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La Santa Sede
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL CAPITOLO GENERALE DEI SALESIANI
Valdocco, 16 febbraio – 4 aprile 2020
Cari fratelli!
Vi saluto con affetto e ringrazio Dio di poter, pur a distanza, condividere con voi un momento del
cammino che state percorrendo.
Èsignificativo che, dopo alcuni decenni, la Provvidenza vi abbia condotto a celebrare il Capitolo
Generale a Valdocco – il luogo della memoria – dove il sogno fondativo si concretizzò e fece i
primi passi. Sono sicuro che il rumore e il vociare degli oratori sarà la musica migliore, la più
efficace perché lo Spirito ravvivi il dono carismatico del vostro fondatore. Non chiudete le finestre
a questo rumore di sottofondo… Lasciate che vi accompagni e che vi mantenga inquieti e intrepidi
nel discernimento; e permettete che queste voci e questi canti, a loro volta, evochino in voi i volti
di tanti altri giovani che, per varie ragioni, si trovano come pecore senza pastore (cfr Mc 6,34).
Questo vociare e questa inquietudine vi terranno attenti e svegli davanti a qualunque tipo di
anestesia autoimposta e vi aiuteranno a rimanere in una fedeltà creativa alla vostra identità
salesiana.
Ravvivare il dono che avete ricevuto
Pensare alla figura di salesiano per i giovani di oggi implica accettare che siamo immersi in un
momento di cambiamenti, con tutto ciò che di incertezza questo genera. Nessuno può dire con
sicurezza e precisione (se mai qualche volta si è potuto farlo) che cosa succederà nel prossimo
futuro a livello sociale, economico, educativo e culturale. L’inconsistenza e la “fluidità” degli
avvenimenti, ma soprattutto la velocità con cui si susseguono e si comunicano le cose, fa sì che
ogni tipo di previsione diventi una lettura condannata ad essere riformulata al più presto (cfr Cost.
ap. Veritatis gaudium, 3-4). Tale prospettiva si accentua ancor più per il fatto che le vostre opere

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sono orientate in modo particolare al mondo giovanile che in sé stesso è un mondo in movimento
e in continua trasformazione. Questo ci chiede una doppia docilità: docilità ai giovani e alle loro
esigenze e docilità allo Spirito e a tutto quello che Egli voglia trasformare.
Assumere responsabilmente questa situazione – a livello sia personale sia comunitario – comporta
l’uscire da una retorica che ci fa dire continuamente “tutto sta cambiando” e che, a forza di
ripeterlo e ripeterlo, finisce col fissarci in un’inerzia paralizzante che priva la vostra missione della
parresia propria dei discepoli del Signore. Tale inerzia può anche manifestarsi in uno sguardo e un
atteggiamento pessimistici di fronte a tutto ciò che ci circonda e non solo rispetto alle
trasformazioni che avvengono nella società ma anche in rapporto alla propria Congregazione, ai
fratelli e alla vita della Chiesa. Quell’atteggiamento che finisce per “boicottare” e impedire
qualunque risposta o processo alternativo, oppure per far emergere la posizione opposta: un
ottimismo cieco, capace di dissolvere la forza e novità evangelica, impedendo di accettare
concretamente la complessità che le situazioni richiedono e la profezia che il Signore ci invita a
portare avanti. Né il pessimismo né l’ottimismo sono doni dello Spirito, perché entrambi
provengono da una visione autoreferenziale capace solo di misurarsi con le proprie forze, capacità
o abilità, impedendo di guardare a ciò che il Signore attua e vuole realizzare tra di noi (cfr Esort.
ap. postsin. Christus vivit, 35). Né adattarsi alla cultura di moda, né rifugiarsi in un passato eroico
ma già disincarnato. In tempi di cambiamenti, fa bene attenersi alle parole di San Paolo a
Timoteo: «Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle
mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza»
(2 Tm 1,6-7).
Queste parole ci invitano a coltivare un atteggiamento contemplativo, capace di identificare e
discernere i punti nevralgici. Questo aiuterà ad addentrarsi nel cammino con lo spirito e l’apporto
proprio dei figli di Don Bosco e, come lui, sviluppare una «valida rivoluzione culturale» (Enc.
Laudato si’, 114). Questo atteggiamento contemplativo permetterà a voi di superare e
oltrepassare le vostre stesse aspettative e i vostri programmi. Siamo uomini e donne di fede, il che
suppone l’essere appassionati di Gesù Cristo; e sappiamo che tanto il nostro presente quanto il
nostro futuro sono impregnati di questa forza apostolico-carismatica chiamata a continuare a
permeare la vita di tanti giovani abbandonati e in pericolo, poveri e bisognosi, esclusi e scartati,
privati di diritti, di casa… Questi giovani attendono uno sguardo di speranza in grado di
contraddire ogni tipo di fatalismo o determinismo. Attendono di incrociare lo sguardo di Gesù che
dice loro «che in tutte le situazioni buie e dolorose […] c’è una via d’uscita» (Esort. ap. postsin.
Christus vivit, 104). È lì che abita la nostra gioia.
Né pessimista né ottimista, il salesiano del sec. XXI è un uomo pieno di speranza perché sa che il
suo centro è nel Signore, capace di fare nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5). Solo questo ci salverà
dal vivere in un atteggiamento di rassegnazione e sopravvivenza difensiva. Solo questo renderà
feconda la nostra vita (cfr Omelia, 2 febbraio 2017), perché renderà possibile che il dono ricevuto
continui ad essere sperimentato ed espresso come una buona notizia per e con i giovani di oggi.

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Questo atteggiamento di speranza è capace di instaurare e inaugurare processi educativi
alternativi alla cultura imperante che, in non poche situazioni – sia per indigenza e povertà
estrema sia per abbondanza, in alcuni casi pure estrema –, finiscono con l’asfissiare e uccidere i
sogni dei nostri giovani condannandoli a un conformismo assordante, strisciante e non di rado
narcotizzato. Né trionfalisti né allarmisti, uomini e donne allegri e speranzosi, non automatizzati
ma artigiani; capaci di «mostrare altri sogni che questo mondo non offre, di testimoniare la
bellezza della generosità, del servizio, della purezza, della fortezza, del perdono, della fedeltà alla
propria vocazione, della preghiera, della lotta per la giustizia e il bene comune, dell’amore per i
poveri, dell’amicizia sociale» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 36).
L’“opzione Valdocco” del vostro 28° Capitolo Generale è una buona occasione per confrontarsi
con le fonti e chiedere al Signore: “Da mihi animas, coetera tolle”.[1] Tolle soprattutto ciò che
durante il cammino si è andato incorporando e perpetuando e che, sebbene in un altro tempo è
potuto essere una risposta adeguata, oggi vi impedisce di configurare e plasmare la presenza
salesiana in maniera evangelicamente significativa nelle diverse situazioni della missione. Questo
richiede, da parte nostra, di superare le paure e le apprensioni che possono sorgere per aver
creduto che il carisma si riducesse o identificasse con determinate opere o strutture. Vivere
fedelmente il carisma è qualcosa di più ricco e stimolante del semplice abbandono, ripiego o
riadattamento delle case o delle attività; comporta un cambio di mentalità di fronte alla missione
da realizzare.[2]
L’ “opzione Valdocco” e il dono dei giovani
L’Oratorio salesiano e tutto ciò che sorse a partire da esso, come racconta la biografia
dell’Oratorio, nacque come risposta alla vita di giovani con un volto e una storia, che misero in
moto quel giovane sacerdote incapace di rimanere neutrale o immobile davanti a ciò che
accadeva. Fu molto più di un gesto di buona volontà o di bontà, e persino molto più del risultato di
un progetto di studio sulla “fattibilità numerico-carismatica”. Lo penso come un atto di conversione
permanente e di risposta al Signore che, “stanco di bussare” alle nostre porte, aspetta che
andiamo a cercarlo e a incontrarlo… O che lo lasciamo uscire, quando bussa da dentro.
Conversione che implicò (e complicò) tutta la sua vita e quella di coloro che gli stavano attorno.
Don Bosco non solo non sceglie di separarsi dal mondo per cercare la santità, ma si lascia
interpellare e sceglie come e quale mondo abitare.
Scegliendo e accogliendo il mondo dei bambini e dei giovani abbandonati, senza lavoro né
formazione, ha permesso loro di sperimentare in modo tangibile la paternità di Dio e ha fornito loro
strumenti per raccontare la loro vita e la loro storia alla luce di un amore incondizionato. Essi, a
loro volta, hanno aiutato la Chiesa a re-incontrarsi con la sua missione: «La pietra scartata dai
costruttori è divenuta testata d’angolo» (Sal 118,22). Lungi dall’essere agenti passivi o spettatori
dell’opera missionaria, essi divennero, a partire dalla loro stessa condizione – in molti casi
“illetterati religiosi” e “analfabeti sociali” – i principali protagonisti dell’intero processo di

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fondazione.[3] La salesianità nasce precisamente da questo incontro capace di suscitare profezie
e visioni: accogliere, integrare e far crescere le migliori qualità come dono per gli altri, soprattutto
per quelli emarginati e abbandonati dai quali non ci si aspetta nulla. Lo disse Paolo VI:
«Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa… Ciò vuol dire, in una parola,
che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e
forza per annunziare il Vangelo» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 15). Ogni carisma ha bisogno di
essere rinnovato ed evangelizzato, e nel vostro caso soprattutto dai giovani più poveri.
Gli interlocutori di Don Bosco ieri e del salesiano oggi non sono meri destinatari di una strategia
progettata in anticipo, ma vivi protagonisti dell’oratorio da realizzare.[4] Per mezzo di loro e con
loro il Signore ci mostra la sua volontà e i suoi sogni.[5] Potremmo chiamarli co-fondatori delle
vostre case, dove il salesiano sarà esperto nel convocare e generare questo tipo di dinamiche
senza sentirsene il padrone. Un’unione che ci ricorda che siamo “Chiesa in uscita” e ci mobilita
per questo: Chiesa capace di abbandonare posizioni comode, sicure e in alcune occasioni
privilegiata, per trovare negli ultimi la fecondità tipica del Regno di Dio. Non si tratta di una scelta
strategica, ma carismatica. Una fecondità sostenuta in base alla croce di Cristo, che è sempre
ingiustizia scandalosa per quanti hanno bloccato la sensibilità davanti alla sofferenza o sono scesi
a patti con l’ingiustizia nei confronti dell’innocente. «Non possiamo essere una Chiesa che non
piange di fronte a questi drammi dei suoi figli giovani. Non dobbiamo mai farci l’abitudine, perché
chi non sa piangere non è madre. Noi vogliamo piangere perché anche la società sia più madre»
(Esort. ap. postsin. Christus vivit, 75).
L’ “opzione Valdocco” e il carisma della presenza
Èimportante sostenere che non veniamo formati per la missione, ma che veniamo formati nella
missione, a partire dalla quale ruota tutta la nostra vita, con le sue scelte e le sue priorità. La
formazione iniziale e quella permanente non possono essere un’istanza previa, parallela o
separata dell’identità e della sensibilità del discepolo. La missione inter gentes è la nostra scuola
migliore: a partire da essa preghiamo, riflettiamo, studiamo, riposiamo. Quando ci isoliamo o ci
allontaniamo dal popolo che siamo chiamati a servire, la nostra identità come consacrati comincia
a sfigurarsi e a diventare una caricatura.
In questo senso, uno degli ostacoli che possiamo individuare non ha tanto a che vedere con una
qualsiasi situazione esterna alle nostre comunità, ma piuttosto è quello che ci tocca direttamente
per un’esperienza distorta del ministero…, e che ci fa tanto male: il clericalismo. È la ricerca
personale di voler occupare, concentrare e determinare gli spazi minimizzando e annullando
l’unzione del Popolo di Dio. Il clericalismo, vivendo la chiamata in modo elitario, confonde
l’elezione con il privilegio, il servizio con il servilismo, l’unità con l’uniformità, la discrepanza con
l’opposizione, la formazione con l’indottrinamento. Il clericalismo è una perversione che favorisce
legami funzionali, paternalistici, possessivi e perfino manipolatori con il resto delle vocazioni nella
Chiesa.

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Un altro ostacolo che incontriamo – diffuso, e perfino giustificato, soprattutto in questo tempo di
precarietà e fragilità – è la tendenza al rigorismo. Confondendo autorità con autoritarismo, esso
pretende di governare e controllare i processi umani con un atteggiamento scrupoloso, severo e
perfino meschino di fronte ai limiti e alle debolezze propri o altrui (soprattutto altrui). Il rigorista
dimentica che il grano e la zizzania crescono insieme (cfr Mt 13,24-30) e «che non tutti possono
tutto e che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte
dalla grazia. In qualsiasi caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti invita a fare quello che puoi e
a chiedere quello che non puoi» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 49). San Tommaso d’Aquino
con grande finezza e sottigliezza spirituale ci ricorda che «il diavolo inganna molti. Alcuni
attirandoli a commettere i peccati, altri invece all’eccessiva rigidità verso chi pecca, così che se
non può averli con il comportamento vizioso, conduce alla perdizione quelli che ha già, utilizzando
il rigore dei prelati, i quali, non correggendoli con misericordia, li inducono alla disperazione, ed è
così che si perdono e cadono nella rete del diavolo. E questo capita a noi, se non perdoniamo ai
peccatori».[6]
Coloro che accompagnano altri a crescere devono essere persone dai grandi orizzonti, capaci di
mettere insieme limiti e speranza, aiutando così a guardare sempre in prospettiva, in una
prospettiva salvifica. Un educatore «che non teme di porre limiti e, al tempo stesso, si abbandona
alla dinamica della speranza espressa nella sua fiducia nell’azione del Signore dei processi, è
l’immagine di un uomo forte, che guida ciò che non appartiene a lui, ma al suo Signore»[7]. Non ci
è lecito soffocare e impedire la forza e la grazia del possibile, la cui realizzazione nasconde
sempre un seme di Vita nuova e buona. Impariamo a lavorare e a confidare nei tempi di Dio, che
sono sempre più grandi e saggi delle nostre miopi misure. Lui non vuole distruggere nessuno, ma
salvare tutti.
Èurgente, pertanto, trovare uno stile di formazione capace di assumere in modo strutturale il fatto
che l’evangelizzazione implica la partecipazione piena, e con piena cittadinanza, di ogni
battezzato – con tutte le sue potenzialità e i suoi limiti – e non solo dei cosiddetti “attori qualificati”
(cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 120); una partecipazione dove il servizio, e il servizio al più
povero, sia l’asse portante che aiuti a manifestare e a testimoniare meglio nostro Signore, «che
non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt
20,28). Vi incoraggio a continuare a impegnarvi per fare delle vostre case un “laboratorio
ecclesiale” capace di riconoscere, apprezzare, stimolare e incoraggiare le diverse chiamate e
missioni nella Chiesa.[8]
In questo senso, penso concretamente a due presenze della vostra comunità salesiana, che
possono aiutare come elementi a partire dai quali confrontare il posto che occupano le diverse
vocazioni tra di voi; due presenze che costituiscono un “antidoto” contro ogni tendenza clericalista
e rigorista: il Fratello Coadiutore e le donne.
I Fratelli Coadiutori sono espressione viva della gratuità che il carisma ci invita a custodire. La

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vostra consacrazione è, innanzitutto, segno di un amore gratuito del Signore e al Signore nei suoi
giovani che non si definisce principalmente con un ministero, una funzione o un servizio
particolare, ma attraverso una presenza. Prima ancora che di cose da fare, il salesiano è ricordo
vivente di una presenza in cui la disponibilità, l’ascolto, la gioia e la dedizione sono le note
essenziali per suscitare processi. La gratuità della presenza salva la Congregazione da ogni
ossessione attivistica e da ogni riduzionismo tecnico-funzionale. La prima chiamata è quella di
essere una presenza gioiosa e gratuita in mezzo ai giovani.
Che ne sarebbe di Valdocco senza la presenza di Mamma Margherita? Sarebbero state possibili
le vostre case senza questa donna di fede? In alcune regioni e luoghi «ci sono comunità che si
sono sostenute e hanno trasmesso la fede per lungo tempo senza che alcun sacerdote passasse
da quelle parti, anche per decenni. Questo è stato possibile grazie alla presenza di donne forti e
generose: donne che hanno battezzato, catechizzato, insegnato a pregare, sono state
missionarie, certamente chiamate e spinte dallo Spirito Santo. Per secoli le donne hanno tenuto in
piedi la Chiesa in quei luoghi con ammirevole dedizione e fede ardente» (Esort. ap. postsin.
Querida Amazonia, 99). Senza una presenza reale, effettiva ed affettiva delle donne, le vostre
opere mancherebbero del coraggio e della capacità di declinare la presenza come ospitalità, come
casa. Di fronte al rigore che esclude, bisogna imparare a generare la nuova vita del Vangelo. Vi
invito a portare avanti dinamiche in cui la voce della donna, il suo sguardo e il suo agire –
apprezzato nella sua singolarità – trovino eco nel prendere le decisioni; come un attore non
ausiliare ma costitutivo delle vostre presenze.
L’ “opzione Valdocco” nella pluralità delle lingue
Come in altri tempi, il mito di Babele cerca di imporsi in nome della globalità. Interi sistemi creano
una rete di comunicazione globale e digitale capace di interconnettere i vari angoli del pianeta, col
grave pericolo di uniformare monoliticamente le culture, privandole delle loro caratteristiche
essenziali e delle loro risorse. La presenza universale della vostra famiglia salesiana è uno stimolo
e un invito a custodire e a preservare la ricchezza di molte delle culture in cui siete immersi senza
cercare di “omologarle”. D’altra parte, sforzatevi affinché il cristianesimo sia capace di assumere la
lingua e la cultura delle persone del luogo. È triste vedere che in molte parti si sperimenta ancora
la presenza cristiana come una presenza straniera (soprattutto europea); situazione che si
riscontra anche negli itinerari formativi e negli stili di vita (cfr ibid., 90).[9] Al contrario, agiremo
come ci ispira questo aneddoto che Don Bosco, alla domanda in quale lingua gli piacesse parlare,
rispose: “Quella che mi ha insegnato mia madre: è quella con cui posso comunicare più
facilmente”. Seguendo questa certezza, il salesiano è chiamato a parlare nella lingua materna di
ognuna delle culture in cui si trova. L’unità e la comunione della vostra famiglia è in grado di
assumere e accettare tutte queste differenze, che possono arricchire l’intero corpo in una sinergia
di comunicazione e interazione dove ognuno possa offrire il meglio di sé per il bene di tutto il
corpo. Così la salesianità, lungi dal perdersi nell’uniformità delle tonalità, acquisterà
un’espressione più bella e attrattiva… saprà esprimersi “in dialetto” (cfr 2 Mac 7,26-27).

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Nello stesso tempo, l’irruzione della realtà virtuale come linguaggio dominante in molti dei Paesi in
cui voi svolgete la vostra missione esige, in primo luogo, di riconoscere tutte le possibilità e le
cose buone che produce, senza sottovalutare o ignorare l’incidenza che possiede nel creare
legami, soprattutto sul piano affettivo. Da ciò non siamo immuni neppure noi adulti consacrati. La
tanto diffusa (e necessaria) “pastorale dello schermo” ci chiede di abitare la rete in modo
intelligente riconoscendola come uno spazio di missione,[10] che richiede, a sua volta, di porre
tutte le mediazioni necessarie per non rimanere prigionieri della sua circolarità e della sua logica
particolare (e dicotomica). Questa trappola – pur in nome della missione – ci può rinchiudere in noi
stessi e isolarci in una virtualità comoda, superflua e poco o per niente impegnata con la vita dei
giovani, dei fratelli della comunità o con i compiti apostolici. La rete non è neutrale e il potere che
possiede per creare cultura è molto alto. Sotto l’avatar della vicinanza virtuale possiamo finire
ciechi o distanti dalla vita concreta delle persone, appiattendo e impoverendo il vigore missionario.
Il ripiegamento individualistico, tanto diffuso e proposto socialmente in questa cultura largamente
digitalizzata, richiede un’attenzione speciale non solo riguardo ai nostri modelli pedagogici ma
anche riguardo all’uso personale e comunitario del tempo, delle nostre attività e dei nostri beni.
L’ “opzione Valdocco” e la capacità di sognare
Uno dei “generi letterari” di Don Bosco erano i sogni. Con essi il Signore si fece strada nella sua
vita e nella vita di tutta la vostra Congregazione allargando l’immaginazione del possibile. I sogni,
lungi dal tenerlo addormentato, lo aiutarono, come accadde a San Giuseppe, ad assumere un
altro spessore e un’altra misura della vita, quelli che nascono dalle viscere della compassione di
Dio. Era possibile vivere concretamente il Vangelo… Lo sognò e gli diede forma nell’oratorio.
Desidero offrirvi queste parole come le “buone notti” in ogni buona casa salesiana al termine della
giornata, invitandovi a sognare e a sognare in grande. Sappiate che il resto vi sarà dato in
aggiunta. Sognate case aperte, feconde ed evangelizzatrici, capaci di permettere al Signore di
mostrare a tanti giovani il suo amore incondizionato e di permettere a voi di godere della bellezza
a cui siete stati chiamati. Sognate… E non solo per voi e per il bene della Congregazione, ma per
tutti i giovani privi della forza, della luce e del conforto dell’amicizia con Gesù Cristo, privi di una
comunità di fede che li sostenga, di un orizzonte di senso e di vita (cfr Esort. ap. Evangelii
gaudium, 49). Sognate… E fate sognare!
Roma, San Giovanni in Laterano, 4 marzo 2020
Francesco
[1] Motto impresso a fuoco nei primi missionari. Ricordo la lettera di don Giacomo Costamagna a

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Don Bosco dove, dopo avergli raccontato le difficoltà del viaggio e i diversi fallimenti che dovettero
affrontare, conclude dicendo: “Dimandiamo unanimi una cosa sola: poter andare presto nella
Patagonia per salvare innumerevoli anime”. La consapevolezza di essere inviati a cercare anime
nelle periferie e a rimanere superando qualsiasi apparente fallimento è una nota d’identità in base
alla quale confrontare e misurare il carisma: “Da mihi animas, coetera tolle”.
[2] Ricordiamo l’ammonimento del Signore: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate
la tradizione degli uomini» (Mc 7,8).
[3] Grazie all’aiuto del saggio Cafasso, Don Bosco scoprì chi era agli occhi dei giovani detenuti; e
quei giovani detenuti scoprirono un volto nuovo nello sguardo di Don Bosco. Così insieme
scoprirono il sogno di Dio, che ha bisogno di questi incontri per manifestarsi. Don Bosco non
scoprì la sua missione davanti a uno specchio, ma nel dolore di vedere dei giovani che non
avevano futuro. Il salesiano del sec. XXI non scoprirà la propria identità se non è capace di patire
con «la quantità di ragazzi, sani e robusti, di ingegno sveglio che stavano in carcere tormentati e
del tutto privi di nutrimento spirituale e materiale… In loro era rappresentato l’obbrobrio della
patria, il disonore della famiglia» (Memorie dell’Oratorio di san Francesco di Sales, 48); e noi
potremmo aggiungere: della nostra stessa Chiesa.
[4] Oggi vediamo come in molte regioni sono i giovani i primi a sollevarsi, organizzarsi e
promuovere cause giuste. Le vostre case salesiane, lungi dall’impedire questo risveglio, sono
chiamate a diventare spazi che possano stimolare questa coscienza di cristiani e cittadini.
Ricordiamo il titolo della strenna di quest’anno del Rettor Maggiore: “Buoni cristiani e onesti
cittadini”.
[5] Vi invito a tener sempre presenti tutti coloro che non partecipano di queste istanze ma che non
possiamo ignorare se non vogliamo diventare un gruppo chiuso.
[6] Super II Cor., cap. 2, lect. 2 (in fine). Il passo commentato da san Tommaso è 2 Cor 2,6-7
dove, riguardo a chi lo ha rattristato, san Paolo scrive: «Dovreste usargli benevolenza e
confortarlo, perché egli non soccomba sotto un dolore troppo forte».
[7] J. M. Bergoglio, Meditazioni per religiosi, 105.
[8] Una vocazione ecclesiale, prima di essere un atto che differenzia o che rende complementari,
è un invito ad offrire un dono particolare in funzione della crescita degli altri.
[9] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 116: «Come possiamo vedere nella storia della Chiesa, il
cristianesimo non dispone di un unico modello culturale, bensì, restando pienamente se stesso,
nella totale fedeltà all’annuncio evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso porterà anche il volto
delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato».

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[10] Oggi, infatti, «si rende necessaria un’evangelizzazione che illumini i nuovi modi di relazionarsi
con Dio, con gli altri e con l’ambiente, e che susciti i valori fondamentali. È necessario arrivare là
dove si formano i nuovi racconti e paradigmi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 74).
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