Giustamente il Concilio ha proclamato che «la liturgia (e propriamente l’Eucaristia) è il culmine verso cui tende
l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù».15 Gli impegni di evangelizzazione e le
fatiche apostoliche sono, per sé, ordinati a questo: partecipare al sacerdozio di Cristo, lottare con Lui per vincere il
male, amare come Lui ed esprimere nella vita quanto si sperimenta sacramentalmente con la fede.
Dunque, il sacerdozio-comune, quello che dobbiamo vivere tutti come discepoli del Signore e membra vive del
suo Corpo, è l’espressione suprema della dignità umana, la reintegrazione alla sua missione di uomo nel mondo, la
modalità storica per sentirsi coinvolti nella redenzione e nella salvezza.
Ebbene: per realizzare questa partecipazione universale al sacerdozio di Cristo, Egli stesso ha istituito il ministero
ordinato. Lo ha fatto scegliendo e consacrando i Dodici. Essi permangono nei secoli attraverso la successione
apostolica. Il sacramento dell’Ordine consacra i loro successori (i vescovi) munendoli di una speciale potestà di
servizio per rendere possibile l’esercizio del sacerdozio della comunità: Egli stesso li chiama e li abilita con
«l’unzione» dello Spirito Santo.
I preti, a loro volta, sono ordinati come collaboratori dell’Episcopato e ricevono, nella loro consacrazione, una
partecipazione alla potestà sacramentale dell’Ordine che li abilita a servire la comunità con due attività fra loro
complementari: quella di agire nella persona stessa di Cristo-Capo attraverso il ministero della parola, attraverso la
riattualizzazione sacramentale dell’unico sacrificio pasquale nell’Eucaristia e attraverso l’amministrazione dei
sacramenti di salvezza; e, inoltre, quella di agire nella persona della Chiesa, rappresentandola davanti a Dio e
dedicandosi ai suoi figli con l’amore e la solerzia di uno sposo fedele e intraprendente.
Tale potestà, che deriva al prete dall’Ordine, non è un «potere» di tipo sociologico che s’imponga sui fedeli con
una superiore dignità, ma è un servizio indispensabile, istituito da Cristo, per il funzionamento del sacerdozio-comune.
Giustamente perció si è detto sinteticamente nel Sinodo che il sacerdozio ministeriale appartiene agli elementi
costitutivi della Chiesa; esso si rapporta simultaneamente a Cristo e alla Chiesa; ossia, a Cristo in quanto Capo Pastore
e Sposo della Chiesa. Il ministero, quindi, non è soltanto il disimpegno di una funzione organica nella Chiesa, ma è
anche una donazione di sé ai battezzati in vista della loro vita e attività di fede nella storia.
Tutto questo ci fa pensare, non solo che il sacerdozio ministeriale è costitutivamente ordinato al sacerdozio-
comune,16 ma che nel cuore del prete la caratteristica spirituale del suo specifico ministero è quella d’avere una
consapevolezza e un sentire interiore che lo vincolino inseparabilmente con tutta la porzione del Popolo di Dio a cui è
stato inviato. Se c’è un’incrostazione veramente deleteria da eliminare in un ministro ordinato è quella di una eventuale
modalità «clericalista» (di cui non mancano esempi nella storia) che lo porti a far da «padrone» nel Popolo di Dio; essa
in nulla si addice a Cristo Buon Pastore, che è il «Servo di Jahvè». Il prete che la facesse propria dimostrerebbe di non
aver capito il sacerdozio della Nuova Alleanza.
Chi rende possibile l’autenticità costitutiva e spirituale del sacerdote (prete e vescovo) come «ministro della
comunità» 17 è lo Spirito Santo che dà efficacia alla consacrazione dell’Ordine e infonde nel cuore una peculiare
«carità pastorale» accompagnata da differenti carismi secondo i bisogni del Popolo di Dio. È molto importante questo
aspetto di diversificazione nella carità pastorale in rapporto alle molteplici urgenze della gente.
Si constata quindi, nei preti, una comune identità di fondo, ma differenziata da doni pastorali che comportano una
pluriformità di modi nel servizio ministeriale. Se, poi, a questa differenziazione carismatica si aggiungono le esigenze
proprie dei destinatari a cui sono inviati determinati gruppi di preti, si percepirà chiaramente che la loro identità
ministeriale non può venire descritta in forma univoca, ma dovrà considerare le esigenze che provengono dallo Spirito
e anche dai tempi e dalle necessità dei destinatari.
A ragione, perciò, il tema del Sinodo allude anche alle «circostanze attuali» che bisognerà studiare in continuità; il
tipo di formazione da curare, infatti, deve rapportarsi anche alla modalità concreta di ministero che il prete dovrà
realizzare in risposta alle necessità umane.
Una volta descritta sinteticamente l’identità del prete, i padri sinodali insistono sulla peculiare interiorità che deve
permeare la sua identità ministeriale. Certo, tra «ministero» e «persona» c’è una chiara distinzione. Tuttavia, siccome il
ministero sacerdotale non è una semplice «funzione» intermittente, ma comporta una «consacrazione» speciale della
persona, attraverso il carattere permanente dell’Ordine, sorge nel prete una forte connessione tra ministero e persona,
vivificata dalla carità pastorale, la quale vincola la persona al ministero nell’intimo del cuore, suscitandovi i sentimenti
del Buon Pastore. Il prete non è un funzionario a orario concordato, ma un consacrato a tempo pieno e anche a piena
esistenza: basta guardare gli Apostoli!
L’insistenza su questa specifica interiorità ha straordinaria importanza, perché va riferendo l’anima del prete sia al
Padre ricco in misericordia, sia a Cristo Eterno Sacerdote, sia allo Spirito Santo fonte della carità pastorale, sia alla
comunità ecclesiale di cui diviene «servo», sia al Vescovo e al Papa quale loro operoso collaboratore, sia agli altri preti
della Chiesa particolare in cui opera e con i quali forma un fraterno presbiterio.
Ma poiché il suo sacerdozio ministeriale è al servizio del Popolo di Dio, la sua interiorità comporta, di necessità,
la formazione alla bontà, al perdono, al servizio, al discernimento dei cuori, alla sensibilità dei bisogni altrui, all’ardore
missionario, alla responsabilità nell’edificazione della comunità, allo spirito di iniziativa, al coraggio e al sacrificio, alla
comprensione e comunicazione della Parola di Dio, alla lettura dei segni dei tempi, alla testimonianza delle beatitudini,
alle esigenze della solidarietà e della giustizia, in una parola, a vivere personalmente una fede che si faccia carico
instancabilmente della fede altrui. Ciò costituisce senza dubbio la meta a cui si vuole che giunga lo stile di vita
evangelica dei preti.