MEDITAZIONE SULLA SPERANZA
1.- Cosa possiamo aspettare?
L’esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Europa, nella quale Giovanni Paolo II riprende i lavori e le conclusioni del Sinodo dei Vescovi in preparazione al grande Giubileo del Duemila, dice: “Lungo il Sinodo, man mano si è resa evidente una forte tensione verso la speranza. Pur facendo proprie le analisi della complessità che caratterizza il continente, i padri sinodali hanno colto come l’urgenza forse più grande che lo attraversa, a Est come ad Ovest, consiste in un accresciuto bisogno di speranza, così da poter dare senso alla vita e alla storia e camminare insieme” (EiE, n. 4).
Il Magistero pontificio più recente ha preso proprio la speranza come tema centrale. L’Enciclica di Benedetto XVI “Spe Salvi” ci offre preziosi elementi per arricchire la nostra riflessione su questa virtù teologale, ed è chiaro che, tra altre intenzioni, una delle più importanti è quella di offrire una risposta, dalla prospettiva dell’identità cristiana, a questo bisogno non soltanto europeo, ma mondiale. Citiamo, tra altri testi: “Così ci troviamo nuovamente di fronte alla domanda: che cosa possiamo sperare? È necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza” (Spe Salvi, 22); anche se indica, ugualmente, che “bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno” (ibidem).
Guardando la Congregazione a livello mondiale, non possiamo negare che questo “accresciuto bisogno di speranza” si costata anche nei nostri ambienti: in maniera, indubbiamente, diversificata. La scarsità delle vocazioni, tranne in qualche regione della geografia salesiana; la fragilità formativa delle nuove generazioni; la problematica della gioventù odierna, stimolata ancor di più da fattori esterni come la violenza, la droga, le antiche e nuove povertà; e, ancor più in profondità, anche molte volte l’indebolimento della passione apostolica e l’assunzione di modelli di vita religiosa non sempre secondo l’ideale evangelico, sono alcuni degli elementi che non ci permettono di vedere con molta chiarezza ed entusiasmo il futuro. Il Rettor Maggiore presenta, in diverse parti della Lettera di convocazione del Capitolo, alcune di queste realtà preoccupanti della situazione della Congregazione (ACG 394, pp. 9-11. 17-20. 25-26, et passim).
Nella preparazione del CG 26, si costata, un po’ dovunque (forse con certe eccezioni), una sensazione simile. La stessa insistenza della Congregazione nel “ripartire da Don Bosco per risvegliare il cuore di ogni salesiano” attorno all’identità carismatica e la passione apostolica, presuppone questa problematica, e vuole metterci in allerta di fronte ad essa.
Sappiamo bene che la speranza è generata dalla fede, e sostiene l’amore. Ciò nonostante, può anche succedere che la fede, proprio perché si fonda in una realtà storica concreta, può, paradossalmente, bloccarsi di fronte alla speranza, chiudendosi nel dolore del ricordo (etimologicamente: nostalgia) e nel lamento del passato.
Mi sembra che questa situazione può vedersi chiaramente “dipinta” nel racconto biblico della vocazione di Gedeone:
Ora l’angelo del Signore venne a sedere sotto il terebinto di Ofra, che apparteneva a Ioas, Abiezerita; Gedeone, figlio di Ioas, batteva il grano nel tino per sottrarlo ai Madianiti. L’angelo del Signore gli apparve e gli disse: “Il Signore è con te, uomo forte e valoroso!”. Gedeone gli rispose: “Signor mio, se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo? Dove sono tutti i suoi prodigi che i nostri padri ci hanno narrato, dicendo: il Signore non ci ha fatto uscire dall’Egitto? Ma ora il Signore ci ha abbandonati e ci ha messi nelle mani di Madian”. Allora il Signore si volse a lui e gli disse: “Va’ con questa tua forza e salva Israele dalla mano di Madian; non ti mando forse io?”. Gli rispose: “Signor mio, come salverò Israele? Ecco, la mia famiglia è la più povera di Manasse e io sono il più piccolo nella casa di mio padre”. Il Signore gli disse: “Io sarò con te e tu sconfiggerai i Madianiti come se fossero un uomo solo” (Gdc 6, 11-16).
È chiaro che Gedeone ha fede; è convinto dell’intervento salvifico di Dio in favore del Suo popolo… nel passato; quello che manca è la speranza, credere che Dio non li ha abbandonati, ma continua ad essere il “Dio-con-noi”, e vuol aiutarci a vedere con fiducia il futuro. E, come conseguenza, Gedeone viene invitato a collaborare con Dio, non soltanto a lamentarsi della Sua apparente “assenza” o abbandono.
Ugualmente, possiamo sentirci come il Popolo d’Israele nell’esilio, ricordando le meraviglie divine del passato (e forse dimenticando troppo in fretta, come fece il popolo d’Israele, la propria responsabilità):
O Dio, con i nostri orecchi abbiamo udito, i nostri padri ci hanno raccontato l’opera che hai compiuto ai loro giorni, nei tempi antichi (…) Ma ora ci hai respinti e coperti di vergogna, e più non esci con le nostre schiere (…) Tutto questo ci è accaduto e non ti avevamo dimenticato, non avevamo tradito la tua alleanza. Non si era volto indietro il nostro cuore, i nostri passi non avevano lasciato il tuo sentiero (Salmo 44, 2. 10. 18-19).
2.- La Speranza di fronte alla “Postmodernita’”
La situazione attuale, a livello mondiale, e soprattutto nella “cultura giovanile” non facilita, indubbiamente, la speranza.
Dal punto di vista fenomenologico, possiamo sottolineare, tra gli altri, tre tratti fondamentali della speranza, come atteggiamento umano:
* tende sempre verso il futuro, mostrando così il dinamismo proprio dell’essere umano, sempre proteso in avanti: “finché c’è vita, c’è speranza”; senza dimenticare il mito “del vaso di Pandora”, possiamo dire, con Aristotele, che la speranza è “il sogno dell’uomo sveglio”;
* si vive sempre di fronte a un orizzonte positivo: non tutto quello che verrà è “degno di speranza”: può essere, invece, oggetto di paura o di angoscia;
* include un elemento di “passività” (aspettare), ma anche un atteggiamento di chi vive questa attesa (sperare) 1.
Dobbiamo riconoscere che, insieme a questa dinamica di futuro, insita nel più profondo dell’essere umano, c’è anche un pericolo: non vivere, nel senso più positivo, il momento presente. A questo proposito, dice Pascal:
“Non ci atteniamo mai al presente; noi anticipiamo il futuro come se esso fosse troppo lento ad arrivare, come se volessimo accelerarne il corso; ricordiamo il passato per trattenerlo come se fosse troppo veloce a scomparire; siamo così stolti che vaghiamo in tempi che non sono nostri e trascuriamo l’unico che ci appartiene, e siamo così fatui che pensiamo a quelli che non sono nulla e lasciamo passare senza porvi mente l’unico che esiste… Non pensiamo quasi mai al presente, e se lo facciamo è soltanto per ricavarne una luce per poter disporre del futuro. Il presente non è mai il nostro scopo; passato e presente sono i nostri mezzi, ma soltanto il futuro è il nostro scopo. Perciò non viviamo mai, ma speriamo di vivere, ed è quindi inevitabile che, preparandoci sempre a essere felici, non lo siamo mai” (Pensieri, n. 172) 2.
Purtroppo, nella postmodernità l’esperienza umana della temporalità è diventata particolarmente problematica.
Il Rettor Maggiore, nella sua conferenza ai Superiori Generali, faceva quest’analisi:
“L’essere umano, pur vivendo sempre al presente (è una verità lapalissiana), è un "essere di futuro" (E. Bloch, W. Pannenberg): per natura propria, è collocato di fronte all’utopico, a quello che ancora non "ha luogo" nel nostro mondo e nella storia. Questo si può dire, a fortiori, delle generazioni giovani, che portano questo orientamento verso il futuro dalla loro stessa identità psicosomatica, iscritta fino alla cellula più “umile”.
Per ciò, constatiamo nella situazione postmoderna una tragedia: la minaccia di futuro che incombe sull'umanità colloca, soprattutto questa generazione giovane, davanti ad una contraddizione esistenziale: da un lato, con un'esigenza irresistibile di un orizzonte di futuro, e dall’altro, con la carenza di questo orizzonte. Se a questo aggiungiamo il rifiuto del passato da parte della cultura giovanile attuale, possiamo capire la sua sensazione di essere “rinchiusa” nel minimo spazio che gli permette il presente, senz’altra soluzione che tentare di "vivere l'istante che fugge" (l'attimo fuggente).
Questa minaccia si manifesta doppiamente: da un lato, in quello che J. Moltmann ha chiamato “la perdita dell'innocenza atomica" da Hiroshima in poi: sappiamo –e le notizie più recenti ce lo ricordano ancora- che da alcuni decenni, e per la prima volta nella storia del mondo e dell’uomo in esso (da quel che sappiamo), esiste la possibilità reale (che dipende, in concreto, dalla decisione di alcune persone) che sparisca l’umanità intera, come conseguenza di una conflagrazione nucleare. Il fatto che i capi delle nazioni giungano ad eventuali accordi a questo riguardo non elimina il pericolo: come dice lo stesso Moltmann, non recupereremo mai l'innocenza perduta. "L'epoca in cui viviamo è, anche se dovesse durare all’infinito, l'ultima epoca dell'umanità... Viviamo nel tempo della fine, e cioè di quella epoca in cui ogni giorno possiamo provocare la sua fine".
D'altra parte – e non totalmente slegata dalla precedente - troviamo questa minaccia nel degrado ecologico, universale e irreversibile: pensiamo all'inquinamento dell'aria, alla diminuzione dell'acqua dolce, alla distruzione dei boschi, al vertiginoso sfruttamento di energetici non rinnovabili. Come dice lo stesso Moltmann, "tutti siamo uguali... di fronte al buco dell’ozono."
Questa "soppressione dal di fuori" dell'orizzonte di futuro è un fattore tipico del nostro tempo, ed è fondamentale per comprendere l’ossessivo attaccamento al presente, ed il bisogno di “soddisfazioni” immediate che caratterizza l'era postmoderna: poiché non è la stessa cosa "voler vivere l'oggi” nella prospettiva del domani, che dover ancorarsi nell'oggi, perché forse non esisterà il domani... Qualche giorno fa un giornale, a proposito di una recensione di un libro del Premio Nobel della Letteratura, lo scrittore ungherese Imre Kertész, utilizzava questa espressione: “È possibile avere figli dopo Auschwitz?”, evocazione della celebre frase: “È possibile credere in Dio dopo Auschwitz?”. È la domanda che oggi si pongono tanti giovani di fronte al matrimonio e alla famiglia: non con un’illusione d’altri tempi, bensì con l'angoscia di fronte al futuro nel quale toccherà loro vivere; vale dunque la pena portare nuovi esseri al mondo?
È indubbio che questa "privazione di futuro", in un senso molto diverso, colpisce anche la vita consacrata, in particolare le nuove generazioni” (Per una vita consacrata fedele. Sfide antropologiche alla formazione, USG maggio 2006, 21-23).
La “modernità”, a questo riguardo, può essere descritta come l’atteggiamento di chi, rifiutando il passato, si proietta verso il futuro, e mette tutte le sue aspettative nel futuro; la postmodernità, invece, sarebbe come una reazione di fronte all’ingenuo ottimismo moderno: come un ubicarsi, il più serenamente possibile, nel presente, e vivere il “carpe diem”. Uno dei testi biblici più “attuali”, secondo me, è la testimonianza del anziano Eleàzaro, durante la guerra maccabea:
“Non è affatto degno della nostra età fingere con il pericolo che molti giovani, pensando che a novant’anni Eleàzaro sia pasato agli usi stranieri, a loro volta, per colpa della mia finzione, durante pochi e brevissimi giorni di vita, si perdano per causa mia e io procuri così disonore e macchia alla mia vecchiaia (…) Perciò, abbandonando ora da forte questa vita, mi mostrerò degno della mia età e lascerò ai giovani nobile esempio, perché sappiano affrontare la morte prontamente e generosamente per le sante e venerande leggi”. Dette queste parole, si avviò prontamente al supplizio (…) In tal modo egli morì, lasciando non solo ai giovani ma alla grande maggioranza del popolo la sua morte come esempio di generosità e ricordo di fortezza” (2 Mac 6, 24-25. 27-28. 31).
3.- La Speranza nella Rivelazione Biblica
A differenza di altre concezioni della vita e della storia, l’esperienza di Israele plasmata nella Bibbia presenta Dio come un “Dio di esodi”, che fa uscire sempre dalla sicurezza del presente verso un futuro, promettente, certo (nel senso più pieno della parola: in quanto oggetto della promessa), ma sempre insicuro: se non c’è la fede, non ha senso neanche questo dinamismo di futuro e di esodo. “Se avessero pensato a quella (patria) da cui sono usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città” (Eb 11, 15-16).
Tutta la storia di Israele può vedersi, dalla fede in Dio, come una tensione costante verso il futuro, con una configurazione chiara: fiducia nel compimento delle promesse del Dio fedele (fides – fidelitas – fiducia – spes), centrata nell’Alleanza.
La mancanza di fede si traduce, simmetricamente, nella disperanza e nella disperazione, le due facce opposte della stessa moneta e, in conseguenza, nel voler ritornare verso il passato: “Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine” (Es 16, 3 et passim).
L’intera storia del Popolo di Israele si vede “attraversata” dalla promessa di Dio. Malgrado l’infedeltà e l’ingratitudine degli israeliti, i profeti pre-esilici, soprattutto Geremia, che minacciano il castigo di Dio e la distruzione dell’Alleanza per causa di questa infedeltà (cfr. Ger 13; 19), annunciano sempre una Nuova Alleanza (Ger 31, 31ss.; Ez 36, 24ss; Deuteroisaia…).
Nella straordinaria visione di Ez 37, le ossa inaridite sono il simbolo più espressivo: “Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la gente d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostra ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti. Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele” (Ez 37, 11-12).
Nel Nuovo Testamento, più che cercare una citazione puntuale, l’avvenimento Cristo è, in se stesso, il compimento definitivo (“escatologico”) della promessa di Dio. Purtroppo, la morte di Gesù ci mostra, drammaticamente, come i pensieri di Dio non sono i pensieri umani (cfr. Is 55, 8ss.).
Invece, per chi crede nel “Dio di Gesù Cristo”, “la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito (…) Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rom 5, 5-6). Per questo, “Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi” (1 Pt 1, 3-5).
Troviamo, significativamente, i tre tempi: il passato della fede, il futuro della speranza, e il presente della fedeltà di Dio, e del nostro impegno cristiano nell’amore (cfr. i seguenti versetti, 1 Pt 1, 6-9).
Invece, dice Benedetto XVI, “Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero ‘senza speranza e senza Dio nel mondo’” (Ef 2, 12) (Spe Salvi, 2). Questo è, forse, il testo biblico più citato nell’Enciclica: si trova anche nei numeri 3, 23, 27, 44, evidentemente, in contesti diversi.
Uno dei libri del NT che più chiaramente sviluppa il rapporto tra le tre virtù teologali è la Lettera ai Romani; sulla speranza, in concreto, abbiamo alcuni testi fondamentali:
* In primo luogo, ci presenta la figura di Abramo sotto questa prospettiva: “Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli” (Rom 4, 18).
* Il secondo testo presenta una concatenazione, in certo senso “dal rovescio”, di diverse virtù tipiche del cristiano: “La tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rom. 5, 3b-5).
* Nel capitolo 8, ci ricorda che la speranza guarda verso il futuro: “Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (Rom 8, 24-25).
* Verso la fine, ci sono due testi nel capitolo 15 molto belli a questo riguardo: “Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza” (Rom 15, 4). E finalmente: “Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rom 15, 13).
Un altro libro del Nuovo Testamento assai ricco riguardo alla speranza, è la lettera agli Ebrei. Anche qui il Papa approfondisce nell’Enciclica, soprattutto due testi: 10, 34 e 11,1, dedicando a quest’ultimo una ampia e polemica esegesi (Spe Salvi, nn. 7-9).
Vorrei finire questa piccolissima riflessione biblica con una espressione molto bella di san Paolo: “La carità è paziente (…) tutto spera” (1 Cor 13, 4. 7). In fondo, ci ricorda che l’amore va più in là della speranza, proprio perché… è l’unico atteggiamento che può sperare tutto e sempre. In questo senso, possiamo dire, parafrasando Hans Urs von Balthasar, che “soltanto l’amore è degno di speranza”.
4.- Don Bosco, uomo di speranza
È molto significativo costatare che, nella nostra Regola di Vita, troviamo un’inclusione linguistica a questo riguardo, che abbraccia le nostre Costituzioni nel loro insieme. L’articolo 1 ci indica come certezza di fede che la nostra Missione non è soltanto opera umana, ma anzitutto Volontà di Dio, e costituisce “il sostegno della nostra speranza” (Cost. 1). E l’ultimo articolo non parla dell’iniziativa di Dio, ma della nostra collaborazione con Lui, nella realizzazione della Missione a noi affidata: la nostra fedeltà diventa “pegno di SPERANZA per i piccoli e i poveri” (Cost. 196).
Anche se non viene esplicitamente menzionata, la speranza è molto presente nella sezione che delinea l’identità e lo spirito salesiano, soprattutto negli articoli 17-19. Nel contesto dei consigli evangelici, si conclude la loro presentazione globale con una frase che include, allo stesso tempo, la visione di fede e l’impegno presente: il salesiano è “un educatore che annuncia ai giovani ‘cieli nuovi e terra nuova’, stimolando in loro gli impegni e la gioia della speranza” (Cost. 63).
In tutto questo si manifesta la nostra “figliolanza” rispetto al nostro Padre Don Bosco, un uomo di una straordinaria “capacità di speranza”; o meglio, un uomo che ha saputo integrare alla perfezione le tre dimensioni dell’atteggiamento teologale del cristiano: fede – speranza - carità.
Per non rimanere in affermazioni generiche, sottolineeremo, in maniera molto breve e quasi schematica, tre aspetti della maniera in cui visse il nostro Padre la speranza: “temperamentale” - educativa - teologale.
- Cercando, come sempre, l’unione tra la natura e la grazia (cfr. Cost. 21), senza dimenticare che tutte e due sono doni di Dio, possiamo riscontrare in lui di una tendenza temperamentale verso la speranza: lui dimostra una capacità straordinaria di trasformare le difficoltà in sfide che lo stimolano e spingono per andare avanti; si trova in lui, fino all’ultimo momento della sua vita, l’entusiasmo e l’illusione che derivano dal suo amore appassionato e apostolico verso i giovani. Non sono stati tempi facili quelli in cui egli è vissuto (in nessun senso); nonostante ciò, mai si è lamentato di essi, né ha ricordato con nostalgia il tempo passato (cfr. Cost. 17).
- In Don Bosco la speranza è una virtù educativa: chi lavora con ragazzi e giovani ha bisogno, forse più di tutti, della speranza, anche avendo, anche noi, l’esperienza menzionata nel salmo 126:
Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare;
ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni (v. 6).
Soltanto che, nell’educazione, questo “tornare” accade soltanto non dopo alcuni giorni, o mesi, ma, nel migliore dei casi, dopo molti anni… Perciò, è indispensabile, nel lavoro educativo, l’attesa e la speranza.
In questo campo, troviamo di nuovo il rapporto tra la speranza e l’amore: soltanto chi ama può sperare (nel suo senso più profondo) nella persona amata: risuona l’eco della frase paolina: “l’amore tutto spera” (1 Cor 13, 7). Mi piacerebbe approfondirlo, almeno soltanto con una frase, che non è un semplice gioco di parole, ma che esprime una meravigliosa realtà: soltanto chi ci ama può crederci migliori di quel che siamo, ed è capace di “sperare” in noi; ma possiamo essere migliori di quel che siamo, soltanto se qualcuno ci ama… E questo lo fece realtà, in maniera straordinaria, Don Bosco.
- Finalmente, e non poteva essere altrimenti in un santo come lui, troviamo nel più profondo un atteggiamento di speranza che non si limita a questo mondo e a questa vita. Questa speranza, nonostante tutto, non gli impediva di vivere intensamente il presente: con lo sguardo fisso verso il cielo, ma con i piedi ben messi sulla terra. Sembrano ispirate all’esempio del nostro Padre le parole del Servo di Dio Giovanni Paolo II nell’Esortazione Apostolica Vita Consecrata: “Occorre confidare in Dio come se tutto dipendesse da Lui e, al tempo stesso, impegnarsi generosamente come se tutto dipendesse da noi” (VC, n. 73).
Nel suo Testamento spirituale troviamo parole commoventi: “Addio, o cari figliuoli, addio. Io vi attendo al cielo (…) Io vi lascio qui in terra, ma solo per un po’ di tempo. Spero che la infinita misericordia di Dio farà che ci possiamo tutti trovare un dì nella beata eternità. Colà io vi attendo” (Costituzioni, Appendice, pp. 257-8). Anche qui troviamo la dimensione comunitaria della vita eterna, nella quale insiste tanto il Santo Padre: “La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me” (Spe Salvi, n. 48).
5.- Conclusione
Ho trovato un racconto molto semplice, ma simpatico e significativo. Una signora anziana si trovava ormai di fronte alla morte, conservando tutta la sua lucidità. La sua più grande amica, sempre accanto a lei, gli ha domandato: ‘Vuoi qualche cosa di speciale, da conservare con te dopo la morte?’ Lei rispose: ‘Vorrei che mi seppellissero avendo tra le mani una forchetta’. ‘Una forchetta?’ - domandò con stupore l’amica. ‘Sì, una forchetta. Quando sono andata, qualche volta, a una festa, nel banchetto sempre conservavo, dopo i primi piatti, la forchetta, perché sapevo: manca ancora il meglio… Così, a tutti quelli che verranno a pregare e vedere la mia salma, quando domanderanno, come te: perché la forchetta?, potrai rispondere, in mio nome: Perché lei sapeva che il meglio… stava ancora per arrivare!’
In fondo, è questa anche la motivazione ultima e più profonda della nostra vita e del nostro lavoro (quello che Don Bosco chiamava, con incantevole semplicità, il “pezzo di paradiso” nel giardino salesiano): “Per il salesiano, la morte è illuminata dalla speranza di entrare nella gioia del suo Signore” (Cost. 54).
L’inno spagnolo dell’Ufficio delle Letture, nella memoria dei salesiani defunti, esprime questo in maniera commovente, semplice e, allo stesso tempo, profonda:
¡Piensa lo que será!Pensa quel che sará!
Saltar a tierra, ¡y ver que es cielo ya!Scendere, e vedere che è ormai il cielo!
Pasar de la borrasca de la vidaPassare, dalla tempesta della vita
¡a la paz sin medida...!alla pace senza limiti!
De un brazo asirte y ver, al irle en pos, Prendere un braccio e, seguendolo,
¡que es el brazo de Dios!vedere che é il braccio di Dio!
Beber a pulmón pleno un aire fino…Aspirare in pienezza l’aria fresca…
¡y es el aire divino!ed é l’aria divina!
Ebrios de dicha, oír a un querubín:Ebbri di gioia, sentire un cherubino
¡”Es la dicha sin fin!”dire: “É la felicità senza fine!”
Abrir los ojos, inquirir qué pasa,Aprire gli occhi, domandar cosa capita,
Y oír decir a Dios: “¡Ya estás en casa!”E ascoltare Dio, che dice: Sei ormai a casa!
¡Oh, el inmenso placerO, immenso piacere
De abismarse en tu mar!di immergersi nel tuo mare!
Cerrar los ojos, y empezar a ver;Chiudere gli occhi, e cominciare a vedere;
Pararse el corazón, ¡y echarse a amar!preparare il cuore, e buttarsi nell’amore!
PREGHIERA – LA SPERANZA
Maria, Madre della speranza,
Cammina con noi!
Insegnaci a proclamare il Dio vivente,
aiutaci a testimoniare Gesù, l’Unico Salvatore;
rendici servizievoli verso il prossimo,
accoglienti verso i bisognosi, operatori di giustizia,
costruttori appasionati di un mondo più giusto;
intercedi per noi che operiamo nella storia
certi che il disegno del Padre si compirà.
Aurora di un mondo nuovo,
mostrati Madre della speranza e veglia su di noi!
Veglia sopra tutti i giovani, speranza del futuro,
perché rispondano generosamente alla chiamata di Gesù.
Veglia sui responsabili delle nazioni:
si impegnino a costruire una casa comune,
nella quale siano rispettati la dignità e i diritti di ciascuno.
Ti preghiamo per la Congregazione e la Famiglia Salesiana:
aiutaci ad essere sempre pegno di speranza
per i piccoli e i poveri,
soprattutto per i giovani più bisognosi dell’Amore di Dio.
Insegnaci ad amarli, come hai insegnato a Don Bosco:
infondi in noi una ferma speranza nella loro risposta,
anche se molte volte non vediamo il frutto delle nostre fatiche.
Maria, donaci Gesù!
Fa’ che lo seguiamo e lo amiamo!
Lui è la Speranza della Chiesa e dell’umanità.
Lui vive con noi, in mezzo a noi,
nella sua Chiesa.
Con te diciamo:
“Vieni, Signore Gesù”:
che la speranza della gloria
infusa da Lui nei nostri cuori
porti frutti di giustizia e di pace!
MISTICA DEL CARISMA:
DA MIHI ANIMAS
All’inizio della sua Lettera di Convocazione per il CG 26, il Rettor Maggiore scrive: “È da tempo che ho maturato la convinzione che la Congregazione oggi ha bisogno di risvegliare il cuore di ogni confratello con la passione del ‘Da mihi animas’” (ACG 394, p. 6). Questo sarà il centro della nostra riflessione.
1. “Da mihi animas”: mistica e ascesi salesiane
Un po’ più avanti, nella stessa lettera, D. Pascual ci ricorda un testo rilevante della nostra Tradizione salesiana:
“Il motto di Don Bosco é la sintesi della mistica e dell’ascetica salesiana, come viene espressa nel ‘sogno dei dieci diamanti’. Qui si intersecano due prospettive complementari: quella del volto visibile del salesiano, che manifesta la sua audacia, il suo coraggio, la sua fede, la sua speranza, la sua consegna totale alla missione, e quella del suo cuore nascosto di consacrato, la cui nervatura è costituita dalle convinzioni profonde che lo portano a seguire Gesù nel suo stile di vita obbediente, povero e casto” (ACG 394, p. 7); “la ragione del suo instancabile operare per ‘la gloria di Dio e la salvezza delle anime’”( ACG 394, p. 6).
Pur distinguendo le due parti del motto, preso dalla Sacra Scrittura (Gn 14, 21; non entriamo qui in discussioni esegetiche), conviene non separarli: la mistica e l’ascesi non possono non intendersi insieme. Ricordiamo l’immagine che, a questo riguardo, presenta il documento sulla vita fraterna in comunità: “la comunità, senza mistica (comunione) non ha anima, ma senza ascesi (vita comune) non ha corpo” (n. 23). Riprenderemo poi questo rapporto tra mistica ed ascesi nella loro unione più piena, che diventa anche il loro autentico punto di partenza: l’amore.
In primo luogo, dal punto di vista formale, questo motto è una preghiera. “Proprio perché preghiera, essa fa comprendere che la missione non coincide con le iniziative e le attività pastorali. La missione é dono di Dio, più che compito apostolico; la sua realizzazione é preghiera in atto” (ACG 394, p. 6). Ricordiamo, inoltre, le espressioni di Gesù, nel discorso sul Pane della Vita: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato (...) Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio” (Jn 6, 44.65). In questo senso, é una preghiera di petizione: chiediamo a Dio che ci consegni i giovani per salvarli. Ci rendiamo conto di quello che osiamo chiedere al Signore, l’enorme responsabilità che implica il nostro motto? Niente di meno che domandare a Lui che ci affidi “questa porzione la più delicata e la più preziosa dell’umana società” (Cost. 1), i giovani… Siamo all’altezza di questa domanda?
2. “la Gloria di Dio e la Salvezza delle anime”
In fondo: cosa chiediamo a Dio, quando preghiamo: Da mihi animas? Non ci porta questa domanda a una mentalità spiritualista, dicotomica, slegata dalla realtà integrale e storica dei giovani?
Questa obiezione potrebbe aver qualcosa di legittima, ma nel nostro tempo, soprattutto alla luce del lavoro fatto dalla Congregazione nelle diverse parti del mondo, viene smentita nella pratica, diventa puramente teorica. Chiedere al Signore “le anime” è stato inteso da sempre dalla Congregazione come un’espressione metonimica per designare la persona integrale: ogni giovane, e tutti i giovani, nella loro realtà corporeo-spirituale, sono “in potenza” destinatari della nostra Missione. Perciò, il nostro lavoro è essenzialmente educativo pastorale, concretizzando la Missione, che “partecipa a quella della Chiesa che realizza il disegno salvifico di Dio, l’avvento del suo Regno, portando agli uomini il messaggio del Vangelo intimamente unito allo sviluppo dell’ordine temporale” (Cost. 31).
Personalmente, considero che il problema continua ad essere un altro. Detto sinteticamente, e riprendendo il carattere metonimico dell’espressione, la domanda sulla specificità della parola “anima” rimane ancora senza risposta soddisfacente.
E non si avrà mai questa risposta, se dimentichiamo che la promozione integrale, che Don Bosco ha cercato in ogni momento per i suoi giovani, ha come traguardo ultimo e definitivo la loro salvezza. Se non è questa anche la nostra mèta nel lavoro educativo e pastorale, non andremo oltre a l’essere una organizzazione più o meno efficace per lo sviluppo della gioventù, ma in questo caso non saremo più un movimento carismatico, la cui missione non è altra di quella di essere “segni e portatori dell’Amore di Dio ai giovani, specialmente ai più poveri” (Cost. 2).
Cercando di esprimere questo in uno schema molto semplificato, direi:
Dannazione eterna
|
“espressioni” della dannazione |
SITUAZIONE CONCRETA DEI GIOVANI |
Mediazioni della salvezza
|
Salvezza eterna |
Il centro, come è evidente, rappresenta la realtà giovanile attuale; gli estremi corrispondono a una visione cristiana “tradizionalista” della situazione umana di fronte a Dio, come se tutto si “giocasse” soltanto nella salvezza e dannazione eterna; quei testi in corsivo, negli spazi intermedi, esprimono una visione più “attuale” di questa situazione, ma, se diventa esclusiva, rischia di diventare anche escludente, e può avere il pericolo di dimenticare le “realtà ultime”, i “novissimi”. L’insieme corrisponde a una visione integrale, quella sola che anima e fa piena giustizia al nostro lavoro salesiano.
Soltanto quando cerchiamo di “operare per la salvezza della gioventù” (cfr. Cost. 12), il nostro lavoro diventa esperienza di Dio. “La gloria di Dio e la salvezza delle anime furono la passione di Don Bosco. Promuovere la gloria di Dio e la salvezza delle anime equivale a conformare la propria volontà a quella di Dio, che comunica Se stesso come Amore, manifestando in questo modo la sua gloria e il suo immenso amore per gli uomini, che vuole siano tutti salvi. In un frammento quasi unico della sua ‘storia dell’anima’ (1854), Don Bosco confesserà il suo segreto circa le finalità della sua azione: ‘Quando mi sono dato a questa parte del sacro ministero intesi consacrare ogni mia fatica alla maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime, intesi di adoperarmi per fare buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo. Dio mi aiuti di poter così continuare fino all’ultimo respiro di mia vita. Così sia’” (ACG 394, 37-38).
Conviene ricordare ancora una volta che la “salvezza” non significa, utilizzando un’immagine semplice, “arrivare, appena, in paradiso”. Per Don Bosco, l’ideale dell’educazione salesiana è la santità, la “misura alta” che ci presenta il Santo Padre Giovanni Paolo II in Novo Millennio Ineunte (nn. 30-31) come la mèta e il programma dell’azione intera di tutta la Chiesa.
Anche per i suoi ragazzi, la maggioranza dei quali non proveniva da ambienti “privilegiati” (né dal punto di vista socio-economico, né religioso), Don Bosco ha proposto ai giovani un programma di spiritualità tale che tutti potessero seguirlo concretamente nella vita quotidiana. Era convinto che tutti siamo chiamati alla santità, anche i giovani, che possono fare un cammino spirituale analogo a quello dei santi adulti. Questo cammino, orientato dalla guida spirituale, conduce all’assunzione oblativa e gioiosa di sé nel quotidiano, e trova i suoi momenti di forza nella preghiera, nei Sacramenti e nella devozione mariana. Si esprime nell’attenzione caritativa verso il prossimo, in un vissuto allegro e dinamico: “noi facciamo consistere la santità nel essere sempre lieti”.
Per questo, egli ha cercato di rendere più accessibile l’insegnamento tradizionale della Chiesa, adattandolo in modo concreto e conveniente all’età giovanile. Domenico Savio, Michele Magone, Francesco Besucco, sono testimoni della spiritualità giovanile di Don Bosco. Anche se non tutti sono arrivati alla santità dell’altare, sono, senza dubbio, tutti esempi di vita cristiana riuscita in pienezza. Il racconto della loro vita e, soprattutto, della loro morte esemplare mostra come Don Bosco li ritenga entrati nel Regno di Dio, nel Paradiso.
Proprio quel ragazzo di cui meno si poteva immaginare questo ideale di santità, Michele Magone, costituisce un esempio di vita virtuosa e santa, e Don Bosco scrive: “Noi avremmo certamente desiderato che quel modello di virtù fosse rimasto nel mondo sino alla più tarda vecchiaia, e sia nello stato sacerdotale, cui mostravasi inclinato, sia nello stato laicale, avrebbe fatto molto bene alla patria ed alla religione”. Troviamo qui, con piena chiarezza, l’ideale umano e cristiano del giovane, secondo Don Bosco.
3. La passione dell’uomo, di Cristo, di Dio
È molto interessante e significativo, nella presentazione che il Rettor Maggiore fa del motto di Don Bosco, trovare la parola “passione”. Indubbiamente, è un términe che si è introdotto in maniera progressiva nel linguaggio del nostro tempo: non saprei dire se è così anche nel pensiero. Ancora pochi anni fa, aveva soltanto un significato positivo riferito alla “passione di Cristo”, e in questo caso, soltanto perché si considerava equivalente della sua sofferenza e morte in croce (cfr., per esempio, il film di Mel Gibson). Alla domanda: Quando comincia la passione di Cristo?, la risposta era unanime e immediata: “il giorno prima della sua morte”.
A questo riguardo, uno scrittore russo, D. Merezhkovsky, dice: “È molto strano che la Chiesa, che considera ‘le passioni’ come qualcosa di cattivo, e la loro assenza come segno di santità, abbia avuto il valore di chiamare ‘passione’ il suo Mistero più grande” 3.
Possiamo approfondire progressivamente nell’analisi della passione attraverso tre momenti: antropologico, cristologico e teo-logico.
1.- Nel senso antropologico, la passione (e le passioni) era qualcosa considerato negativo, legato al peccato o, in ogni caso, all’imperfezione della concupiscenza; molte volte, il modello di uomo consisteva nell’assenza assoluta delle passioni o, almeno, nell’equilibrio e controllo di esse, cercando il “giusto medio” (aurea mediocritas), anche se la parola che esprimeva, letteralmente, questo ideale non era molto gradevole: la apatia. Di fronte a questa mentalità, vale la pena ricordare le belle parole, intenzionalmente provocatorie, di S. Kierkegaard: “Perde meno chi si perde nella sua passione, di chi perde la sua passione”.
In particolare, vorrei fare il riferimento alla tematica legata all’amore umano e, concretamente, all’eros. Come sottolinea Josef Pieper nel suo straordinario libro Sull’Amore, l’eros è stato oggetto di una campagna di diffamazione e di calunnia, inteso come sinonimo della sessualità, e alle volte persino di un’espressione morbosa della stessa. Forse adesso non è più così: ma, in ogni caso, questa rivendicazione dell’eros è troppo legata, ancor oggi, alla valorizzazione della sessualità: essendo, in fondo, due realtà completamente diverse. Mi sembra che neanche la straordinaria Enciclica di Benedetto XVI Deus Caritas Est, e il Messaggio di Quaresima 2007, ancora più “spinto”, hanno penetrato in maniera sufficiente nel pensiero cristiano.
È indispensabile che, come educatori-pastori, possiamo essere capaci di formare persone appassionate, che sappiano amare ed essere amati/e. Ricordiamo che una delle priorità della nostra educazione umana e cristiana, nel discernimento fatto nel Capitolo Generale 23, nel 1990, fu proprio questa: l’educazione all’amore e nell’amore. Penso che continua ad essere più attuale di mai questa preoccupazione.
2.- In prospettiva cristiana, parlare oggi della “passione” di Gesù Cristo, nel linguaggio teologico e spirituale4, si riferisce sempre di più al suo Amore, come ragione ultima della donazione della sua vita per noi: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per coloro che uno ama” (Gv 15, 13).
In questa direzione, possiamo dire, senza cadere in una tautologia, che la passione di Gesù porta alla sua passione. Si è fatta molta strada cercando di togliere da Gesù, Figlio di Dio fatto Uomo, una “apatia” che durante molti secoli impedì una comprensione piena della sua Umanità, e difese un monofisismo larvato. Come dice il Rettor Maggiore, “il programma di Don Bosco riecheggia l’espressione ‘ho sete’, che Gesù pronuncia sulla croce mentre sta consegnando la propria vita per realizzare il disegno del Padre (Gv 19, 28). Chi fa propria questa invocazione di Gesù, impara a condividere la Sua passione apostolica ‘fino alla fine’” (ACG 394, p. 7).
Presupponendo tutto questo, non possiamo, però, fermarci qui: sarebbe rimanere a metà strada: poiché sembrerebbe che la “passione” di Gesù sarebbe soltanto conseguenza dell’Incarnazione, del suo “amare con cuore di uomo”, come dice in maniera molto bella il Concilio Vaticano II (GS 22): ma, in fondo, non ci direbbe nulla di come è Dio, in Se stesso. In questo caso, non sarebbe la rivelazione di Dio, ma il suo nascondimento.
3.- Il senso più profondo di questa passione è il teo-logico: come dice in maniera sintetica J. Moltmann, “la passione di Cristo ci rivela la passione di un Dio appassionato”.
In fondo, l’ideale umano dell’apatia era un riflesso dell’anelito di “diventare Dio”, di essere simili, il più possibile, a Lui. Questo desiderio non è, in assoluto, negativo o peccaminoso: siamo stati creati a Sua immagine e somiglianza! Come dice, in maniera straordinaria, san Tommaso d’Aquino, “prius intelligitur deiformis quam homo”! (Dobbiamo intendere l’essere umano anzitutto non come uomo, ma come deiforme). Lo sbaglio fondamentale si trova nell’immagine non giusta di Dio, credendo che Lui è più in là dei sentimenti e delle passioni; che si tratta, in fin dei conti, di un “Dio apatico” e questo sarebbe il senso della sua Onnipotenza: “Dio là, nel suo Cielo, godendo di felicità piena; io vorrei essere simile a questo Dio, qui sulla terra”.
A questo riguardo, lo stesso Moltmann afferma: “L’uomo sviluppa la propria umanità sempre in rapporto alla divinità del suo Dio. Sperimenta il proprio essere in rapporto a ciò che gli appare come l’essere supremo. Indirizza la propria vita verso il Valore ultimo. Si decide, fondamentalmente, per ciò che lo riguarda in modo assoluto (…) La teologia e l’antropologia si trovano in un rapporto di mutuo scambio (…) Il Cristianesimo primitivo non fu assolutamente in grado di opporsi al concetto di apátheia che il mondo antico proponeva come assioma metafisico e ideale etico. In esso si condensavano la venerazione per la divinità di Dio e l’aspirazione alla salvezza dell’uomo” 5.
Il Rettor Maggiore si riferisce ugualmente a questa radice della nostra passione apostolica quando, parlando della formazione, indica: “Occorre formare persone appassionate. Dio nutre una grande passione per il suo popolo; a questo Dio appassionato la vita consacrata guarda con attenzione. Essa deve quindi formare persone appassionate per Dio e come Dio” (ACG 394, p. 28). Nel suo Messaggio della Quaresima 2007, Benedetto XVI afferma: “Ezechiele (...) parlando del rapporto di Dio con il popolo di Israele, non teme di utilizzare un linguaggio ardente e appassionato (cf. Ez 16, 1-22). Questi testi biblici indicano che l’eros fa parte del cuore stesso di Dio: l’Onnipotente attende il ‘sì’ delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa”.
4. La Passione apostolica di Don Bosco
Cercheremo di concretizzare, nella prospettiva salesiana, questa “nuova immagine di Dio”: certamente, sarà un arricchimento straordinario, anche dal punto di vista teologico; ma soprattutto, nella prassi concreta della nostra Missione.
È necessario dire che, ovviamente, non è soltanto questione di parole: corriamo il rischio di versare vino nuovo (e ottimo!) negli otri vecchi. Ma, d’altra parte, dobbiamo anche dire che i cristiani autentici –in primo luogo, i santi e le sante- hanno “intuito” questo, forse senza avere le categorie concettuali e linguistiche più adatte per esprimerlo: l’esperienza autentica del Dio di Gesù Cristo non si esaurisce nelle idee o nelle parole!
Possiamo caratterizzare Don Bosco in modo azzeccato come un uomo appassionato, pieno della passione dell’Amore: che, in fondo, vuol dire cristianamente = pieno di Dio. Ma, più in là di questa bella espressione, perché non rimanga puramente retorica, vogliamo domandarci: Quali sono gli elementi che questa nuova visione può offrire, per un rinnovamento, anche teologico, della passione di Don Bosco?
* In primo luogo, possiamo dire che il nostro Padre condivide la passione di Dio per la salvezza dell’umanità, concretamente, dei giovani: in particolare i più poveri, abbandonati e pericolanti (cf. Cost. 26). Questo sarebbe il senso più profondo della “compassione con Dio”. Non prendere questo sul serio ci porta di nuovo verso l’apatia teologica, o soltanto verso una preoccupazione intramondana per la promozione umana dei giovani. Come dicevamo prima: chiedere a Dio che ci conceda i giovani, è prendere molto sul serio che vogliamo collaborare con Lui, sentire con Lui, soffrire con Lui, per causa loro…
* In secondo luogo, Don Bosco è particolarmente sensibile alla manifestazione dell’Amore di Dio: il “non basta amare…”, più in là di essere una espressione meravigliosa del suo immenso cuore, e anche un elemento formidabile nell’educazione, possiede una straordinaria densità teologica. In fondo, tutto il piano di salvezza di Dio si può sintetizzare in una sola parola: epifania. Consiste, non soltanto nell’amarci, ma nel manifestarci il suo Amore in Cristo (cfr. Rom 8, 39). A questo tema dedicheremo una delle seguenti riflessioni.
* La passione educativo pastorale di Don Bosco sottolinea, in maniera assoluta, la gratuità del suo amore, come espressione della Grazia di Dio, che non è “qualcosa”, ma è Dio stesso, donandosi a noi pienamente nella sua Realtà trinitaria, senza nessun merito dalla nostra parte. Questo sarà ugualmente oggetto del nostro approfondimento ulteriore.
* D’altra parte, nella vita e nel sistema educativo di Don Bosco occupa un posto fondamentale la risposta del giovane. Anzi: il “non basta amare…” porta in questa direzione: “Chi sa di essere amato, ama; e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani” (Lettera da Roma, nelle Costituzioni p. 250). Riecheggia nel nostro cuore il detto “studia di farti amare”. Forse qui possiamo porre la domanda: questa risposta non minaccia l’assoluta gratuità del nostro amore e della nostra donazione totale?
Lo stesso Benedetto XVI, a questo riguardo (oltre il testo prima citato) approfondisce questo tratto fondamentale dell’amore, parlando di Dio stesso: “Per riconquistare l’amore della sua creatura, Egli ha accettato di pagare un prezzo altissimo: il sangue del suo Unigenito Figlio (...) Sulla croce è Dio stesso che mendica l’amore della sua creatura: Egli ha sete dell’amore di ognuno di noi (...) In verità, solo l’amore in cui si uniscono il dono gratuito di sé e il desiderio appassionato di reciprocità infonde un’ebbrezza che rende leggeri i sacrifici più pesanti” (Messaggio della Quaresima 2007).
Alla base di questa maniera di pensare si trova l’idea che l’amore è più “puro” se, alla sua totale gratuità, non si trova nessuna corrispondenza, perché, in questo caso, sembrerebbe un amore “interessato”. Cercheremo di rispondere a questa obiezione, nell’analisi più accurata dell’esperienza dell’amore in quanto agape-eros; per adesso, soltanto vorrei sottolineare, prendendo lo spunto dalla bellissima frase di san Paolo: “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole” (Rom 13, 8), che nell’amore autentico e pieno, la gratuità non sparisce, ma tutto il contrario: troviamo, per così dire, “l’incontro di due gratuità”.
È un tema che, nella fenomenologia dell’amore, è veramente affascinante. Da una parte, riprendendo una acuta osservazione di E. Jüngel, dobbiamo distinguere tra l’‘ut’ finale (amo per essere amato) e il raggiante ‘ut’ consecutivum (dove l’essere-amato è conseguenza, e non finalità, del mio amore) 6. San Bernardo lo aveva ormai detto, in maniera magnifica: “Ogni vero amore è senza calcolo e, ciononostante, ha ugualmente la sua ricompensa; esso, addirittura, può ricevere la sua ricompensa solo se è senza calcolo… Colui che nell’amore ricerca come ricompensa solo la gioia dell’amore, riceve la gioia dell’amore. Colui invece che ricerca nell’amore qualcosa di diverso dall’amore, perde l’amore e, al tempo stesso, la gioia dell’amore ” 7. Possiamo applicare all’amore quello che Gesù dice sul Regno di Dio: “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6, 33). Invece, chi anzitutto aspetta “tutte le altre cose” cercando il Regno, finisce senza il Regno, senza la sua giustizia, e anche senza tutte le altre cose…
In fin dei conti, dobbiamo andare alla Fonte ultima della teologia (e anche della nostra vita umana), alla riflessione teo-logica per eccellenza, che non è, per niente, ‘astrazione di terzo grado’: la contemplazione del Dio Trinitario. La perichoresi ci garantisce che, in Dio, ugualmente “divino” è l’amare e l’essere-amato. A questo Dio siamo simili, siamo stati creati alla sua Immagine. Quello che Dio ha unito, l’uomo non deve dividerlo...
Di fronte a tutto questo, possiamo fare una domanda decisiva, ma anche pericolosa, se non viene adeguatamente intesa: possiamo parlare dell’amore erotico di Don Bosco? Fin d’adesso possiamo anticipare la risposta: Sì, evidentemente; trattandosi di un amore a immagine dell’amore stesso di Dio; anzi: dell’Amore stesso che è Dio. Questo richiederà anche una riflessione più accurata e approfondita.
* Per finire: credo che l’espressione tradizionale su Don Bosco: Padre e Maestro dei Giovani, ha ancora moltissimo da offrirci. In particolare, vorrei sottolineare la paternità, che è una delle espressioni più profonde dell’essere-uomo, e Don Bosco l’ha vissuto in pienezza. Per non rimanere, anche qui, nella retorica dell’espressione, indico soltanto due aspetti tipici della paternità (e anche della maternità, evidentemente, anche se con sfumature diverse):
- l’amore paterno - materno è l’espressione più piena e radicale dell’incondizionalità dell’Amore di Dio: ogni altro amore umano, infatti, presuppone la conoscenza della persona amata, tranne questo: i genitori amano il/la figlio/a, ancora prima che abbia un volto e un nome, persino un genere…
- l’amore paterno - materno, non essendo in assoluto indifferente alla risposta filiale, non dipende da questa: così è riflesso dell’Amore divino, che è buono anche con i cattivi e gli ingrati… (cfr. Mt 5, 44-45).
Concludiamo con una citazione delle nostre Costituzioni, fatta preghiera a Maria Immacolata Ausiliatrice:
Maria, insegnaci e aiutaci ad amare come Don Bosco amava!
(Cfr. Cost. 84).
PREGHIERA – “DA MIHI ANIMAS”
Signore Dio, nostro Padre,
Tu ci hai chiamati a far parte della Congregazione Salesiana
per affidarci la porzione più delicata e preziosa della società umana,
i giovani, in particolare i più poveri, abbandonati ed in pericolo,
perché siamo per loro segni e portatori del tuo Amore salvifico.
Riempi il nostro cuore e tutta la nostra vita con il tuo Spirito
perché siamo fedeli nel compimento di questa Missione,
così che nella sua realizzazione generosa e incondizionata
possiamo trovare la strada della nostra santità.
Fa’ che possiamo avere sempre l’esperienza della tua Paternità
mentre lavoriamo instancabilmente per la loro salvezza,
seguendo le orme del Buon Pastore
così come ha fatto il nostro santo Padre Don Bosco.
Concedi a noi di condividere la passione del tuo Amore
come l’hai manifestata nel tuo Figlio Gesù Cristo,
che ci ha amati fino a dare la vita per tutti noi.
Liberaci dall’apatia e dall’indifferenza
di fronte alle situazioni drammatiche in cui vive la nostra gioventù odierna,
in particolare negli ambienti di maggiore povertà ed emarginazione;
ma liberaci anche della tentazione di cercare strade
e prendere decisioni al margine della tua Volontà salvifica.
Forma in noi, con l’intercessiona materna di Maria,
un cuore come quello di Don Bosco,
che trovò il cammino della sua perfezione e della sua felicità
compiendo con totale fedeltà la Missione che gli hai affidato:
essere padre e maestro della gioventù.
In questo momento decisivo per la nostra Congregazione,
all’inizio del Capitolo Generale, ti chiediamo:
concedi a tutti noi la luce del tuo Spirito
perché sappiamo discernere la tua Volontà,
e donaci la sua forza, perché possiamo metterla in pratica.
Fa’ che abbiamo ancora oggi il coraggio di dirti con Don Bosco:
Da mihi animas! Consegna a noi i giovani, perché possiamo condurli
per il cammino della loro vera felicità e realizzazione in Cristo. Amen.
ASCESI DEL CARISMA:
CETERA TOLLE
Continuando la riflessione precedente, consideriamo la seconda parte del motto di Don Bosco, “cetera tolle”, che, come dice il Rettor Maggiore nella lettera di convocazione del CG 26, esprime “l’ascetica salesiana, come viene espressa nel ‘sogno dei dieci diamanti’” (cfr. ACG 394, p. 7). Un po’ più avanti, spiega: “Il ‘cetera tolle’ motiva il consacrato salesiano a prendere le distanze da quel ‘modello liberale’ di vita consacrata, descritto nella Lettera Sei tu il mio Dio, fuori di te non ho altro bene” (ACG 394, p. 35; riferimento a ACG 382).
1. L’Ascesi cristiana: espressione e conseguenza dell’Amore
Cerchiamo di ampliare questa prospettiva, e inizieremo con lo stabilire la base “umana” che ci permetta di capire che l’ascesi è necessaria non soltanto per il consacrato, e neppure solo per il cristiano, ma per ogni essere umano, nella misura in cui vuol raggiungere la vera felicità.
Il Santo Padre Benedetto XVI, nella prima citazione della sua enciclica Deus caritas est, menziona Federico Nietzsche (cfr. n.3), la cui critica a un certo tipo di ascetismo, che può arrivare ad essere persino masochistico, è ormai classica: “Essi hanno chiamato ‘Dio’ ciò che contraddiceva e faceva male a loro stessi: e, in verità, vi è stato molto eroismo nella loro adorazione!” 8. È necessario, indubbiamente, riconoscere con sincerità e umiltà quello che di vero c’è in queste critiche (spesso, molto poco); frequentemente il modello e l’ideale di perfezione del cristiano non erano, in fondo, veramente cristiani, ma attingeva ad altre fonti, persino ad un’altra concezione dell’essere umano che non è quella del Vangelo. Nel progetto amoroso di un Dio che vuole il bene dei suoi figli, non possiamo staccare la dimensione oggettiva (“perfezione”) dalla soggettiva (“felicità”). Bisogna riconoscere che l’accentuazione di una perfezione senza la felicità, in tempi passati non sempre lontani, ha portato, pendolarmente, alla situazione attuale, soprattutto nella cultura giovanile postmoderna: cioè, una ricerca di felicità (o, meglio, di piacere immediato), alle volte ossessiva, senza nessun riferimento oggettivo (“perfezione”).
Parlando dell’amore, che costituisce il fondamento del ‘da mihi animas’, dicevamo che, così come soltanto da esso può nascere l’autentica mistica cristiana (e salesiana), ugualmente è l’unica radice della vera ascesi. Ancor di più: non c’è ascesi più radicale di quella che nasce dall’autentico amore. In conseguenza, possiamo affermare che l’amore è la fonte della mistica e dell’ascesi cristiane. Detto con parole evangeliche: soltanto possiamo “avere la vita” e produrre molto frutto, se, come il chicco di frumento, accettiamo di cadere in terra e “morire”. E tutto questo non come qualcosa di “imposto” dal di fuori, neanche come “il prezzo che si deve pagare”, ma proprio perché deriva dall’essenza stessa dell’amore.
D’altra parte, soltanto nell’esperienza dell’amore, in qualsiasi delle sue autentiche espressioni, si trova la totale realizzazione della persona, attraverso l’integrazione piena dei due aspetti, oggettivo e soggettivo. Soltanto attraverso l’amare e l’essere amato l’uomo trova, inseparabilmente, la sua pienezza e la sua felicità.
2. Dialettica fondamentale dell’amore
Un poeta argentino, Francisco Luis Bernárdez, in una bellissima poesia, dice che “essere innamorato” (titolo della stessa poesia)
es ignorar en qué consiste la diferencia entre la pena y la alegría
(“è ignorare dove si trova la differenza tra il dolore e la gioia”).
San Tommaso lo aveva detto, con una frase lapidaria: Ex amore procedit et gaudium et tristitia (S. Th. IIa IIae, q. 28, a. 1): “dall’ amore procede la gioia e la tristezza”.
In questo senso, scrive Moltmann: “Un uomo può soffrire, perché può amare, e soffre nella misura in cui pure ama. Se egli riuscisse a soffocare ogni moto d’amore, estinguerebbe pure ogni sofferenza, diventerebbe apatico (…) Un uomo che sperimenta l’impotenza, un uomo che soffre perché ama, un uomo che può morire, è quindi un ente più ricco di un Dio onnipotente, incapace di sofferenza e di amore” 9. Non è un’assoluta novità, né una mancanza di rispetto di fronte a Dio; in Riccardo di San Vittore troviamo la stessa idea, espressa, se possibile, in una maniera ancora più audace: “se Dio preferisse riservare egoisticamente solo per sé l’abbondanza della sua ricchezza, pur potendo, se lo volesse, comunicarla ad un altro (...) avrebbe ragione di sottrarsi alla vista degli angeli e di chiunque, di vergognarsi di essere visto e riconosciuto, avendo in se stesso una così grave mancanza di benevolenza” 10.
In realtà, mai siamo così vulnerabili come quando amiamo… Ricordando la “legge del chicco di frumento”, se l’amore può essere descritto come “la felicità-pienezza attraverso il dono totale di sé”, vediamo subito perché non si possono staccare, nell’esperienza di ogni amore autentico, la mistica e l’ascesi. Detto in “linguaggio salesiano”, in una maniera molto concreta, il da mihi animas e il coetera tolle sono le due parti, inseparabili, del manto del personaggio del sogno dei dieci diamanti…
In un altro testo bellissimo della nostra tradizione salesiana viene presentata questa stessa dialettica dell’amore: il sogno di Don Bosco del pergolato di rose. Quelli che seguono Don Bosco, affascinati dalla possibilità di camminare sulle rose, scoprono, troppo presto, che ci sono delle spine appuntite, e si sentono ingannati. In realtà, avevano dimenticato che non ci sono rose senza spine; che non c’è amore senza sofferenza o, meglio, senza vulnerabilità...
Nel secondo capitolo delle nostre Costituzioni, parlando dell’identità del salesiano, troviamo almeno due volte questa prospettiva dell’ascesi, legata intimamente all’esperienza dell’amore. Nell’articolo 14, “Predilezione per i giovani”, leggiamo: “Questo amore, espressione della carità pastorale, dà significato a tutta la nostra vita. Per il loro bene offriamo generosamente tempo, doti e salute: ‘Io per voi studio, per voi lavoro, per voi sono disposto anche a dare la vita’”. E più avanti, ricordando il “secondo motto della Congregazione”, lavoro e temperanza, dice la nostra Regola di Vita: “(Il salesiano) accetta le esigenze quotidiane e le rinunce della vita apostolica: è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo, ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime” (Cost. 18).
3. Il “Dio-Amore”: un Dio povero
In maniera analoga a quello detto nella riflessione precedente sul fondamento teologico della nostra passione, nel ‘da mihi animas’, dobbiamo anche qui andare fino in fondo per trovare, nel Dio in cui crediamo, il Dio-Amore, il fondamento della nostra povertà evangelica e consacrata, della nostra ascesi più radicale.
Abitualmente, abbiamo cercato questo fondamento nella vita di Gesù, come dicono anche le nostre Costituzioni, citando il nostro padre Don Bosco: “Conosciamo la generosità del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, egli si fece povero, affinché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà. Chiamati ad una vita intensamente evangelica, scegliamo di seguire ‘il Salvatore che nacque nella povertà, visse nella privazione di tutte le cose, e morì nudo in croce’” (Cost. 72).
Non vogliamo mettere in discussione l’esempio normativo del Figlio di Dio fatto Uomo; ma, partendo da un concetto teologico centrale, dobbiamo affermare: in questo Uomo, Gesù di Nazaret, si rivela Dio in maniera definitiva (= escatologica).
Senza pretendere sviluppare quest’ultima affermazione, ci limitiamo a ricordare le parole di Vita consecrata, sul fondamento trinitario dei consigli evangelici: “Il riferimento dei consigli evangelici alla Trinità santa e santificante rivela il loro senso più profondo” (VC, n. 21). Proprio perché Gesù Cristo è il Rivelatore di Dio, possiamo, attraverso di Lui, arrivare a questo fondamento trinitario. (Non vorrei lasciare questa occasione per indicare che questa idea mi sembra una delle novità teologiche e spirituali più importanti del Magistero sulla vita consacrata, purtroppo, non ancora sviluppata).
In riferimento a questo, vorrei presentare una riflessione personale, che mi sta profondamente a cuore. Nei Vangeli sinottici –prendo il testo di Lc 21, 1-4- troviamo il commovente esempio della povera vedova che, gettando due spiccioli, ha dato, secondo la testimonianza di Gesù, più di tutti gli altri: “tutti costoro, infatti, hanno deposto come offerta del loro superfluo, questa invece, nella sua miseria, ha dato tutto quanto aveva per vivere”. Sempre avevo inteso questo testo come un insegnamento morale particolarmente forte per motivarci alla piena fiducia in Dio; fino a un giorno in cui mi domandai: Non può essere questa Parola del Signore anche, e soprattutto, una straordinaria parabola teologica? Il Dio di Gesù Cristo, è come uno di quei ricconi che ‘danno molto’, ma del loro superfluo, o è piuttosto simile a questa povera vedova, che ci ha dato tutto, quello che di più caro aveva: il suo unico Figlio, per noi?
Intesa così, l’Incarnazione come kenosis è un’azione trinitaria; anzi: è la manifestazione per eccellenza del Dio Trinitario.
Di fronte a tutto questo, sorge subito la domanda: Ma non è vero che Dio “cambia” diventando Uomo? L’Incarnazione non va contro la radicale immutabilità di Dio?
Senza entrare qui in disquisizioni teologiche, non sarebbe il nostro compito, la prima cosa che dobbiamo fare è domandarci e mettere sul serio in discussione questa immutabilità, e il senso che può avere, essendo un concetto più filosofico che teologico. In ogni caso, il contenuto positivo di questa parola, mi sembra, viene assunto e portato alla sua pienezza personalistica nella fedeltà, che è una caratteristica tipica dell’amore, soprattutto quando parliamo di Dio.
Ricordando l’interpretazione della parabola evangelica prima menzionata, diamo adesso la parola, in un testo straordinario, a Hans Urs von Balthasar:
(Qui) si tratta, almeno nel sottofondo, della svolta assolutamente decisiva nel modo di vedere Dio, che non è in primo luogo ‘potenza assoluta’, ma ‘Amore’ assoluto e la cui sovranità non si manifesta nel tener per sé ciò che gli appartiene, ma nell’abbandonarlo, cosicché questa sovranità si estende al di là di ciò che, qui, all’interno del mondo, si contrappone come forza e debolezza. L’esternarsi di Dio (nella incarnazione) ha la sua possibilità ontologica nell’esternabilità eterna di Dio, nella sua donazione tripersonale (…) I concetti di ‘povertà’ e ‘ricchezza’ diventano dialettici, ciò che qui non sta a significare che l’essenza di Dio sia in se (univocamente) ‘kenotica’ e che quindi un solo concetto possa comprendere il fondamento divino della possibilità della kenosi e la kenosi stessa (…), bensì che –come ha tentato di dire alla sua maniera Ilario- la ‘potenza’ divina è così costituita che può gestire in se stessa la possibilità di un autoannichilimento, qual è quello dell’incarnazione e della croce, e sostenere questo annichilimento fino alla fine 11 (sottolineatura nostra).
Soltanto un Dio così è degno, non soltanto della nostra riconoscenza e del nostro ringraziamento, ma anche, e soprattutto, del nostro amore totale, incondizionato, che porti anche noi a un radicale “svuotamento” per essere riempiti pienamente del suo Amore, e diventare così suoi portatori ai giovani.
Più avanti, rifletteremo sull’Incarnazione del Figlio di Dio come manifestazione definitiva dell’Amore di Dio; ancor di più: del Dio che è Amore. In questa prospettiva, piuttosto positiva, cercheremo di integrare il suo carattere di spogliazione: la kenosi del Figlio di Dio fatto Uomo.
4. Amore e Povertà nella vita salesiana
Nella stessa Lettera del Rettor Maggiore, prima di presentare gli ultimi due temi capitolari, si afferma: “Per Don Bosco la seconda parte del motto, ‘cetera tolle’, significa il distacco da quanto ci può allontanare da Dio e dai giovani. Per noi oggi esso si concretizza nella povertà evangelica e nella scelta di andare incontro ai giovani più ‘poveri, abbandonati e pericolanti’, essendo sensibili alle nuove povertà e collocandoci nelle nuove frontiere dei loro bisogni” (ACG 394, p. 41). Anche qui, prendere come punto di partenza l’amore apostolico, a immagine del Dio di Gesù Cristo, ci permetterà concretizzarlo nella povertà più autentica e radicale.
In un’analisi molto densa, ma di una ricchezza straordinaria, che Eberhard Jüngel fa dell’amore umano, esprime così questo rapporto tra amore e povertà:
Il fatto che l’io amante voglia avere il tu amato e così, ma appunto solo così, voglia avere se stesso trasforma - e questo è di grande significato dal punto di vista ontologico e teologico - la struttura dell’avere. Infatti, il ‘tu’ amato viene desiderato dall’io amante solo come tu a cui egli può darsi e che a sua volta si darà all’io amante come a un tu amato. L’amore è dono reciproco (…) Lo scambio del dono reciproco significa ora però per il momento dell’avere che l’io amante vuole avere se stesso solo nel modo dell’essere avuto. E significa, allo stesso tempo, che vuole avere il tu amato solo come un ‘io’ che da parte sua voglia essere avuto (…) Nell’amore non c’è avere che non nasca dal dono (…) L’io amante ha se stesso solo più come se non si avesse. Vuole essere amato, e precisamente dal tu che egli stesso vuole avere. Ma per avere questo tu deve darsi ad esso, dunque cessare di avere se stesso. Questo fatto è decisivo per la comprensione dell’amore 12 (corsivo originale; neretto nostro).
Detto altrimenti: una povertà che non nasce dall’amore, non è una povertà desiderabile, che può assomigliarci a Dio stesso. Lo svuotamento del Figlio di Dio (kenosis) è, in fondo, espressione suprema dell’amore, che lo porta a farsi uno di noi: amor, aut similes invenit, aut similes facit. L’inserzione, che ci porta a condividere la vita dei più poveri ed emarginati, è in fondo una variante dell’Incarnazione.
A questo riguardo, possiamo anche ricordare le parole di sant’Agostino nel suo commento alla prima lettera di Giovanni:
Come inizia la carità, o fratelli? Prestate un poco di attenzione: voi avete sentito come si raggiunge la sua perfezione; il Signore nel Vangelo ci ha presentato il suo fine ed i suoi modi: Nessuno ha una carità maggiore di colui che dà la vita per i suoi amici. Egli, dunque, mostrò nel Vangelo la sua perfezione ed anche qui ci viene richiamata la sua perfezione; ma interrogate voi stessi e ditevi: Quando possiamo avere questa carità? Non voler disperare troppo presto di te stesso: la carità in te forse è appena nata, non ancora perfezionata; nutrila, perché non abbia a venir meno. Forse potrai dirmi: da dove traggo la conoscenza di ciò? Abbiamo sentito con quali mezzi essa giunge alla perfezione; sentiamo da dove trae inizio. Giovanni prosegue e dice: Chi avrà beni di questo mondo e vedesse suo fratello affamato e gli negasse la sua compassione, come l’amore di Dio potrebbe essere in lui? Ecco da dove prende avvio la carità. Se ancora non sei disposto a morire per il fratello, sii disposto a dare al fratello un poco dei tuoi beni (…) Se non riesci infatti a dare il superfluo al fratello, come potrai dare per lui la tua vita? 13
5. La Povertà come dimensione della vita consacrata salesiana
Dopo il testo citato all’inizio della nostra meditazione, nella stessa Lettera il Rettor Maggiore concretizza: “La vita consacrata del futuro si realizzerà nella sua concentrazione sulla sequela radicale di Cristo obbediente, povero e casto. Se tutti i tre i consigli evangelici ci parlano della nostra totale offerta a Dio e dedizione ai giovani, la povertà ci porta a donarci senza riserve né indugio, fino all’ultimo respiro della nostra vita, come fece Don Bosco. La pratica dei consigli evangelici libera in noi le risorse più nascoste della disponibilità” (ACG 394, p. 41).
Considero che, nella teologia della vita consacrata, e concretamente per noi, come salesiani, più in là dell’innegabile diversità dei consigli evangelici, è necessario trovare un’unità armonica e organica attorno all’amore, da dove prendono il loro senso e valore, ed è quello che li conduce verso la pienezza della santità. In questa prospettiva, la povertà non è una “parte” o sezione della nostra vita, ma una dimensione trasversale alla vita intera e, in particolare, attraversa i consigli evangelici. Ancor di più: oserei dire, giocando un po’ con le parole, che la povertà che implicano la castità e l’obbedienza è più radicale di quella che implica il voto di povertà.
Nell’Esortazione Vita consecrata leggiamo: “Ogni rigenerato in Cristo è chiamato a vivere, con la forza proveniente dal dono dello Spirito, la castità corrispondente al proprio stato di vita, l’obbedienza a Dio e alla Chiesa, un ragionevole distacco dai beni materiali, perché tutti sono chiamati alla santità, che consiste nella perfezione della carità” (VC, n. 30).
Se analizziamo questo testo fondamentale, troviamo tre affermazioni, intimamente unite tra di esse:
ogni cristiano/a è chiamato/a alla santità;
la santità consiste nella perfezione dell’amore, nella carità;
dunque, ogni cristiano è chiamato a vivere, secondo il proprio stato di vita, i consigli evangelici.
Anche qui troviamo, rispetto alla concezione abituale dei “consigli” evangelici, una assoluta novità teologica e spirituale (anche se, in qualche maniera, è presente nella Lumen Gentium). Possiamo, dunque, affermare: all’unica perfezione cristiana, che è quella dell’amore, appartiene essenzialmente la pratica dei ‘consigli evangelici’. La maniera stessa in cui vengono nominati indica che non si tratta che tutti i battezzati “professino i voti”: e questo ha come prima conseguenza la necessità di trovare una maniera di chiamarli più adeguata, per non cadere nello sbaglio di considerare i nostri fratelli e sorelle nel mondo come di “seconda classe”, o cercare di allargare così tanto il concetto di ‘vita consacrata’, che tutti appartengano ad essa. In ogni caso, non possiamo dimenticare che ogni cristiano/a è consacrato/a nel Battesimo.
Se questi valori evangelici (che non sono ‘opzionali’) sono normativi per ogni cristiano/a, devono avere la massima ampiezza possibile, non limitandosi a questo o quell’aspetto marginale dell’esistenza umana e cristiana: come sarebbe, per esempio, se intendessimo la castità soltanto in rapporto alla sessualità, o l’obbedienza soltanto di fronte a un ordine del legittimo superiore ‘in forza del voto’.
Questa prospettiva può intendersi come l’insieme delle dimensioni fondamentali dell’essere umano di fronte a Dio:
in rapporto alle ‘cose’: povertà;
in rapporto alle persone: castità;
in rapporto a se stesso: obbedienza.
Ricordiamo il primo e principale ‘comandamento’, la prima ‘parola di vita’, che Gesù indica al dottore della legge: “Il primo è: ‘Ascolta, Israele: il Signore, nostro Dio, è l’unico Signore, e amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutte le tue forze’. Il secondo è: ‘Amerai il tuo prossimo come te stesso’. Non esiste nessun comandamento più grande di questi” (Mc 12, 29-31 e paralleli). Alla luce di questo ‘comandamento’, possiamo comprendere cos’è questa triplice idolatria che minaccia la radice della nostra vita cristiana (e religiosa): assolutizzare le cose materiali, adorando il “dio-denaro”; porre qualche persona come senso ultimo e definitivo della nostra vita, spiazzando Dio dal nostro centro; e infine, come la tentazione più profonda e radicale, metterci noi stessi nel posto di Dio; anzi, invece di servire Dio, servirci di Dio.
Visto in chiave positiva, tendere verso la santità cristiana consiste nel crescere ogni giorno nell’amore autentico, mettendo Dio come Centro della nostra vita, Destinatario ultimo e definitivo del nostro amore, e soltanto in Lui e da Lui amare i nostri fratelli e sorelle (‘castità’), utilizzando in maniera solidale e fraterna i beni di questo mondo (‘povertà’), trovando così la nostra piena realizzazione in Cristo (‘obbedienza’) (cfr. Cost. 22). In questa maniera, la nostra vita consacrata diventa umile esempio e “terapia spirituale” (VC, nn. 87ss), al servizio dei nostri fratelli e sorelle, assumendo la rinuncia all’esercizio di questi valori, non perché gli altri cristiani rinuncino ad essi, ma perché possano relativizzarli. Questo è il nostro servizio insostituibile, che ci permette parlare di “eccellenza oggettiva della vita consacrata” (cfr. Lettera del Rettor Maggiore, Sei Tu il mio Dio, fuori di Te non ho altro bene, ACG 382, pp. 15ss., citando VC, nn. 18 e 32).
Precisando ancora di più: per un cristiano, questa ‘centralità di Dio’ e la radicale rinuncia che implica, si configurano come sequela e imitazione di Gesù Cristo: “Se uno viene a me, e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo (…) Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 26-27. 33). Nelle nostre Costituzioni, parlando della vita salesiana come un’esperienza formativa, insieme con la “mistica” nel vivere i valori della vocazione salesiana, siamo invitati ad accettare “l’ascesi che tale cammino comporta” (Cost. 98).
Queste riflessioni ci portano a un tema assai interessante, ma che adesso soltanto possiamo enunciare: il senso della rinuncia, e la formazione alla rinuncia. È un tema della massima attualità, soprattutto (ma non soltanto) nel campo della formazione iniziale.
A questo riguardo, vorrei riprendere un testo della conferenza del Rettor Maggiore ai Superiori Generali:
Nella piccola parabola evangelica del commerciante di perle preziose (Mt. 13, 45-46), troviamo alcuni elementi fondamentali che ci permettono di delineare la "fenomenologia della rinuncia”:
a) il mercante rinuncia a quelle perle preziose (egli va e vende quelle che ha) non perché siano false: sono autentiche, e hanno costituito fino a quel momento il tesoro del mercante. Applicandolo alla nostra realtà, non è certamente un metodo appropriato quello che tenta di sminuire il valore di ciò a cui bisogna rinunciare, affinché risulti più facile. In fondo, rinunciare alle “cose cattive" non costituisce la rinuncia umana più profonda e completa. Quante volte abbiamo sentito chiedere, come resistenza ad una rinuncia necessaria: "che cosa c’è di cattivo in ciò che faccio?” E ha tutta la ragione chi parla così: soltanto deve comprendere che è proprio allora, quando si presenta l'opportunità della rinuncia nel suo senso più autentico.
b) il mercante rinuncia a perle autentiche, con dolore e contemporaneamente con allegria, perché si è trovata "la" perla definitiva, quella che ha riempito lo sguardo ed il cuore del commerciante: e lui comprende che non può acquisire questa, se non vende quelle. Se la nostra vita consacrata, centrata nell'inseguimento e l'imitazione del Signore Gesù, non risulta affascinante, diventa ingiusta e disumanizzante la rinuncia che esige... Come dice splendidamente Potissimum Institutioni: "Solamente questo amore di carattere nuziale e che implica tutta l'affettività della persona, permetterà di motivare e sostenere le rinunce e le croci che trova necessariamente chi vuole ‘perdere la sua vita’ per causa di Cristo ed il suo Vangelo (cfr. Mc. 8, 35)" (n. 9).
c) la gioia per il possesso della "perla preziosa" non elimina mai del tutto la paura che non sia autentica: in caso in cui fosse falsa, la mia decisione sarebbe stata sbagliata, e avrei rovinato la mia vita. Questo "rischio" nella vita cristiana e più ancora nella vita consacrata, è una conseguenza diretta della fede: soltanto nella fede ha senso la nostra vita; se non è verità quello in cui crediamo, "siamo i più infelici di tutti gli uomini", parafrasando san Paolo (cfr. 1 Cor. 15, 19). Il giorno in cui, in qualunque versante della vita consacrata, si possa dire: la "mia vita è pienamente gratificante, anche se non è vero quello in cui io credo", il nostro Istituto diventa... una ONG, con l'aggravante che implica certe esigenze inaccettabili per i suoi membri...
Finisco con la concretizzazione della povertà che ci presenta lo stesso Rettor Maggiore nella sua Lettera: “Noi salesiani testimoniamo la povertà con il lavoro instancabile e la temperanza, ma anche con l’austerità, la semplicità e l’essenzialità di vita, la condivisione e la solidarietà, la gestione responsabile delle risorse. La nostra povertà ci chiede una riorganizzazione istituzionale del lavoro, che ci aiuti a superare il rischio di essere imprenditori dell’educazione più che educatori, o gestori di imprese educative più che apostoli attraverso l’educazione. Chi ha scelto di seguire Gesù, ha scelto di fare proprio il suo stile di vita, di non arricchirsi, di vivere la beatitudine della povertà e della semplicità di cuore, di avere sempre familiarità con i poveri” (ACG 394, pp. 41-42). In definitiva, di prendere sul serio e di vivere fino in fondo, la beatitudine di Gesù: “Beati i poveri di spirito”, per sperimentare, fin da ora, la partecipazione al Regno dei Cieli.
PREGHIERA – “CETERA TOLLE”
Signore Gesù,
Tu ci hai rivelato il Mistero di Dio,
la cui unica Ricchezza è la pienezza dell’Amore trinitario,
facendoti povero per noi,
e ci inviti a seguire il tuo esempio
per poter diventare autentici tuoi discepoli.
Fa’ che, seguendoti radicalmente per amore,
possiamo metterti sempre di più come Centro della nostra vita,
prima di qualsiasi altra persona o cosa,
anche di noi stessi, dei nostri piani e progetti umani,
in maniera che, come il chicco di frumento,
abbiamo il coraggio di morire, per produrre molto frutto.
Vogliamo imparare, alla scuola del tuo Amore,
che possiamo essere felici solo nella rinuncia al nostro egoismo,
fino a dare la vita per i nostri fratelli e sorelle,
in particolare per i giovani che Tu ci affidi,
per essere segni veri e credibili del tuo Amore,
e non solo con le parole e con la lingua.
Insegnaci a saper accettare le rinuncie che implica la nostra vita
come chi vuole lasciare con gioia tutti i propri tesori
per acquistare la perla preziosa che ha conquistato il suo cuore e la sua vita:
quel Tesoro che soltanto Tu puoi essere, Signore.
In particolare, aiutaci a saper abbandonare
tutto quello che ci impedisce di realizzare la Missione
che Tu ci hai affidati a favore della gioventù più bisognosa del tuo Amore,
così come ha fatto, fino all’ultimo momento della sua esistenza
il nostro Padre Don Bosco.
Concedici il coraggio, in questo Capitolo Generale,
di assumere gli atteggiamenti che ci permettano di superare
i modelli e gli schemi di vita e di lavoro
che non siano secondo la tua Volontà e la Missione affidataci,
e aiutaci a prendere quelle decisioni
che rendano più visibile e irradiante la tua predilezione
per i ragazzi e i giovani più poveri, abandonati e in pericolo.
Amen.
“NON BASTA AMARE”
LA MANIFESTAZIONE DELL’AMORE
Questa meditazione si centra su uno dei temi fondamentali del nostro Carisma e della nostra Spiritualità Salesiana. Basterebbe ricordare, tra molti altri testi della nostra Tradizione, la Lettera da Roma del 10 maggio 1884, dove Don Bosco ha plasmato, in maniera insuperabile, questo tratto essenziale del Sistema Preventivo. Nonostante ciò, possiamo correre il rischio di farlo diventare, in maniera superficiale, soltanto uno “slogan” pubblicitario. In realtà, invece, ha una densità straordinaria, non soltanto dal punto di vista pedagogico o spirituale, ma anche ha una ricchezza teologica che è necessario approfondire, perché ci porta alle radici della Rivelazione cristiana.
Come nelle riflessioni precedenti, anche qui prenderemo come punto di partenza l’esperienza umana, non perché si vuole minimizzare la novità cristiana di questo tema, ma perché crediamo fermamente che non c’è nessuna opposizione tra natura e grazia, tra Creazione e Redenzione.
1. L’Amore ha bisogno di manifestarsi
Alla realtà stessa dell’amore, ancora nell’esperienza umana, possiamo applicare, in maniera analoga, quello che san Giovanni dice su Dio: “L’amore, nessuno lo ha mai visto”. Tuttavia, quello che il titolo vuole affermare non è soltanto che, se l’amore non si manifesta, non può essere percepito (questo è ovvio), ma piuttosto vogliamo sottolineare che l’amore, per la sua stessa natura, cerca di rendersi visibile, vuole essere percepito dalla persona amata; e anche - è necessario dirlo con chiarezza - brama una risposta, che non si può dare se non c’è questa manifestazione.
È necessario continuare analizzando questa esperienza, e perciò ci facciamo questa domanda: perché è necessario manifestare l’amore, da parte di chi ama? Senz’altro, perché non può smettere di farlo; ma anche - e questo non sempre si prende in considerazione - per quello che implica per la persona amata: proprio perché quello che voglio di più è la sua felicità, voglio che sappia che è amata.
Questa impostazione ci porta ad una prospettiva della fenomenologia dell’amore che troppe volte si dimentica, o si trascura: non stiamo collocandoci dal punto di vista dell’amare, ma dall’essere- e del sentirsi-amato. Questa dimenticanza è propiziata, molte volte, da un malinteso: quello di pensare che “vale di più dare che ricevere”, arrivando alle volte persino a non volere nessuna risposta da parte della persona amata: come se fosse più nobile questo amore “disinteressato”. E ancor di più: perché pensiamo forse che, in questa maniera, assomigliamo di più a Dio. Il Santo Padre Benedetto XVI, nella sua Enciclica Deus caritas est e, ancor di più, nel suo Messaggio per la Quaresima 2007, offre spunti straordinariamente fecondi per dissipare questo malinteso dalla sua più profonda radice teologica. Come abbiamo visto e come vedremo parlando della gratuità e della Grazia, il Papa scrive: “L’Onnipotente attende il ‘sì’ delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa (…) La risposta che il Signore ardentemente desidera da noi è innanzitutto che noi accogliamo il suo amore e ci lasciamo attrarre da Lui”.
Questo malinteso si fa presente anche, purtroppo, nella stessa concezione della vita cristiana, quando viene intesa più come un “amare e servire Dio”, sperando, in questa maniera, che Lui non potrà fare a meno di corrispondere al nostro amore, e ci salverà; invece di comprenderla e viverla, con la gioia della gratitudine, come un “essere amati da Dio”. Soltanto da questa convinzione della nostra fede può nascere il nostro amore verso di Lui, come risposta riconoscente e gioiosa.
Ritornando alla prospettiva prima abbozzata, cioè: l’esperienza “passiva” dell’essere amati, ha scritto il pensatore cattolico tedesco Josef Pieper pagine straordinarie. Citando nientemeno che Jean-Paul Sartre, il quale afferma: “Questo è il nucleo della gioia dell’amore: noi vi ci sentiamo giustificati di esistere”, Pieper continua: “ (L’amore) non è considerato dalla parte di colui che ama, ma da quella dell’amato. È evidente quindi che non ci basta esistere semplicemente: questo infatti lo facciamo ‘lo stesso’ e ‘comunque’. Ciò che per noi è importante, al di là di questo semplice fatto, è la conferma esplicita: è bene che tu esista, com’è meraviglioso che tu ci sia! In altri termini, ciò di cui noi abbiamo ancora bisogno, oltre il puro esistere, è: essere amati da qualcuno (…) Questa ‘cosa stupenda’, quale ci appare a prima vista, viene del resto confermata in cento modi dall’esperienza che abbiamo a portata di mano, da esperienze cioè che ognuno fa giorno per giorno. Noi diciamo: una persona ‘fiorisce’, ‘sboccia’, quando le succede di essere amata; soltanto allora essa diviene completamente se stessa, incomincia per lei una ‘nuova vita’”14.
Tutti noi, penso, abbiamo vissuto questa esperienza con i giovani nel nostro lavoro educativo e pastorale, e costituisce una delle gioie più profonde e autentiche. Detto altrimenti: mentre non ci sentiamo amati da nessuno, ‘sentiamo vergogna’ di essere in questo mondo, come in una festa alla quale non siamo stati invitati; ma, appena una persona ci ama, diceva sopra Sartre, “sentiamo giustificata la nostra esistenza”; e nell’esperienza pedagogica, il cambiamento (anche esterno) diventa, molte volte, straordinario.
Vorrei insistere in questa dimensione dell’esperienza dell’amore, perché ‘l’essere-amato’ sottolinea il carattere unico, singolare ed irripetibile della persona amata, forse di più che soltanto la dimensione attiva dell’amare, nella quale non viene garantito, automaticamente, questo carattere di singolarità. Basti pensare nella frase, tante volte ascoltata, “fai il bene, senza guardare a chi lo fai”: possiamo parlare qui di amore, mentre consideriamo desiderabile (oltre che questo sia o no possibile) l’anonimato della persona amata? E soprattutto: questa persona si sente soddisfatta così? Forse questo sarà “beneficenza”, ma manca un elemento essenziale perché sia autentico amore.
A mio avviso, considero che qui radica la radice dell’eros, senza il quale tanto la sessualità, da una parte, come lo stesso agape, dall’altra, possono diventare “impersonali”. Come vedremo nella meditazione su Don Bosco, per lui ogni ragazzo era unico e irripetibile, anche se fossero cento, o mille, gli “oggetti” del suo amore!
2. L’espressione e la Manifestazione dell’Amore
Approfondendo nella fenomenologia dell’amore, proprio perché l’amore sia percepito come tale, conviene fare un’importante distinzione tra espressione e manifestazione. L’espressione sgorga più “immediatamente” dalla natura stessa dell’amore, e pertanto, è più legata a chi ama; la manifestazione, invece, guarda più a chi lo riceve, precisando e “spiegando” la prima e, per questo, è più legata alla parola. Purtroppo, anche qui può farsi presente la menzogna: se la parola non corrisponde alla realtà che teoricamente cerca di manifestare.
Possiamo dire che, in uno schema dinamico, l’amore segue questo processo di sviluppo:
realtà - espressione - manifestazione - captazione
Tutto questo ha, nel Carisma Salesiano, una straordinaria applicazione, come possiamo immaginare, e cercheremo poi di vedere.
In questa dinamica, ricordiamo il proverbio spagnolo: “obras son amores, y no buenas razones” (le opere sono la prova dell’amore, più che le belle parole); possiamo dire che l’espressione dell’amore sono le azioni, e la manifestazione tutto quello che ci permette di conoscere la fonte dalla quale provengono queste azioni: cioè, dell’amore stesso. Questa manifestazione, come abbiamo detto prima, è anzitutto la parola, ma ci possono essere altri segni che la fanno possibile. All’amore (anche nella sua realtà umana) possiamo applicare le parole del Concilio Vaticano II: l’economia della Rivelazione si realizza attraverso opere e parole, intrinsecamente legate tra di esse (cfr. DV 2).
Conviene fare due osservazioni ulteriori in quest’analisi dell’esperienza umana. Da una parte, riguardo alla novità della manifestazione: paradossalmente, si può dire che è nuova, e allo stesso tempo non lo é. Non è nuova, perché manifesta qualche cosa che, in certa maniera, pre-esiste; ma è nuova, proprio perché quello che esisteva prima non si era manifestato. Questa manifestazione crea una nuova situazione, e in questo senso possiamo parlare del “avvenimento della Parola”. Dire a una persona: “Ti amo”, stabilisce una nuova (e meravigliosa) realtà.
D’altra parte, la manifestazione è, in un certo senso, “sacramentale”, in quanto l’efficacia dell’amore risiede, in grande parte, nella sua percezione. Se manca il segno, anche se esiste la realtà che lo farebbe possibile, non si produce la captazione e, in conseguenza, non c’è la possibilità della risposta da parte di chi, vero, è amato, ma non lo sa.
Un’esperienza umana simile è stata espressa, in maniera straordinariamente bella, dal poeta spagnolo Gustavo Adolfo Bécquer:
Asomaba a sus ojos una lágrima,
y a mi labio una frase de perdón.
Habló el orgullo y se enjugó su rostro,
y la frase en mis labios expiró.
Hoy voy por un camino; ella, por otro;
pero al pensar en nuestro mutuo amor,
yo digo aún: ¿por qué callé aquel día?
Y ella dirá: ¿por qué no lloré yo? 15
Diciamolo anche, in maniera più semplice e universale: quante volte accade, soprattutto nella vita matrimoniale e famigliare, che, pur esistendo l’amore, e forse anche la sua espressione (in forma di servizio mutuo, di sforzo comune, perfino di sacrificio per quelli che uno ama), manca la manifestazione che permetta percepire l’amore, anche attraverso queste espressioni?
3. “Abbiamo conosciuto l’amore di Dio”
Nelle precedenti riflessioni, commentando il motto della nostra Congregazione, “Da mihi animas, cetera tolle”, abbiamo approfondito alcuni aspetti teologici del Carisma. Qui riprenderemo questo, prendendo come punto di partenza l’Incarnazione del Figlio di Dio, intesa come la manifestazione definitiva, una volta per sempre (=escatologica) dell’Amore di Dio. “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita –poiché la Vita si è manifestata, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi-, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi” (1 Gv 1, 1-3a). In fondo, e detto in poche parole, quello che vogliamo affermare è: il piano intero di salvezza di Dio per l’umanità, che trova il suo centro nell’avvenimento Cristo, si può sintetizzare in una sola parola: EPIFANIA, che ha come finalità che tutti gli esseri umani, di ogni tempo e luogo, non soltanto siano oggetto dell’Amore di Dio, ma lo possano percepire, comprendere nella fede (= credere), e corrispondere col loro amore.
Quando parliamo dell’Incarnazione, non ci riferiamo evidentemente a un momento puntuale (“il 25 marzo”), ma all’insieme dell’esperienza che il Figlio di Dio ha voluto vivere: il “farsi Uomo”, che, (in una prospettiva personalista che, in un certo senso, sarebbe il ‘fondamento teologico’ della vita intesa come processo permanente di formazione) dura tutta la sua esistenza terrena e trova il suo culmine nella sua morte e risurrezione. In questo senso, la parola “epifania” non designa soltanto una “manifestazione sensoriale” (visuale, per esempio) - potrebbe limitarsi soltanto ad un’apparenza (“docetismo”) - ma implica tutta la realtà della sua Persona, che si dona totalmente, esprimendo-manifestando il suo amore “fino all’estremo”.
La teologia cattolica, in dialogo critico con la Riforma protestante, ha affermato sempre che il Dio che si rivela in Gesù Cristo è lo stesso Dio Creatore, che si fa presente nella storia, e, in particolare, si è rivelato come il Dio di Israele, Yahve. Questa posizione cattolica è stata definitivamente affermata nel Concilio Vaticano I, sul fondamento, tra altri testi biblici, di Rom 1, 20: “Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità”.
Tuttavia, lo stesso Concilio, parlando di questa rivelazione di Dio, e in sintonia col testo di Paolo, menzionando “la sua eterna potenza” e, possiamo aggiungere, anche la sua infinita Sapienza, non parla del suo Amore. Forse non si trovava questa distinzione nella intenzione esplicita del Concilio; ma la sua omissione mi sembra molto significativa: proprio perché qui parliamo della Creazione e della Storia come espressione del vero Dio (dunque, del Dio che è Amore): ma questa espressione ha bisogno, per essere compressa come tale, della manifestazione in Cristo. Senza di Lui, mai potevamo arrivare a comprendere che, più in là del suo Potere e della sua Sapienza, che sono infiniti, la Creazione e la Storia ci parlano dell’Amore di Dio; anzi: di un Dio che è Amore.
Ritornando di nuovo all’esperienza umana: quante volte diventa difficile percepire un atteggiamento dell’altra persona come espressione del suo amore, se manca la manifestazione (anzitutto, come abbiamo sottolineato, attraverso la parola), che ci permetta di stabilire questo rapporto.
Oserei dire che la Creazione, e la Storia (intesa come storia universale, ma anche come la “mia” storia, quella di ogni donna e uomo nel mondo) sono agapicamente mute, se prese fuori dalla rivelazione storica di Gesù Cristo. Anche se poi cercheremo di vedere le implicanze - senz’altro, molto rilevanti - che questo ha per il nostro Carisma, vorrei soltanto dire che tutto questo, in “chiave salesiana”, suona così: Dio non si è accontentato di amarci, ma ha voluto anche manifestarci il suo Amore donandoci niente meno che il suo Figlio amato, Gesù Cristo.
Il carattere definitivo della rivelazione di Dio in Gesù Cristo non vuol dire che, in avanti, Dio non “ha detto niente”, e non dirà più niente: in realtà, Dio continua a parlarci, attraverso la storia (anche qui: universale, particolare, personale…); piuttosto vuol dire che non possiamo capire quello che Dio continua a “dirci” lungo la storia, se non la “leggiamo” alla luce di Gesù Cristo, il Quale, in questo senso, possiamo chiamare “Grammatica di Dio”.
Tutto questo ha delle implicanze, (che non possiamo affrontare qui), anche nel dialogo interreligioso; senza chiuderci, in nessuna maniera, a tutti i valori che troviamo fuori dalla nostra fede, a tutto quello di “vero, nobile, giusto…” (Fil 4, 8) che c’è in ogni autentica ricerca di Dio da parte dell’umanità di ogni tempo e luogo, questa prospettiva ci permette di affermare che Gesù Cristo è l’Unico e Universale Salvatore dell’umanità, “è apparsa, infatti, la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini… nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” (Tt 2, 11.13).
4. L’Incarnazione del Figlio di Dio, Epifania dell’Amore divino
Nonostante questo, ancora non arriviamo al midollo della nostra riflessione teologica: in che senso l’Incarnazione del Figlio di Dio costituisce la manifestazione definitiva del suo Amore, in maniera che ci permetta scoprire la sua espressione in ogni momento e circostanza della nostra vita e della vita altrui, della storia particolare e universale? Questa domanda non è retorica, perché, in un primo momento, potrebbe sembrare piuttosto il nascondimento di Dio, il suo occultamento, più che la manifestazione della Divinità: altrimenti, non si prenderebbe sul serio il suo svuotamento (kenosis). Come intendere questa rivelazione definitiva di Dio, proprio attraverso il suo “farsi Uomo”?
Una lettura superficiale del testo paolino di 1 Cor 1, 18-25 potrebbe portarci a pensare che l’Apostolo afferma che Dio, essendo infinita Potenza e Sapienza eterna, si è manifestato in Cristo “alla rovescia” della sua Essenza: cioè, nell’impotenza e nella pazzia della Croce: questa è la maniera in cui, per esempio, Lutero ha capito ed elaborato la sua cristologia sub contrario. In realtà, san Paolo non dice questo; la indubbia contrapposizione conclude così: “Ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (v. 24); e aggiunge una frase, che potrebbe sembrare soltanto un paradosso formale, ma non lo è affatto: “Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (v. 25): proprio perché, essendo la forza e la sapienza dell’Amore di Dio, sembra debolezza e stoltezza, ma, allo stesso tempo, è più forte della forza umana, e più saggio della sapienza umana.
Se partiamo dalla descrizione “teista” di Dio, come Potenza e Sapienza, ci troviamo di fronte a un’alternativa, che diventa un vicolo cieco: il Figlio di Dio, nella sua Incarnazione, o conserva queste caratteristiche, o si svuota di esse. Nel primo caso, possiamo ancora affermare che veramente “si è fatto Uomo”? Nel secondo caso, la sua umanità è evidente; ma smeterebbe di essere “vero Dio”.
La vera soluzione teologica comincia nell’impostazione stessa del problema, cioè: qual è l’immagine autentica del Dio in cui crediamo? Dio non è, anzitutto, Potere o Sapienza, ma Amore.
Ancora una volta, ritorniamo al punto di partenza, cioè, l’esperienza umana. Tutti conosciamo una bellissima frase della saggezza latina: “amor, aut similes invenit, aut similes facit”: o l’amore trova realtà simili o le fa diventare simili”. Applicandolo all’Amore di Dio: la differenza tra Dio e le sue creature: concretamente, gli esseri umani, è infinita. E nonostante ciò, fin dalla stessa radice della differenza (“Io sono Dio, non uomo” - Os 11, 9), nasce la ricerca di questa uguaglianza: perché l’amore non pretende ignorare le differenze, ma neanche si lascia staccare per causa di queste, ma pretende andare oltre, assumendole.
In un bel testo della tradizione orientale, afferma Niccolò Cabasilas:
Giacché gli uomini sono separati da Dio per tre motivi e cioè per la loro natura, per il loro peccato e per la loro morte, il Redentore, eliminando l’uno dopo l’altro gli ostacoli, ha fatto sì che si incontrino senza impedimento alcuno e si ritrovino senza frapposizioni. Il Redentore ha eliminato il primo ostacolo partecipando alla natura umana, il secondo facendosi uccidere sulla croce e abbatté infine l’ultimo muro quando, risorgendo, ha bandito per sempre la tirannia della morte dalla nostra natura” 16.
Se l’amore (o meglio: chi ama) vuole essere uguale a chi ama, nell’Incarnazione il Figlio si svuota dal suo Potere e dalla sua Sapienza no per smettere di essere Dio, ma proprio alla rovescia: per manifestarsi a noi più in pienezza come Amore: e dunque, come Dio (se prendiamo veramente sul serio che “Dio è Amore”).
Detto altrimenti: proprio perché per amore il Figlio di Dio si svuota della sua onnipotenza e della sua onniscienza per diventare vero Uomo, manifesta al massimo il suo Amore, equivale a dire: si manifesta pienamente in quanto Dio.
Andiamo ancora una volta all’esperienza umana: a differenza dell’espressione, il punto di riferimento della manifestazione non è la persona che ama, ma soprattutto i suoi destinatari, cercando la sua percezione piena. Per ciò, non perché in Dio l’Amore sia opposto alla sua Sapienza e Potenza (s’identificano nella assoluta semplicità della sua Perfezione), ma a causa della nostra possibilità di percezione dell’amore, nella quale si oppongono, Dio ha voluto “condiscendere” con la nostra limitata comprensione umana, e così, si è svuotato da tutto quello che potesse, anche in minima parte, nascondere o diminuire la piena manifestazione del suo Amore. Mai è Dio “così pienamente” Dio (o, detto con più esattezza: mai si manifesta a noi così pienamente come Dio) come quando si svuota, per amore e in nostro favore, della sua onnipotenza e della sua onniscienza; in una parola, di tutto quello che non gli permetterebbe, in maniera vera e reale, essere “uno di noi”.
Questo ci porta ad una conclusione estremamente paradossale: qualsiasi intento di negare, o anche di sminuire, la radicale umanità di Gesù Cristo, va contro la sua Divinità, contro la sua “Volontà” –e anche contro la sua Onnipotenza!- che vuole condividere pienamente la nostra esistenza umana, nella sua identità personale di Figlio di Dio (in nessun momento possiamo dimenticare che è Dio stesso Chi, in Cristo, diventa Uno di noi!).
Qui possiamo riprendere quanto detto a proposito della Grazia, cioè, che tutto questo piano meraviglioso dell’epifania dell’Amore di Dio spera una risposta da ognuno di noi; anzi: la brama. Vorrei finire con una affermazione di “sapore salesiano”, intenzionalmente provocatoria: quando il Padre, per opera dello Spirito Santo, invia il suo Figlio nel mondo, gli da questa missione: Studia di farti amare!
5. “non basta amare”: il Sistema Preventivo
Nell’articolo sul Sistema Preventivo, la nostra Regola di vita conclude con quest’affermazione: “Esso permea le nostre relazioni con Dio, i rapporti personali e la vita di comunità, nell’esercizio di una carità che sa farsi amare” (Cost. 20; cf. anche Cost. 15).
Prima di far riferimento, almeno in maniera sintetica, ad alcuni aspetti di questa dimensione centrale del nostro Carisma, vorrei riprendere alcuni brani del discorso che il Cardinale Lucido Maria Parocchi, Vicario di Roma, pronunciò nell’1884, in occasione di un viaggio di Don Bosco a Roma, durante la costruzione della Basilica del Sacro Cuore, e del quale il nostro Rettor Maggiore, citandolo (ACG 394, pp. 35-36), dice: “Se non fosse per alcuni termini obsoleti, potrebbe essere scambiata (la citazione) per contemporanea” (p. 35).
“Intendo di parlarvi di ciò che distingue dalle altre la vostra Congregazione (…) Come in ogni uomo, che Dio mette al mondo, impronta una nota che lo contraddistingue da tutti gli altri uomini, così pure (…) ogni Congregazione Religiosa Dio impronta con una nota, con un carattere, con un suggello, che la distingue dalle altre Congregazioni (…) La Vostra Congregazione pare che risponda a quella di s. Francesco dal lato della povertà, ma la vostra povertà non è quella dei Francescani. Pare che risponda a quella di s. Domenico, ma voi non dovete sostenere la fede contro le preponderanti eresie (…) perché precipuo vostro scopo è l’educazione della gioventù. Pare che risponda a quella di s. Ignazio nella scienza per il numero grande di opere che date alla luce pel popolo, e don Giovanni Bosco è uomo di grande ingegno, di profondo sapere, e dotto in variate discipline; ma però non abbiatelo a male, se io dico che non siete voi che avete inventato la pietra filosofale. Che cosa dunque di speciale vi sarà nella Congregazione Salesiana? (…) Se ne ho ben compreso, il suo scopo, il suo carattere speciale, la sua fisionomia, la sua nota essenziale, è la Carità esercitata secondo le esigenze del nostro secolo: Nos credidimus caritati; Deus caritas est, e si rivela per mezzo della Carità. Il secolo presente soltanto colle opere di Carità può essere adescato, e tratto al bene (…) Dire agli uomini di questo secolo: Bisogna salvare le anime che si perdono (…), gli uomini di questo secolo non capiscono. Bisogna, quindi, adattarsi al secolo, il quale vola terra terra (…) Al secolo presente, (Dio) si fa conoscere colla Carità: Nos credidimus caritati. Dite a questo secolo: vi tolgo i giovani dalle vie perché non siano colti sotto i tramvai (…) li raduno nelle scuole per educarli perché non diventino il flagello della società, non cadano in una prigione; (…) e allora gli uomini di questo secolo capiscono ed incominciano a credere: et nos cognovimus et credidimus caritati, quam habet Deus in nobis (MB XVII, 92-94).
Tra l’altro, vorrei sottolineare alcuni elementi.
1. Nel realizzare la missione salesiana, in quanto segni e portatori dell’Amore di Dio per i giovani più poveri ed abbandonati, Don Bosco è pienamente cosciente della necessità che questo Amore sia espresso e manifestato, in maniera che possa essere percepito al massimo da loro (anche se non lo dice con queste stesse parole). Nel sogno che viene raccontato nella “Lettera da Roma”, lo vediamo con piena chiarezza: il lamento dei suoi interlocutori, riguardo ai salesiani e ai suoi collaboratori, non si riferisce alla mancanza di amore per i giovani, ma neanche alla mancanza dell’espressione di esso: infatti, Don Bosco dice: “Non vedi come sono martiri dello studio e del lavoro? Come consumino i loro anni giovanili per coloro che ad essi affidò la Divina Provvidenza?” Quello che manca è, in realtà, la manifestazione di questo amore, e così viene espresso: “Manca il meglio (…) Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati (…) Senza famigliarità non si dimostra l’amore, e senza questa dimostrazione non vi può essere confidenza”. In questa lettera si riprende questo stesso rapporto tra l’espressione e la manifestazione: “Trascurando il meno, perdono il più, e questo più, sono le loro fatiche”.
2. La motivazione che ci dà il nostro Padre non nasce soltanto dal suo genio pedagogico, ma è pienamente evangelica: “Gesù Cristo si fece piccolo coi piccoli e portò le nostre infermità. Ecco il Maestro della famigliarità (…) Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani (…) Gesù Cristo non spezzò la canna già fessa, né spense il lucignolo che fumava. Ecco il vostro modello!” È il “farci compagni di strada” dei nostri giovani e camminare con loro, come ha fatto Gesù risorto con i discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24, 13-35).
Contemplando Gesù Cristo, Buon Pastore, con lo sguardo di Don Bosco, possiamo dire che l’espressione del suo amore è la ricerca instancabile della pecorella smarrita, la “prediletta” proprio per la sua situazione di abbandono e di pericolo; e la sua manifestazione è il metterla amorevolmente sulle sue spalle…
Qui troviamo, senza dubbio, in grande maniera l’influsso di san Francesco di Sales, che portò Don Bosco a prenderlo come modello e patrono, fin dall’inizio della sua missione, e in particolare quella notte memorabile del raduno annunziato un giorno prima, nella solennità dell’Immacolata Concezione di Maria: il 9 dicembre 1859, in cui annunziò essere arrivato “il momento per dichiarare se volevano o non volevano ascriversi alla Pia Società che avrebbe presso, anzi conservato, il nome da S. Francesco di Sales” (cfr. MB VI, 333-337). Convocò i primi Salesiani a realizzare quella “pratica di carità pastorale” “per la gioventù abbandonata e pericolante”… Si tratta dell’amorevolezza come manifestazione dell’amore salvifico di Dio (cfr. Cost. 15).
3. Le parole del Cardinale Parocchi centrano la caratteristica della missione di Don Bosco nella capacità di concretizzare l’Amore di Dio in maniera che, cercando di rispondere in pienezza ai bisogni autentici e più profondi dei giovani, questi si sentano amati realmente ed in maniera efficace da Dio, attraverso la mediazione salesiana.
Questo vuol dire che, se vogliamo essere veramente fedeli a Don Bosco e alla nostra missione, dobbiamo avere in ogni momento questo atteggiamento di discernimento, come indicano le nostre Costituzioni: “Le necessità dei giovani e degli ambienti popolari (…) muovono e orientano la nostra azione pastorale” (Cost. 7); e anche: “La nostra azione apostolica si realizza con pluralità di forme, determinate in primo luogo dalle esigenze di coloro a cui ci dedichiamo” (Coct. 41). Potrebbe accadere che certe attività e opere, che sono state indubbiamente espressione di amore pastorale, non siano più manifestazione di esso: diventano carismaticamente irrilevanti. In conseguenza, dobbiamo dire (senza nessun’intenzione di cambiare il senso della frase di Don Bosco) che “non basta amare”: ricordando quello che san Paolo chiedeva a Dio per i suoi cari filippesi, il nostro amore deve crescere, sempre di più, nel discernimento e nella percezione (ςςFlp 1, 9). D’altra parte, potrebbe esistere anche il pericolo contrario, cioè: una manifestazione dell’amore che non portasse anche la sua espressione: sarebbe falsa (“figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità”: 1 Gv 3, 18) o, al meno, inefficace (cfr. Gc 2, 15-18).
4. Rievocando il CG 25, considero che anche una grande sfida per la nostra vita salesiana è costituita dal mettere in pratica questo tratto fondamentale del sistema preventivo… nella nostra vita di comunità. Troppe volte dimentichiamo che “Dio ci chiama a vivere in comunità, affidandoci dei fratelli da amare” (Cost. 50); e, senza dubbio, da essere amati da loro, in maniera che, rispecchiando il Mistero della Trinità, troviamo veramente in essa “una risposta alle aspirazioni profonde del cuore”, che non sono altre di quelle di amare e di essere amati; soltanto così diventeremo, “per i giovani segni di amore e di unità” (Cost. 49). Nessuno dà quello che non ha…
Ma ancor di più: non basta amare i nostri fratelli in comunità; è necessario manifestare questo nostro amore, in maniera che sia percepito, e corrisposto. Questa sfida è più urgente nella vita ordinaria, così affrettata, che ci fa dimenticare che la significatività non consiste nella quantità di lavoro fatto, ma nella sua qualità. Se manca questo, non possiamo diventare segni e portatori dell’Amore di un Dio che è, in Sé stesso, Comunità…
5. Finalmente, vorrei sottolineare un tratto che riprenderemo parlando di Don Bosco: la frase programmatica “studia di farti amare” chiude in maniera perfetta l’elisse dell’amore, nella sua realizzazione personale, comunitaria e apostolica. Possiamo citare a questo riguardo l’affermazione straordinaria di Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Quaresima 2007: “In verità, solo l’amore in cui si uniscono il dono gratuito di sé e il desiderio appassionato di reciprocità infonde un’ebbrezza che rende leggeri i sacrifici più pesanti”.
PREGHIERA – MANIFESTAZIONE DELL’AMORE
Signore, Dio nostro,
Padre, Figlio e Spirito Santo:
quanto sei grande!
Contempliamo con ammirazione e stupore
il Mistero della tua Vita Trinitaria:
tu sei, da sempre e per sempre, l’Amore perfetto.
Hai voluto far partecipe della tua Vita e del tuo Amore
l’essere umano, tutte le donne e tutti gli uomini di questo mondo,
perché, nell’esperienza dell’essere amati e imparando ad amare,
possiamo assomigliarci sempre di più a Te,
e poter così un giorno vivere per sempre la tua stessa Vita.
Ancor di più:
hai voluto manifestarci il tuo Amore, una volta per sempre,
nel tuo Figlio, la Parola fatta Carne, Gesù Cristo nostro Signore.
Lui, che è Dio, spogliò se stesso diventando uno di noi,
condividendo in pienezza la nostra stessa vita,
fino a portare questo amore all’estremo: morire e risuscitare per noi.
Hai affidato alla Chiesa il compito meraviglioso
di continuare la stessa missione del tuo Figlio:
far presente e visibile, per gli uomini e le donne di ogni tempo e luogo,
il tuo Amore e la tua Salvezza.
Hai suscitato la Congregazione Salesiana
come animatrice di un grande movimento nella Chiesa
perché ai giovani, soprattutto ai più poveri ed abbandonati,
possa arrivare la piena manifestazione della tua predilezione per loro.
Ti preghiamo, Padre,
di farci non soltanto il dono di un amore incondizionato per loro,
ma anche il saper manifestare loro questo Amore
nelle forme e nelle opere in cui possono meglio sperimentarlo
e credere in Te, Fonte di ogni amore.
Fa’ che nelle nostre comunità possiamo vivere,
nell’unità dell’amore fraterno,
il Mistero della tua Unità trinitaria.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
GRATUITÀ - GRAZIA - EUCARISTIA
La nostra riflessione si centra su uno dei termini più utilizzati nella fede cristiana e nella teologia: la GRAZIA. È una di quelle parole che, come d’altra parte è anche epifania, abbracciano la totalità del Mistero Cristiano da una prospettiva specifica. Purtroppo è anche, infelicemente, una delle utilizzate in modo peggiore: anche perché corruptio optimi, pessima. Anzitutto perché viene dimenticato molto sovente che la Grazia non è “qualcosa”, ma Qualcuno: Dio stesso. Questo ci porta a considerarla quasi come un oggetto, una cosa (così parliamo delle “diverse grazie”). D’altra parte, abbiamo anche dimenticato molte volte il suo carattere di gratuità, considerandola persino, nel nostro rapporto con Dio, come dipendente più da noi che da Lui: in concreto, “l’essere” (o non-essere) “in Grazia”, conservarla, farla crescere o perderla; quando, in realtà, possiamo perdere tutto… tranne la Grazia, intesa come quell’amore gratuito e incondizionato con cui Dio si dona a noi.
1. La perdita del senso della Gratuità
Dopo questa motivazione teologica iniziale, un po’ provocatoria, vorrei invitarvi a prendere come punto di partenza la realtà umana che sta alla base della gratuità, non perché possiamo costruirla prima “dal basso”, e poi soltanto “battezzarla” assumendola cristianamente. Piuttosto, al contrario, è soltanto dalla fede possiamo comprendere e scoprire tutta la profondità, anche umana, della gratuità. Nonostante ciò, come salesiani che vogliamo mettere in pratica la nostra convinzione, che non esiste separazione tra natura e grazia, vogliamo approfondire la sua “infrastruttura antropologica” anche per constatare il “deficit di gratuità” nel quale vive oggi il nostro mondo.
Ci sarebbero molti segni che indicano questa carenza; tra di essi, farò una piccola allusione a tre, particolarmente significativi per noi.
1. Nella cultura occidentale, in proporzione non irrilevante, il modello di “uomo riuscito” è quello che può dire, con orgoglio: “tutto quello che ho, io l’ho potuto ottenere da me stesso”; “non mi hanno regalato niente”… In conseguenza, molte persone che sono state capaci di costruire con successo la loro vita “dal basso” diventano poi i nemici più accaniti contro la promozione dei più bisognosi, considerando (forse un po’ pelagianamente) che “tutti hanno le stesse opportunità; se non hanno saputo sfruttarle, peggio per loro; perché si dovrebbe ‘regalare’ loro qualcosa?” In questa prospettiva, la gratuità non trova posto; anzi, non è considerata neanche una virtù. A questa tendenza naturale dell’essere umano viene aggiunto nella mentalità odierna, per disgrazia, un paradigma di “realizzazione umana” ridotto, abitualmente, alla produttività economica o materiale.
2. Nell’ambito familiare è significativo il trattamento che diamo alle persone anziane o malate, a quelli, cioè, che non possono più “produrre”. Diversamente dalle culture ancestrali, nelle quali le persone anziane erano valutate come l’asse del gruppo familiare e persino come il “saggio” la cui parola era norma di condotta e giudizio inappellabile, nella cultura attuale molte volte sono viste purtroppo come un intralcio, e nel migliore dei casi sono inviate in centri assistenziali o case di cura. Se non ci sono queste risorse istituzionali, si deve “sopportarle” in casa, senza valutare quello che hanno dato, e anche quello che potrebbero dare, se i criteri di valutazione fossero più umani e meno consumistici. Purtroppo, queste situazioni talvolta si fanno presenti anche nella vita religiosa.
3. A livello mondiale, la situazione di disuguaglianza tra i paesi così chiamati di “primo mondo” e i paesi “di terzo mondo” è inaccettabile, ma in alcuni aspetti continua a crescere. La proposta di un “condono del debito” che hanno i paesi poveri, tranne qualche eccezione, non ha avuto ascolto; frequentemente, dobbiamo anche dirlo, questo non è tanto un problema economico da parte dei paesi “ricchi”, ma soprattutto politico: serve per conservare la situazione di dipendenza provocata dallo stesso debito. Lo stesso concetto di “giustizia” inteso come “dare a ognuno quello che si merita” non lascia spazio alla gratuità; anche se, indubbiamente, molte cose potrebbero migliorare nel nostro mondo se almeno ci fosse questo tipo di giustizia, se la norma di condotta tra le persone e le nazioni fosse… la legge del taglione. Questo indica che manca ancora molta strada da percorrere per arrivare alla civiltà dell’amore; concretamente, questa sarà impossibile se non cerchiamo di svegliare e sviluppare un senso e una cultura della gratuità.
2. La Gratuità, realtà umana fondamentale
Dopo quello che è stato detto, si potrebbe pensare di fare un passaggio immediato verso la prospettiva cristiana e teologica, lasciando a livello antropologico un vuoto totale, dando così l’impressione che la proposta di fede è soltanto risposta a un problema umano insolubile. Forse in fondo così accade, ma non dobbiamo ignorare quello “spazio intermedio” dove tutti gli esseri umani (anche i non cristiani!) possono e devono fare esperienza di gratuità, in maniera che la fede cristiana possa poi sviluppare tutta la sua ricchezza, come pienezza di qualcosa che ogni essere umano vive e spera.
La gratuità è intimamente connessa con l’esperienza del dono, del regalo. Nonostante ciò, ha connotazioni leggermente diverse. La gratuità sottolinea l’assenza di meriti da parte di chi riceve: altrimenti, non è gratuito. Lo stipendio che riceve un lavoratore alla fine della settimana, lo ha guadagnato con il sudore della sua fronte: non lo riceve gratis.
Invece, il dono sottolinea il carattere positivo di quello che vi viene dato. Un colpo, per esempio, è possibile che ci venga “dato” senza meritarlo: ma non è in assoluto un regalo. Purtroppo, abitualmente, senza quasi renderci conto, attribuiamo un’altra caratteristica al dono: quella di essere selettivo; viene concesso ad alcuni, e non ad altri (almeno, non a tutti). Un “regalo universale” sembra quasi contraddittorio, perché ci sembra che non sia più regalo 17.
Fatte queste precisazioni, analizziamo, ancora a livello umano, le due esperienze fondamentali di gratuità.
1. Quella difficoltà menzionata appena sopra impedisce, molte volte, di percepire che alla base stessa della nostra esistenza c’è un dono che, proprio per quello, è allo stesso tempo gratuito, positivo e universale: la vita. Si tratta del dono per eccellenza, per due motivi:
nessuno può fare niente per meritarla, perché, per meritare qualche cosa, è necessario prima esistere, per poterla ottenere;
qualsiasi altro dono che possiamo ricevere è posteriore, perché presuppone ormai la vita stessa.
E finalmente, conviene sottolineare la sua universalità, perché é carente di essa solo chi non vive (dunque, nessuno).
Per questo, diventa molto interessante e significativo l’atteggiamento che abbiamo riguardo alla domanda che, molte volte, sorge di fronte a situazioni particolarmente negative della vita e della storia: ci sono persone che non meritano di vivere?
M’immagino che la nostra risposta, unanime, sia: no! Ed è una risposta corretta, ma forse per la ragione opposta a quella a cui siamo abituati a pensare: non perché tutti abbiamo il diritto alla vita, ma in realtà perché nessuno “merita” la vita: proprio per quello nessuno può disporre della vita di un’altra persona… Forse nel caso di un diritto che “si ha”, si potrebbe perdere; ma nel caso contrario?
Troviamo, dunque, alla base di ogni essere umano, senza eccezione, il dono per eccellenza. Un’altra questione, indubbiamente, molto rilevante per noi, come cristiani e come salesiani, è quella se ogni essere umano percepisce la propria vita come un dono, cioè come un regalo - qualcosa di positivo. Purtroppo, molte volte non è così: a cominciare da tanti giovani che, per diverse ragioni, non trovano motivi per vivere, forse perché non si sentono amati da nessuno…
2. Questo ci porta alla seconda esperienza di gratuità. Se la vita è il dono gratuito per eccellenza, lo è in quanto fondamento, non in quanto pienezza, perché la domanda che sorge spontanea è: perché ho questo dono, la vita? Che cosa può dare senso alla mia vita? E qui la risposta è immediata e universale: l’amore. Cediamo la parola a san Tommaso, in un’espressione straordinaria, entro una insuperabile concisione: “La ragione di ogni donazione gratuita è l’amore: infatti diamo gratuitamente qualcosa a qualcuno perché desideriamo per lui il bene. Da questo vediamo chiaramente che l’amore è il dono per eccellenza, per il quale viene regalato ogni dono gratuito” (un triplo pleonasmo!) 18. Josef Pieper colloca questa frase come epigrafe del suo straordinario libro sull’amore 19.
La gratuità dell’amore è un tema inesauribile, anche dal punto di vista umano. In primo luogo, questa gratuità può confondersi con la mancanza di motivazione e, in conseguenza, con la sua incomprensibilità. Perché amo questa persona? È una domanda che rimane sempre, in fin dei conti, senza una risposta adeguata (meno male: se ci fosse quella risposta, forse non sarebbe più autentico amore). È stato detto genialmente da Montaigne, il quale, per spiegare la sua amicizia con Étienne de La Boétie, scrive: « Si on me presse de dire pourquoi je l’aimais, je sens que cela ne se peut exprimer qu’en répondant : Parce que c’était lui, parce que c’était moi »20.
Una seconda caratteristica nell’esperienza dell’amore é l’incondizionalità. Ci possono essere altre forme di rapporto interpersonale che si fondano in diverse qualità: bellezza fisica, intelligenza, abilità, ecc. (alle volte, stranamente, in altri fattori quasi contrari a questi); ma l’amore autentico, senza essere insensibile o indifferente a tutto questo (ubi amor, ibi oculus, diceva Ricardo di san Vittore), trascende tutte queste condizioni.
Nonostante ciò, come ogni esperienza umana, non è carente di ambiguità: potrebbe condurre o a una accettazione incondizionata, tipica del vero amore, o a uno “svuotamento” tale dell’altro (proprio perché non dipende questo rapporto da nessuna delle sue caratteristiche personali proprie) che sarebbe semplicemente una caricatura dell’amore: infatti chi ama così non lo fa veramente, né l’altra persona si sente amata come persona. In molti casi, può essere un sottile stratagemma dell’egoismo. In qualche maniera, sarebbe quello che sant’Agostino esprimeva genialmente nelle sue Confessioni: “Ancora non amavo, ma amavo l’amare” - Nondum amabam, et amare amabam 21.
Si potrebbe continuare questa analisi. Invece, in maniera analoga al tema della manifestazione, è conveniente qui rendere esplicita l’altra dimensione nell’elisse dell’amore. Fin qui l’abbiamo visto come abitualmente si fa, cioè: dall’atteggiamento di chi ama. Come si vive dall’altra parte di questa esperienza?
E qui troviamo qualcosa di straordinariamente paradossale. Il Rettor Maggiore, nella sua Lettera sull’Eucaristia, fa una allusione a questo riguardo (ACG 398, p. 14). Su questa pagina ritorneremo alla fine. Quello che egli qui afferma penso che possiamo arricchirlo con il suo fondamento antropologico.
A prima vista, sembra evidente che tutti vogliamo essere amati, e soprattutto essere amati in maniera gratuita e incondizionata. Nonostante ciò, le cose non sono così semplici. Cedo di nuovo la parola a J. Pieper:
Ogni amore è fondamentalmente gratuito. Non lo si può né meritare né esigere; è sempre puro dono (…) Ma pare che nell’uomo vi sia qualcosa come un’avversione all’essere fatto oggetto di dono. Non vi è nessuno a cui non sia un po’ familiare l’espressione: Non voglio regali! E questo sentimento confina terribilmente con l’altro: non voglio essere ‘amato’, meno che meno poi senza motivo! (…) E C. S. Lewis dice che l’amore, di cui abbiamo veramente bisogno, è proprio quello gratuito, e non già il tipo di amore che noi desideriamo. ‘Noi desideriamo essere amati per la nostra intelligenza, bellezza, generosità, gentilezza, abilità’ 22.
Anche qui percepiamo l’ambiguità di cui parlavamo, soltanto che dall’esperienza passiva dell’essere amati; in questa esperienza, la persona amata potrebbe chiedersi: voglio lasciarmi ‘spogliare’ di tutto quello che mi costituisce come ‘io’ unico e irripetibile? Anche se, in fondo, non è così, o meglio non dovrebbe essere così. Se qualcuno mi dice: “Ti amo, non mi interessa come sei”: è espressione di incondizionalità, o di disinteresse e indifferenza? Basti pensare che dire a un confratello della nostra comunità: ‘sei l’oggetto privilegiato del mio agape’, è una delle forme più sottili e incisive per offenderlo. È molto difficile lasciarsi amare incondizionatamente dagli altri, e persino dallo stesso Dio…
Oltre a questo malinteso, forse c’è un altro motivo che spiega, in qualche maniera, questo rifiuto ad essere amati incondizionatamente: la apparente inutilità della risposta dell’amato. Può sembrare che alla persona che ama non interessi se noi corrispondiamo al suo amore, o meno; e questo la colloca in una situazione innegabile di inferiorità. Ha molta ragione Nietzsche, quando afferma: “A chi si abitua soltanto a dare, si formano calli nelle mani e nel suo cuore”. Dobbiamo affermarlo chiaramente: all’essenza dell’amore corrisponde il dare… e il ricevere, anche in Dio. Questa ultima affermazione sarà posteriormente sviluppata.
3. “La Grazia e la Verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1, 17b)
Ricordando la differenza tra l’espressione e la manifestazione, diventa più chiaro indicare come tutto quello detto sopra diventa, nella vita di ogni essere umano, l’espressione della gratuità dell’Amore di Dio. Nonostante ciò, per essere percepita come tale, è necessaria la sua manifestazione, in Gesù Cristo.
Se presupponiamo questa distinzione, possiamo indicare tre caratteristiche fondamentali dell’Amore divino dalla prospettiva della gratuità:
- l’universalità: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi” (1 Tim 2, 4). Da qui nasce il carattere missionario della Chiesa in senso stretto, e, con sottolineature proprie, della missione salesiana in essa. Personalmente, credo che uno degli elementi che meglio possono aiutare a capire la “necessità” dell’appartenenza alla Chiesa in rapporto alla salvezza è il suo carattere di comunità: dobbiamo prendere sul serio che, fuori dalla Chiesa attuale, non c’è attualmente esperienza piena di salvezza, proprio perché manca la manifestazione concreta, percettibile, storica dell’Amore di Dio in Gesù Cristo, vissuta nella Chiesa come Famiglia di Dio.
- l’iniziativa di Dio: “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi” (1 Gv 4, 10). La Grazia, in quanto espressione gratuita dell’Amore divino, è sempre pre-veniente: precede sempre la risposta umana, la quale, in certa maniera, è anche dono di Dio, ma non esclude in assoluto la libertà umana. In questo senso, diciamolo ancora una volta, il Sistema Preventivo di Don Bosco affonda le sue radici nel midollo della nostra fede: “Don Bosco visse (…) un’esperienza spirituale ed educativa che chiamò ‘sistema preventivo’. Era per lui un amore che si dona gratuitamente, attingendo alla carità di Dio che previene ogni creatura con la sua Provvidenza” (Cost. 20). Nella semantica di questa parola, pre-venire, mi sembra che possiamo trovare due sensi: uno, la pre-cedenza; e un altro, lo sforzo per evitare qualcosa di negativo. Nel primo senso, parliamo dell’amore che antecede sempre; nel secondo, della preoccupazione per impedire l’esperienza dell’allontanamento da Dio, il peccato (perciò, possiamo utilizzare tutti e due termini: pre-veniente, pre-ventivo).
- in fine l’incondizionalità. L’Amore di Dio, in quanto Grazia, non presuppone niente per poter amare, ma mostra persino una predilezione - sconcertante, secondo i criteri umani - per quello che non è “amabile”, per chi non “ha nessun diritto” di pretendere di essere amato. “I peccatori, infatti, sono belli perché sono amati (da Dio), non sono amati perché sono belli” 23.
Non resisto la tentazione di citare un bellissimo testo di Dostoevskij, pronunciato da un personaggio per niente “esemplare”, l’ubriacone Marmeladov:
“E tutti giudicherà e perdonerà, e i buoni e i cattivi, e i saggi e i mansueti… E quando avrà finito con tutti gli altri, allora apostroferà anche noi: ‘Uscite’ dirà ‘anche voi! Uscite, ubriaconi, uscite, deboli, uscite, uomini senza onore!’ E noi usciremo tutti, senza vergogna, e ci metteremo ritti dinanzi a Lui. E dirà: ‘Porci siete! Con l’effigie della bestia e la sua impronta; ma venite anche voi!’ E l’apostroferanno i saggi, l’apostroferanno coloro che hanno giudizio: ‘Signore! Perché mai accogli anche costoro?’ E dirà: ‘Li accolgo, saggi, li accolgo, voi che avete giudizio, perché non uno di loro s’è ritenuto degno di ciò…’ E tenderà verso di noi le braccia Sue, e noi cadremo in ginocchio… e scoppieremo in pianto… e tutto capiremo!”24
4. L’Amore di Dio, Agape e Eros
L’esperienza che l’uomo fa dell’amore, anche dell’Amore di Dio, è un’esperienza umana. In quanto tale, non può liberarsi dell’ambiguità inerente ad ogni captazione dell’amore. Per disgrazia, molte volte accade questo: l’universalità dell’Amore di Dio può essere considerata genericismo, la sua precedenza può essere così lontana che passa inavvertita, e la sua incondizionalità può confondersi con l’indifferenza. L’evangelizzazione e la catechesi, proprio in quanto annuncio della manifestazione dell’Amore divino, devono fare il possibile per dissipare questi malintesi, perché possa essere percepito, in tutta la sua bellezza ed efficacia, nella vita di ognuno di noi e dei giovani che il Signore ci affida.
Di tutti questi malintesi, vorrei approfondirne uno, che mi sembra un campo praticamente inesplorato. Da quello che io conosco, l’unico che ha osato penetrare in esso è stato Joseph Ratzinger, ed è consolante che lo abbia fatto essendo il Pastore supremo della Chiesa Universale. Purtroppo, anche i grandi trattatisti hanno dato per supposto che l’Amore di Dio è diverso dall’amore umano, tra altri tratti, per la sua totale ed assoluta gratuità, in maniera tale che non aspetta niente in cambio. J. Pieper afferma, senza pensare che ci sia bisogno di dimostrarlo, che “si dovrebbe essere Dio per essere capaci soltanto di amare, senza esser costretti a ricorrere all’essere amati”25.
Da parte sua, S. C. Lewis scrive: “Dio è Amore (…) Questo Amore originario è un ‘amore-dono’: in Dio non vi è fame che debba essere saziata, ma solo pienezza che desidera donare (…) Gli ‘affetti-bisogno’, per quanto ho potuto sperimentare, non assomigliano a Colui che è l’amore stesso” 26.
Quasi in maniera letterale vengono contraddetti dal Papa Benedetto XVI, con termini teologicamente insoliti: “L’Onnipotente attende il ‘sì’ delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa (…) Sulla Croce è Dio stesso che mendica l’amore della sua creatura: Egli ha sete dell’amore di ognuno di noi” (Messaggio per la Quaresima 2007).
Continuando questo sforzo per “imparare” cos’è l’Amore, nella contemplazione della sua manifestazione piena e definitiva in Gesù Cristo, ci domandiamo: Qual è il “caso ottimo” (“figura piena” lo chiama Eberhard Jüngel 27) nell’esperienza dell’amore, riguardo alla gratuità?
Se vogliamo rispondere schematicamente, possiamo stabilire le diverse possibilità:
- Chi ama senza aspettare/sperare nessuna risposta dalla persona amata: è chiaro che non si tratta del “caso ottimo” dell’amore (anche se Jüngel apre una porticella: “Naturalmente, non è da escludersi che l’essenza dell’amore venga in luce ancora più nitidamente dal punto di vista ermeneutico quando il ‘tu’ amato non ama ‘l’io’ amante” 28).
- Chi ama per essere ricambiato: anche qui è evidente che non si dà il “caso ottimo”, e forse neanche si tratti di un vero amore, ma di egoismo mascherato.
- Chi ama in maniera disinteressata, ma aspettando una risposta della persona amata, per il bene di essa stessa: io voglio che la persona amata corrisponda al mio amore, non per il mio bene, ma per il suo: per uscire da se stessa e realizzarsi come persona, attraverso l’amore. È una posizione molto “nobile”, ma dobbiamo riconoscere, se siamo sinceri, che non è umanamente soddisfacente.
- Chi ama in maniera disinteressata, ma aspettando una risposta della persona amata, per il bene di essa stessa, in quanto corrisponde a chi la ama: è apparentemente uguale al precedente, ma c’è una differenza essenziale: la convinzione che la persona amata soltanto potrà trovare la felicità nell’ “amante”. Questo caso sarebbe inaccettabile nelle relazioni umane (“chi ti credi di essere?”) ma, curiosamente, sembrerebbe il caso tipico della relazione con Dio: in quel caso, si tratterebbe della salvezza, bene intesa: soltanto Dio può essere la felicità di chi corrisponde al suo Amore.
- Purtroppo, non siamo ancora nel “caso ottimo”. È necessario aggiungere, alla luce di tutto quello che abbiamo riflettuto, che questa risposta dell’uomo all’Amore di Dio costituisce la piena felicità dell’amato… e anche dell’Amante, Dio stesso. Prendere questo sul serio, mi sembra che ci porti a intravedere, nella penombra del Mistero del Dio-Amore rivelato in Cristo, prospettive insospettabili…
Lo stesso Dostoevskij ha un testo straordinario, a proposito di una giovane madre, che si fa il segno della croce davanti al primo sorriso del suo bambino; la semplice donna lo spiega così: “La gioia che prova la madre quando osserva il primo sorriso della sua creatura, la stessa gioia esattamente la prova anche Dio ogni volta che vede dal cielo un peccatore inginocchiarsi davanti a Lui per pregare di tutto cuore” 29.
5. “Fate questo in memoria di Me”: il dono dell’Eucaristia
Tutto questo ci permette di capire molto meglio l’affermazione del Rettor Maggiore nella sua lettera sull’Eucaristia:
L’Eucaristia è mistero perché in essa ci è svelato tanto amore (cfr. Gv 15, 13), un amore così divino che, oltrepassando le nostre capacità, ci sopraffa e ci lascia sbalorditi. Anche se non sempre ne siamo consapevoli, di solito troviamo difficoltà a ricevere il dono dell’Eucaristia, l’Amore di Dio reso manifesto nella consegna del corpo di Cristo (cfr. Gv 3, 16), che eccede la nostra capienza e sfida la nostra libertà; Dio è sempre più grande del nostro cuore ed arriva dove non possono i nostri migliori desideri (…) Un amore tanto estremo ci spaventa, svela la povertà radicale del nostro essere; il bisogno profondo di amare non ci lascia tempo, né energie, per lasciarci amare. E, così, preferiamo essere indaffarati, rifugiarci nel fare tanto per gli altri e dare loro tanto di noi, e ci priviamo dello stupore di saperci tanto amati da Dio (ACG 398, p. 14).
Evidentemente, il Rettor Maggiore riprende qui alcuni contenuti ed espressioni dell’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis, che tutti noi, senz’altro, conosciamo ed abbiamo meditato.
Tra molte altre riflessioni possibili, vorrei centrarmi anzitutto nella radice stessa della parola Eucaristia: troviamo qui di nuovo la ς, che sottolinea al massimo il suo senso di gratuità, in quanto non troviamo qui “un” dono di Dio, ma lo stesso Dio fatto Dono per noi. Quello che il Papa afferma, all’inizio della sua prima enciclica, Deus caritas est: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (DCE, n. 1), si concretizza nell’Eucaristia (cfr. Sacramentum Caritatis n. 86 et passim): “Gesù nel Sacramento eucaristico continua ad amarci ‘fino alla fine’, fino al dono del suo corpo e del suo sangue. Quale stupore deve aver preso il cuore degli Apostoli di fronte ai gesti e alle parole del Signore durante quella Cena! Quale meraviglia deve suscitare anche nel nostro cuore il Mistero eucaristico!” (SC, n. 1).
In secondo luogo, conviene ricordare che l’ultima Cena, in quanto tale, si vede preceduta da molte altre (altrimenti, non sarebbe “l’ultima”). Il Rettor Maggiore ci ricorda questo senso di “convivio” che è l’Eucaristia, prendendo come punto di partenza il “mangiare insieme” da parte di Gesù, in particolare con i peccatori. Basta ricordare, tra altri testi evangelici, Mt 9, 9-13; Lc 5, 29-30; 15, 1ss. (ACG 398, p. 33-35).
Sorge una domanda interessante: quale Sacramento della Chiesa trova qui il suo “fondamento cristologico”: l’Eucaristia o la Riconciliazione? Penso che la risposta dovrebbe essere: tutte e due, in maniera inseparabile. Non si può dimenticare che il perdono costituisce un elemento centrale nella vita e nella missione di Gesù, come espressione privilegiata dell’Amore misericordioso di Dio. Anzi, soltanto nell’Amore può avere la sua autentica radice. Questo lo possiamo vedere anche attraverso l’analisi etimologico della parola; almeno nelle lingue occidentali, la sua radice è semplicissima: donare, regalare, con un prefisso intensivo per (anche nel campo linguistico anglosassone: for-give, ver-geben). In altre parole, non c’è un dono più grande e più gratuito che il per-dono; e, ricordando la frase di san Tommaso, non c’è autentico perdono che non nasca dall’amore.
Tutto questo può avere, tra molte altre concretizzazioni, una che si riferisce alla nostra vita comunitaria. Nell’Eucaristia “la comunità vi celebra il mistero pasquale (…) per costruirsi in Lui come comunione fraterna e rinnovare il suo impegno apostolico” (Cost. 88). Prendere sul serio l’Eucaristia dovrebbe portarci a crescere nella fraternità comunitaria (includendo la realtà quotidiana del perdono) e accettando il comandamento di Gesù: Fate questo in memoria di Me: essere, anche noi, corpo che si dona, sangue che si versa per la salvezza dei nostri giovani.
Infine, vorrei invitarvi a contemplare la Madonna. Non c’è bisogno di “inventarci” presenze apocrife nell’Ultima Cena (neanche, ugualmente, apparizioni pasquali): Giovanni Paolo II allude a questo, indicando che, “nel racconto dell’istituzione, la sera del Giovedì Santo, non si parla di Maria” (EdE, n. 53). Non c’è bisogno. “Al di là della sua partecipazione al Convito eucaristico, (…) Maria è donna ‘eucaristica’ con l’intera sua vita” (ibidem). “Da Lei dobbiamo imparare a diventare noi stessi persone eucaristiche ed ecclesiali” (SC, n. 96).
Dopo l’esplicitazione di questa affermazione nei diversi testi neotestamentari, il Servo di Dio conclude: “Se il Magnificat esprime la spiritualità di Maria, nulla più di questa spiritualità ci aiuta a vivere il Mistero eucaristico. L’Eucaristia ci è data perché la nostra vita, come quella di Maria, sia tutta un Magnificat!” (EdE, n. 58).
PREGHIERA: GRATUITÀ-GRAZIA-EUCARISTIA
Signore Dio, Padre nostro,
Tu vivi da sempre e per sempre,
con il Figlio e lo Spirito Santo
nella pienezza dell’Amore e della mutua donazione.
Hai voluto creare l’essere umano
a tua immagine e somiglianza.
Nel tuo meraviglioso progetto di salvezza,
hai disposto che ogni donna e uomo
possa fare esperienza del tuo Amore
fin dal primo momento della sua esistenza,
imparando così anche ad amare Te e il prossimo.
Purtroppo, noi uomini abbiamo rifiutato il tuo Amore,
fin dall’inizio della storia,
e di conseguenza siamo diventati nemici anche tra noi stessi.
Nonostante tutto, Tu non ci hai abbandonato,
e in Gesù Cristo, tuo Figlio, senza nessun merito da parte nostra,
ci offri il tuo Amore gratuito e incondizionato.
Gesù stesso ha voluto rimanere per sempre con noi,
per perpetuare il suo Amore e la sua consegna fino alla morte,
nel sacramento dell’Eucaristia.
Concedici il poter contemplare, con cuore di bambino
che non si stanca mai di ammirare e ringraziare,
questo Mistero insondabile del tuo Amore,
così che anche noi possiamo diventare Eucaristia
per i nostri fratelli, e per i giovani che Tu ci affidi.
Ti preghiamo: in questo mondo, così chiuso al tuo Amore e alla tua Grazia,
aiutaci a saper costruire una cultura della Gratuità,
che permetta di crescere nei rapporti di fraternità e di amore
tra tutti gli uomini,
sentendoci amati da Te come veri figli e figlie, in Cristo,
e possiamo così corrispondere al tuo Amore,
trovando, in questa risposta, la nostra felicità e la nostra salvezza.
Per Cristo nostro Signore.
Amen.
PREGHIERA
I GIOVANI PIÙ POVERI E ABBANDONATI
Signore Gesù,
che ci inviti a condividere la tua Missione di Buon Pastore,
per attendere la porzione più preziosa e delicata della società umana,
i giovani più poveri ed abbandonati,
come hai fatto con il nostro Padre e Fondatore Don Bosco,
aiutaci ad essere fedeli a questa missione,
nella cui realizzazione troveremo il cammino della nostra santità.
Fa’ che possiamo manifestare una preoccupazione amorevole ed efficace
Verso i giovani più bisognosi ed emarginati,
che, come Buoni Pastori,
possiamo conoscerli e chiamarli per nome,
facendoli sentire loro la dignità di esseri umani,
nel sapersi amati con predilezione da Te.
Fa’ che possiamo offrire una promozione integrale
che permetta loro diventare onesti cittadini e buoni cristiani,
in modo che, seguendo il tuo esempio,
siamo capaci di offrire per essi tutto il nostro tempo, le nostre energie,
e persino la nostra vita,
in un servizio disinteressato e generoso.
Donaci, Signore, in questo Capitolo Generale,
la luce e la forza del tuo Spirito,
per fare una lettura adeguata della situazione dei nostri destinatari
e discernere i loro bisogni umani e cristiani più profondi,
così che possiamo realizzare la Missione salesiana
nella diversità di situazioni in cui lavoriamo come Congregazione,
per essere, in questa maniera,
fedeli a Te e fedeli ai giovani, come è stato sempre Don Bosco.
Concedici la capacità di porre tutte le nostre strutture e opere,
cominciando da noi stessi,
al servizio dei giovani più bisognosi,
con la certezza incrollabile della fede,
con la gioia della speranza
e la radicalità dell’amore,
perché, diventando mediatori della tua presenza salvifica in mezzo loro,
“abbiano vita, e la abbiano in abbondanza”.
Amen.
“RIPARTIRE DA DON BOSCO”
Verso la fine dei nostri Esercizi Spirituali, vogliamo vivere in chiave di preghiera e di incontro con Dio quello che costituisce la finalità principale del nostro Capitolo: ripartire da Don Bosco, per risvegliare il cuore di ogni salesiano, per ritornare ai giovani con una identità carismatica rinnovata e una più ardente passione apostolica (cfr. Lettera del Rettor Maggiore, ACG 394).
1. “Il Signore ci ha donato Don Bosco come padre e maestro” (Cost. 21)
Questo “ripartire da Don Bosco”, non consiste, evidentemente, in un “ritorno del figlio prodigo verso la casa paterna”: in realtà, mai siamo andati via dalla nostra Casa, dal nostro Carisma. Ciò nonostante, ci sono elementi oggettivi che ci spingono a rinnovare e progettare la nostra fedeltà a Don Bosco e al Carisma Salesiano, di fronte alle nuove sfide della storia e dei giovani. Nella Lettera di Convocazione del CG, il Rettor Maggiore ci dice: “Oggi più che ieri e domani più di oggi, c’è il grave rischio di spezzare i legami che ci tengono uniti a Don Bosco. Siamo ad oltre un secolo dalla sua morte. Sono ormai decedute le generazioni di salesiani che erano venute a contatto con lui e lo avevano conosciuto da vicino. Aumenta il distacco cronologico, geografico e culturale dal fondatore. Viene a mancare quel clima spirituale e quella vicinanza psicologica, che consentivano uno spontaneo riferimento a Don Bosco e al suo spirito” (ACG 394, p. 9).
D’altra parte, non è necessario dire che non è la mia intenzione fare una “sintesi” di Don Bosco: oltre all’impossibilità oggettiva di farlo, di fronte a una figura così grande e ricca come la sua, sarei il meno indicato a fare ciò. Tutti noi conosciamo troppo bene il nostro Padre. Come potrei pretendere dire cose “nuove”?
Comunque, vorrei prendere come punto di partenza proprio questa grandezza straordinaria di Don Bosco, che riempie il nostro cuore con un legittimo orgoglio, ma che non è priva di rischi. Uno di questi, concretamente, sarebbe perderci nella complessa molteplicità di tratti, che potrebbe persino impedirci vedere l’essenziale della sua persona e del Carisma che, per mezzo di lui, lo Spirito Santo ha donato alla Chiesa e all’umanità. Come dice il proverbio, alle volte “gli alberi ci impediscono vedere il bosco”. Come semplicissimo esempio, ricordiamo di quante professioni e attività umane è patrono Don Bosco per sottolineare, anche in questa maniera, il carattere poliedrico della sua personalità.
Parlando di san Francesco d’Assisi, il geniale scrittore inglese G. K. Chesterton dice che, alle volte, si è voluto interpretare il suo profilo di santità nelle più diverse maniere: da iconoclasta fino a patrono dell’ecologia, dimenticando quello che è più importante, e che da senso a tutte le altre dimensioni: il suo innamoramento di Cristo: quello che lui fa, soltanto lo fa un pazzo… o un innamorato. E aggiunge, con la sua abituale ironia, che questi interpreti procedono come chi volesse scrivere una biografia di Amundsen, con una unica limitazione: non poter parlare, per niente, dei Poli (nord e sud). Se vogliamo fare un paragone più attuale, possiamo dire: scrivere la biografia di Pelé o di Maradona, con la sola proibizione di fare qualsiasi allusione… al calcio!
In questa stessa Lettera Don Pascual ci ricorda con chiarezza: “Alla base di tutto, quale sorgente della fecondità della sua azione e della sua attualità, c’è qualcosa che spesso ci sfugge: la sua profonda esperienza spirituale, quella che si potrebbe chiamare la sua ‘familiarità’ con Dio. Chissà che non sia proprio questo il meglio che di lui abbiamo per invocarlo, imitarlo, metterci alla sua sequela per incontrare Cristo e farlo incontrare ai giovani!” (ACG 394, p. 12).
Una testimonianza non molto conosciuta che troviamo nelle Memorie Biografiche, illustra queste parole del Rettor Maggiore.
Nella visita fatta da Don Bosco al Seminario di Grenoble, in Francia,
“Nell’ora della lettura spirituale che precedeva immediatamente la cena, […] si unì ai seminaristi per il pio esercizio; ma quella volta il leggere venne sostituito da una esortazione di Don Rua. Questi prese a ragionare sul tema dell’amor di Dio per noi. Scrive uno che fu presente: ‘Le sue ardenti parole rivelavano in lui un’anima infocata. Più che meditazione era contemplazione, ma per il Santo diventò estasi. Grosse lacrime gli rigavano le guance e il Superiore, come se n’avvide, con la sua voce dolce e simpatica disse forte: - Don Bosco piange. – È impossibile esprimere l’emozione prodotta nelle nostre anime da quella semplice parola. Le lacrime del Santo furono ancor più possenti che gl’infiammati sospiri di Don Rua. Noi ci sentimmo profondamente scossi e riconoscemmo la santità al segno dell’amore, né avevamo più bisogno di miracolo per manifestare al Santo la nostra venerazione, mente di là s’andava nel refettorio’” (MB XVIII, p. 131).
In questo senso, “ripartire da Don Bosco” altro non è che crescere in quello che costituisce la nostra identità cristiana: la centralità di Dio nella nostra vita, quello che il nostro santo Fondatore ha scritto nel primo articolo delle Costituzioni originali: “Il fine della Società Salesiana è che i soci, mentre si sforzano di acquistare la perfezione cristiana, esercitino ogni opera di carità spirituale e corporale verso i giovani, specialmente i più poveri”. È cercare sempre quella “misura alta” della vita cristiana e consacrata: la santità, nell’esperienza del triplice atteggiamento teologale, che ci faccia vivere sempre di più come lui ha vissuto “come se vedesse l’Invisibile” (Cost. 21).
A questo riguardo, la canonizzazione di Don Bosco in quanto Fondatore, lo sappiamo bene, ha un senso che va più in là della semplice verifica dell’eroicità delle sue virtù o della prova di un intervento straordinario di Dio attraverso i miracoli. È quello che afferma, con piena chiarezza, Vita Consecrata: “Quando la Chiesa riconosce una forma di vita consacrata o un Istituto, garantisce che nel suo carisma spirituale e apostolico si trovano tutti i requisiti oggettivi per raggiungere la perfezione evangelica personale e comunitaria” (VC, n. 93). In questa stessa linea si trova l’affermazione dell’articolo primo delle nostre Costituzioni: “La Chiesa ha riconosciuto in questo l’azione di Dio, soprattutto approvando le Costituzioni e proclamando santo il Fondatore” (Cost. 1).
“Cari Salesiani, siate santi”, ci invitava il Rettor Maggiore nella sua prima Lettera, elencando, inoltre, le caratteristiche di questa santità salesiana (cfr. ACG 379, pp. 8-10). La Lettera intera è un invito ad accettare questa sfida; la nostra santificazione, infatti, “è ‘il compito essenziale’ della nostra vita, secondo l’espressione del Papa. Raggiunto questo, tutto è raggiunto; fallito questo, tutto è perduto, come si afferma della carità (cfr. 1 Cor 13, 1-8), essenza stessa della santità” (ibid., p. 11).
Don Bosco ci invita, anzitutto, a camminare nella santità, in modo che la Missione stessa ne sia l’espressione e la conseguenza, mentre la Missione stessa diventa anche un cammino per crescere in essa. “La testimonianza di questa santità, che si attua nella missione salesiana, rivela il valore unico delle beatitudini, ed è il dono più prezioso che possiamo offrire ai giovani” (Cost. 25).
Mi permetto di fare una seconda precisazione, ispirata nel Prologo del libro del Papa, o come lui stesso dice, di Joseph Ratzinger, Gesù di Nazaret. Quello che dirò non pretende di essere che una semplice analogia.
È indubbio che adesso abbiamo, più che mai, elementi nelle diverse discipline della scienza (storica, linguistica, psicologica, sociologica, ecc.), per conoscere Don Bosco. Di questo dobbiamo ringraziare tanti confratelli salesiani, alcuni dei quali sono anche qui presenti, che hanno consacrato la loro vita a studiarlo e a comunicare i risultati della loro ricerca qualificata. Nonostante ciò, anche qui possiamo correre il rischio che il Santo Padre indica, a proposito del metodo storico-critico. Detto con un’immagine molto semplice (forse troppo), ma espressiva: possiamo molte volte accontentarci o privilegiare una radiografia di Don Bosco, invece del suo volto vivo ed attuale. Se un chirurgo deve intervenire sulla madre, a niente servono le fotografie materne: ha bisogno degli studi più specializzati possibili; nonostante questo, nel suo ufficio o sulla sua scrivania non mette la radiografia, ma la più fedele e “viva” fotografia.
Come Congregazione; anzi: come Famiglia Salesiana, dobbiamo cercare sempre di più una sintesi che ci permetta di conoscere vitalmente l’autentico Don Bosco, perché, come dicevamo nel titolo di questo paragrafo, ci è stato donato da Dio come Padre e Maestro.
2. “Lo studiamo e lo imitiamo, ammirando in lui uno splendido accordo di natura e di grazia” (Cost. 21)
Nelle diverse riflessioni precedenti, abbiamo cercato di “mettere in pratica” quest’accordo tra natura e grazia: riprenderò alcuni (tra molti altri) degli elementi meditati, mostrando come si trovano in maniera meravigliosa nella persona di Don Bosco, che manifesta una straordinaria integrazione e capacità di sintesi vitale. Da una parte, come abbiamo detto prima, è stato dotato di una ricchezza fuori dal comune: “profondamente uomo, ricco delle virtù della sua gente, egli era aperto alle realtà terrestri; profondamente uomo di Dio, ricolmo dei doni dello Spirito Santo”; d’altra parte, capace non soltanto di uno “splendido accordo”, ma anche di una fusione in un “progetto di vita fortemente unitario: il servizio dei giovani”. Anche da questa prospettiva “formale”, il salesiano, dotato egualmente (non nella stessa misura, indubbiamente) da doni di natura e di grazia, è chiamato ad essere un uomo di sintesi, di equilibrio, di buon senso, che non cerca di ipertrofizzare o, al rovescio, atrofizzare nessuna delle sue dimensioni fondamentali. Il salesiano deve essere, nel miglior senso della parola, un uomo normale –come è stato descritto dal Cardinale Pironio nell’inaugurazione del CG 22-; non nel senso di “mediocrità”, ma tutto il contrario: infiammato dalla passione dell’amore per i giovani, cercando il loro massimo bene: la loro salvezza.
1. Abbiamo parlato della gratuità come quella atmosfera che, dalla fede (dunque, intesa come Grazia) crediamo che avvolge ogni uomo, cristiano o non, come espressione della presenza amorevole di Dio. Don Bosco era straordinariamente sensibile a questo senso della gratuità. Lo abbiamo sottolineato in diversi momenti, soprattutto parlando della predilezione carismatica per i più “insignificanti”.
Ricordiamo quello che il Rettor Maggiore scrive nella sua Lettera “Contemplare Cristo con lo sguardo di Don Bosco”, a proposito dell’esperienza vissuta con gli allievi dei Gesuiti, nel tempo della sua formazione seminaristica: “Mentre studiava filosofia, Giovanni Bosco accompagnò dei giovani di classe benestante in un soggiorno estivo dei Gesuiti nei pressi di Torino, al quale essi avevano invitato i loro convittori durante una epidemia. Se è vero che egli non trovò difficoltà nel rapporto con loro, anzi ebbe in questi giovani degli amici che gli volevano bene e lo rispettavano, si convinse che il suo ‘metodo’ non si adattava ad un sistema di ‘compenso reciproco’: ‘a Montaldo (…) percepì la difficoltà di ottenere su quei giovani l’influsso pieno che è necessario per far loro del bene. Quindi si persuase di non essere chiamato ad occuparsi di giovani di famiglie agiate’” (ACG 384, p. 17).
Cercherò di approfondire ancora questo tema, con quello che mi sembra l’esempio più rilevante. La vita, ogni vita umana, lo abbiamo meditato, è il dono per eccellenza, poiché tutti la possiedono, e anche perché qualsiasi altro dono, “di natura o di grazia”, la presuppone. Sarebbe ovvio dire che anche Don Bosco ne era convinto. C’è molto di più: penso che, a questo riguardo, c’è un dono straordinario di Dio nella sua vita.
Dire che tutti sappiamo che la vita è un dono, non equivale a sperimentarlo; anche qui, è valido il proverbio spagnolo: “nadie sabe el bien que tiene, hasta que lo ve perdido” (nessuno sa valutare quello che ha, fino a che non l’ha perso… o almeno, è in pericolo di perderlo). In questo senso, chi ha visto la sua vita minacciata dalla morte, ed è sopravissuto, ha imparato a valutarla, in una misura infinitamente più grande. La descrizione classica di quest’esperienza la troviamo (è inevitable il riferimento) nella vita di Dostoevskij, nella situazione che Stefan Zweig chiama “uno dei momenti cruciali dell’umanità”: il romanziere russo lo descrive in “terza persona”:
Gli restavano cinque minuti di vita, non di più. Diceva che quei cinque minuti gli erano sembrati un tempo infinito, una immensa ricchezza (…) Egli moriva di ventisette anni, sano e forte (…) In quel momento, nulla gli era più penoso di questo pensiero incessante: “Se si potesse non morire! Se si potesse far tornare la vita, quale eternità! E tutto ciò sarebbe mio! Allora di ogni minuto farei tutt’un secolo, non ne perderei uno solo, di ogni minuto terrei conto preciso, non dissiperei più nulla invano!” 30
Tutti conosciamo il commovente testo delle Memorie Biografiche che ci presenta la malattia mortale di Don Bosco, ma non resisto a trascrivere alcuni dei suoi brani.
Don Bosco, accennando a questa sua malattia, lasciò scritte le seguenti parole: “Mi sembrava che in quel momento fossi preparato a morire; mi rincresceva di abbandonare i miei giovanetti; ma era contento che terminava i miei giorni, sicuro che l’Oratorio ormai avesse una forma stabile”. Questa sua sicurezza proveniva dall’essere certo che l’Oratorio era voluto e fondato da Dio e dalla Madonna (…) Fin dal principio della settimana, sparsasi la funesta notizia di questa malattia, successe nei giovani dell’Oratorio un dolore, un’angoscia indescrivibile (…) Allora succedevano scene tenerissime: ‘Me lo lasci solo vedere’, domandava uno; ‘non lo farò parlare’, assicurava un secondo (…); ‘se Don Bosco sapesse che io son qui, mi farebbe entrare’, diceva un altro (…) Don Bosco udiva i dialoghi che si facevano col domestico e ne era commosso (…) Vedendo che i rimedii umani non lasciavano ormai speranza alcuna, essi ricorsero a quelli del Cielo, con un fervore ammirabile (…) Era un sabato del mese di luglio, giorno sacro all’Augusta Madre di Dio.
Conosciamo benissimo anche la conclusione di questo momento decisivo, un vero spartiacque nella vita di Don Bosco. Invitato dal teologo Borel per fare almeno una piccola preghiera per la propria salute, con molta difficoltà Don Bosco, finalmente, ha chiesto: “Sì, Signore, se così vi piace, fatemi guarire”. “Al mattino i due dottori Botta e Cafasso venuti a fargli visita col timore di trovarlo morto, tastato il polso, gli dissero: - Caro Don Bosco, vada pure a ringraziare la Madonna della Consolata, chè ne ha ben donde”.
La scena in cui il caro Padre ritorna in mezzo ai suoi figli fu “uno spettacolo, una festa tanto cordiale, che si può immaginare, descrivere non già”. “Don Bosco volse eziandio poche parole. Tra le altre cose disse: ‘Io vi ringrazio delle prove di amore che mi avete dato durante la malattia; vi ringrazio delle preghiere fatte per la mia guarigione. Io sono persuaso che Dio concesse la mia vita alle vostre preghiere; e perciò la gratitudine vuole che io la spenda tutta a vostro vantaggio spirituale e temporale. Così prometto di fare finché il Signore mi lascerà su questa terra, e voi dal canto vostro aiutatemi” (MB II, 492-499).
Credo che il nostro Rettor Maggiore ha vissuto un’esperienza simile, e curiosamente, alla stessa età di Don Bosco, verso i 31 anni. Forse la gran parte di noi non avrà mai questa esperienza: la cosa più importante è l’essere convinti che, se Dio ci ha chiamato alla vita e a questa vita, come salesiani, è per dire, come il nostro Padre: “Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono disposto anche a dare la vita” (Cost. 14).
2. Quando parlavamo sopra sulla centralità di Dio in tutta la vita di Don Bosco come la sua chiave di comprensione, abbiamo presupposto qualcosa che adesso vorrei esplicitare, cioè: l’inseparabilità di questa fede in Dio dalla sequela e imitazione di Gesù Cristo. Per il nostro Padre, parlare di “religione” era praticamente uguale a parlare del Cristianesimo: nel suo tempo e contesto socio - culturale - religioso, questo è innegabile. Senza dubbio, in questi tempi Don Bosco sarebbe il primo ad invitarci a partecipare attivamente nel dialogo ecumenico e interreligioso, proprio perché era convinto che Gesù Cristo è - con le parole del Magistero e della teologia attuale - “l’unico e universale Salvatore dell’umanità”.
È Gesù Cristo che, dai primi anni della sua vita, guida e orienta tutte le sue azione. È Gesù Cristo che, dal sogno dei nove anni, gli indica una missione, facendogli comprendere che tutta la sua esistenza è segnata da questa vocazione-missione, e che gli dà la Maestra, “senza cui ogni sapienza diviene stoltezza” 31. È Gesù Cristo che lui scopre, ama e serve in ogni persona che trova nel suo cammino, in particolare i giovani più poveri e abbandonati, prendendo totalmente sul serio le parole del Signore in Mt 25, 31ss. È Gesù Cristo che lui vuole “modellare” in essi, attraverso un cammino dove la pedagogia e la catechesi si integrano a vicenda, in maniera piena: “Come Don Bosco, siamo chiamati tutti e in ogni occasione a essere educatori alla fede. La nostra scienza più eminente è quindi conoscere Gesù Cristo e la gioia più profonda è rivelare a tutti le insondabili ricchezze del suo mistero. Camminiamo con i giovani per condurli alla persona del Signore risorto affinché, scoprendo in lui e nel suo Vangelo il senso supremo della propria esistenza, crescano come uomini nuovi” (Cost. 34).
In questa centralità del Signore Gesù nella vita di Don Bosco, troviamo una sensibilità carismatica che porta a privilegiare alcuni lineamenti della sua inesauribile figura (cfr. Cost. 11): tra queste, come sottolineava il Rettor Maggiore nella sua Lettera alcuni anni fa, quelli di Apostolo del Padre e di Buon Pastore. Nella contemplazione di Gesù Cristo, Buon Pastore, Don Bosco “impara” - e tutti noi, come salesiani, siamo chiamati a fare questo stesso apprendistato - il Sistema Preventivo: la gratitudine, la preoccupazione e predilezione per il più lontano, l’amore fatto amorevolezza, la conoscenza personale (“il buon pastore conosce le sue pecorelle, e chiama ognuna per nome”), e, soprattutto, il bisogno di donarsi pienamente e consegnarsi, fino a “dare la vita per le sue pecorelle” (Cfr. ACG 384, pp. 26-28).
3.- Questa figura del Buon Pastore, e la sua preoccupazione per tutte le sue pecorelle, ma con una sconcertante predilezione per la pecorella smarrita, ci può servire come motivazione per cercare di approfondire, verso la fine dei nostri Esercizi, un tema particolare che soltanto abbiamo menzionato nei primi giorni: l’unità di agape e eros nella vita e nell’attività del nostro Padre.
Di fronte alla semantica abituale della parola eros, malintesa quasi come sinonimo di “sessualità” (e, sovente, persino di sessualità “morbosa”), e anche riguardo a una concezione di un settore della teologia protestante del XX secolo (specialmente nell’Europa del nord) che contrappone drasticamente eros e agape, il Papa Benedetto XVI ha avuto il merito di riproporre, dalla cattedra più alta della Chiesa universale, il valore umano, cristiano e –perché non dirlo?- anche teologico del eros, portando al suo culmine una linea di pensiero e di riflessioni umanistiche in questa direzione.
Possiamo dire, in maniera semplice, che “sappiamo cosa non è l’eros”; ma: “cos’è?” Anche se leggiamo con attenzione l’Enciclica Deus Caritas Est, e in particolare il Messaggio per la Quaresima 2007 di Benedetto XVI, possiamo rimanere con l’impressione che non è chiaro a questo riguardo, e persino trovare forse qualche contrapposizione. Per esempio, se, alla luce dell’Enciclica, n. 7, intendiamo l’agape come “amore discendente” e l’eros come “amore ascendente”, come si potrebbe parlare dell’eros di Dio verso l’uomo? Altrettanto, e detto in maniera paradossale, quale altro tipo di amore potrebbe avere l’uomo verso Dio, se non quello “ascendente”: dunque, soltanto l’amore erotico? A mio avviso, si possono trovare almeno cinque o sei descrizioni dell’eros in questi documenti del Papa: come amore ascendente – come la corrispondenza nell’amore – come emozione e sentimento ‘statici’ – come possessione di quello che manca all’amante – come anelito di unione…; queste descrizioni, in fondo, non sono alternative, ma sono tutte approssimazioni, da diverse prospettive, verso la sua essenza, indefinibile, in quanto che, come vero amore, è più in là della comprensione logica umana; possiamo applicare ad esso le parole di sant’Anselmo: “rationabiliter comprehendit… incomprehensibile esse”: comprendiamo, con la ragione, che l’amore è oltre la ragione stessa. Ma questa incomprensibilità non vuol dire che non possiamo penetrare nella sua conoscenza, ma significa piuttosto che non possiamo esaurirla.
Nell’approfondire questo tema, vorrei iniziare da due elementi, già menzionati prima. Da una parte, il Santo Padre sottolinea che l’eros è indispensabile anche per la pienezza dell’agape (cfr., tra altri testi, Deus caritas est, n. 7); d’altra parte, abbiamo sottolineato il bisogno di contemplare l’amore da due parti dell’esperienza: l’amare, ma anche l’essere amato. In tutti e due gli aspetti scopriamo la presenza di un fattore essenziale, così evidente che paradossalmente rischia di passare inavvertito: si tratta della singolarità della persona amata. Senza di essa, lo stesso agape (e, stranamente, dall’altro estremo, anche la sessualità!) può diventare impersonale; e senza questo fattore, la persona non può sentirsi amata, nel più profondo del suo essere. Cercando di esprimerlo nella maniera meno inadeguata possibile, l’essenza dell’eros va legata al riconoscimento della persona amata in quanto unica e irripetibile: e questo in tutte le espressioni autentiche dell’amore, dalla sessualità, che diventa vero amore umano quando si lascia personalizzare in questa maniera, fino all’agape, il quale ha anche bisogno di lasciarsi personalizzare dall’eros32 : altrimenti, può diventare persino un egoismo narcisistico. Esiste il reale pericolo che, dietro la maschera del dire: “io amo tutti”, in realtà, non amo veramente nessuno.
Da questa “chiave di lettura” possiamo capire benissimo quello che chiamavamo “approssimazioni” all’eros nei documenti di Benedetto XVI, includendo le dimensioni del sentimento e persino dell’emozione che sono, senza dubbio, essenziali non soltanto nell’esperienza dell’amore in genere, ma in particolare come espressione dello stupore di fronte alla persona unica e irripetibile, che si esprime nella semplicissima frase: che meraviglia che tu esisti!
Il Buon Pastore, che lascia le novanta nove pecore nell’ovile (o sui monti! Mt 18, 12) per cercare la pecorella smarrita, comprende questo alla perfezione (cfr. anche ACG 384, p. 27). L’applicazione al nostro santo Padre Don Bosco è evidente e anche, direi, entusiasmante. Cercando di precisare ancora di più il suo profilo, oserei dire: la struttura e orientamento (“destinatari”) del suo amore è l’agape; e il contenuto e dinamica dello stesso amore è il suo eros. Don Bosco non cerca, nella sua propria realizzazione attraverso l’amore, chi lo affascina e “lo porta a pienezza”, ma chi ha più bisogno del suo amore agapico; ma questo amore è totalmente personale e affettivo (evidentemente, anche effettivo): ogni ragazzo si sentiva amato personalmente da Don Bosco; anzi: si sentiva il suo prediletto, come se fosse l’unico. Come risuonano di nuovo nelle nostre orecchie e nel nostro cuore le parole di quei ragazzi di strada, davanti alla porta del caro moribondo: “Se Don Bosco sapesse che io son qui, mi farebbe entrare subito”!
E, grazie a questo amore agapico, fatto affetto erotico (“entrañable”, diciamo in spagnolo con un’immagine psicosomatica), i suoi ragazzi si sentivano amati da Dio, in maniera tale che, come testimonia Don Giacomelli, “i giovani lo amavano tanto, e tanta stima e rispetto avevano per lui, da bastare che egli esternasse un desiderio per venir subito ascoltato. Si astenevano essi da qualunque cosa avesse potuto dispiacergli: nella loro obbedienza non vi era alcun timore servile, ma un affetto veramente figliale. Taluni si guardavano dal cadere in certe mancanze quasi più per riguardo a lui che per riguardo all’offesa di Dio; ma egli, accorgendosene, tosto li rimproverava seriamente, dicendo: ‘Dio è qualche cosa più che Don Bosco!” (MB III, 585). E verso la fine della sua vita, gli diceva il teologo Piano: “L’amore, che avevamo allora verso di voi, ancora l’abbiamo (…) Non è qui all’Oratorio che i più di noi ebbimo pane e vesti di cui eravamo privi? (...) Ah! Cesserà di battere questo cuore, prima che cessi di amarvi. Amare voi, noi lo teniamo come segno dell’amor di Dio” (MB XVIII, 366).
In un’altra occasione, anche negli anni ultimi, disse a un gruppo di exallievi sacerdoti e laici: “Ora tocca a me rispondere chi sia da me più amato. Dite voi: questa è la mia mano; quale di queste cinque dita è più amato da me? Di quale fra queste mi priverei? Certo di nessuno perché tutte e cinque mi sono care e necessarie egualmente. Or bene io vi dirò che vi amo tutti e tutti senza grado e senza misura” (MB XVIII, 160).
La frase più audace, a mio giudizio, di Benedetto XVI (è lui stesso che lo fa intendere così), verso la fine del suo Messaggio per la Quaresima 2007 può applicarsi, analogamente, a Don Bosco: “Si potrebbe addirittura dire che la rivelazione dell’eros di Dio verso l’uomo è, in realtà, l’espressione suprema della sua agape”. Niente di strano che il grande Origene capisse in questa maniera - contro una grande parte della Tradizione della Chiesa - la bellissima espressione di sant’Ignazio di Antiochia: “Il Mio Eros è crocifisso”.
Tutto questo ci permette riprendere tutta la profondità dell’invito di Don Bosco, allora e ancora oggi: Studia di farti amare! Alla totale gratuità dell’amore non si oppone per niente il desiderio, anzi l’anelito della corrispondenza; non è, in assoluto, espressione di egoismo mascherato. Quando è autentico, l’amore implica la kenosis più radicale: svuotarci così totalmente da noi stessi, in maniera che sia Gesù Cristo che vive in noi (cfr. Gal 2, 19-20), e così sia Lui ad amare, e ad essere amato, attraverso il nostro amore personale. Magari possiamo ascoltare anche noi dai nostri giovani, come hanno detto a Don Bosco: Amare voi, noi lo teniamo come segno dell’amore di Dio!
Vorrei finire questo paragrafo, ancora una volta, con la sintesi che lo stesso Benedetto XVI ci offre: “In verità, solo l’amore in cui si uniscono il dono gratuito di sé e il desiderio appassionato di reciprocità infonde un’ebbrezza che rende leggeri i sacrifici più pesanti”.
3. “Anche noi troviamo in lui il nostro modello” (Cost. 97)
Come conclusione, vorrei chiarire ancor di più il nostro rapporto con Don Bosco, Padre, Maestro e Modello. Senza dubbio, abbiamo sentito tante volte da persone che non appartengono alla Famiglia Salesiana, espressioni di disappunto, o persino di rimprovero, per lo stile in cui lo ricordiamo, veneriamo e cerchiamo di imitarlo. Alcuni persino dicono che abbiamo messo Don Bosco nel posto di Gesù Cristo. Evidentemente, sono giudizi ingiusti; ma indicano qualcosa che conviene riflettere: il nostro rapporto con Don Bosco fondatore non è uguale a quello che altri Ordini o Congregazioni hanno con i loro Fondatori. Questo non dovrebbe preoccuparci e meno ancora provocarci vergogna. D’altra parte, è vero che possiamo cadere nel pericolo di chiamarci “figli di Don Bosco” senza esserlo in realtà (cfr. Lc 3, 8; Gv 8, 39.42), per diversi motivi; tra gli altri, per confondere la fedeltà con l’immutabilità nostalgica; ma anche “inventandoci” Don Bosco, cercando ognuno di rispondere, senza badare a niente altro, alla domanda: Cosa farebbe Don Bosco qui, oggi?
Penso che l’articolo costituzionale nel quale si trova la frase che dà titolo a questo paragrafo offre una risposta preziosa. Da una parte, ci ricorda che nel inizio (non soltanto cronologico, ma anche carismatico) della nostra Congregazione, “i primi salesiani trovarono in Don Bosco la loro guida sicura. Inseriti nel vivo della sua comunità in azione, impararono a modellare la propria vita sulla sua. Anche noi troviamo in lui il nostro modello”. Ma, d’altra parte, “la natura religiosa apostolica della vocazione salesiana determina l’orientamento specifico della nostra formazione, necessario alla vita e all’unità della Congregazione” (Cost. 97).
Lasciando da parte il tema specifico della “formazione”, si tratta di cercare una sintesi vitale tra la figura concreta di Don Bosco e la natura del nostro Carisma. Tralasciare il secondo aspetto, ci porterebbe a una ripetizione nostalgica e aneddotica di Don Bosco, e lui stesso sarebbe il primo a rimproverarci per quello; ma tralasciare il primo aspetto ci porterebbe a limitarci ad un insieme di idee e concetti di tipo teologico, pedagogico o spirituale, dimenticando che tutto questo è parte di un Carisma, che Dio ha dato alla Chiesa e all’umanità, soprattutto ai giovani, in una persona concreta, chiamata Giovanni Bosco.
Questa sintesi, oserei dire, la troviamo in Don Bosco stesso: “Se mi avete amato in passato, continuate ad amarmi in avvenire con l’esatta osservanza delle nostre Costituzioni” (Proemio alle Costituzioni); “accogliamo le Costituzioni come testamento di Don Bosco, libro di vita per noi e pegno di speranza per i piccoli e i poveri” (Cost. 196).
4. Conclusione
Quasi alla fine dei nostri Esercizi, vorrei fare due riflessioni.
Se volessimo sintetizzare in pochissime parole la personalità di Don Bosco, io direi: centrando tutta la sua vita in Dio, nella sequela di Gesù Cristo, spendendo tutta la sua vita per i giovani, di cui è carismaticamente appassionato, il nostro Fondatore e Padre si manifesta, allo stesso tempo e in maniera inscindibile, un uomo santo e felice: ha integrato perfettamente le due dimensione della sua realizzazione personale in Cristo: la dimensione “oggettiva” = perfezione, santità; e la dimensione “soggettiva” = felicità. Non è soltanto un gioco di parole quella espressione, tante volte citata a suo riguardo (e anche a quello di san Francesco di Sales, suo e nostro patrono): “Un santo triste, è un triste santo”.
La seconda riflessione vuole essere, in una certa maniera, una sintesi finale (anticipata). Nelle diverse riflessioni, abbiamo cercato di “mettere in pratica” quella armonia tra natura e grazia, che è caratteristica di Don Bosco (cfr. Cost. 21). In un certo senso, possiamo dire che, in fondo, non abbiamo approfondito altro che… il Sistema Preventivo. Abbiamo preso come “tema” e contenuto centrale l’amorevolezza, in quanto espressione – manifestazione dell’amore, tra i due poli della ragione (esperienza umana) e la religione (riflessione teologica). È la sintesi più breve e densa che possiamo fare.
PREGHIERA A DON BOSCO
Don Bosco,
Tu sei stato suscitato dallo Spirito Santo,
con l’intervento materno di Maria,
per contribuire alla salvezza della gioventù.
Tu sei stato a noi donato dal Signore come Padre e Maestro,
e ci hai consegnato un programma affascinante di vita
nella massima “Da mihi animas, cetera tolle”.
Tu ci hai trasmesso, sotto l’ispirazione di Dio,
uno spirito originale di vita e azione,
il cui centro e la cui sintesi è la carità pastorale.
Fa’ che il nostro cuore possa essere infiammato
dal fuoco dell’ardore e dello slancio evangelizzatore,
per essere segni credibili dell’amore di Dio ai giovani.
Fa’ che sappiamo accettare con serenità e gioia
le esigenze quotidiane e le rinunce della vita apostolica
per la gloria di Dio e la salvezza delle anime.
Noi, come Assemblea che rappresenta la Congregazione in tutto il mondo,
ti preghiamo:
Concedi da Dio, nostro Padre,
per l’intercessione di Maria, Madre e Maestra,
che questo Capitolo Generale possa aiutarci
a rafforzare l’identità carismatica
e a risvegliare la passione apostolica,
così che possiamo portare alle nostre Ispettorie, comunità e opere
un soffio rinnovato dello Spirito Santo.
Per Cristo, Buon Pastore e nostro Signore.
AMEN.
MARIA, MADRE E MAESTRA
1. Introduzione
Alla fine dell’Istruzione Pontificia Ripartire da Cristo, leggiamo: “Guardiamo a Maria, Madre e Maestra per ciascuno di noi. Lei, la prima consacrata, ha vissuto la pienezza della carità. Fervente nello spirito, ha servito il Signore; lieta nella speranza, forte nella tribolazione, perseverante nella preghiera; sollecita per le necessità dei fratelli (cfr. Rom 12, 11-13). In Lei si rispecchiano e si rinnovano tutti gli aspetti del vangelo, tutti i carismi della vita consacrata” (n. 46).
Questo testo ci permette impostare la nostra riflessione. Evidentemente, non cerchiamo di fare della Madonna, in maniera del tutto anacronistica, la “prima religiosa”; ma di scoprire in Lei “tutti i carismi della vita consacrata”, non in maniera quantitativa (“tutti”), ma, per così dire, nel suo nucleo fondamentale: in quanto che ha vissuto la pienezza della carità, dell’amore. Possiamo comparare quest’idea con la maniera in cui san Tommaso d’Aquino mostra come tutte le perfezioni della Creazione si trovano, in maniera assolutamente semplice, in Dio (cfr. S. Th., I, q. 4, a. 2, Utrum in Deo sint perfectiones omnium rerum).
A questa sintesi si avvicina l’atteggiamento di santa Teresa di Lisieux, quando, a proposito delle diversità di vocazioni, si domanda:
Sento in me altre vocazioni: mi sento la vocazione di guerriero, di sacerdote, di apostolo, di dottore, di martire; insomma, sento il bisogno, il desiderio di compiere per te, Gesù, tutte le opere più eroiche... Sento nella mia anima il coraggio di un crociato, di uno zuavo pontificio: vorrei morire su un campo di battaglia per la difesa della Chiesa (...) Come conciliare questi contrasti? Come realizzare i desideri della mia povera piccola anima? (...) Durante l’orazione i miei desideri mi facevano soffrire un vero e proprio martirio. Aprii le epistole di san Paolo per cercare qualche risposta (...) Lessi che non tutti possono essere apostoli, profeti, dottori, ecc.; che la Chiesa è composta da diverse membra, e che l'occhio non potrebbe essere al tempo stesso la mano... La risposta era chiara, ma non appagava i miei desideri, non mi dava la pace (...) Senza scoraggiarmi continuai la lettura e questa frase mi rincuorò: 'Cercate con ardore i doni più perfetti: ma io vi mostrerò una via ancora più eccellente.' E l'apostolo spiega come tutti i doni più perfetti non sono niente senza l'Amore (...) Finalmente avevo trovato il riposo! (...) La carità mi diede la chiave della mia vocazione (...) Capii che solo l'Amore faceva agire le membra della Chiesa: che se l'amore si dovesse spegnere, gli apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue... Capii che l'Amore racchiudeva tutte le vocazioni, che l'amore era tutto, che l'amore abbracciava tutti i tempi e tutti i luoghi... Insomma che l'amore è eterno! Allora, nell'eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: Oh Gesù mio Amore...! La mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l'Amore!
Nella nostra meditazione finale, vorrei invitarvi a ‘contemplare’ Maria, Immacolata Ausiliatrice, nostra Madre e Maestra. In particolare, vorrei che potessimo fissare il nostro sguardo filiale ad una scena trascendentale della nostra Tradizione salesiana: contempliamo Don Bosco che prega, insieme a Bartolomeo Garelli. Possiamo dire, prendendo un’immagine della fisica moderna conosciuta da tutti noi, che questa Ave Maria costituisce quell’atomo di densità infinita che, nel “big bang” del 8 dicembre 1841, ha dato origine ad una “esplosione carismatica” che ancora adesso continua nella sua espansione per il mondo, facendo presente l’Amore di Dio per i giovani, soprattutto i più poveri ed abbandonati.
Meditiamo, dunque, quello che ogni giorno diciamo alla Madre di Dio e Madre di tutti gli uomini, nell’Ave Maria…
2. “Piena di Grazia”
Il saluto dell’arcangelo Gabriele a Maria ha una straordinaria densità: nessuna traduzione può esaurire la ricchezza delle parole originali: … Cercando di approfondire teologicamente quest’espressione, possiamo sottolineare, in primo luogo, il suo carattere di gratuità. “Piena di grazia”, in questo primo senso, vuol dire “gratuità” nella sua massima espressione. Qui si manifesta in maniera insuperabile il carattere non-dovuto dell’Amore di Dio, che precede qualsiasi azione o atteggiamento umano, proprio perché questi sono sempre risposta di fronte all’iniziativa di Dio. “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi” (1 Gv 4, 10): questo possiamo applicarlo non soltanto ad ognuno di noi, ma anche, e in primo luogo, a Maria.
La tradizione unanime della Chiesa, e la sua interpretazione guidata lungo tutti i secoli dallo Spirito Santo, trova a questo riguardo il suo compimento nella dichiarazione dogmatica del beato Pio IX nel 1854, proclamando la sua Immacolata Concezione. Purtroppo, molte volte si fraintende questo dogma mariano, correndo il rischio di dimenticare che in esso non si parla, in primo luogo, di qualcosa che abbia fatto Maria, ma di quello che Dio fa in Lei, anche in nostro favore. Persino le nostre Costituzioni possono essere capite inadeguatamente, se non sottolineiamo quest’iniziativa dell’amore di Dio, fin dal primo istante della sua esistenza: “Maria Immacolata e Ausiliatrice ci educa alla pienezza della donazione al Signore e ci infonde coraggio nel servizio dei fratelli” (Cost. 92). È vero, ma sempre come risposta all’Amore di Dio. Non dimentichiamo che la consacrazione, come tale, è opera esclusiva di Dio, non dell’essere umano; così che, contemplando Maria Immacolata, possiamo contemplare il frutto più perfetto e “riuscito” del sistema preventivo di Dio.
In questo senso, l’insistenza della teologia, che si manifesta anche nella liturgia, sottolineando la “pre-destinazione” della Madre di Dio, utilizzando anche, in senso allegorico, brani dell’AT come Prov 8, 22-36; Sir 24, 3-22; ecc., è valida e accettabile, solo se non la si stacchi dal resto dell’umanità. Infatti, tutti noi uomini siamo stati pre-destinati da Dio “prima della creazione del mondo, per trovarci, al suo cospetto, santi e immacolati nell’amore. Ci ha predestinati a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1, 4-5). Maria è la predestinata per eccellenza, non per esclusività, e meno ancora per esclusione.
3. “Il Signore é con te”
Questa piccolissima frase del saluto angelico è la sintesi più breve e densa dell’Alleanza, ed è quello che il Signore promette, come garanzia, a tutti quelli che chiama al suo servizio (ricordiamo, tra molti altri, soprattutto il caso di Geremia). “Piena di Grazia” vuol dire, nel suo senso più profondo: “piena di DIO”. La Grazia, infatti, non è “qualcosa”, ma “Qualcuno”: Dio stesso, nella sua Vita trinitaria, Amore perfetto, che si dona gratuitamente a noi, in maniera definitiva e irreversibile (escatologica) in Cristo. Conviene far notare che in alcuni testi dell’AT, questa presenza di Dio in mezzo al suo popolo o a una persona eletta provoca, anzitutto, la gioia. Purtroppo, si è perso, in quasi tutte le lingue, questa sfumatura importante del testo biblico lucano: , Rallegrati! Tra molti testi, ricordiamo quello di Sofonia:
Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele,
e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!
Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico.
Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non vedrai più la sventura.
In quel giorno si dirà a Gerusalemme:
“Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia!
Il Signore, tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente.
Esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore,
si rallegrerà per te con grida di gioia, come nei giorni di festa”
(Sof 3, 14-18).
Questa presenza unica di Dio in Lei è il principio fondamentale del suo essere-consacrata, proprio perché non si realizza attraverso qualche creatura o realtà creata, ma consiste, fondamentalmente, in questo “porre Dio la sua dimora in Lei”. Qui si trova la differenza radicale del concetto di santità di fronte alle altre culture e religioni, nelle quali il Sacro consiste in una Realtà staccata, intoccabile, inaccessibile, “tabù”. Qui, invece, il Dio tre volte Santo fa partecipe della sua Santità, attraverso la sua vicinanza nell’amore, che in Maria si fa così piena, mediante l’Incarnazione, che diventa anche una presenza fisica. Per questo, possiamo proclamarla, anche in questo senso, la “Consacrata” per antonomasia; senza dimenticare che questo non la allontana da noi, ma, al contrario, ci invita a seguire il suo esempio.
Finalmente, possiamo sottolineare ancora un terzo senso nel saluto: “Piena di Grazia”: cioè, l’effetto che in Lei produce questa presenza piena di Dio, diventando così la “Aggraziata” (in spagnolo: “Agraciada”) per eccellenza, la Tota Pulchra, Quella che dirà, nel cantico del Magnificat: “D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata: grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo Nome” (Lc 1, 48-49) 33.
4. “si faccia in Me secondo la tua Parola”
La sottolineatura dell’iniziativa libera e gratuita di Dio e la consacrazione in quanto opera divina non devono farci dimenticare assolutamente il fatto che Lui ha voluto aver bisogno della risposta umana. Lo possiamo vedere nei modelli biblici dell’AT e del NT, e non poteva essere altrimenti nel caso più eccellente della collaborazione umana con Dio: la Maternità divina di Maria, che, come dice sant’Agostino, “ha concepito il Figlio di Dio nel suo cuore, mediante la sua libera obbedienza, prima di concepirlo nel suo seno verginale”.
Nonostante ciò, qui può sorgere un dubbio: possiamo veramente e sul serio parlare della libertà di Maria, di fronte a tutto questo che è stato detto? Che senso avrebbe parlare dell’Immacolata Concezione, della pienezza di Grazia, ecc., se tutto dipendesse da un sì umano, posteriore a tutto questo? D’altra parte, se negassimo il carattere libero dell’accettazione da parte della giovane di Nazareth, oltre a staccarla totalmente dal resto dell’umanità, arriveremo a un’affermazione assurda: cioè, che la collaborazione umana, nella sua espressione più piena, non è stata veramente umana, vuol dire: non è stata realizzata con coscienza e libertà.
Mi sembra che possiamo trovare una risposta veramente meravigliosa approfondendo un elemento tipico del nostro Carisma. Quando Don Bosco chiedeva di porre i ragazzi “nell’impossibilità morale di peccare”, non si riferiva in assoluto a limitare o, peggio, togliere la loro libertà (che, d’altra parte, sarebbe stato impossibile), ma a cercare di irrobustire le loro motivazione di fede e di amore al Signore Gesù, appellando non soltanto alla loro intelligenza razionale e logica (come lo fa, anche, il sistema repressivo), ma soprattutto al loro cuore: perché l’educazione, a livello umano e anche l’educazione alla fede e nella fede, “è affare del cuore”.
Detto altrimenti: Don Bosco era convinto (ed è una convinzione che tocca proprio il midollo dell’antropologia e della morale cristiana) che, più sperimentiamo l’Amore di Dio come Fonte massima (ed unica) dell’autentica felicità, più difficile diventa (“moralmente impossibile”) volerci allontanare da Lui, conservando, nonostante ciò, integra la nostra libertà. Questo rafforzamento, oltre ad implicare il contatto personale, trovava il suo luogo privilegiato nell’ottimizzazione dell’ambiente, ricco di valori umani e cristiani, e nell’assistenza tipicamente salesiana: che non è, per niente, quella di un carabiniere che “garantisce l’ordine”, ma di una mediazione visibile dell’amore di Dio. Questa “ecologia formativa” (come piace dire al nostro Rettor Maggiore) è uno degli elementi fondamentali dell’Oratorio come criterio salesiano: “Nel compiere oggi la nostra missione, l’esperienza di Valdocco rimane criterio permanente di discernimento e rinnovamento di ogni attività e opera” (Cost. 40).
Tutto questo nasce anche dall’identità dell’amore, ancora a livello umano: a fortiori, parlando dell’Amore di Dio, l’essere amati non ci toglie per niente la libertà, ma neanche la lascia “neutrale”. Al contrario, la rinvigorisce, per poter corrispondere a questo amore ricevuto e percepito come tale, con la propria risposta libera (più che mai!) di amore. Soltanto così possiamo comprendere il senso profondo della nostra obbedienza, la quale “conduce alla maturità facendo crescere la libertà dei figli di Dio” (Cost. 67).
In questa prospettiva, la stessa domanda di Maria: “Come sarà questo, dato che io non conosco uomo?” (Lc 1, 34) non esprime dubbio, né pone delle condizioni: ma è la domanda di chi, da una fede incondizionata e totale, vuol collaborare nella maniera più cosciente e libera possibile. E questo si vede ancor più chiaro nelle parole successive dell’angelo, che non costituiscono nessuna risposta: in fondo, quello che dice Gabriele è: “Si tratta di Dio, e del suo Piano… ti affidi a Lui? Anche la “prova” che Maria riceve, cioè la gravidanza di Elisabetta, che in quel momento Maria non può “verificare”, costituisce piuttosto una motivazione per andare da lei e servirla, come dice immediatamente il testo di Luca. Non è, dunque, una prova “teorica”, che serve a soddisfare la curiosità di Maria, o semplicemente a illuminare la sua conoscenza, ma è una “prova prassica” che la mette in movimento, per accompagnare e servire la sua parente.
La fede di Maria, finalmente, si traduce in obbedienza incondizionata: Lei accetta, detto paradossalmente, con piena libertà, diventare la schiava del Signore: “Si faccia in me secondo la tua Parola”.
5. “Benedetta sei Tu fra tutte le donne”
Questa pienezza di consacrazione di Maria conduce a una missione: anzitutto, quella di essere la Madre del Figlio di Dio fatto Uomo; ma, inseparabilmente, anche quella di donarlo per la salvezza del mondo, imitando umanamente, per dire così, l’azione del Padre: “Dio ha amato tanto il mondo, da dare il suo Figlio unico…” (Gv 3, 16): e tutto questo, “per opera dello Spirito Santo”. Questo portare Dio verso quelli a cui Dio stesso ci invia è la concretizzazione della nostra consacrazione, a immagine di Maria: Lei “ci educa alla pienezza della donazione al Signore e ci infonde coraggio nel servizio dei fratelli” (Cost. 92).
Per questo, non si può staccare dall’Annunciazione la visita di Maria: “Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda” (Lc 1, 39). La presenza di Maria, portando con sé il Salvatore, è fonte di gioia traboccante: quella stessa gioia con la quale l’Angelo la saluta; che si manifesta persino nel bambino Giovanni, ancora nel seno della sua madre! Elisabetta ribadisce a Maria questa promessa di felicità, sottolineando, inoltre, la sua radice: la fede. “Beata colei che ha creduto, perché avranno compimento le parole del Signore” (Lc 1, 45).
È molto interessante scoprire che qui siamo di fronte alla prima “beatitudine” evangelica; e l’ultima beatitudine, che forma con questa una meravigliosa inclusione, ha lo stesso contenuto: la fede. “…Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno!” (Gv 20, 29). Senza la prospettiva della fede, non possiamo né capire né accettare le altre “beatitudini” che Gesù presenta (Mt 5, 3-12; Lc 6, 20-23). Ma possiamo ancora dire una parola a questo riguardo: Maria, di fronte all’annuncio della Risurrezione di Gesù, suo Figlio, si trova tra quelli che “pur non avendo visto, hanno creduto”: non esiste nessun testo neotestamentario che ci racconti un’apparizione di Gesù risorto alla Madonna; e considero che, invece di inventare apparizioni, o andare a cercare testi apocrifi del passato (o del presente, che anche ci sono), è molto più arricchente costatare questa consolante assenza, che colloca Maria insieme con noi, invitandoci ad essere, anche noi, “felici perché abbiamo creduto”.
Finalmente, Elisabetta “esclamò a gran voce: ‘Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!’” (Lc 1, 42). Come intendere questa doppia benedizione, se non soltanto dalla fede? Anche perché dobbiamo riconoscere che, umanamente parlando, l’elezione-vocazione-missione di Maria non ha reso più facile la sua vita, o la realizzazione dei suoi piani personali: tutto il contrario… Accettare la Volontà del Signore nella nostra vita non significa che, in maniera automatica, questa sarà più facile o più tollerabile. Il Signore ci garantisce, come vediamo nella vita di Abramo, Mosè, Geremia e anche di Maria, una cosa sola: “Io sarò con te”. “Nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rom 8, 39).
Questa scena meravigliosa culmina col Magnificat: Maria loda Dio per quello che ha fatto nella sua vita, “perché ha guardato l’umiltà della sua serva” (Lc 1, 48), e colloca quest’elezione di Dio nella prospettiva della fedeltà divina e, in conseguenza, come compimento delle sue promesse (cfr. Lc 1, 54-55): è un Dio Santo, che accoglie e innalza gli umili, poveri e affamati, e niente può fare di fronte all’autosufficienza dei ricchi, i potenti e i superbi! In fondo, possiamo trovare qui, in una meravigliosa sintesi, quello che costituisce il midollo dei consigli evangelici: il primato assoluto di Dio, e il desiderio dell’unione con Lui realizzando pienamente la sua Volontà (obbedienza), come espressione dell’amore (castità), nello spogliamento totale di sé stessa (povertà). È, veramente, la prima consacrata!
6. Maria Immacolata Ausiliatrice nel Carisma Salesiano
È indubbiamente un tema centrale nel nostro Carisma, ma allo stesso tempo impossibile da abbracciare in tutte le sue dimensioni. Mi limiterò a sottolineare i testi delle nostre Costituzioni dove viene esplicitamente menzionata.
Sappiamo che ci sono due articoli totalmente dedicati a Lei: l’articolo 8 (nuovo nella redazione definitiva del 1984) e il 92. Si trovano in contesti molto diversi: il primo, entro la descrizione della nostra identità carismatica, e ciò fa più rilevante il suo contenuto; e il secondo, nella sezione sulla nostra vita di preghiera, che viene caratterizzata come “in dialogo con il Signore”.
Nell’articolo 8, viene sottolineata l’azione di Maria nella vita del nostro Padre e Fondatore con tre verbi: “ha indicato, guidato, sostenuto, specialmente nella fondazione della nostra Società”. Tutto questo, evidentemente, viene collocato nel Piano di Dio, come dice l’articolo primo della nostra Regola di Vita: “Lo Spirito Santo suscitò, con l’intervento materno di Maria, san Giovanni Bosco” (Cost. 1).
In maniera simile, anche noi “crediamo che Maria è presente tra noi e continua la sua ‘missione di Madre della Chiesa e Ausiliatrice dei Cristiani’”. Pienamente convinti di questo, forse la domanda che dobbiamo porre davanti ai nostri occhi e al nostro cuore è: anche noi lasciamo che Maria Santissima ci indichi il nostro campo di azione, ci guidi e ci sostenga?
Nel contesto della Missione salesiana, Maria ci educa con il triplice atteggiamento teologale: con un riferimento al Magnificat, “ci affidiamo a Lei, umile serva in cui il Signore ha fatto grandi cose, per diventare, tra i giovani, testimoni dell’Amore inesauribile del suo Figlio” (Cost. 8); “la facciamo conoscere e amare come Colei che ha creduto, aiuta e infonde speranza” (Cost. 34).
L’articolo 92, invece, nel contesto della preghiera, ci presenta Maria anzitutto come Modello da contemplare e imitare; in particolare nella donazione, unica e incondizionata, a Dio e ai giovani: “Maria Immacolata e Ausiliatrice ci educa alla pienezza della donazione al Signore e ci infonde coraggio nel servizio dei fratelli”.
Finalmente, nel contesto della vita del salesiano intesa come “esperienza permanente” di formazione, e in conseguenza come un processo che mai finisce, troviamo un titolo semplice, ma di una densità straordinaria: Maria, Madre e Maestra (cfr. Cost. 98). Il sottofondo di questo articolo ci invita a sentirci “figli nel Figlio”, a lasciar che anche a ognuno di noi Maria dia un corpo e un cuore come quello di Cristo, in particolare perché, come dicevamo prima, ci insegni ad amare, come ha insegnato a Don Bosco (cfr. Cost. 84); anzi come ha insegnato a Gesù e lo ha educato.
Vorrei finire concretizzando ancor di più la presenza della Madonna nel nostro Carisma, partendo da una constatazione che è implicita in questo che abbiamo detto.
È fuori dubbio che la Madre di Dio ha, nel nostro Carisma, una rilevanza singolare; basta ricordare la frase di Don Bosco: “Tutto ha fatto Lei”. Questa rilevanza, anzi, oserei dire questa centralità, appartiene soltanto all’esperienza personale di Don Bosco, legata alla sua situazione e al suo tempo, o è parte integrante della nostra identità salesiana?
Io credo che tutti noi siamo convinti che non si tratta soltanto di un elemento aleatorio, semplice vestigio della devozione personale del nostro Padre. Tra altri elementi possibili di risposta e arricchimento, vorrei sottolinearne soltanto uno, che sgorga proprio dalla fonte stessa del nostro Carisma. Pensiamo soprattutto ai destinatari prioritari della nostra Missione: i ragazzi e giovani più poveri, abbandonati e in pericolo. In altre parole: persone che, umanamente parlando, “valgono” poco, o nulla; ma, proprio per questo, sono i prediletti di Dio, perché l’Amore divino - come abbiamo riflettuto in questi giorni - è incondizionato, e ha sempre l’iniziativa: non ci ama perché siamo amabili, ma siamo amabili, cioè degni di essere amati, perché Lui ci ama. “Quia amasti me, Domine, fecisti me amabilem”, dice in maniera geniale sant’Agostino.
Orbene: non è l’incondizionalità un elemento tipicamente femminile-materno dell’amore, così come l’esigenza (ben intesa) è il corrispondente maschile-paterno? Non capirebbe niente, e non potrebbe condividere la situazione dei destinatari prioritari della nostra Missione chi, anche amandoli veramente, non cominciasse per amarli incondizionatamente; ancor di più: maternamente. Non prendere sul serio questo, non è forse un segno di pericolosa dimenticanza della nostra predilezione carismatica? È vero, ci sono dei giovani con i quali non è necessario cominciare con l’atteggiamento materno dell’incondizionalità, nel nostro amore e nel nostro lavoro educativo-pastorale; ma proprio per questo, sono i nostri destinatari prioritari? È con questi “ultimi”, soprattutto, con chi dobbiamo essere, ineludibilmente, “padri maternali”.
Penso che qui possiamo ubicare in maniera rilevante la significatività teologica di Maria, Immacolata Ausiliatrice, nel nostro Carisma: come “il volto materno dell’Amore di Dio”.
Il Rettor Maggiore, alla fine della sua Lettera: “Sei Tu il mio Dio, fuori di Te non ho altro bene”, ci invita a pregare così Maria: “A Lei chiediamo che ci insegni ad aprirci all’azione trasformante e santificatrice dello Spirito. A Lei affidiamo la nostra vocazione salesiana perché ci renda ‘segni e portatori dell’Amore di Dio ai giovani’” (ACG 382, p. 28).
In questo momento trascendentale della Congregazione, affidiamo a Lei il nostro Capitolo Generale, perché a tutti noi, e a tutti i nostri fratelli nella Congregazione sparsa nel mondo intero, ottenga la grazia da Dio nostro Padre di un profondo rinnovamento nella nostra identità carismatica e nella nostra passione apostolica, per la salvezza dei nostri cari giovani!
PREGHIERA – MARIA, MADRE E MAESTRA
Santissima e Immacolata Vergine Maria,
noi guardiamo a te, la “piena di Grazia”,
e con te ringraziamo il Padre
che in te ha operato le meraviglie del suo Amore.
In questo Capitolo Generale
vogliamo rinnovare il nostro “sì” al suo progetto di salvezza
per il quale ci ha consacrato
con la vocazione salesiana,
come segni e portatori del suo amore ai giovani,
specialmente i più poveri, abbandonati e in pericolo.
Insegnaci, tu che sei stata la Maestra di Don Bosco,
a imitare le sue virtù:
in particolare l’unione con Dio,
la sua vita casta, umile e povera,
l’amore al lavoro e alla temperanza,
la bontà e la donazione illimitata ai fratelli,
la sua fedeltà al Papa e ai Pastori della Chiesa.
Tu hai indicato a Don Bosco il suo campo di azione,
lo hai sempre guidato e sostenuto nella sua opera.
Ci affidiamo a Te, umile serva,
in cui il Signore ha fatto grandi cose,
per diventare tra i giovani
testimoni dell’amore inesauribile del tuo Figlio.
Guida e sostieni anche noi,
in quest’oggi della storia e della nostra Congregazione,
perché attraverso questo Capitolo Generale,
possiamo crescere nell’amore e nella fedeltà
al Signore e ai giovani che Lui vuole affidarci.
AMEN.
1 Praticamente tutte le lingue occidentali conservano questa dualità dell’attesa-speranza: wait-hope, espera-esperanza, warten-hoffen, attendre-espérer…
2 Citato da: JÜRGEN MOLTMANN, Teologia della Speranza, Brescia, Queriniana, 1977, p. 20.
3 Citato da J. MOLTMANN, Trinidad y Reino de Dios, Salamanca, Ed. Sígueme, 1983, p. 37.
4 Possiamo ricordare il recente Congresso sulla Vita Consacrata: “Passione per Cristo, passione per l’umanità”.
5 J. MOLTMANN, Il Dio Crocifisso, Brescia, Queriniana, 1977, p. 313-314.
6 Cfr. EBERHARD JÜNGEL, Dio Mistero del Mondo, Brescia, Queriniana, p. 420.
7 Citato da J. PIEPER, Amor, en: Las Virtudes Fundamentales, p. 514.
8 FEDERICO NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi Edizioni, 27a. Ed., 2006, p. 102.
9 JÜRGEN MOLTMANN, Il Dio Crocifisso, Brescia, Queriniana, 1977, p. 259.
10 RICARDO DE SAN VÍCTOR, De Trinitate, III, 4, Roma, Città Nuova Editrice, 1990, p. 130.
11 HANS URS VON BALTHASAR, Teologia dei Tre Giorni, Brescia, Queriniana, 1990, pp. 39-40.
12 EBERHARD JÜNGEL, Dio Mistero del Mondo, Brescia, Queriniana, 2004, 3ª ed., p. 416-417.
13 SANT’AGOSTINO, In Ioannis Epistolam Tractatus 5, 12, Roma, Città Nuova Editrice, 1985, p. 1743.
14 J. PIEPER, Sull’amore, Brescia, Morcelliana, 1974, p. 51; cfr. anche pp. 64ss.
15 Spuntava ai suoi occhi una lacrima / ed al mio labbro una frase di perdono. /Parlò l’orgoglio e si asciugò il suo pianto / e la frase nelle mie labbra spirò. / Oggi vado per una strada, ed ella, per un’altra; / ma pensando al nostro mutuo amore, / io dico ancora: perché tacqui quel giorno? / Ed ella dirà: perché non piansi io?
16 N. CABASILAS, De Vita in Christo III, citato da: HANS URS VON BALTHASAR, Teologia dei Tre Giorni, Brescia, Queriniana, 1971, p. 33.
17 Forse potrebbe persino vedersi, da questo punto di vista, il midollo della discussione teologica degli anni 50 sul tema - indubbiamente, centrale nella teologia cattolica - del Soprannaturale.
18 S. Th., I, q. 38, a. 2, resp. Il testo originale é: “Ratio autem gratuitae donationis est amor, ideo enim damus gratis alicui aliquid, quia volumus ei bonum. Primum ergo quod damus ei, est amor quo volumus ei bonum. Unde manifestum est quod amor habet rationem primi doni, per quod omnia dona gratuita donantur”.
19 J. PIEPER, L’Amore, Brescia, Morcelliana, 1974, p. 8.
20 « Se mi si chiede di spiegare perché l’amavo, mi accorgo che ciò non lo si può esprimere se non rispondendo : Perché era lui e perché ero io », citato da: M. WIRTH, François de Sales et l’Éducation, Paris, Éditions Don Bosco, 2005, p. 92.
21 SAN AGUSTÍN, Confesiones III/1, Madrid, BAC, 1991, p. 131.
22 JOSEF PIEPER, Sull’Amore, pp. 58-59 (la citazione de Lewis si trova in: C. S. LEWIS, Los Cuatro Amores, Madrid, Rialp, 2002, 145).
23 J. MOLTMANN, Il Dio Crocifisso, Brescia, Queriniana, 2002, pp. 248-249.
24 F. M. DOSTOYEVSKI, Delitto e Castigo, Milano, Mondadori, 2004, p. 30.
25 J. PIEPER, Sull’Amore, p. 65.
26 S. C. LEWIS, I quattro Amori, Milano, Jaca Book, 2006, 115-116. Los Cuatro Amores, pp. 140-141.
27 Cfr. EBERHARD JÜNGEL, Dio Mistero del Mondo, Brescia, Queriniana, 2004, p. 414.
28 Ibid.
29 F. M. DOSTOEVSKIJ, l’Idiota, Torino, Einaudi, 2004, p. 220.
30 F. M. DOSTOEVSKIJ, I Demoni, Torino, Einaudi, 1994, 62-63.
31 GIOVANNI BOSCO, Memorie dell’Oratorio, Roma, LAS, 1991, 36.
32 Cfr. il testo straordinario (purtroppo, messo in una nota persa in fondo ad una pagina!) di EBERHARD JÜNGEL, Dio Mistero del Mondo, Brescia, Queriniana, 2004, p. 416, nota 15 (anche se devo chiarire che non sono totalmente d’accordo con il linguaggio lì utilizzato).
33 Questi due sensi: il secondo e il terzo, che qui diamo al saluto angelico corrispondono, più o meno, a quello che la teologia classica, con una grande ricchezza ma con espressioni troppo inadeguate, chiama “Grazia Increata” e “Grazia Creata” (senza voler fare esegesi del testo lucano o della teologia angelica).