla rivelazione del «grande mistero». E questa una dimensione
simbolica. Se l'amore di Dio verso l'uomo, verso il popolo eletto, Israele, viene presentato dai
profeti come l'amore dello sposo per la sposa, una tale analogia esprime la qualità «sponsale» e il
carattere divino e non umano dell'amore di Dio: «Tuo sposo è il tuo creatore (...), è chiamato Dio
di tutta la terra» (Is 54, 5). Lo stesso si dica anche dell'amore sponsale di Cristo redentore: «Dio,
infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3, 16). Si tratta, dunque,
dell'amore di Dio espresso mediante la redenzione, operata da Cristo. Secondo la Lettera paolina
questo amore è «simile» all'amore sponsale dei coniugi umani, ma naturalmente non è «eguale».
L'analogia, infatti, implica insieme una somiglianza, lasciando un margine adeguato di non-
somiglianza.
E' facile rilevarlo, se consideriamo la figura della «sposa». Secondo la Lettera agli Efesini la sposa
è la Chiesa, così come per i profeti la sposa era Israele: dunque, è un soggetto collettivo, e non
una persona singola. Questo soggetto collettivo è il Popolo di Dio, ossia una comunità composta
da molte persone, sia donne che uomini. «Cristo ha amato la Chiesa» proprio come comunità,
come Popolo di Dio e, nello stesso tempo,in questa Chiesa, che nel medesimo passo è chiamata
anche suo «corpo» (cf. Ef 5, 23), egli ha amato ogni singola persona. Infatti, Cristo ha redento tutti
senza eccezione, ogni uomo e ogni donna. Nella redenzione si esprime proprio questo amore di

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37
Dio e giunge a compimento nella storia dell'uomo e del mondo il carattere sponsale di tale amore.
Cristo è entrato in questa storia e vi rimane come lo Sposo che «ha dato se stesso». «Dare» vuol
dire «diventare un dono sincero» nel modo più completo e radicale: «Nessuno ha un amore più
grande di questo» (Gv 15, 13). In tale concezione, per mezzo della Chiesa, tutti gli esseri umani -
sia donne che uomini - sono chiamati ad essere la «Sposa» di Cristo, redentore del mondo. In
questo modo «essere sposa», e dunque il «femminile», diventa simbolo di tutto l'«umano»,
secondo le parole di Paolo: «Non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»
(Gal 3, 28).
Dal punto di vista linguistico si può dire che l'analogia dell'amore sponsale secondo la Lettera agli
Efesini riporta ciò che è «maschile» a ciò che è «femminile», dato che, come membri della Chiesa,
anche gli uomini sono compresi nel concetto di «Sposa». E ciò non può meravigliare, poiché
l'apostolo, per esprimere la sua missione in Cristo e nella Chiesa, parla dei «figlioli che partorisce
nel dolore» (cf. Gal 4, 19). Nell'ambito di ciò che è «umano», di ciò che è umanamente personale,
la «mascolinità» e la «femminilità» si distinguono e nello stesso tempo si completano e si
spiegano a vicenda. Ciò è presente anche nella grande analogia della «Sposa» nella Lettera agli
Efesini. Nella Chiesa ogni essere umano - maschio e femmina - è la «Sposa», in quanto accoglie
in dono l'amore di Cristo redentore, come pure in quanto cerca di rispondervi col dono della
propria persona.
Cristo è lo Sposo. Si esprime in questo la verità sull'amore di Dio che «ha amato per primo» (1 Gv
4, 19) e che col dono generato da questo amore sponsale per l'uomo ha superato tutte le attese
umane: «Amò sino alla fine» (Gv 13, 1). Lo Sposo - il Figlio consostanziale al Padre in quanto Dio
- è divenuto figlio di Maria, «figlio dell'uomo», vero uomo, maschio. Il simbolo dello Sposo è di
genere maschile. In questo simbolo maschile è raffigurato il carattere umano dell'amore in cui Dio
ha espresso il suo amore divino per Israele, per la Chiesa, per tutti gli uomini. Meditando quanto i
Vangeli dicono circa l'atteggiamento di Cristo verso le donne, possiamo concludere che come
uomo, figlio di Israele, rivelò la dignità delle «figlie di Abramo» (cf. Lc 13, 16), la dignità posseduta
dalla donna sin dal «principio» al pari dell'uomo. E nello stesso tempo Cristo mise in rilievo tutta
l'originalità che distingue la donna dall'uomo, tutta la ricchezza ad essa elargita nel mistero della
creazione. Nell'atteggiamento di Cristo verso la donna si trova realizzato in modo esemplare ciò
che il testo della Lettera agli Efesini esprime col concetto di «sposo». Proprio perché l'amore
divino di Cristo è amore di Sposo, esso è il paradigma e l'esemplare di ogni amore umano, in
particolare dell'amore degli uomini-maschi.
L'Eucaristia
26. Sull'ampio sfondo del «grande mistero», che si esprime nel rapporto sponsale tra Cristo e la
Chiesa, è possibile anche comprendere in modo adeguato il fatto della chiamata dei «Dodici».
Chiamando solo uomini come suoi apostoli, Cristo ha agito in un modo del tutto libero e sovrano.

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Ciò ha fatto con la stessa libertà con cui, in tutto il suo comportamento, ha messo in rilievo la
dignità e la vocazione della donna, senza conformarsi al costume prevalente e alla tradizione
sancita anche dalla legislazione del tempo. Pertanto, l'ipotesi che egli abbia chiamato come
apostoli degli uomini, seguendo la mentalità diffusa ai suoi tempi, non corrisponde affatto al modo
di agire di Cristo. «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità (...),
perché non guardi in faccia ad alcuno» (Mt 22, 16). Queste parole caratterizzano pienamente il
comportamento di Gesù di Nazareth. In questo si trova anche una spiegazione per la chiamata dei
«Dodici». Essi sono con Cristo durante l'ultima Cena; essi soli ricevono il mandato sacramentale:
«Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19; 1 Cor 11, 24), collegato all'istituzione dell'Eucaristia.
Essi, la sera del giorno della risurrezione, ricevono lo Spirito Santo per perdonare i peccati: «A chi
rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (Gv 20,
23).
Ci troviamo al centro stesso del Mistero pasquale, che rivela fino in fondo l'amore sponsale di Dio.
Cristo è lo Sposo perché «ha dato se stesso»: il suo corpo è stato «dato», il suo sangue è stato
«versato» (cf. Lc 22, 19-20). In questo modo «amò sino alla fine» (Gv 13, 1). Il «dono sincero»,
contenuto nel sacrificio della Croce, fa risaltare in modo definitivo il senso sponsale dell'amore di
Dio. Cristo è lo Sposo della Chiesa, come redentore del mondo. L'Eucaristia è il sacramento della
nostra redenzione. E' il sacramento dello Sposo, della Sposa. L'Eucaristia rende presente e in
modo sacramentale realizza di nuovo l'atto redentore di Cristo, che «crea» la Chiesa suo corpo.
Con questo «corpo» Cristo è unito come lo sposo con la sposa. Tutto questo è contenuto nella
Lettera agli Efesini. Nel «grande mistero» di Cristo e della Chiesa viene introdotta la perenne
«unità dei due», costituita sin dal «principio» tra uomo e donna.
Se Cristo, istituendo l'Eucaristia, l'ha collegata in modo così esplicito al servizio sacerdotale degli
apostoli, è lecito pensare che in tal modo egli voleva esprimere la relazione tra uomo e donna, tra
ciò che è «femminile» e ciò che è «maschile», voluta da Dio sia nel mistero della creazione che in
quello della redenzione. Prima di tutto nell'Eucaristia si esprime in modo sacramentale l'atto
redentore di Cristo Sposo nei riguardi della Chiesa Sposa. Ciò diventa trasparente ed univoco,
quando il servizio sacramentale dell'Eucaristia, in cui il sacerdote agisce «in persona Christi»,
viene compiuto dall'uomo. E' una spiegazione che conferma l'insegnamento della Dichiarazione
Inter insigniores, pubblicata per incarico di Paolo VI per rispondere all'interrogativo circa la
questione dell'ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale[50].
Il dono della sposa
27. Il Concilio Vaticano II ha rinnovato nella Chiesa la coscienza dell'universalità del sacerdozio.
Nella Nuova Alleanza c'è un solo sacrificio e un solo sacerdote: Cristo. Di questo unico sacerdozio
partecipano tutti i battezzati, sia uomini che donne, in quanto devono «offrire se stessi come
vittima viva, santa, a Dio gradita (cf. Rm 12, 1), dare in ogni luogo testimonianza di Cristo e, a chi
la richieda, rendere ragione della loro speranza della vita eterna (cf. 1 Pt 3, 15)»[51] La

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partecipazione universale al sacrificio di Cristo, in cui il Redentore ha offerto al Padre il mondo
intero, e, in particolare, l'umanità, fa sì che tutti nella Chiesa siano «un regno di sacerdoti» (Ap 5,
10; cf. 1 Pt 2, 9), partecipino cioè non solo alla missione sacerdotale, ma anche a quella profetica
e regale di Cristo Messia. Questa partecipazione determina, inoltre, l'unione organica della
Chiesa, come Popolo di Dio, con Cristo. In essa si esprime nel contempo il «grande mistero» della
Lettera agli Efesini: la Sposa unita al suo Sposo; unita, perché vive la sua vita; unita, perché
partecipa della sua triplice missione (tria munera Christi); unita in una maniera tale da rispondere
con un «dono sincero» di sé all'ineffabile dono dell'amore dello Sposo, redentore del mondo. Ciò
riguarda tutti nella Chiesa, le donne come gli uomini, e riguarda ovviamente anche coloro che
sono partecipi del «sacerdozio ministeriale»[52], che possiede il carattere di servizio. Nell'ambito
del «grande mistero» di Cristo e della Chiesa tutti sono chiamati a rispondere - come una sposa -
col dono della loro vita all'ineffabile dono dell'amore di Cristo, che solo, come redentore del
mondo, è lo Sposo della Chiesa. Nel «sacerdozio regale», che è universale, si esprime
contemporaneamente il dono della Sposa.
Ciò è di fondamentale importanza per comprendere la Chiesa nella sua propria essenza, evitando
di trasferire alla Chiesa - anche nel suo essere un'«istituzione» composta di esseri umani ed
inserita nella storia - criteri di comprensione e di giudizio che non riguardano la sua natura. Anche
se la Chiesa possiede una struttura «gerarchica»[53], tuttavia tale struttura è totalmente ordinata
alla santità delle membra di Cristo. La santità poi si misura secondo il «grande mistero», in cui la
Sposa risponde col dono dell'amore al dono dello Sposo, e questo fa «nello Spirito Santo», poiché
«l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato»
(Rm 5, 5). Il Concilio Vaticano II, confermando l'insegnamento di tutta la tradizione, ha ricordato
che nella gerarchia della santità proprio la «donna», Maria di Nazareth, è «figura» della Chiesa.
Ella «precede» tutti sulla via verso la santità; nella sua persona «la Chiesa ha già raggiunto la
perfezione, con la quale esiste immacolata e senza macchia (cf. Ef 5, 27)»[54]. In questo senso si
può dire che la Chiesa è insieme «mariana» ed «apostolico-petrina»[55].
Nella storia della Chiesa, sin dai primi tempi c'erano - accanto agli uomini - numerose donne, per
le quali la risposta della Sposa all'amore redentore dello Sposo assumeva piena forza espressiva.
Come prime vediamo quelle donne, che personalmente avevano incontrato Cristo, l'avevano
seguito e, dopo la sua dipartita, insieme con gli apostoli «erano assidue nella preghiera» nel
cenacolo di Gerusalemme sino al giorno di Pentecoste. In quel giorno lo Spirito Santo parlò per
mezzo di «figli e figlie» del Popolo di Dio, compiendo l'annuncio del profeta Gioele (cf. At 2, 17).
Quelle donne, ed in seguito altre ancora, ebbero parte attiva ed importante nella vita della Chiesa
primitiva, nell'edificare sin dalle fondamenta la prima comunità cristiana - e le comunità successive
- mediante i propri carismi e il loro multiforme servizio. Gli scritti apostolici annotano i loro nomi,
come Febe, «diaconessa di Cencre» (cf. Rm 16, 1 ), Prisca col marito Aquila (cf. 2 Tim 4, 19),
Evodia e Sintiche (cf. Fil 4, 2), Maria, Trifena, Perside, Trifosa (cf. Rm 16, 6. 12). L'apostolo parla
delle loro «fatiche» per Cristo, e queste indicano i vari campi del servizio apostolico della Chiesa,
iniziando dalla «chiesa domestica». In essa, infatti, la «fede schietta» passa dalla madre nei figli e

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nei nipoti, come appunto si verificò nella casa di Timoteo (cf. 2 Tm 1, 5).
Lo stesso si ripete nel corso dei secoli, di generazione in generazione, come dimostra la storia
della Chiesa. La Chiesa, infatti, difendendo la dignità della donna e la sua vocazione, ha espresso
onore e gratitudine per coloro che - fedeli al Vangelo - in ogni tempo hanno partecipato alla
missione apostolica di tutto il Popolo di Dio. Si tratta di sante martiri, di vergini, di madri di famiglia,
che coraggiosamente hanno testimoniato la loro fede ed educando i propri figli nello spirito del
Vangelo hanno trasmesso la fede e la tradizione della Chiesa.
In ogni epoca e in ogni paese troviamo numerose donne «perfette» (cf. Prov 31, 10), che -
nonostante persecuzioni, difficoltà e discriminazioni - hanno partecipato alla missione della
Chiesa. Basta menzionare qui Monica, la madre di Agostino, Macrina, Olga di Kiev, Matilde di
Toscana, Edvige di Slesia ed Edvige di Cracovia, Elisabetta di Turingia, Brigida di Svezia,
Giovanna d'Arco, Rosa di Lima, Elisabeth Seton e Mary Ward.
La testimonianza e le opere di donne cristiane hanno avuto significativa incidenza sulla vita della
Chiesa, come anche su quella della società. Anche in presenza di gravi discriminazioni sociali le
donne sante hanno agito in «modo libero», fortificate dalla loro unione con Cristo. Una simile
unione e libertà radicata in Dio spiegano, ad esempio, la grande opera di Santa Caterina da Siena
nella vita della Chiesa e di Santa Teresa di Gesù in quella monastica.
Anche ai nostri giorni la Chiesa non cessa di arricchirsi della testimonianza delle numerose donne
che realizzano la loro vocazione alla santità. Le donne sante sono una incarnazione dell'ideale
femminile, ma sono anche un modello per tutti i cristiani, un modello di «sequela Christi», un
esempio di come la Sposa deve rispondere con l'amore all'amore dello Sposo.
VIII
PIU' GRANDE E' LA CARITA'
Di fronte ai mutamenti
28. «La Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà all'uomo, mediante il suo Spirito, luce
e forza perché possa rispondere alla suprema sua vocazione»[56]. Possiamo riferire queste
parole della Costituzione Gaudium et spes al tema delle presenti riflessioni. Il particolare richiamo
alla dignità della donna ed alla sua vocazione, proprio dei tempi in cui viviamo, può e deve essere
accolto nella «luce e forza» che lo Spirito elargisce all'uomo: anche all'uomo della nostra epoca
ricca di molteplici trasformazioni. La Chiesa «crede (...) di trovare nel suo Signore e Maestro la
chiave, il centro e il fine» dell'uomo, nonché «di tutta la storia umana» e «afferma che al di sotto di
tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in
Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli»[57].

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Con queste parole la Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo ci indica la strada da
seguire nell'assumere i compiti relativi alla dignità della donna e alla sua vocazione, sullo sfondo
dei mutamenti significativi per i nostri tempi. Possiamo affrontare tali mutamenti in modo corretto e
adeguato solo se riandiamo ai fondamenti che si trovano in Cristo, a quelle verità e a quei valori
«immutabili», di cui egli stesso rimane «testimone fedele» (cf. Ap 1, 5) e Maestro. Un diverso
modo di agire condurrebbe a risultati dubbi, se non addirittura erronei e ingannevoli.
La dignità della donna e l'ordine dell'amore
29. Il passo già riportato dalla Lettera agli Efesini (5, 21-33), in cui il rapporto tra Cristo e la Chiesa
viene presentato come legame tra lo Sposo e la Sposa, fa riferimento anche alla istituzione del
matrimonio secondo le parole del Libro della Genesi (cf. 2, 24). Esso unisce la verità sul
matrimonio come primordiale sacramento con la creazione dell'uomo e della donna ad immagine e
somiglianza di Dio (cf. Gen 1, 27; 5, 1). Grazie al significativo confronto contenuto nella Lettera
agli Efesini acquista piena chiarezza ciò che decide della dignità della donna sia agli occhi di Dio,
Creatore e Redentore, sia agli occhi dell'uomo: dell'uomo e della donna. Sul fondamento del
disegno eterno di Dio, la donna è colei in cui l'ordine dell'amore nel mondo creato delle persone
trova un terreno per la sua prima radice. L'ordine dell'amore appartiene alla vita intima di Dio
stesso, alla vita trinitaria. Nella vita intima di Dio, lo Spirito Santo è la personale ipostasi
dell'amore. Mediante lo Spirito, Dono increato, l'amore diventa un dono per le persone create.
L'amore, che è da Dio, si comunica alle creature: «l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori
per mezzo dello Spirito Santo, che ci viene dato» (Rm 5, 5).
La chiamata all'esistenza della donna accanto all'uomo («un aiuto che gli sia simile»: Gen 2, 18)
nell'«unità dei due» offre nel mondo visibile delle creature condizioni particolari affinché «l'amore
di Dio venga riversato nei cuori» degli esseri creati a sua immagine. Se l'autore della Lettera agli
Efesini chiama Cristo Sposo e la Chiesa Sposa, egli conferma indirettamente, con tale analogia, la
verità sulla donna come sposa. Lo Sposo è colui che ama. La Sposa viene amata: è colei che
riceve l'amore, per amare a sua volta.
Il passo della Genesi - riletto alla luce del simbolo sponsale della Lettera agli Efesini - ci permette
di intuire una verità che sembra decidere in modo essenziale la questione della dignità della
donna e, in seguito, anche quella della sua vocazione: la dignità della donna viene misurata
dall'ordine dell'amore, che è essenzialmente ordine di giustizia e di carità[58].
Solo la persona può amare e solo la persona può essere amata. Questa è un'affermazione,
anzitutto, di natura ontologica, dalla quale emerge poi un'affermazione di natura etica. L'amore è
un'esigenza ontologica ed etica della persona. La persona deve essere amata, poiché solo
l'amore corrisponde a quello che è la persona. Così si spiega il comandamento dell'amore,
conosciuto già nell'Antico Testamento (cf. Dt 6, 5; Lv 19, 18) e posto da Cristo al centro stesso
dell'«ethos» evangelico (cf. Mt 22, 3640; Mc 12, 28-34). Così si spiega anche quel primato

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42
dell'amore espresso dalle parole di Paolo nella Lettera ai Corinzi: «più grande è la carità» (cf. 1
Cor 13, 13).
Se non si ricorre a quest'ordine e a questo primato, non si può dare una risposta completa e
adeguata all'interrogativo sulla dignità della donna e sulla sua vocazione. Quando diciamo che la
donna è colei che riceve amore per amare a sua volta, non intendiamo solo o innanzitutto lo
specifico rapporto sponsale del matrimonio. Intendiamo qualcosa di più universale, fondato sul
fatto stesso di essere donna nell'insieme delle relazioni interpersonali, che nei modi più diversi
strutturano la convivenza e la collaborazione tra le persone, uomini e donne. In questo contesto,
ampio e diversificato, la donna rappresenta un valore particolare come persona umana e, nello
stesso tempo, come quella persona concreta, per il fatto della sua femminilità. Questo riguarda
tutte le donne e ciascuna di esse, indipendentemente dal contesto culturale in cui ciascuna si
trova e dalle sue caratteristiche spirituali, psichiche e corporali, come, ad esempio, l'età,
l'istruzione, la salute, il lavoro, l'essere sposata o nubile.
Il passo della Lettera agli Efesini che consideriamo ci permette di pensare ad una specie di
«profetismo» particolare della donna nella sua femminilità. L'analogia dello Sposo e della Sposa
parla dell'amore con cui ogni uomo è amato da Dio in Cristo, ogni uomo e ogni donna. Tuttavia,
nel contesto dell'analogia biblica e in base alla logica interiore del testo, è proprio la donna colei
che manifesta a tutti questa verità: la sposa. Questa caratteristica «profetica» della donna nella
sua femminilità trova la più alta espressione nella Vergine Madre di Dio. Nei suoi riguardi viene
messo in rilievo, nel modo più pieno e diretto, l'intimo congiungersi dell'ordine dell'amore - che
entra nell'ambito del mondo delle persone umane attraverso una Donna - con lo Spirito Santo.
Maria ode all'annunciazione: «Lo Spirito Santo scenderà su di te» (Lc 1, 35).
Consapevolezza di una missione
30. La dignità della donna si collega intimamente con l'amore che ella riceve a motivo stesso della
sua femminilità ed altresì con l'amore che a sua volta dona. Viene così confermata la verità sulla
persona e sull'amore. Circa la verità della persona, si deve ancora una volta ricorrere al Concilio
Vaticano II: «L'uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa, non
può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé»[59]. Questo riguarda ogni
uomo, come persona creata ad immagine di Dio, sia uomo che donna. L'affermazione di natura
ontologica qui contenuta indica anche la dimensione etica della vocazione della persona. La
donna non può ritrovare se stessa se non donando l'amore agli altri.
Sin dal «principio» la donna - come l'uomo - è stata creata e «posta» da Dio proprio in questo
ordine dell'amore. Il peccato delle origini non ha annullato questo ordine, non lo ha cancellato in
modo irreversibile. Lo provano le parole bibliche del Protovangelo (cf. Gen 3, 15). Nelle presenti
riflessioni abbiamo osservato il posto singolare della «donna» in questo testo chiave della
Rivelazione. Occorre, inoltre, rilevare come la stessa donna, che giunge ad essere «paradigma»

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biblico, si trovi anche nella prospettiva escatologica del mondo e dell'uomo, espressa
dall'Apocalisse[60]. E' «una donna vestita di sole», con la luna sotto i piedi e una corona di stelle
sopra il capo (cf. Ap 12, 1). Si può dire: una «donna» a misura del cosmo, a misura di tutta l'opera
della creazione. Nello stesso tempo essa soffre «le doglie e il travaglio del parto», (Ap 12, 2),
come Eva «madre di tutti i viventi» (Gen 3, 20). Soffre anche perché «davanti alla donna che sta
per partorire» (cf. Ap 12, 4) si pone «il grande drago, il serpente antico» (Ap 12, 9), conosciuto già
dal Protovangelo: il Maligno, «padre della menzogna» e del peccato (cf. Gv 8, 44). Ecco: il
«serpente antico» vuole divorare «il bambino». Se vediamo in questo testo il riflesso del vangelo
dell'infanzia (cf. Mt 2, 13. 16), possiamo pensare che, nel paradigma biblico della «donna», viene
inscritta, dall'inizio sino al termine della storia, la lotta contro il male e il Maligno. Questa è anche
la lotta per l'uomo, per il suo vero bene, per la sua salvezza. La Bibbia non vuole dirci che proprio
nella «donna», Eva-Maria, la storia registra una drammatica lotta per ogni uomo, la lotta per il suo
fondamentale «sì» o «no» a Dio e al suo eterno disegno sull'uomo?
Se la dignità della donna testimonia l'amore, che essa riceve per amare a sua volta, il paradigma
biblico della «donna» sembra anche svelare quale sia il vero ordine dell'amore che costituisce la
vocazione della donna stessa. Si tratta qui della vocazione nel suo significato fondamentale, si
può dire universale, che poi si concretizza e si esprime nelle molteplici «vocazioni» della donna
nella Chiesa e nel mondo.
La forza morale della donna, la sua forza spirituale si unisce con la consapevolezza che Dio le
affida in un modo speciale l'uomo, l'essere umano. Naturalmente, Dio affida ogni uomo a tutti e a
ciascuno. Tuttavia, questo affidamento riguarda in modo speciale la donna - proprio a motivo della
sua femminilità - ed esso decide in particolare della sua vocazione.
Attingendo a questa consapevolezza e a questo affidamento, la forza morale della donna si
esprime in numerosissime figure femminili dell'Antico Testamento, dei tempi di Cristo, delle
epoche successive fino ai nostri giorni.
La donna è forte per la consapevolezza dell'affidamento, forte per il fatto che Dio «le affida
l'uomo», sempre e comunque, persino nelle condizioni di discriminazione sociale in cui essa può
trovarsi. Questa consapevolezza e questa fondamentale vocazione parlano alla donna della
dignità che riceve da Dio stesso, e ciò la rende «forte» e consolida la sua vocazione. In questo
modo, la «donna perfetta» (cf. Prv 31, 10) diventa un insostituibile sostegno e una fonte di forza
spirituale per gli altri, che percepiscono le grandi energie del suo spirito. A queste «donne
perfette» devono molto le loro famiglie e talvolta intere Nazioni.
Nella nostra epoca i successi della scienza e della tecnica permettono di raggiungere in grado
finora sconosciuto un benessere materiale che, mentre favorisce alcuni, conduce altri
all'emarginazione. In tal modo, questo progresso unilaterale può comportare anche una graduale
scomparsa della sensibilità per l'uomo, per ciò che è essenzialmente umano. In questo senso,

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44
soprattutto i nostri giorni attendono la manifestazione di quel «genio» della donna che assicuri la
sensibilità per l'uomo in ogni circostanza: per il fatto che è uomo! E perché «più grande è la carità»
(1 Cor 13, 13).
Pertanto, un'attenta lettura del paradigma biblico della «donna» - dal Libro della Genesi sino
all'Apocalisse - conferma in che consistono la dignità e la vocazione della donna e ciò che in esse
è immutabile e non perde attualità, avendo il suo «ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo
stesso: ieri, oggi e nei secoli»[61]. Se l'uomo è affidato in modo speciale da Dio alla donna, questo
non significa forse che da lei Cristo si attende il compiersi di quel «sacerdozio regale» (1 Pt 2, 9),
che è la ricchezza da lui data agli uomini? Questa stessa eredità Cristo, sommo ed unico
sacerdote della nuova ed eterna Alleanza e Sposo della Chiesa, non cessa di sottomettere al
Padre mediante lo Spirito Santo, affinché Dio sia «tutto in tutti» (1 Cor 15, 28)[62].
Allora avrà compimento definitivo la verità che «più grande è la carità» (1 Cor 13, 13).
IX
CONCLUSIONE
«Se tu conoscessi il dono di Dio»
31. «Se tu conoscessi il dono di Dio» (Gv 4, 10), dice Gesù alla Samaritana durante uno di quei
mirabili colloqui che mostrano quanta stima egli abbia per la dignità di ogni donna e per la
vocazione che le consente di partecipare alla sua missione di Messia.
Le presenti riflessioni, ormai concluse, sono orientate a riconoscere all'interno del «dono di Dio»
ciò che egli, creatore e redentore, affida alla donna, ad ogni donna. Nello Spirito di Cristo, infatti,
essa può scoprire l'intero significato della sua femminilità e disporsi in tal modo al «dono sincero di
sé» agli altri, e così «ritrovare» se stessa.
Nell'Anno Mariano la Chiesa desidera ringraziare la Santissima Trinità per il «mistero della
donna», e, per ogni donna - per ciò che costituisce l'eterna misura della sua dignità femminile, per
le «grandi opere di Dio» che nella storia delle generazioni umane si sono compiute in lei e per
mezzo di lei. In definitiva, non si è operato in lei e per mezzo di lei ciò che c'è di più grande nella
storia dell'uomo sulla terra: l'evento che Dio stesso si è fatto uomo?
La Chiesa, dunque, rende grazie per tutte le donne e per ciascuna: per le madri, le sorelle, le
spose; per le donne consacrate a Dio nella verginità; per le donne dedite ai tanti e tanti esseri
umani, che attendono l'amore gratuito di un'altra persona; per le donne che vegliano sull'essere
umano nella famiglia, che è il fondamentale segno della comunità umana; per le donne che
lavorano professionalmente, donne a volte gravate da una grande responsabilità sociale; per le

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45
donne «perfette» e per le donne «deboli» per tutte: così come sono uscite dal cuore di Dio in tutta
la bellezza e ricchezza della loro femminilità; così come sono state abbracciate dal suo eterno
amore; così come, insieme con l'uomo, sono pellegrine su questa terra, che è, nel tempo, la
«patria» degli uomini e si trasforma talvolta in una «valle di pianto»; così come assumono, insieme
con l'uomo, una comune responsabilità per le sorti dell'umanità, secondo le quotidiane necessità e
secondo quei destini definitivi che l'umana famiglia ha in Dio stesso, nel seno dell'ineffabile Trinità.
La Chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del «genio» femminile apparse nel corso della
storia, in mezzo a tutti i popoli e Nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce
alle donne nella storia del Popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza
e carità: ringrazia per tutti i frutti di santità femminile.
La Chiesa chiede, nello stesso tempo, che queste inestimabili «manifestazioni dello Spirito» (cf. 1
Cor 12, 4 ss.) che con grande generosità sono elargite alle «figlie» della Gerusalemme eterna,
siano attentamente riconosciute, valorizzate, perché tornino a comune vantaggio della Chiesa e
dell'umanità, specialmente ai nostri tempi. Meditando il mistero biblico della «donna», la Chiesa
prega affinché tutte le donne ritrovino in questo mistero se stesse e la loro «suprema vocazione».
Maria, che «precede tutta la Chiesa sulla via della fede, della carità e della perfetta unione con
Cristo»[63], ottenga a tutti noi anche questo «frutto», nell'Anno che abbiamo dedicato a lei, alle
soglie del terzo millennio della venuta di Cristo.
Con questi voti imparto a tutti i fedeli e in special modo alle donne, sorelle in Cristo, la
Benedizione Apostolica.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 del mese di agosto - Solennità dell'Assunzione di Maria
Santissima - dell'anno 1988, decimo di Pontificato.
GIOVANNI PAOLO II
[1] Messaggio del Concilio alle Donne (8 dicembre 1965): AAS 58 (1966), 13-14.[2] Cf. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past.
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 8; 9; 60.[3] Cf. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'apost. dei laici
Apostolicam actuositatem, 9.[4] Cf. Pio XII, Alloc. alle donne italiane (21 ottobre 1945): AAS 37 (1945), 284-295; Alloc.
all'Unione Mondiale delle Organizzazioni femminili cattoliche (24 aprile 1952): AAS 44 (1952), 420-424; Discorso alle
partecipanti al IV Congresso Internazionale dell'Unione Mondiale delle Organizzazioni femminili cattoliche (29 settembre
1957): AAS 49 (1957), 906-922.[5] Cf. Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), I: AAS 55 (1963), 267-
268.[6] Proclamzione di S. Teresa di Gesù «Dottore della Chiesa universalel» (27 settembre 1970): AAS 62 (1970), 590-
596; proclamzazione di S. Caterina da Siena «Dottore della Chiesa Universale» (4 ottobre 1970): AAS 62 (1970), 673-

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678.[7] Cf. AAS 65 (1973), 284 s.[8] Paolo VI, Discorso alle partecipanti al Convegno Nazionale del Centro Femminile
Italiano (6 dicembre 1976): Insegnamenti di Paolo VI, XIV (1976), 1017.[9] Cf Lett. Encic. Redemptoris Mater (25 marzo
1987), 46: AAS 79 (1987), 472 s.[10] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 1.[11] Una
illustrazione del significato antropologico e teologico del «principio» può vedersi nella Prima Parte delle Allocuzioni del
mercoledì dedicate alla «teologia del corpo», a partire dal 5 settembre 1979: Insegnamenti II, 2 (1979), 234-236.[12]
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22.[13] Conc. Ecum. Vat. II,
Dich. sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 1.[14] Ibid., 2[15] Conc. Ecum. Vat. II, Cost.
dogm. sulla divina rivelazione Dei Verbum, 2.[16] Già secondo i Padri della Chiesa, la prima rivelazione della Trinità nel
Nuovo Testamento è avvenuta nell'Annunciazione. In un'omelia attribuita a S. Gregorio il Taumaturgo si legge: «Sei
splendore di luce, o Maria, nel sublime regno spirituale! In te il Padre, che è senza principio e la cui potenza ti ha
ricoperto, è glorificato.In te il Figlio, che hai portato secondo la carne, è adorato. In te lo Spirito Santo, che ha operato
nelle tue viscere la nascita del grande Re, è celebrato. È grazie a te, o piena di grazia, che la Trinità santa e
consustanziale ha potuto essere conosciuta nel mondo» (Hom. 2 in Annuntiat. Virg. Mariae: PG 10, 1169). Cf. pure S.
Andrea di Creta, In Annuntiat. B. Mariae: PG 97, 909.[17] Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulle relazioni della Chiesa con le
religioni non cristiane Nostra aetate, 2.[18] La dottrina teologica sulla Madre di Dio (Theotókos), sostenuta da molti Padri
della Chiesa, chiarita e definita nei Concili di Efeso (DS 251) e di Calcedonia (DS 301), è stata riproposta dal Concilio
Vaticano II, nel cap. VIII della Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 52-69. Cf. Lett. Encic. Redemptoris Mater, 4. 31-
32, e le note 9. 78-83: l. c., 365, 402-404.[19] Cf. Lett. Encic. Redemptoris Mater, 7-11, e i testi dei Padri ivi citati nella
nota 21: l. c., 367-373.[20] Cf. Cf ibid., 39-41: l. c., 412-418.[21] Cf. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen
gentium, 36.[22] Cf. S. Ireneo, Adv. haer. V, 6, 1; V, 16, 2-3: S. Ch. 153, 72-81; 216-221; S. Gregorio di Nissa, De hom.
op. 16: PG 44, 180: In Cant. Cant. hom. 2: PG 44, 805-808; S. Agostino, In Ps. 4, 8: CCL 38, 17.[23] «Persona est
naturae rationalis individua substantia»: Manlio Severino Boezio, Liber de persona et duabus naturis, III: PL 64, 1343; cf.
S. Tommaso d' Aquino, Summa Theol. Iª, q. 29, a. 1.[24] Tra i Padri della Chiesa che affermano l'eguaglianza
fondamentale dell'uomo e della donna davanti a Dio, cf. Origene, In Iesu nave, IX, 9: PG 12, 878; Clemente
Alessandrino, Paed. I, 4: S. Ch. 70, 128-131; S. Agostino, Sermo 51, II, 3: PL 38, 334-335.[25] Dice S. Gregorio di Nissa:
«Dio è inoltre amore e fonte di amore. Dice questo il grande Giovanni: "L'amore è dato da Dio" e "Dio è Amore" (1 Gv 4,
7. 8). Il Creatore ha impresso in noi anche questo carattere. "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete
amore gli uni per gli altri" (Gv 13, 35). Dunque, se questo non c'è, tutta l'immagine viene sfigurata» (De hom. op. 5: PG
44, 137).[26] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 24.[27] Cf. Nm
23, 19; Os 11, 9; Is 40, 18; 46, 5;cf inoltre Concilio Lateranense IV (DS 806).[28] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 13.[29] «Diabolico» viene dal greco «dia-ballō»: «divido, separo,
calunnio».[30] Cf. Origene, In Gen. hom. 13, 4: PG 12, 234; S. Gregorio di Nissa, De virg. 12: S. Ch. 119, 404-419; De
beat. VI: PG 44, 1272.[31] Cf. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes,
13., 13.[32] Cf. ibid., 24.[33] È appunto appellandosi alla legge divina che i Padri del IV secolo reagirono fortemente
contro la discriminazione ancora in vigore, nei confonti della donna, nel costume e nella legislazione civile del loro tempo.
Cf. S. Gregorio di Nazianzo, Or. 37, 6: PG 36, 290; S. Girolamo, Ad Oceanum ep. 77, 3: PL 22, 691; S. Ambrogio, De
institut. virg. III, 16: PL 16, 309; S. Agostino, Sermo 132, 2: PL 38, 735; Sermo 392, 4: PL 39, 1711.[34] Cf. S. Ireneo,
Adv. haer. III, 23, 7: S. Ch. 211, 462-465; V, 21, 1: S. Ch. 153, 260-265; S. Epifanio, Panar. III, 2, 78: PG 42, 728-729; S.
Agostino, Enarr. in Ps. 103, 5. 4, 6: CCL 40, 1525.[35] Cf. S. Giustino, Dial, cum Thryph. 100: PG 6, 709-712; S. Ireneo,
Adv. haer. III, 22, 4: S. Ch. 211, 438-445; V, 19, 1: S. Ch. 153, 248-251; S. Cirillo di Gerusalemme, Cathec. 12, 15: PG
33, 741; S. Giovanni Crisostomo, In Ps. 44, 7: PG 55, 193; S. Giovanni Damasceno, Hom. 2 in dorm. B.V.M. 3: S. Ch.

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80, 130-135; Esichio, Sermo 5 in Deiparam: PG 93, 1464 s.; Tertulliano, De carne Christi 17: CCL 2, 904 s.; S. Girolamo,
Epist. 22, 21: PL 22, 408; S. Agostino, Sermo 51, 2-3: PL 38, 335; Sermo 232, 2: PL 38, 1108; J. H. Newman, A Letter to
the rev. E. B. Pusey, Longmans, London 1865 (trad. ital. Lettera al rev. Pusey su Maria e la vita cristiana, Roma 1975):
M. J. Scheeben, Handbuch der Katholiscben Dogmatik, V/1 (Freiburg 1954, Zwite Ausgabe), 243-266; V/2 (Freiburg.
1954, Zwite Ausgabe), 306-499.[36] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et
spes, 22.[37] Cf. S. Ambrogio, De instit. virg. V, 33: PL 16, 313.[38] Cf. Rabano Mauro, De vita beatae Mariae
Magdalenae, XXVII: «Salvator... ascensionis suae eam (= Mariam Magdalenam) ad apostolos instituit apostolam» (PL
112, 1474). «Facta est Apostolorum Apostola per hoc quod ei committitur ut resurrectionem dominicam discipulis
annuntiet» S. Tomaso D' Aquino, In loannem Evangelistam Expositio, c. XX, L. III, 6 (Sancti Thomae Aquinatis Comment.
in Matthaeum et Ioannem Evangelistas) Ed. Parmens. X, 629.[39] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo Gaudium et spes, 24.[40] Lett. Encic. Redemptoris Mater, 18: l. c., 383.[41] Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 24.[42] Cf. Allocuzioni del mercoledì 7 e 21 aprile
1982: Insegnamenti V, 1 (1982), pp. 1126-1131 y 1175-1179.[43] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen
gentium, 63; S. Ambrogio, In Lc II, 7: S. Ch. 45, 74; De instit. virg. XIV, 87-89: PL 16, 326-327; S. Cirillo di Alessandria,
Hom. 4: PG 77, 996; S. Isidoro di Siviglia, Allegoriae 139: PL 83, 117.[44] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa
Lumen gentium, 63.[45] Ibid., 64.[46] Ibid., 64.[47] Ibid., 64. Sul rapporto Maria-Chiesa, che ininterrottamente ricorre nella
riflessione dei Padri della Chiesa e di tutta la tradizione cristiana, cf. Lett. Enc. Redemptoris Mater, 42-44, e note 117-
127: l. c., 418-422. Cf. E inoltre: Clemente Alessandrino, Paed. 1, 6: S. Ch. 70, 186 s.; S. Ambrogio, In Lc II, 7: S. Ch. 45,
74; S. Agostino, Sermo 192, 2: PL 38, 1012; Sermo 195, 2: PL 38, 1018; Sermo 25, 8: PL 46, 938; S. Leone Magno,
Sermo 25, 5: PL 54, 211; Sermo 26, 2: PL 54, 213; Ven. Beda, In Lc I, 2: PL 92, 330. «Ambedue madri —scrive Isacco
della Stella, discepolo di S. Bernardo—, ambedue vergini, ambedue concepiscono per opera dello Spirito Santo (...).
Maria (...) ha generato al corpo il suo Capo; la Chiesa (...) dona a questo Capo il suo corpo. L'una e l'altra sono madri di
Cristo: ma nessuna delle due lo genera tutto intero senza l'altra. Perciò giustamente (...) quel che è detto in generale
della vergine madre Chiesa si intende singolarmente della vergine madre Maria; e quel che si dice in modo speciale della
vergine madre Maria va riferito in generale alla vergine madre Chiesa: e quanto si dice di una delle due può essere
inteso indifferentemente dell'una e dell'altra» (Sermo 51, 7-8: S. Ch. 339, 202-205).[48] Cf. per esempio Os 1, 2; 2, 16-
18; Ger 2, 2; Ez 16, 8; Is 50, 1; 54, 5-8.[49] Cf. Col 3, 18; 1 P 3, 1-6; Tt 2, 4-5; Ef 5, 22-24; 1 Cor 11, 316; 14, 33-35; 1 Tm
2, 11-15.[50] Cf. Congr. per la Dottrina della Fede, Dichiarazione circa la questione dell'ammissione delle donne al
sacerdozio ministeriale Inter insigniores (15 ottobre 1976): AAS 69 (1977), 98-116.[51] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm.
sulla Chiesa Lumen gentium, 10.[52] Cf. ibid., 10.[53] Cf. ibid., 18-29.[54] Cf. ibid., 65; cf pure 63; Lett. Encic.
Redemptoris Mater, 2-6: l. c., 362-367.[55] «Questo profilo mariano è altrettanto – se non lo è di più – fondamentale e
caratterizzante per la Chiesa quanto il profilo apostolico e petrino, al quale è profondamente unito (…) la dimensione
mariana della Chiesa antecede quella petrina, pur essendole strettamente unita e complementare. Maria, l’Immacolata,
precede ogni altro, e, ovviamente, lo stesso Pietro e gli apostoli, non solo perché provenendo dalla massa del genere
umano che nasce sotto il peccato, fanno parte della Chiesa "sancta ex peccatoribus", ma anche perché il loro triplice
munus non mira ad altro che a formare la Chiesa in quell’ideale di santità che è già preformato e prefigurato in Maria.
Come bene ha detto un teologo contemporaneo, “Maria è regina degli apostoli, senza pretendere per sé i poteri
apostolici. Essa ha altro e di più» (H. U. von Balthasar, Neue Klarstellungen, trad. ital., Milano 1980, p. 181): Allocuzione
ai Cardinali e ai Prelati della Curia Romana, 22 dicembre 1987: L'Osservatore Romano, 23 dicembre de 1987.[56] Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 10.[57] Ibid., 10.[58] Cf. S. Agostino,
De Trinitate, L, VIII, VII, 10-X, 14: CCL 50, 284-291.[59] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo

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contemporaneo Gaudium et spes, 24.[60] Cf. nell' Appendice alle opere di S. Ambrosio, In Apoc. IV, 3-4: PL 17, 876; Ps.
Agostino, De symb. ad catech. sermo IV: PL 40, 661.[61] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 10.[62] Cf. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 36.[63] Cf.
ibid., 63.
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