Don Bosco - Il Galantuomo pel 1883
Un addio del galantuomo ai suoi carissimi Lettori
Come sapete, Lettori carissimi, io compii il 30° anno di vita pubblica, che, coi 37 di vita
privata, sono 67 anni.
È oramai tempo che io mandi altri da voi, e che mi metta sul serio a pensare ai fatti miei.
Uno dopo l’altro vedo che se ne vanno tutti nella casa della loro eternità, ed il tempo,
essendo galantuomo, non bada a papi, a re, a ministri, a generali, a signori {3 [101]} ed a poveri,
a studiosi e ad operai, tutti tratta in eguale maniera. Eguaglianza completa.
Ma prima di darvi l’ultimo addio, non posso fare a meno di dirvi due parole d’affetto, due
parole sulla mia origine e vita. Sarò breve.
Io mi chiamo Giovannino, così volle mia madre nel battesimo.
La genealogia di mio padre risale fino ad Adamo certamente, ma nessuno dei miei
antenati si curò di conservarne memoria.
Il nome di mio padre era Giandoja. Uno di quegli uomini, vi dico io! L’Europa, con tutte
le sue grandezze napoleoniche, non ne vantava uno così da bene, probo, onorato.
Fu chiamato Giandoja da mio Nonno, per ricordare la memoria dell’arcibisavolo del suo
arcinonno di nome Giovanni dal Doglio, a causa di un arnese che nel dialetto {4 [102]}
chiamasi doja, specie di bottiglia o fiasco di creta usato da lui, come usa la povera gente, per
portare il vino a tavola.
Quando io nacqui, mio padre e mia madre erano appena usciti forti e ringiovaniti da 26
anni di dura prova.
Avevo sei anni, quando alcuni dei miei fratelli maggiori, ardenti di novità e di libertà, a
me parlavano di esse siccome delle cose migliori che vi fossero.
Ma mio padre dopo dura esperienza ed amari disinganni, mi insegnò che le migliori
novità e libertà, anzi la vera novità e la vera libertà, sono quelle d’un galantuomo. Soventi volte
mi ripeteva: Giovannino! non badare agli apparenti vestiti di gala dei tuoi fratelli, il vero
galantomismo non istà in gale, ma nell’acquisto della sapienza e nell’operosità. {5 [103]}
Avendo egli studiato nella lingua che parlavano gli antichi nostri nonni latini, mi
aggiungeva: I Romani erano caratteri serii, e non dicevano galantuomo, ma vir probus, honestus,
liberalis. Tu non devi badare a fare il galante, ma sì il galantuomo nel significato serio della
parola. Tutto questo me lo diceva mentre ero pastorello su pei colli monferrini.
Studiai poi a pie’dei colli ed a pie’dei monti e vidi che mio padre aveva ragione, e piantai
i piedi al muro di volere e fortissimamente voler essere galantuomo.
Compiti i miei studi e messomi a 26 anni alla pratica del lavoro, riconobbi che l’arte di
farsi galantuomo e di farne altri, è arte dell’Artefice Superno, il quale tiene in sua mano il
mondo, ed a Lui mi abbandonai. Venni ammesso tra gli operai dal codino assai lungo. {6 [104]}
Osservai i bisogni dei miei fratelli sofferenti e ne vidi parecchi storpi, sordi, ciechi; altri
gementi in oscure prigioni, ed altri fra tenebrose vie che a quelle conducono.
Sposai la loro causa e con l’aiuto di Dio ne raddrizzai parecchi, e molti mi furono
figliuoli, cari come le pupille dei miei occhi.
Ne liberai gran numero dalle carceri e dalle catene dell’ignoranza, più terribili d’ogni
altro umano servaggio, ed alcuni vennero in casa mia, e mi consolarono.
A mantenerli fui aiutato da mio padre e da mia madre e dal lavoro degli stessi miei figli,
al quale io pure ebbi parte non piccola.
Fui muratore, fabbro, falegname, sarto, calzolaio, e loro insegnai lavorando.
Non bastando a mantenerli, e non avendo cuore di metterli in {7 [105]} una strada, chiesi
financo elemosina ai miei benestanti fratelli durante il giorno, scrivendo di notte per illuminarli
sui loro doveri di soccorrere le altrui miserie, ricordando ai miei fratelli miserabili di sopportare
con pazienza il loro stato, e di rialzarsi col lavoro.
Comparso in abito di gala in società, al mio primo mostrarmi, fui tenuto per oscurantista.
Alcuni mi chiamarono retrogrado, ma io risposi con un avanti di 30 anni.
www.donboscosanto.eu
2/4