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Don Bosco - La persecuzione di Decio e il pontificato di San Cornelio I papa
LA PERSECUZIONE DI DECIO E IL PONTIFICATO DI SAN
CORNELIO I, PAPA
per cura del sacerdote
BOSCO GIOVANNI
I
La lettera dell'alfabeto segna il numero progressivo de' fascicoli riguardanti la Vita dei Papi.
TORINO
TIP. G. B. PARAVIA E COMP.
1859 {1 [1]} {2 [2]}
INDEX
Capo I. Sede vacante - Caduti - Sacrificati - Turificati - Idolatri - Libellatici - Fedeli - Martiri -
Confessori - Estorri - Professori..................................................................................................3
Capo II. Gloriosa confessione di S. Acacio.................................................................................4
Capo III. S. Vittoria e S. Anatolia martiri....................................................................................6
Martirio di S. Agata.....................................................................................................................8
Capo IV. Storia dei sette dormienti.............................................................................................9
Capo V. Moltitudine di martiri. - S. Polliutto - Pionio - Andrea - Paolo - Dionigia - S.
Cristoforo e sue immagini - S. Venanzio...................................................................................12
Capo VI. Ritiro di s. Cipriano = Lettera al suo clero ed ai Confessori di Cartagine.................14
Capo VII. Biglietti d'indulgenza - Fermezza della Chiesa Romana - Lettera ai Cartaginesi.. . .15
Capo VIII. Attaccamento di S. Cipriano alla Chiesa Romana. - Lettera del clero di Roma a
questo santo................................................................................................................................16
Capo IX. Elezione di S. Cornelio. Rare virtù di questo pontefice.............................................17
Capo X. Scisma di Novaziano. Eccessi di questo scismatico....................................................18
Capo XI. Lettera di S. Dionigi alessandrino. Rispetto di S. Cipriano pel sommo pontefice.....19
Capo XII. Felicissimo a Roma - Lettera di s. Cipriano al Papa.................................................20
Capo XIII. Concilio di Roma - Novaziano si allontana da questa città - Ritorno alla fede
cattolica......................................................................................................................................20
Capo XIV. Trattato dell'unità della Chiesa................................................................................21
Capo XV. Morte dell'imperatore Decio. - Trasporto delle reliquie di S. Pietro e di S. Paolo. -
Rinnovamento della persecuzione.............................................................................................23
Cornelio a Lupicino...................................................................................................................24
Capo XVI. Gloriosa confessione di S. Cornelio. - Suo esilio. - Lettera a lui scritta da S.
Cipriano.....................................................................................................................................24
Capo XVII. S. Cornelio richiamato a Roma è interrogato dall'imperatore. - Guarisce una
paralitica. - Converte alla fede la famiglia di S. Cereale. ― Suo martirio................................25
Capo XVIII. Ordinazioni e scritti di S Cornelio. - Suo culto e protezione di lui contro alla
paralisia......................................................................................................................................27
Capo XIX. Profanazione di alcune reliquie di S. Cornelio. Sono tolte al furore de' protestanti.
................................................................................................................................................... 27
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Capo XX. Dottrina della Chiesa Cattolica intorno al culto delle reliquie.................................28
Indice.........................................................................................................................................30
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Capo I. Sede vacante - Caduti - Sacrificati - Turificati - Idolatri -
Libellatici - Fedeli - Martiri - Confessori - Estorri - Professori.
Il racconto storico, che noi intraprendiamo ad esporre, abbraccia lo spazio di circa quattro
anni. In essi compiesi la persecuzione dell' imperatore Decio ed il pontificato di s. Cornelio. È
vero che una parte delle azioni e lo stesso martirio di questo pontefice avvennero dopo la morte
di Decio; ma siccome Gallo e Volusiano, successori di lui, seguirono la medesima politica e
continuarono la stessa persecuzione, nella storia suole ancora chiamarsi persecuzione di Decio,
cosi noi faremo un periodo solo di tutto il quadriennio.
La fierezza con cui i cristiani erano oppressi {3 [3]} durante questa persecuzione fu
dolorosa cagione che molti fedeli prevaricassero nella fede.
Le violenze poi usate dai persecutori e la loro diabolica sollecitudine per impedir le
radunanze dei sacri ministri fecero si, che non si potè eleggere un novello pontefice se non sedici
mesi dopo la morte di s. Fabiano. Questo spazio di tempo dicesi Sede vacante, perchè non eravi
alcun papa, ed e quasi il tempo più lungo notato nella storia ecclesiastica, in cui la santa sede sia
stata senza il suo supremo e visibile Pastore. Il capo visibile della Chiesa era rappresentato dal
clero di Roma, che, come dice s. Cipriano, ne assunse provvisoriamente il governo. Ed appunto i
vari paesi della cristianità nei gravi bisogni spirituali continuarono a ricorrere alla Chiesa di
Roma.
S. Cipriano dà la ragione delle deplorabili cadute che succedettero nella persecuzione di
Decio. Molti fedeli, egli dice, erano troppo attaccati ai beni della terra, e le ricchezze legarono
loro i piedi per modo, che al tempo di correre coraggiosi al martirio si trovarono allacciati e
caddero miseramente rinnegando Gesù Cristo. {4 [4]}
Quei miseri prevaricatori erano chiamati con varii nomi. Dicevansi in generale Caduti
quelli che in qualche maniera avessero rinnegata la fede, perchè dallo stato sublime di figliuoli di
Dio, a cui erano stati elevati col battesimo, cadevano miseramente schiavi di Satanasso perdendo
così ogni diritto alla grande felicità del cielo.
I caduti solevansi appellare con varii nomi. Alcuni erano detti Sacrificati, perchè eransi
lasciati indurre a fare sacrifizi agli idoli o si cibavano di cose offerte ai medesimi. Perciocchè in
quei calamitosi tempi di prevaricazione il solo cibarsi di tali cose era dai gentili reputato indizio
di aver negata la fede.
Turificati dicevansi quelli che atterriti dai tormenti o dalle minaccie prendevano il
turibolo ed offerivano incenso alle insensate divinità.
Idolatri poi erano appellati coloro, i quali o coi fatti o colle parole davano indizio di
porgere qualche culto agli idoli.
Libellatici: sotto a tal nome comprendevansi varii segni con cui davasi ad intendere di
avere rinnegata la fede.
Alcuni pagavano danaro per far scrivere {5 [5]} il loro nome nel catalogo di quelli che
avevano idolatrato, sebbene non lo avessero fatto.
Altri poi pagava danaro per ottenere un libretto, ossia un certificato, in cui egli era
lasciato in libertà come se avesse rinnegato, mentre egli non aveva nè fatto nè detto cosa alcuna
contro alle verità della fede.
Ma la condotta dei libellatici fu altamente disapprovata dalla Chiesa, perchè sebbene essi
non facessero nè dicessero cosa alcuna contro alla fede, tuttavia in faccia ai pagani davano a
credere di averla rinnegata. La qual finzione è colpa grave, ed altamente proibita da Gesù Cristo,
il quale disse: colui che per motivi umani non ha coraggio di confessare me in faccia agli uomini,
io avrò vergogna di confessare lui in faccia al mio celeste padre. (Luc. 9. 26).
Siccome quelli che abbandonavano la fede erano con diversi nomi chiamati; così quelli
che con animo forte pativano per Gesù Cristo prendevano pure varii nomi, secondo il modo, il
tempo, che confessavano la fede, e sopportavano i disastri della persecuzione. Dicevansi dunque:
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Martiri, coloro che costantemente tolleravano i supplizi per la fede, quando anche non
fossero morti nei tormenti. Per esempio s. Giovanni Evangelista si suole appellare martire,
perchè per la fede fu in Roma gettato in una caldaia di olio bollente, da cui venne
prodigiosamente liberato, e dopo molti anni terminò i suoi giorni in pace. Così pure fu di s.
Acacio, siccome fra poco saremo per raccontare. La parola martire significa testimonio perchè ì
martiri confessando la fede davano pubblica testimonianza della verità della cattolica religione.
Protomartire vuol dire primo martire e si chiama con tal nome s. Stefano, perchè dopo Gesù
Cristo fu il primo a dare la vita per la fede.
Confessori erano detti quelli che avevano già confessato di essere cristiani in faccia ai
giudici, od erano stati posti in prigione per la fede, ma non erano ancora stati soggettati ai
tormenti.
Estorti. Con questo nome indicavansi quelli, che per timore di non poter reggere ai
tormenti abbandonavano ricchezze, patria, parenti, amici, ed andavano a stabilirsi in paesi esteri
ovvero stranieri. Essi confessavano la fede cattolica piuttosto {7 [7]} coi fatti che colle parole.
Facevano quanto consiglia di fare il Salvatore nel Vangelo che disse: quando siete perseguitati in
una città, fuggite in un'altra. Cosi fece s. Paolo primo eremita, s. Atanasio vescovo di
Alessandria, ed altri.
Professori poi erano detti quelli, che trasportati dall' amor di Dio e spinti dal desiderio di
morire per la fede, si offrivano spontaneamente ai carnefici pronti a patire qualunque atroce
tormento per la religione.
Costoro facevano queste eroiche azioni illuminati da una grazia speciale dello spirito
santo che loro parlava nel cuore.
(V. Baronio an. 253)
Capo II. Gloriosa confessione di S. Acacio.
Dobbiamo dirlo con profondo dolore, molti cristiani, troppo confidando in sè stessi,
caddero miseramente; preferirono i beni della terra a quelli del cielo, e abbandonarono Gesù
Cristo. Ma conforta il pensiero che e di gran lunga maggiore il {8 [8]} numero di coloro che
confessarono intrepidamente la fede. Noi sceglieremo le azioni di alcuni di questi eroi del
Cristianesimo, e li sceglieremo nelle varie parti della cristianità. La qual cosa serve anche a far
conoscere quanto fosse già dilatata e con fervore praticata la Cristiana religione. Comincieremo
dalla Confessione di s. Acacio.
Era Acacio vescovo di una città delta Antiochia nell'Asia minore; diversa da Antiochia
capitale della Siria.
Condotto alla presenza del governatore, di nome Marziano, fu interrogato cosi: Tu che
vivi sotto alle leggi Romane dovresti meglio amare i nostri Principi.
Acacio rispose: Chi ama più i nostri Principi che noi Cristiani? Noi preghiamo ogni
giorno per la conservazione della loro persona, per la prosperità del loro regno, per la gloria delle
loro armi, e generalmente per tutto ciò che può portare loro qualche bene.
Marziano: Se tu ami i nostri principi, perchè non fai un sacrifizio all' imperatore per
fargli conoscere il rispetto e l'affezione che i Cristiani hanno per lui?
Acacio: Noi diamo di cuore al nostro {9 [9]} sovrano tutto quello che a lui dobbiamo, ma
egli non deve esigere da noi alcun sacrifizio. Perchè, lascia che te lo dica, chi può mai indursi a
fare sacrifizi ad un uomo mortale, pensando che egli oggi comanda, e forse domani sarà colpito
dalla morte? L'imperatore, come noi, è sottomesso al Signore del cielo e della terra; gli onori
divini non si possono rendere se non a Dio onnipotente, Creatore di tutte le cose, dinanzi a cui
ogni potenza deve tremare.
Marziano, che deliziavasi molto a disputare, accoglieva volentieri ogni occasione per
attaccare i principii del Cristianesimo, perciò dimandò ad Acacio: Voi, cristiani, mi andate
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sempre parlando del vostro Dio, ed io nol vidi mai, nè mai alcuno potè farmelo conoscere; se tu
ne sei capace, fammelo conoscere, ed allora saprò anch'io chi egli sia.
Acacio: Fosse vero che tu potessi realmente conoscere il nostro Dio, ma in modo utile
alla tua eterna salute.
Marziano: Dimmi dunque chi è questo tuo Dio?
Acacio: Il nostro Dio è il Dio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe. {10 [10]}
Marziano l'interruppe dicendo: Costoro sono forse altrettanti Dei?
Acacio: No: costoro non sono Dei, ma sono uomini venerabili, a cui il nostro Dio si è
manifestato, e quel Dio che loro si manifestò è il vero Dio che i Cristiani adorano e che tutti
dobbiamo temere.
Marziano proseguì: quale adunque è il suo nome? Acacio citò alcuni dei varii nomi con
cui suole essere nominato Iddio nella sacra scrittura; cui tosto soggiunse Marziano: quali chimere
sono mai queste tue! lascia le cose invisibili, onora piuttosto gli Dei che tu puoi vedere.
Acacio dimandò: quali sono gli Dei che tu mi proponi?
Marziano rispose: fra i nostri Dei avvi il grande Apollo, cui tu dovresti fare un sacrifizio
affinchè ci preservi dalla peste e dalla carestia; egli è quell'Apollo che conserva e governa tutto il
mondo.
Acacio: di quale Apollo parli tu, forse di quell'Apollo, che vivendo si diede ai vizi
impuri? Chi mai vorrà adorare come Dio colui che tu arrossisci d'imitare e i cui imitatori
puniresti tu stesso?
Marziano: Ecco quello che i cristiani sogliono rispondere. Lascia queste tue chiacchere,
{11 [11]} vieni con me, e se non vuoi adorare Apollo, fa almeno un sacrifizio al nostro gran
Giove e alla divina Giunone, di poi tra la gioia ed il piacere faremo una festa solenne.
Acacio: E come onorare qual Dio colui, di cui vediamo il sepolcro in Creta? Sarà egli
forse risorto?
Marziano trovandosi imbrogliato a ragionare montò sulle furie, e troncò ogni disputa
dicendo: Orsù, qui bisogna o sacrificare o morire.
Acacio vedendo tornare inutile il suo discorso, con animo intrepido disse: Ecco
l'argomento più persuadente che avete voi. Anche i ladroni sanno adoperarlo quando assalgono i
passeggeri nelle selve o nello strade deserte, volendo assolutamente o la borsa o la vita. Poco
però m'importa: tu potrai farmi morire, ma non mai convincermi nè spaventarmi.
Le leggi romane condannano gli adulteri, i ladri, gli omicidi. Se io ho commesso
qualcheduno di questi delitti, mi assoggetto alla condanna. Ma se tu mi punisci perchè adoro il
vero Dio, questa sarebbe volontà arbitraria del giudice e non applicazione della legge. Bada però
bene che {12 [12]} così operando ti rendi inescusabile al trono di Dio, perchè al suo gran
tribunale noi tutti saremo da lui giudicati come noi stessi giudichiamo gli altri sopra la terra.
Marziano molto confuso rispose: Io non ho ordine di esaminare molte cose, ma solo di
ridurti all'obbedienza o di punirti.
Acacio: Ed io ho in orrore il rinnegare il mio Dio. Se tu ti credi obbligato di seguire
ciecamente tutti i voleri di un uomo che presto morrà come tutti gli altri e diventerà egli pure
pascolo dei vermi; quanto più io debbo ubbidire al Dio onnipotente che minaccia a quelli, che lo
rinnegano dinanzi agli uomini, di rinnegarli egli pure dinanzi alla corte celeste, quando verrà in
tutto lo splendore della sua gloria a giudicare i vivi ed i morti!
Marziano, persuaso di poter convincere di errore e di stravaganza la dottrina dei cristiani,
credette d'imbrogliare Acacio dicendo: Sapeva già tali pazze idee dei cristiani ed lo voleva solo
udirle a ripetere dalla tua bocca.
Dio pertanto ha un figliuolo secondo te?
Acacio rispose: Si egli ha veramente un figliuolo. {13 [13]}
Marziano: E chi è, come si chiama?
Acacio rispose: Il figliuolo di Dio; il verbo di verita, la parola di grazia.
Marziano: E questo il suo nome?
Acacio: Tu non me lo hai ancora dimandato.
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Marziano: Desidero di saperlo.
Acacio: Il figliuolo di Dio si chiama Gesù Cristo.
Marziano: Da chi l'ha Dio generato?
Acacio: Non bisogna ragionare di Dio, come dei miseri mortali. Egli ha formato il corpo
del primo uomo, poi gli ha dato la vita e lo spirito, ma ha generato il suo figliuolo in una maniera
affatto spirituale, producendolo dal suo proprio essere, come insegnano le nostre divine scritture.
Marziano riprese: Dio è dunque corporeo?
Acacio soggiunse: Donde cavi questa conseguenza, mentre noi lo diciamo invisibile? Dio
solo conosce perfettamente se stesso, noi possiamo soltanto conoscerlo dalla sua potenza e dalle
sue opere. Egli non ha corpo alcuno ed è un purissimo spirito.
Marziano: Se non ha corpo, nemmen può avere nè cuore nè intelletto perchè l'intelletto e
il pensiero nascono dai sensi. {14 [14]}
Acacio replicò: L'intelletto non ha la sua origine nelle nostre membra: è Dio che ce lo dà.
Il corpo e lo spirito nulla hanno di comune se non per la volontà onnipotente del Creatore.
Marziano, vedendo che non gli riusciva il mezzo usato, prese a parlare così: Guarda i
catafrigi (eretici della Frigia) che erano cristiani, essi fanno ora sacrifizio cogli altri; prendi
esempio da costoro, raduna tutti i cristiani della legge cattolica e fa di risolverli ad abbracciare la
religione dell'imperatore.
Acacio: Io non sono il loro padrone; il loro vero padrone e Signore è Dio. Essi mi
ascoltano finchè io li consiglio alla virtù, se io li consigliassi alla colpa, essi mi
abbandonerebbero e non avrebbero che dispregio per me.
Marziano allora portò il discorso sopra i preti e prosegui dicendo: Dove sono i tuoi
compagni maghi, i dottori di questo errore artificioso?
Acacio: Posso assicurarti, che non siamo maghi, niun peccato di tal genere abbiamo da
rimproverarci davanti a Dio. Anzi noi abbiamo sempre avuto in orrore le invocazioni degli Dei
infernali e tutte le tenebrose {15 [15]} osservanze della magia. Le maraviglie poi, che ci vedi
operare, noi le riconosciamo tutte dalla mano di Dio onnipotente.
Marziano: Convien dire, che voi siate maghi molto esperii per infettare tutto il romano
impero con questa perniciosa religione.
Acacio: È nostro studio non d'ingannare gli uomini colla magia, ma toglierli dagli errori
che professano riguardo alle stupide divinità che voi siete tanto sciocchi da onorare e temere
dopo di averle voi stessi fabbricate.
Marziano disse: Dammi il loro nome, se vuoi evitare il castigo.
Acacio rispose: Forse hai speranza di convincerci, se fossimo in gran numero, mentre non
sei capace di convincer me solo? Se tu vuoi sapere il mio nome, nulla m'impedisce di dirtelo.
Comunemente mi chiamano Acacio, ma il mio vero nome è Agatangelo; i miei compagni qui
presenti sono Pisone vescovo di Troia e il sacerdote Menandro. Non dimandarmi di più, e fa di
noi tutto quello che ti piace.
Marziano terminò finalmente l'interrogatorio dicendo: darò all'imperatore conto {16
[16]} di tutte queste cose; intanto rimarrai in prigione fino a che io abbia ricevuto risposta. Il
processo fu infatti mandato all'imperatore Decio, il quale non potè leggerlo senza ammirare le
risposte del santo; e sebbene egli fosse tutto furore contro a' cristiani, tuttavia rispose a Marziano
che lasciasse Acacio e i suoi compagni in libertà.
Il glorioso prigioniero, dopo essere uscito di carcere, convertì ancora molti infedeli e sì
rese assai celebre per santità, miracoli, dottrina e fermezza nella fede. Finalmente morì in pace.
La Chiesa onora la memoria di questo illustre confessore il giorno trentuno di marzo.
V. Boll. e Surio in tal giorno.
Capo III. S. Vittoria e S. Anatolia martiri.
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La gloriosa martire santa Vittoria era nata a Tivoli città non molto distante da Roma. I
suoi genitori erano cristiani, ed ebbero cura di educare cristianamente la loro figliuola. Essa
formava la delizia dei suoi parenti sia per le rare qualità personali, {17 [17]} sia per lo splendore
delle virtù. Volevano darle uno sposo di nome Eugenio, ricco signore di Roma, il quale era bensì
dotato di buone qualità morali, ma era pagano. Per farla accondiscendere, le fecero osservare che
ella avrebbe con facilità guadagnato un'anima a Gesù Cristo rubandola al paganesimo. Vittoria
acconsenti. Già si preparava ogni cosa per le nozze, quando un'amica di lei, di nome Anatolia, fu
richiesta da un nobile romano di nome Tito Aurelio. Siccome questi era eziandio pagano, così
Anatolia si rifiutava, perciocchè oltre di aver fatto il voto di verginità, temeva le cattive
conseguenze che sogliono derivare dalla frequenza di un marito che professa una religione
contraria alla cristiana.
I parenti di Anatolia, per indurre la loro figlia a prestare il suo consenso, interposero la
mediazione di Vittoria, che si assunse l'incarico di fare quanto poteva per guadagnarla. Ella
adunque va a trovare la sua compagna e dopo mille segni di amicìzia prese a parlare così: tu sai,
mia cara Anatolia, che io sono cristiana come sei tu e che perciò io non sarei giammai per darti
un consiglio dannoso. Certamente non ignori {18 [18]} che io sono promessa ad Eugenio, e che
Aurelio ti dimanda per isposa. Bisogna adunque persuaderci che la volontà di Dio, manifestataci
per bocca dei nostri parenti, sia che noi acconsentiamo per guadagnare a Dio i nostri sposi.
Eglino sono ambidue di buon carattere e di ingegno perspicace, perciò ben presto saranno
guadagnati a Gesù Cristo.
Anatolia ascoltò tranquillamente la sua amica senza interromperla; di poi prese a
risponderle così: credimi, cara Vittoria, noi abbiamo un partito assai migliore di questi due
signori romani. Convengo che lo stato di matrimonio è uno stato santo, ed io non biasimo coloro
che lo abbracciano credendovisi chiamati. Ma tu converrai meco, che avvi uno stato assai più
perfetto ed è quello delle vergini. Sono desse che compongono la corte del celeste sposo Cristo
Gesù; esse l'accompagnano ovunque in qualità di sue dilette spose. Dio non condanna il
matrimonio, ma quanto mai egli loda e raccomanda il celibato! Eugenio ti vuole sposare, ma
Gesù Cristo desidera pure che tu sia sua sposa; resta a te il giudicare a chi tu voglia dare la
preferenza. Per me il partito è preso, e {19 [19]} non avrò giammai altro sposo che Gesù Cristo.
Che se vuoi che ti parli col cuore alla mano, ti farò una gran confidenza. Avendo saputo
le sollecitudini che facevansi presso a' miei parenti da Aurelio, io mi sono ritirata nel mio
oratorio; e là prostrata dinanzi a Dio feci voto di verginità, risoluta di non voler altro sposo che
Gesù Cristo. La notte seguente ebbi la seguente visione: Un giovane di bellezza celeste,
circondato di soprannaturale splendore mi apparve. Egli portava sulla sua testa un diadema d'oro;
era vestito di porpora e di pietre preziose. Rivolgendosi a me con un'aria dolce e ridente disse
queste, parole: «Oh se mai fosse conosciuta la bellezza ed il pregio della verginità: se mai si
conoscessero i vantaggi di questa celeste virtù, ognuno sacrificherebbe volentieri ogni cosa per
conservarla; e dopo avere tutto sacrificato, si crederebbe di aver ancor fatto nulla.» A queste
parole io mi svegliai e colle lacrime agli occhi mi gettai ginocchioni dimandando istantemente a
Gesù Cristo, che colui il quale mi aveva dette quelle poche parole continuasse ad istruirmi.
Allora intesi la medesima voce che mi {20 [20]} disse: la verginità è una porpora reale che
innalza quelli, che ne sono rivestiti, sopra agli altri e li colloca presso al trono del Divino
Agnello. La verginità è una pietra preziosa che niuno sa abbastanza stimare; è un tesoro
immenso, di cui Dio arricchisce i suoi favoriti. I ladri mettono in opera tutti i loro artifizi e fanno
tutti i loro sforzi per rapirla a quelli che la possedono. Dio ti ha privilegiata accordandoti questa
preziosa virtù, sappila conservare colla massima cautela. La verginità è un fiore che guadagna il
cuore di Dio; ma è un fiore delicato, perciò studia di allontanare da te tutto quello che può
guastarlo. Cosi facendo sta sicura che la conserverai.
Vittoria ascoltò con grande attenzione; quindi mossa dal discorso che aveva udito e tocca
nel cuore dalla grazia di Dio, mia cara, disse alla compagna colle lagrime agli occhi, non sia mai
che tu sola abbi a possedere un bene cosi grande. Gesù Cristo mio Salvatore vuole eziandio
essere il mio sposo, io non ne avrò alcun altro, e non mai cosa del mondo potrà farmi perdere il
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prezioso tesoro della mia verginità. Mi accorgo adesso che la speranza della conversione di uno
sposo pagano era un laccio che il demonio mi tendeva. {21 [21]}
Cara Anatolia, tu sei stata la mia amica in passato, io sarò tua compagna fedele per
l'avvenire; e ci dovesse costare anche la vita non saremo mai più per separarci. Qual cosa di più
grande avvi al mondo che il martirio congiunto colla verginità?
Terminato tale discorso Vittoria si licenzia da Anatolia, va a casa, lo stesso giorno vende
i suoi braccialetti, le gemme preziose, i ricchi suoi orecchini e tutti gli altri suoi donneschi
ornamenti, e ne distribuisce il prezzo ai poveri.
La condotta di queste due vergini manifestò ben tosto la loro risoluzione. Eugenio ed
Aurelio, indispettiti pel rifiuto, dimandarono ed ottennero dall'imperatore di poterle condurre in
una casa di campagna per farle cangiar intenzione o colla dolcezza o colle minaccie ed anche con
maltrattamenti qualora avessero perseverato nel loro proposito. Anatolia fu condotta nella Marca
di Ancona dove soffri molto per la fede e divenne celebre pei miracoli, e per la conversione di
molti che ella seppe guadagnare al Signore. Per questo motivo fu denunciata all'imperatore. Esso
diede ordine di obbligarla ad adorare gli dei, ed in caso contrario metterla a morte. {22 [22]}
L'ordine fu eseguito e la santa compieva gloriosamente il suo martirio per un colpo di spada
l'anno 253 il 9 di luglio; nel qual giorno la chiesa onora la sua memoria.
Santa Vittoria non ebbe una sorte meno felice. Essendo stata rinchiusa in un castello, fu
ivi trattata lungo tempo con crudeltà inaudite. Ma nulla potè far crollare la sua costanza;
vittoriosa di tutti i nemici di Gesù Cristo ella ebbe ancora la consolazione di guadagnare al
Salvatore un gran numero di altre vergini, e se ne contano sessanta, che quasi tutte alla verginità
congiunsero la gloria del martirio. Finalmente Eugenio indispettito pel continuato rifiuto la
denunziò all'imperatore come cristiana ed ottenne la facoltà di farla morire. Il crudele fece venire
un carnefice che con un colpo di spada le trafisse il cuore.
Il suo martirio avveniva il 23 dicembre di quell'anno medesimo. Si assicura che il
carnefice di lei divenne sull'istante coperto di schifosa lebbra, e che morì roso dai vermi sei
giorni dopo. (V. Oddone e Aldelmo di Sass., vita di S. Anatolia. L. Surio 23 dicembre). {23 [23]}
Martirio di S. Agata.
S. Agata è una delle più illustri vergini e martiri della Chiesa: di essa si fa ogni giorno
menzione nella S. Messa ed è annoverata nella serie delle celesti protettrici il cui nome fu scelto
a comporre le litanie de' santi. Nacque in Sicilia da nobilissima famiglia. La sua singolare
avvenenza, le molte sue ricchezze eccitarono il governatore di quell'isola, di nome Quinziano, a
chiederla per sua sposa. Approfittò della persecuzione contro ai cristiani per conseguire tale
intento. Egli diè ordine che Agata, come cristiana, fosse presa e a lui condotta in Catania ove egli
avea residenza. Gli esecutori degli ordini del governatore cercarono la santa vergine e la
trovarono in un luogo dove erasi ritirata per mettere in salvo la sua castità. Allorchè la pia zitella
si accorse di dover cadere nelle mani di costoro, chiese un momento di tempo e fece questa
orazione: Mio Gesù, Signore e padrone di tutte le cose, voi vedete il mio cuore e sapete qual è il
mio desiderio. Voi solo dovete possedermi perchè sono tutta vostra; datemi forza di vincere le
insidie del demonio. {24 [24]}
Giunta in Catania, Quinziano la consegno ad una donna infame di nome Afrodissa.
Non vi fu arte diabolica di cui non siasi fatto uso per tentare la castità di questa vergine;
ma essa fin dall'infanzia erasi consacrata a G. C, cui non cessava mai di raccomandarsi con calde
preghiere. Gesù Cristo colla sua onnipotente grazia la aiutò per modo che i pessimi consigli di
Afrodissa andarono al vento. Finalmente Quinziano comandò che fosse condotta alla sua
presenza. Egli rimproverò Agata, perchè essendo libera, ricca e nobile, si fosse lasciata indurre
ad abbracciare la spregevole professione cristiana. Allora la santa vergine confessò con gran
coraggio la fede di G. C., e protestò di non conoscere nobiltà più gloriosa, nè libertà più vera di
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quella di essere serva di Gesù Cristo. Per fargli poi conoscere quanto infami fossero le divinità
alle quali pretendeva che ella sacrificasse, gli fece questa dimanda: vorreste voi, che vostra
moglie fosse come Venere impudica, e voi simile a Giove?
Quinziano irritato per tale dimanda, cui certamente nulla poteva rispondere, la fece
schiaffeggiare, di poi rinchiudere in prigione. Il dì seguente, fattala di nuovo condurre {25 [25]}
alla sua presenza, le dimandò se aveva pensato di mettere in salvo la vita. La santa rispose: Gesù
Cristo è la mia vita e la mia salvezza. Il governatore ordinò che fosse messa alla tortura; e poichè
vide che i tormenti ordinarii parevano recarle consolazione, comandò che fra gli altri tormenti le
fossero tagliate le mammelle. A questi barbari trattamenti la santa rimproverò il governatore
dicendo: o Quinziano, non hai vergogna di far strappare in me quello che tu stesso in tua madre
succhiasti nella tua infanzia?
Quinziano, confuso della sua barbarie, senza dare alcuna risposta fece ricondurre la santa
in prigione con ordine però che non fosse applicato alcun rimedio alle piaghe di lei, e neppure le
si desse alcun cibo. Ma sulla mezzanotte le apparve san Pietro, principe degli Apostoli, che
perfettamente risanò le ferite di lei e ogni piaga disparve. In quel momento la prigione apparve
illuminata con tanta luce, che le guardie spaventate fuggirono lasciando le porte aperte. Ciò
vedendo gli altri carcerati consigliarono la santa a salvarsi colla fuga.
Ma ella rispose che non voleva in questa {26 [26]} guisa perdere la corona che le stava
già preparata in cielo, a cui unicamente aspirava.
Non bastò questo miracolo per fare aprire gli occhi al misero Quinziano, anzi quattro
giorni dopo fece con nuovi tormenti straziare la forte serva del Signore. Comandò che fosse
posta sopra un braciere ardente, ma colla grazia del Signore ella superò anche questo tormento.
Il tiranno la fece ricondurre in prigione, dove giunta, si pose ginocchieni, ed alzando le
mani al cielo cosi pregò; Signore e Creatore dell'anima mia, che sino dalla infanzia mi avete
conservata; mi avete dato forza per vincere i tormenti del corpo e l'amor del mondo, deh!
ricevete l' anima mia. Il mio cuore nulla più desidera se non abbandonare questa misera vita, ed
andar a godere le vostre infinite misericordie. Fatta questa preghiera, cadde a terra e
placidamente spirò. Ella lasciava il corpo coperto di quelle piaghe che le hanno procacciata la
gloriosa eternità che gode in cielo per tutti i secoli.
La Chiesa celebra la festa di questa santa il 5 febbraio.
(V. Surio e Boll. 5 feb.) {27 [27]}
Capo IV. Storia dei sette dormienti.
Mentre molti Cristiani davano con gioia la vita per la fede, Dio per sostenerli nella fede
ed accrescere ognora più il numero dei fedeli, operava prodigi senza esempio nei fasti della
Chiesa. Fra i molti fatti è specialmente maraviglioso quello dei sette dormienti. Questo fatto
sembrò a molti così strano, che giudicandolo come impossibile risolsero di negarlo senza però
studiare e leggere attentamente i documenti che ce lo assicurano1. {28 [28]}
Eccolo adunque: L'imperatore Decio, nel visitare le provincie del suo impero, giunse ad
Efeso, città dell'Asia minore, sulle rive dell'Arcipelago. Per cattivarsi la benevolenza del popolo,
divisò di fare un solenne sacrifizio alle sue divinità, volendo che tutti vi prendessero parte. Molti
cristiani fuggirono in diversi paesi, la qual cosa fa cagione che l'Imperatore si sdegnasse vie più
contro di loro. Comandò con severità che fossero ricercati ed a viva forza condotti sulla pubblica
piazza perchè prendessero parte a quel sacrifizio, o fossero fatti morire tra i tormenti.
1 In generale i menologi greci antichi parlano dei sette dormienti di Efeso. I maroniti della Siria celebrano la festa di
questi santi con lezioni ed inni proprii. Il martirologio Romano ed il martirologio di Adone, fanno pure
commemorazione di tal fatto. Quelli poi che scrissero più a lungo tale storia sono S. Giacomo vescovo di Sarugia,
città della Mesopotamia, scrittore contemporaneo allo scoprimento dei dormienti. Quasi al tempo di S. Giacomo
scrisse le medesime cose il dotto S. Gregorio vescovo di Tours, asserendo che egli trasse il suo racconto da un
manoscritto Siriaco. In fine veggansi Boll. e Surio, giorno 27 luglio.
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Fra quelli, che si rifiutarono di prendere parte a quel sacrifizio, sono memorabili sette
giovanetti appellati comunemente i Sette Dormienti. Essi appartenevano alle principali famiglie
di quella città, ed alla notizia dei supplizi cui erano assoggettati i cristiani, si ritirarono in una
chiesa per pregare Iddio ad infondere nei loro cuori grazia e coraggio per sè e per coloro che
erano esposti ai tormenti per la fede. I loro nomi sono Massimiano, Malco, Martino, Giovanni,
Dionigi, Serapione e Costantino. Erano da poco tempo colà raccolti, quando passarono alcune
{29 [29]} guardie, che avendoli veduti li denunziarono tosto all'imperatore.
Fattili venire a lui, ordinò loro che immediatamente prendessero parte al sacrifizio, alla
quale empietà si ricusarono eglino con fermezza. Noi, rispondevano, abbiamo consacrato la
purità del nostro cuore a Dio Creatore del cielo e della terra, e potremo forse indurci a sacrificare
agli dei che altro non sono che vanità? L'imperatore in segno di disprezzo comandò che fossero
spogliati delle loro nobili e militari divise e tolte loro le collane d'oro. Poscia fissò un termine a
deliberare quello che volessero fare. Se voi, loro diceva, non acconsentirete a fare sacrifizi agli
dei, sarete vittima del mio sdegno, e vi farò tutti morire di morte crudele.
Conoscendo il grave pericolo, che loro sovrastava, approfittarono di quei pochi giorni
concessi per deliberare, e vendendo le sostanze di cui potevano disporre ne diedero il prezzo
parte ai poveri e parte riserbarono per se stessi. Dipoi tutti insieme uscirono dalla città, e salirono
sopra un monte. Trovata colà una grotta vi entrarono con animo di tenersi nascosti e pregar Dio
che loro desse forza a sopportare {30 [30]} i tormenti, che credevano loro preparati. Il monte
dove si nascosero appellavasi Oclon. Stettero quivi alquanti giorni, e per vivere inosservati
mandavano in città il loro compagno Malco vestito da mendicante per sapere come le cose
passavano, e per comperare i necessarii alimenti.
Malco portò triste notizie. L'imperatore, loro disse, fa cercare i cristiani in ogni luogo per
metterli a morte. Udite tali cose quei santi giovani alzarono le mani al cielo pregando Iddio che
loro concedesse forza e coraggio per riuscire vittoriosi nelle battaglie che reputavano dover
sostenere per la fede. Di poi abbandonandosi nelle mani del Signore, si posero tranquillamente a
sedere e presero ristoro. Mentre parlavano insieme si addormentarono. Piacque a Dio
Onnipotente, dicono gli atti di questo racconto, che il sonno di questi santi giovanetti fosse una
nuova maniera di morte, per dimostrare che Dio è padrone della vita; che egli solo può darcela,
torta, conservarla finchè vuole, e nel modo che vuole. Di lì a qualche tempo Decio ritornò in
Efeso, e fatti cercare quei giovanetti, gli fu risposto che eransi rinchiusi in una grotta del monte
Oclon, pronti a perdere {31 [31]} la vita piuttosto che rinnegare Gesù Cristo. Montato in collera
l' imperatore, mandò sull'istante a chiudere l'entrata di quella grotta con grossissime pietre,
acciocchè i santi restassero colà sepolti vivi. Senza che lo sapesse Decio aveva con lui due
servitori cristiani, i quali per conservare la memoria di quel fatto scrissero sopra alcune piastre di
piombo tutto il caso, come era passato, e lo misero in una cassa di metallo che chiusero,
sigillarono e nascosero segretamente tra le pietre messe a chiudere l'entrata della grotta. Qualche
tempo dopo morì Decio e passò una lunga serie d'anni finchè sali sul trono un imperatore, di
nome Teodosio secondo, che fu cattolico e buon cristiano. Regnando costui, sorsero alcuni
eretici che negavano la risurrezione degli uomini alla fine del mondo.
L'imperatore aborriva l'eresia e gli eretici e desiderava in cuor suo che Dio facesse
qualche miracolo perchè fosse confermata questa verità di fede. Dio esaudì il pio monarca. In
quei tempo, cioè circa l'anno 448, era padrone del monte Oclon, dove era la grotta de' sette
dormienti, un uomo chiamato Adoglio, possessore di molto {32 [32]} bestiame che conduceva al
pascolo su quelle alture. Volendo fare una specie di casuccia o capanna dove passar la notte
pensò di servirsi dell'ammasso di pietre poste a chiudere la grotta. Levandone alcuna fu fatto un
buco per cui vi si poteva liberamente entrare ed uscire. In quel momento il medesimo Iddio, che
già aveva risuscitato Lazzaro morto da quattro giorni, fece risvegliare i sette giovani che, così
disponendo Iddio, avevano dormito circa 200 anni.
Risvegliati che furono, perchè era di buon mattino, si diedero l'un l'altro il buon giorno
sembrando di aver dormito solamente una notte, perchè, sono parola degli atti di questo racconto,
le loro carni, i loro abiti non avevano fatto variazione alcuna, come se non fosse passato che un
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sol giorno. Cominciarono poi a ragionare fra loro della persecuzione di Decio informandosi da
Malco di quanto egli aveva udito il giorno prima. Lo pregarono di poi di ritornare alla città per
comprar di che mangiare e saper altre notizie dei cristiani. All'uscir della grotta Malco si
maravigliava di veder tante pietre che non aveva vedute quando vi entrò. {33 [33]}
Ma quale non fu il suo stupore quando giunse alla città e vide una croce collocata sopra la
porta della medesima? Forse, andava dicendo fra sè, è questo un inganno di Decio per invitare i
cristiani ad entrare con sicurezza in citta, e quindi farli prendere più facilmente. Non volle
entrare per quella porta e andò ad un'altra, sopra cui similmente vi trovò la croce. Malco pieno di
maraviglia pensava di aver preso una città per un'altra. Tuttavia vi entrò e dimandò che città
fosse quella. Gli fu risposto, essere la città di Efeso. Giunto in piazza senti uno che giurava pel
nome di Gesù Cristo; della qual cosa egli stupito diceva: che novità è questa mai? Ieri la croce
stava nascosta perchè era perseguitata, oggi sta sopra le porte della città. Ieri era condannato a
morte chi si chiamava cristiano, oggi il nome di Gesù Cristo si sente in bocca di ognuno per le
piazze. Certamente o che io sono divenuto pazzo, o che un grande inganno è ordito contro ai
cristiani, perciò voglio partirmene sull'istante. Ciò nulladimeno è bene che io mi provveda di
alcuni alimenti per portarli a' miei compagni. Andò da un fornaio per comperar del {34 [34]}
pane e volendolo pagare, che moneta è questa? disse il panattiere, io non la conosco. La moneta
era d'argento e aveva l'immagine di Decio. In breve si fece correre nelle mani di coloro che erano
in piazza, desiderando ognuno di vederla. Taluno andava pensando che quell'uomo, che era
vestito da mendicante, doveva aver qualche tesoro. Tosto gli si fa attorno un cerchio di gente, e
Malco assai più si maravigliava, vedendo che il giorno innanzi, come egli si immaginava, era
conosciuto da tutti, ed allora nessuno più lo conosceva. Egli andava guardando se avesse potuto
veder suo padre e i suoi fratelli, ma tutto invano.
Queste cose giunsero all'orecchio del governatore che allora trovavasi col vescovo della
città, di nome Stefano. Egli comandò che quel forestiero fosse condotto alla sua presenza, e
quando il governatore ed il vescovo lo videro, fattasi mostrare la moneta che aveva, conobbero
che era stata coniata al tempo di Decio. Domandarono di poi a Malco: di che paese sei, e chi ti ha
data questa moneta? Egli rispose, che era nato in quella città, e in essa avea padre e fratelli; in
quanto poi alla moneta, {35 [35]} egli soggiunse, non so perchè cotanto vi maravigliate,
perciocchè è moneta ordinaria che si spende in questa città. Disse poi il nome di sue padre, di sua
madre e de' suoi fratelli, ma non si trovò alcuno che sapesse darne notizia.
Il governatore per ricavare qualche costrutto parlò così: mi sembra che tu non dica la
verità: se tu fossi nato in questa città, e ci avessi padre e fratelli qualche persona ti conoscerebbe.
Inoltre questa moneta si spendeva al tempo di Decio che da molti anni è morto.
Malco non sapeva che dire; ma andava guardando or l'uno or l'altro, onde molti dicevano:
certamente costui è pazzo. Altri dicevano: non è pazzo, ma finge di esserlo, acciocchè non gli si
faccia palesare il tesoro, che ha trovato. Bisogna adunque tormentarlo e fargli confessare la
verità. Malco rispose: non occorre di menarmi in prigione nemmeno di tormentarmi per farmi
dire la verità; ditemi soltanto: è ancor vivo l'imperatore Decio, o che egli è veramente morto? Il
vescovo gli rispose: figliuol mio, in questo paese non si trova chi nomini Decio. Egli è morto da
dugento anni. Allora Malco non sapendo più che {36 [36]} dire soggiunse: venite meco ad una
grotta, che è sul monte Oclon e là potrete interrogare altri miei compagni, i quali confermeranno
quanto io dico, cioè che per fuggire la persecuzione di Decio ci siamo nascosti in quella grotta,
ed io lo vidi ieri sera ad entrare in questa città, se questa città è Efeso, perchè a me pare che non
sia quella.
Dopo aver attentamente ogni cosa ascoltata il vescovo cominciò a dubitare che Iddio
volesse rivelargli qualche fatto maraviglioso per mezzo di quel giovane, perciò disse: andiamo e
vedremo la verità.
Andarono alla grotta il vescovo, il governatore con molti altri della città. Quando era per
entrare il vescovo, lasciando andare lo sguardo sopra le pietre che erano state smosse, vide la
cassetta di metallo, entro cui era lo scritto della storia dei santi giovani, che quivi si chiamavano
martiri. La cassetta fu aperta, il vescovo trasse fuori lo scritto e lesse ad alta voce quanto ivi si
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conteneva. La qual cosa riempì ognuno di maraviglia. Postisi tutti ginocchioni lodarono Iddio
che aveva operato ne' suoi servi sì grande maraviglia. Entrando poi nella grotta ritrovarono gli
altri {37 [37]} sei a sedere, che parlavano insieme, mentre dalla loro faccia usciva raggiante
splendore. Eglino raccontarono chiaramente quello che con Decio era loro occorso. Ogni cosa fu
trovata conforme a quanto erasi trovato scritto sulle piastre di piombo. Il governatore fece
relazione del fatto e la mandò all'imperatore Teodosio che dimorava a Costantinopoli. Il pio
monarca rese a Dio umili grazie ravvisando in questo prodigio una prova della risurrezione della
carne contro agli eretici di quel tempo. Mosso da santa curiosità andò egli stesso in Efeso, entrò
nella grotta, parlò con quei santi giovani, abbracciandoli e spargendo lagrime di divozione. Uno
di loro, di nome Massimiano, disse a Teodosio: per la tua fede, e perchè tu hai preso la difesa
della verità contro agli eretici, Iddio concede la pace nel tuo impero, e se tu persevererai a
servirlo ti libererà da molti nemici. Dette tali parole i santi giovanetti chinarono la testa sino a
terra facendo orazione; e in quel momento resero le loro sante anime a Dio. L'imperatore fece
mettere i loro corpi in sette urne separate, e le lasciò nella medesima grotta. Il vescovo radunò il
suo clero, fece loro onorevole sepoltura {38 [38]} e stabili che si celebrasse la festa di quei Santi
il giorno della loro morte che fu alli 27 di luglio circa l'anno 448 sotto all'impero di Teodosio
secondo.
Capo V. Moltitudine di martiri. - S. Polliutto - Pionio - Andrea - Paolo -
Dionigia - S. Cristoforo e sue immagini - S. Venanzio.
I martiri che riportarono la corona del martirio durante la persecuzione di Decio furono in
numero cosi grande che la brevità, in cui dobbiamo tenerci, appena comporta di nominarne
alcuni, notandone qualche particolarità. Un uomo dell'Armenia, di nome Polliutto, noto per
ricchezze, illustre per nascita, divenne ancora assai più celebre pel suo gran coraggio. Nè le
comodità della vita, nè le istanze della moglie, nè le preghiere de' suoi figli poterono farlo
vacillare. Egli terminava i suoi patimenti colla gloriosa palma del martirio.
San Pionio, prete della chiesa di Smirne, sostenne un lungo interrogatorio, e dopo molti
tormenti fu condannato ad essere arso vivo. Giunto vicino al rogo si offre {39 [39]} al carnefice
e spontaneamente si distende sopra la catasta di legna. Quando vide le fiamme che lo
circondavano e gli soffocavano il respiro, disse: amen. Alcuni istanti dopo soggiunse: Signore,
ricevete l'anima mia; ciò dicendo soavemente spirò.
A Troade furono presi tre cristiani di nome Andrea, Paolo e Nicomaco, e condotti al
governatore di nome Ottimo. Tutti e tre confessarono la fede con intrepidezza; ma Nicomaco,
confidando troppo in se stesso, invitava i carnefici a tormentarlo di più. Per la qual cosa fu
sottoposto a tale eccesso di tormenti che era sul punto di rendere l'anima. Allora l'infelice
confessore perdette la pazienza ed apostatò. Fu messo in libertà, ma non si tosto ebbe egli
sacrificato agli idoli, che i rimorsi lo fecero dare in una specie di frenesia; si aggirava sul suolo,
si batteva violentemente il capo; quindi mori mettendo orrore fra tutti gli astanti.
A tal vista una giovine cristiana di anni 16, chiamata Dionigia, commossa esclamò: oh
infelice Nicomaco, tu per un momento di sollievo ti precipiti negli eterni tormenti! Ottimo la
fece subito condurre alla sua presenza; e le comandò di sacrificare sotto pena di farla bruciare
viva e di esporla a {40 [40]} mille igneminie. Ella sopportò ogni cosa con fortezza. Nei dì
seguente Andrea e Paolo vennero abbandonati al furore del popolo che li lapidò. Allo strepito di
quella esecuzione, Dionigia fuggì dalle sue guardie, corse al luogo ove erano i martiri, come per
incoraggirli colle parole e col suo esempio. Della qual cosa sdegnato il governatore le fece
sull'istante troncare la testa.
Nella Licia, provincia dell'Asia minore, avvenne il martirio del celebre S. Cristoforo. Egli
fu da Gesù Cristo mandato a predicare il vangelo in quella provincia. Questo uomo maraviglioso
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era altissimo di corpo e portava in mano un bastone proporzionato alla sua statura. Un giorno
radunò molta gente e si pose a predicare Gesù Cristo.
Vedendo che le sue parole non producevano il desiderato effetto nel cuore dei suoi
uditori, pregò Iddio ad operare un gran miracolo. Con viva fede nel potente nome di G. Cristo,
piantò in terra quel suo gran bastone, che subito rinverdì e produsse foglie, fiori e frutti. La qual
cosa fu cagione che molti gentili vennero alla fede. Fu dipoi esposto a molti tormenti per la fede,
ma non cessò mai di confessare {41 [41]} Gesù Cristo, e le sue parole furono accompagnate da
molti miracoli. Si assicura che i convertiti per cura di s. Cristoforo ascendono a 48 mila, gran
parte dei quali riportarono la palma del martirio. Infine gli fu troncata la testa il 25 di luglio.
Dopo aver dato un cenno sulle azioni di s. Cristoforo, credo bene aggiugnere qualche
cosa intorno alle particolarità delle sue immagini. Questo santo suole dipingersi all'esterno delle
chiese, affinchè possa essere più facilmente da tutti veduto ed invocato contro alle grandini, ai
fulmini ed alla morte improvvisa, contro cui è speciale patrono. La credenza che non sia per
morire di improvvisa morte in quel giorno che uno rimira qualche immagine di s. Cristoforo si
suole esprimere con questi due versi:
Christophori sancti speciem quicumque tuetur
Ista riempe die non morte mala morietur.
cioè, chiunque rimira una statua od immagine di s. Cristoforo, in quel giorno non morrà di morte
improvvisa2. Si dipinge nell'atto che passa un fiume {42 [42]} con un bambino sopra le spalle,
per ricordare il fatto seguente: Un romito che faceva vita santa in vicinanza di un fiume disse un
giorno a s. Cristoforo: se tu ti assumessi di trasportare i passeggeri da una riva all'altra di questo
fiume, ti assicuro che faresti cosa molto grata al Divin Salvatore, e spero che egli stesso
mostrerebbe il suo gradimento col farsi a te vedere. Accondiscese Cristoforo e tosto cominciò a
trasportare i poveri viandanti che per istanchezza, età, sanità, o per altro motivo non potevano
guadare quell'acqua.
Un giorno gli si avvicinò un ragazzino che lo pregò di volerlo trasportare. Cristoforo
stese subito la mano, e se lo pose sulle spalle; ma giunto alla metà del fiume, sentissi aggravare
per modo il dorso, che era per essere oppresso e sommerso nelle onde. Arrivato in fine all'altra
sponda depose il maraviglioso fanciullo dicendogli: Ragazzo mio, tu mi mettesti in grave
pericolo. Portando te sentii sulle spalle tale peso, che maggior non sarebbe stato se avessi portato
tutto il mondo. Il fauciullino rispose: non maravigliarti, o Cristoforo, perchè sopra le spalle non
solo avesti tutto il mondo, ma portasti Colui che ha creato il mondo stesso. {43 [43]}
Alcuni dicono che da questo fatto sia derivato il nome di Cristoforo, o Cristifero che
significa colui che porta Gesù Cristo.
Il bastone fiorito che egli porta in mano ricorda il miracolo da Dio operato, allorchè
questo santo per indurre i gentili a credere in Gesù Cristo piantò in mezzo di una piazza l'alto e
grosso suo bastone, che tosto diventò verdeggiante, mandò fuori foglie, fiori e frutti.
Finalmente nelle immagini e nelle statue rappresentasi con forme gigantesche, perchè,
come si è detto, fu veramente di statura straordinaria e si crede che avesse l'altezza di 12 piedi
(circa sei metri, o due trabucchi). Si vogliono anche indicare le molte virtù, che egli in grado
sublime ha praticato nel corso di sua vita, e che mentre ora lo rendono in venerazione presso agli
uomini, lo fanno grande e glorioso dinanzi a Dio (V. Boll. 25 luglio).
In Camerino, città della Romagna, fu coronato dal martirio il giovanetto s. Venanzio. Egli
aveva solo 15 anni, quando si presento al governatore di quella città confessando di essere
cristiano. La sua confessione, il suo interrogatorio, i varii {44 [44]} tormenti sofferti ed i
miracoli ivi avvenuti fecero sì che molti abbracciarono il Vangelo. Dopo lunghi e crudeli
tormenti egli era gettato giù da un' alta rupe, da cui essendo stato miracolosamente liberato fu di
poi decapitato con molti altri.
La Chiesa Cattolica celebra la festa di san Venanzio il 18 di maggio.
2 V. Molano. Storia delle sacre immagini, lib. 3, cap. 27
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Capo VI. Ritiro di s. Cipriano = Lettera al suo clero ed ai Confessori di
Cartagine.
La persecuzione si riaccese pure in Africa, e particolarmente in Cartagine, ove era
vescovo s. Cipriano. Esso era caduto in odio presso ai pagani, perchè essendo nato idolatra erasi
fatto cristiano, e quel che è più, usava il suo grande ingegno a svelare le nefandità dell'idolatria.
Colle sue parole poi e colle sue lettere incoraggiva il suo gregge ad essere costante nella fede. La
sua scienza, le sue ricchezze, la sua vita, tutto era impiegato a favore del suo popolo. Una tale
condotta, che lo rendeva degno d'ogni lode in faccia ai buoni, irritò ancor più gl'infedeli. Costoro
avevano {45 [45]} già promosse molte accuse contro di lui, e nel loro furore avevano più volte
fatto echeggiare nell' anfiteatro queste grida minacciose: Cipriano ai lioni, Cipriano ai lioni.
Malgrado questi pericoli egli non voleva allontanarsi dalla città, ma i fedeli radunatisi
intorno a lui gli fecero osservare il gran danno che sarebbe avvenuto, se egli fosse stato messo a
morte, od anche solo posto in prigione. Per la qual cosa, avutone anche da Dio espresso
comando, si allontanò dalla città mostrandosi però con intrepidezza ogni qual volta eravi grave
bisogno. Dal suo ritiro scrisse molte lettere ed a quelli che assistevano gli ammalati e talvolta al
suo medesimo clero. Fra le cose dette a' suoi preti avvi quanto segue: «Vi scongiuro, o fratelli, di
raddoppiare il vostro fervore, a fine di soddisfare ai nostri ed ai vostri doveri; giacchè io sono
costretto a rimanere lontano da voi. Le presenti turbolenze non siano per voi un motivo di
trascurare la disciplina della Chiesa, nè di abbandonare i poverelli di G. C. Io vi raccomando non
solo quelli che si trovano in carcere, ma quelli eziandio che lavorano per la fede e {46 [46]}
costantemente la professano. Prendete altresì una cura particolare delle vedove, degli infermi,
degli stranieri. Distribuite ad essi il danaro che ho lasciato in mano del prete Rogaziano.
Temendo che la somma che gli aveva già prima spedita fosse stata distribuita, gliene ho mandata
un'altra per mezzo dell' accolito Narsico. Ma ricordiamoci, o fratelli, che i nostri peccati hanno
tratto sopra di noi questa procella, perciò deve essere nostra cura principale il disarmare l'ira di
Dio con umili preghiere. L' orazione però non basta: aggiungiamo ad essa il digiuno, le lagrime
ed ogni sorta di penitenza. Dobbiamo farci coraggio ancora per qualche tempo; la pace sarà ben
presto restituita, siatene certi ed assicuratene i nostri fratelli. Il Signore si è degnato di farlo
conoscere a me il più indegno de' suoi servi. Ciò che fa alquanto ritardare Iddio, si è che la
costanza di alcuni deve ancora essere messa alla prova.
Il santo rivolge dipoi il discorso ai semplici fedeli e parla cosi: Intanto è necessario che i
fratelli usino qualche precauzione nel visitare i confessori, e che non si rechino alle prigioni in
gran numero. Procurate altresì che i preti, i quali offrano {47 [47]} per voi il sacrifizio, vadano
solamente uno alla volta accompagnati da un solo diacono, affinchè il cangiar le persone li renda
meno sospetti. E quando un confessore morrà in quei luoghi, abbiate una religiosa venerazione
pel suo corpo, ed annoveratelo fra i santi, sebbene non avesse mai sofferto alcuna tortura.
Segnate attentamente il giorno della sua morte, a fine di poterne celebrare in seguito la memoria
con quella degli antichi martiri. Tostochè a noi ne giungerà la notizia, non mancheremo di offrire
qui il santo sacrifizio, che speriamo di presto offrire in mezzo a voi.»
Quando poi scriveva ai confessori, cioè a coloro che per la fede soffrivano in carcere,
loro dimostrava che desiderava ardentemente trovarsi alla loro presenza, e loro diceva: «E che
può egli mai esservi di più grato per me che baciare quelle pure mani, che ora sono cariche di
catene, per non aver voluto macchiarsi coll'offrire incenso agli idoli, e quelle bocche consacrate
dalla chiarissima confessione dell'adorabile nome del Signor nostro Gesù Cristo? Per un
momento che avete a patire, non {48 [48]} perdete di mira le ricche corone, le quali, per cosi
dire, riposano già sulle vostre teste. Voi fortunati e doppiamente fortunate le donne forti che
soffrono con voi vincendo con coraggio la debolezza del loro sesso! Affinchè nulla mancasse
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alla gloria della vostra confessione il Dio delle vittorie ha con voi associato pur anche dei
pargoletti.» Fin qui s. Cipriano.
Capo VII. Biglietti d'indulgenza - Fermezza della Chiesa Romana -
Lettera ai Cartaginesi.
I Cristiani di Cartagine erano in gran pericolo per la lontananza del loro pastore e le cose
giunsero a tale segno, che non pochi del popolo e del clero apostatarono Molti però inorriditi
dall' apostasia degli altri ricorrevano ai confessori della fede, affinchè loro concedessero polizze
di indulgenze. Erano queste come altrettanti biglietti, in cui i martiri scrivevano parole di
raccomandazione in favore di quelli che erano caduti nell'apostasia. A tali biglietti la Chiesa
usava molto riguardo, e quando i colpevoli erano ben disposti, in vista di {49 [49]} tale
raccomandazione, loro abbreviava la penitenza, applicandovi lo sovrabbondanti soddisfazioni di
G. C., della Beata Vergine e dei santi martiri.
Gli apostati di Cartagine andarono a trovare i pochi fedeli, che avevano confessata la
fede, e che erano tuttora in carcere, pregandoli di conceder loro biglietti d'indulgenza. Parecchi
facevano buon uso di tali biglietti, ma ve ne furono di quelli che se ne servirono a male.
Le cose andarono tant' oltre che alcuni ardirono accostarsi alla santa Eucaristia, senza
confessarsi, e senza nemmeno essere assolti dalle censure della Chiesa. S. Cipriano deplora in
più lettere cotale abuso.
In queste diffìcili condizioni, al santo Vescovo venne in soccorso la Chiesa di Roma.
Questa Chiesa, il cui governo era provvisoriamente amministrato dal clero, fu in ogni tempo la
maestra della verità.
Come giunse a Roma la notizia dei mali che turbavano i Cristiani di Cartagine, il clero
Romano si radunò e scrisse una lettera al clero Cartaginese per raccomandargli di lavorare con
zelo, e di aver cura dei Cristiani di quella diocesi, specialmente nell'assenza del pastore. Noi vi
esortiamo, {50 [50]} loro si dice, non solo con parole, ma per la grazia di Dio a tenervi fermi
nella fede. In mezzo alle molestie ed ai pericoli, da cui siamo innondati, noi dobbiamo temere
più i giudizi di Dio che quelli degli uomini, dobbiamo avere maggior timore delle pene eterne,
che dei dispregi temporali. Non abbandoniamo i nostri fratelli, anzi esortiamoli a star fermi nella
fede, pronti ad andarsene al Signore. Con simigliante sollecitudine noi abbiamo avuto la
consolazione di far ravvedere non pochi di quelli che già erano saliti sul Campidoglio per fare ivi
sacrifizi agli idoli. Ricordatevi sempre che questa Chiesa è inconcussa nella fede, sebbene
parecchi siano caduti o per umani rispetti, o per conservare le loro dignità, o per timore dei
tormenti. Costoro li abbiamo bensì da noi separati, ma non bisogna abbandonarli; altrimenti li
esponiamo al pericolo di diventar peggiori. Il medesimo dovete far voi per risvegliare il coraggio
in quelli che sono caduti, affinchè, qualora se ne desse l'occasione, possano confessare il nome di
G. C, e riparare il loro fallo. Che se cadessero infermi e pentendosi bramassero la comunione,
bisogna venire in loro aiuto. Quanto alle {51 [51]} vedove od agli infermi, che non possono da
se mantenersi, od agli altri che sono in carcere o cacciati dalle case loro, ognuno deve darsi cura
per aiutarli. così i catecumeni che cadono malati non siano delusi nella loro aspettazione, e sia
deputato chi abbia cura di loro. Vi raccomandiamo poi come cosa di maggiore importanza, della
quale dovrà darne conto a Dio chi può farlo, di dar sepoltura ai martiri ed agli altri fedeli. Voglia
Iddìo che egli ci trovi tutti intenti a queste opere. I fratelli che soffrono nelle carceri vi salutano,
e con essi i preti e tutta la Chiesa Romana, la quale veglia con somma sollecitudine sopra tutti
quelli che invocano il nome del Signore. Vi preghiamo infine per lo zelo di Dio che vi anima, di
mandare copia della presente lettera a quanti più potrete, affinchè durino costanti ed irremovibili
nella fede.» (Lettera 3a tra quelle di s. Cipr.)
Tale si era la Chiesa Romana. Priva del suo capo, spento dal martirio, combattuta
orribilmente dai persecutori, non solo sta ferma, ma comunica eziandio la sua fermezza alle altre
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chiese, sopra le quali non chiuse mai l'occhio suo vigilante. I Cartaginesi, {52 [52]} ed in
generale tutta l'Africa ricevettero da Roma precetto ed esempio per condursi in quei tempi
diffìcili, precetti ed esempi che furono, secondo il bisogno, praticati da s. Cipriano e da' suoi
colleghi.
Capo VIII. Attaccamento di S. Cipriano alla Chiesa Romana. - Lettera
del clero di Roma a questo santo.
S. Cipriano dal suo ritiro continuava colla massima sollecitudine a provvedere ai bisogni
della sua diocesi, ora inviando sacri ministri, ora scrivendo lettere per istruire i suoi sacerdoti
nelle cose di maggiore importanza. Ma per avere una regola sicura nelle verità di fede fece una
raccolta di tutti i suoi scritti, ed unendovi una lettera speciale, mandò tutto a Roma perchè ogni
cosa fosse esaminata, se era consentanea ai principii della Chiesa cattolica.
La questione che stava maggiormente a cuòre a s. Cipriano era quella dei caduti. Molti di
coloro che avevano rinnegato la fede in mezzo alle persecuzioni pretendevano di {53 [53]}
essere accolti nella Chiesa prima di farne la debita penitenza. Taluno pretendeva che si dovesse
dar loro l'assoluzione e la comunione; altri dicevano doversi aspettare in punto di morte; altri
infine doversi assolutamente e per sempre rifiutare la riconciliazione. Era questo il punto di
dottrina intorno a cui s. Cipriano consultava la Chiesa di Roma. I preti e i diaconi del clero
Romano con alcuni vescovi, che allora trovavansi a Roma, si radunarono in concilio, e dopo
avere attentamente ogni cosa esaminata, risposero con una stupenda lettera, in cui approvano il
modo di pensare del Santo, e biasimano l'indiscrezione de' suoi oppositori.
In questa lettera notasi specialmente quanto segue:
«Non vi è cosa più necessaria in tempo di pace, nè più conveniente in tempo di guerra
alla Chiesa, quanto il tenersi fermamente alla disciplina della medesima. Il lasciarla sarebbe lo
stesso che lasciare il timone della nave in mezzo di una burrasca. Nè questa deliberazione è
nuova tra noi, perciocchè questa severa disciplina, questa fede, qui sono antichissime.
E l'Apostolo s. Paolo non avrebbe detto {54 [54]} che la nostra fede era venerata per tutta
la terra, se fin da quel tempo non avesse già poste forti radici. A Dio non piaccia che la Chiesa
Romana perda il suo vigore per una profana novità. No, essa non rallenterà mai la sua severità a
danno della fede. L' aggiungere nuove piaghe a quelle dell'apostasia è falsa misericordia, quando
vediamo i nostri fratelli non solo caduti, ma cadere ogni giorno e nientedimeno accordiam loro la
riconciliazione... Il togliere a questi infelici il rimedio della penitenza non è guarirli, ma
ucciderli. Noi poi abbiamo maggior motivo di differire la riconciliazione, perchè dopo la morte
del martire Fabiano, di sempre gloriosa memoria, per la difficoltà dei tempi non abbiamo ancora
potuto avere alcun vescovo per dare compimento a tutte queste questioni per esaminare con
autorità e consiglio là causa dei caduti. In questa faccenda noi andiamo perfettamente d'accordo
nel tuo parere; cioè doversi attendere la pace della Chiesa, per esaminare allora la causa degli
apostati e poterci consigliare coi vescovi, coi preti, coi diaconi, coi confessori e coi laici che
rimasero fedeli. {55 [55]}
Tutto il mondo è pieno di guasti e di rovine di quelli che sono caduti. Un male così esteso
richiede grande consiglio e grande rimedio. Siccome però quelli che caddero il fecero per
acciecamento, o per mancanza di cautela; così quelli che vogliono riparare questo male devono
adoperarvi tutta la prudenza degli uomini più dotti, per timore che l'opera non fatta come si deve
riesca senza frutto. Preghiamo gli uni per gli altri; preghiamo pei caduti, acciocchè si alzino e
conoscano la gravità del loro peccato, e divengano penitenti e pazienti piuttosto che turbare la
Chiesa colla loro insofferenza e con pericolo d'accendervi una persecuzione tra i medesimi
fedeli. Battano alle porte, ma non le spezzino. L'umiltà, i gemiti, le lagrime sono le armi che
devono adoperare. E vero che Dio è indulgente e con facilità perdona, ma vuole l'osservanza de'
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suoi precetti: chiama tutti al convito, ma ne caccia fuori chi non ha la veste nuziale: ha preparato
il cielo, ma ha pure preparato l'inferno.
Cercando adunque di serbare questa misura, ci siamo per lungo tempo e
frequentissimamente consigliati con alcuni dei {56 [56]} vescovi a noi più vicini, e con quelli
che la persecuzione costrinse a fuggir dalle loro diocesi e venire tra di noi. Fu massimamente
giudicato non doversi fare novità alcuna prima dell' elezione di un vescovo (di un Papa), e tenere
sospesi quelli che possono attendere; quelli poi che sono in pericolo di morte, siano assai
frequentemente visitati, specialmente se fatta penitenza e dati non dubbi segni di abborrire il loro
peccato, mostrano con lagrime e singhiozzi il loro pentimento. Dio sa quel che far deve e come
debba tenere il suo giudizio: ma noi dobbiamo guardarci dal fare che i cattivi non ci lodino della
nostra soverchia accondiscendenza, e che i veri penitenti non ci accusino di durezza e di
crudeltà.» (Presso s. Cipriano ep. 31).
Capo IX. Elezione di S. Cornelio. Rare virtù di questo pontefice.
Erano già scorsi oltre a sedici mesi dacchè la Santa Sede era vacante. Tal cosa cagionava gravi
disordini nella Chiesa sia per {57 [57]} le eresie che si andavano manifestando; sia per la
questione dei caduti che ogni giorno si rinnovava; sia finalmente pel furore della persecuzione
che metteva i cristiani in pericolo di apostatare. L'imperatore dal canto suo voleva assolutamente
che non si eleggesse più alcun papa; anzi la storia ci assicura che egli avrebbe piuttosto
acconsentito che vi fosse un altro imperatore a Roma, ma non mai un pontefice. Per questo
motivo era proibita ogni radunanza de' sacerdoti e dei fedeli. Tuttavia approfittando
dell'occasione che l'imperatore erasi allontanato dalla capitale per andar a combattere contro ai
barbari, il clero romano si radunò e con pieno consenso di tutti fu innalzato alla sede pontifìcia s.
Cornelio, di nazione romano, figliuolo di un certo Castino.
S. Cipriano ci racconta minutamente le belle doti di cui il novello pontefice era adorno.
Egli si esprime così: la cosa che accresce grandemente il pregio del pontefice Cornelio presso
Dio, presso Gesù Cristo, presso la sua Chiesa e presso a tutti i nostri compagni si è il non essere
salito di tratto sulla Santa sede. Egli non giunse a questa suprema dignità del sacerdozio se non
per tutti i gradi comandati dalla disciplina {58 [58]} della Chiesa, dopo di aver esercitati tutti i
ministeri ecclesiastici, e di aver sopra di sè chiamato in gran copia le grazie di Dio coi servigi
prestati alla religione in questi uffizi divini. Di più il non aver brigato, nè desiderata questa
dignità lo rese assai più degno. In lui non altro si vide che uno spirito modesto e tranquillo come
in coloro che Dio sceglie a suoi vescovi. Non altro aveva seco che una grande verecondia propria
della coscienza pura e vergine; non altro che l'umiltà di un cuore che ama naturalmente la castità
e l'ha sempre gelosamente custodita. Perciò non ha usato alcun raggiro per diventar pontefice,
anzi ha patito violenza per acconsentire di esserlo. Trovaronsi presenti alla sua elezione parecchi
de' nostri colleghi che in quei giorni erano a Roma, e ci scrissero lettere onorevolissime intorno
all'ordinazione di lui. Sì, Cornelio fu fatto vescovo della chiesa di Roma per giudizio di Dio e del
suo figliuolo Gesù Cristo, per testimonio di tutto il clero, per suffragio del popolo presente, e in
mezzo ai ministri più anziani e più santi, quando niun altro era stato eletto prima di lui, quando
in luogo di Fabiano, vale a dire in luogo {59 [59]} di Pietro, la cattedra pontificale era vacante.
«Questo luogo adunque essendo occupato per volere di Dio, e l'occupazione essendo
confermata dal consenso universale, chiunque ha ancora voglia di venir vescovo è
necessariamente escluso e non ha più l'ordinazione della Chiesa. Chiunque egli sia e di
qualunque cosa egli si vanti, egli è un profano, uno straniero meritamente escluso. Siccome dopo
il primo non ci può essere un secondo, chiunque fu fatto dopo l'uno che deve essere solo non è
più il secondo, ma niuno. Di più essendo stato promosso al sommo episcopato senza raggiri,
senza forza e per solo volere di Dio, a cui si appartiene di fare i vescovi, quanta virtù,
intrepidezza e fede egli non dimostrò col salire animosamente, siccome fece, sulla cattedra
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pontificale in tempo che un tiranno, nemico dei pontefici di Dio gettava fuoco e fiamme contro
di loro e che avrebbe più facilmente tollerato un competitore dell'impero che un pontefice di Dio
in terra?» (Ep. 52).
S. Cipriano in questa lettera accenna quanto Cornelio fosse degno del pontificato, e come
ne dovesse essere assolutamente allontanato {60 [60]} Novaziano che tentava di fare uno scisma
nella Chiesa. Dal medesimo s. Cipriano si raccoglie che Cornelio prima di sua elezione aveva
lavorato molto per la religione; e che durante la vacanza della santa sede, quando il clero di
Roma estendeva le sue sollecitudini alla Chiesa universale, s. Cornelio ne fu il principale
sostegno. Onde le molte e gloriose gesta, che la storia di quel tempo ci ha tramandato del clero
romano, devonsi in gran parte attribuire a Cornelio anche prima di sua elezione.
Capo X. Scisma di Novaziano. Eccessi di questo scismatico.
La Chiesa di Gesù Cristo deve essere una sola nella fede, nella dottrina, nei sacramenti,
sebbene i suoi membri siano sparsi in tutte le parti del mondo. Erano già scorsi due secoli e
mezza e niuno aveva esato di rompere questa maravigliosa unità. L'autore del primo scisma
ovvero della prima rottura dell'unità della fede cattolica fu un sacerdote di nome Novaziano. Già
un certo Novato di Cartagine aveva messo {61 [61]} sossopra quella chiesa mentre s. Cipriano
per motivo della persecuzione viveva lontano dalla sua diocesi. Vago di gloria e di novità
Novato aveva passato il mare per recarsi a Roma e propagare colà i suoi errori. Ivi trovò
Novaziano, che ambiva il pontificato invece di s. Cornelio. Per lo più i perversi sono disaccordi
nel fare il male, vanno però d'accordo a combattere la maestra della verità, che è la Chiesa
cattolica. Novaziano era un prete romano assai versato nella filosofia dei gentili, molto eloquente
ma vanissimo e superbo. In tempo di sua giovinezza era stato posseduto dal demonio, ed
essendone stato liberato per opera degli esorcisti deliberò di abbracciare la fede. Mentre era
catecumeno e facevasi istruire nelle verità del vangelo cadde ammalato e pareva senza speranza
di guarigione. Perciò fu battezzato nel proprio letto per timore che morisse privo di questo
sacramento, senza cui niuno può salvarsi. Egli però non morì ma guarito non ricevè il
sacramento della confermazione, nè altre cerimonie che hanno luogo nell'amministrazione del
battesimo secondo le regole della Chiesa.
Queste cerimonie gli erano differite perche {62 [62]} sembrava molto instabile nella
religione. Tuttavia egli seppe celare la sua condotta privata e riusci a farsi ordinare prete contro
alla consuetudine di non ordinare coloro che erano stati battezzati in letto ammalati.
Sopravvenuta la persecuzione Novaziano si tenne chiuso in casa. I diaconi lo pregavano di andar
anch'egli ad assistere i suoi fratelli bisognosi, ma egli montò in collera, si separò stizzosamente
da loro dicendo che non voleva più essere prete.
Novato, che desiderava soltanto di trovare un uomo turbolento per collegarsi con lui, si
unì tosto con Novaziano, e per meglio insinuarsi nell'animo suo voltò bandiera insegnando il
contrario di quanto aveva fino allora insegnato. In Cartagine insisteva che dovessero assolversi
gli apostati, ora in Roma dolevasi della troppa facilità colla quale erano ammessi alla penitenza.
Cornelio fu eletto malgrado tutti i raggiri di Novaziano, onde esso e i suoi seguaci gli
mossero varie accuse, le quali furono trovate intieramente false. Novaziano vedutosi in tala guisa
confuso, per dare maggior peso alle sue calunnie protestò {63 [63]} con orribili giuramenti che
egli non ambiva il pontificato.
Ma il suo cuore smentiva quanto diceva colla lingua; imperciocchè quando vide Cornelio
definitivamente eletto si tolse la maschera, si unì con Novato per eccitare tumulti contro al
novello pontefice. I malevoli hanno sempre seguaci dei tristi loro progetti, e molti si posero a
seguire Novaziano. Esso voleva essere papa a qualunque costo, e a tale effetto mandò a cercare
alcuni vescovi, li fece condurre a Roma, chiudere in sua casa e di notte avanzata con modi
veramente indegni li costrinse ad imporgli le mani ed ordinarlo vescovo di Roma, come se la
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sede fosse stata vacante. Tale si fu l'ordinazione di Novaziano, il primo degli antipapi, capo del
primo scisma della Chiesa di Gesù Cristo.
Allo scisma egli aggiunse l'eresia, sostenendo che la Chiesa non poteva dare la pace nè
assolvere coloro che erano caduti in tempo di persecuzione, qualunque penitenza facessero.
Condannava altresì le seconde nozze; onde i suoi discepoli furono detti Catari vale a dire puri o
puritani, perchè andavano vestiti di bianco affettando {64 [64]} la virtù e la continenza, di cui
però facevano enorme abuso.
Per ritenere i suoi seguaci nello scisma Novaziano gli faceva giurare sulla S. Eucaristia.
Nell'atto che distribuiva loro la particola pigliavali per ambe le mani e in luogo della benedizione
faceva fare un giuramento in questi termini: giurami pel corpo e pel sangue di nostro Signor
Gesù Cristo di non mai più abbandonarmi per ritornare a Cornelio. Lo sciagurato che faceva
questo giuramento non poteva inghiottire l'ostia se non dopo aver detto: non ritornerò più a
Cornelio: tali parole dicevansi in luogo di amen come usavasi nel ricevere la santa comunione.
Capo XI. Lettera di S. Dionigi alessandrino. Rispetto di S. Cipriano pel
sommo pontefice.
Per farsi accreditare e nel tempo stesso farsi credere vero capo della Chiesa Novaziano
mandò uomini e lettere in diversi paesi notificando ai vescovi la sua elezione e fingendo di
essere stato ordinato suo malgrado. A tutti poi ripeteva nere calunnie {65 [65]} contro a s.
Cornelio. I vescovi ed i fedeli di ogni paese andavano a gara per conoscere la verità e sapere chi
fosse il vero pontefice, ma s. Dionigi vescovo di Alessandria conobbe che in un uomo in cui
regnava la maldicenza non potesse esservi lo spirito del Signore, perciò rispose a Novaziano in
questi termini: se è vero, che ti abbiano ordinato tuo malgrado, come dici, tu mostralo cedendo
volontariamente; perchè era conveniente di soffrire piuttosto ogni male che dividere la Chiesa di
Dio. Il martirio che tu avresti sostenuto, per non essere cagion di scisma, non sarebbe stato meno
glorioso che morire per non idolatrare. Anzi mi sembra che tale atto sia anche più glorioso,
perchè nel martirio ciascuno soffre per la sola anima sua, e nel tuo caso tu avresti sofferto per
tutta la Chiesa. Pertanto se tu persuadi i fedeli a ricongiungersi col legittimo pontefice, l'atto sarà
più bello di quanto sia grave il fallo commesso, nè più ti sarà imputato a delitto, anzi ne sarai
lodato. Se tu non puoi più comandare agli altri, procura almeno di salvar l'anima tua a qualunque
costo. Ti desidero buona salute insieme colla pace del Signore (delle Eres. lib. 6). {66 [66]}
Mentre Novaziano adoperavasi per sorprendere i fedeli e così accrescere il numero dei
scismatici, s. Cornelio dal canto suo notificava ai cartaginesi la sua elezione con una lettera tutta
spirante mansuetudine e semplicità religiosa, quale si conveniva al capo della Chiesa. Scrisse
pure Novaziano, ma la sua lettera era piena di calunnie e di infamie contro a s. Cornelio.
S. Cipriano, fattasi un po' di calma nella Chiesa, aveva potuto ritornare alla sua sede, ed a
fine di essere aiutato intorno a quanto era da farsi, radunò un concilio di vescovi.
Egli ricevette la lettera di Roma quando appunto quei venerandi prelati erano radunati in
conferenza. L' accorto vescovo conobbe tosto da quale spirito erano guidati gli autori di quelle
lettere. Ammirò quella di s. Cornelio, la lesse in pieno concilio, e tutti ravvisarono in tale lettera
la voce del vicario di G. Cristo. Veduto poi che lo scritto di Novaziano era un libello infamatorio
volle nemmen leggerlo nè comunicarlo ai vescovi suoi colleghi. Tuttavia nel desiderio di essere
pienamente informato di quanto era avvenuto nella elezione di s. Cornelio, ed essere così in {67
[67]} grado di dare sicure risposte a' suoi colleghi, mandò alcuni sacerdoti a Roma affinchè
riportassero autentiche testimonianze dei fatti.
Per mezzo di questi messaggieri si facevano alla santa sede alcuni quesiti sul modo di
regolarsi coi caduti.
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S. Cipriano scrisse colla medesima occasione una lettera ai confessori di Roma, che erano
caduti nello scisma di Novaziano; ma ordinò che tali lettere fossero prima presentate al Papa, e
da lui lette; e che non venissero ricapitate se il pontefice nol giudicava a proposito.
Capo XII. Felicissimo a Roma - Lettera di s. Cipriano al Papa.
S. Cipriano aveva pure i suoi nemici nella medesima Cartagine, che davano mano allo
scisma di Novaziano. I scismatici elessero un vescovo di nome Fortunato, che mandarono a
Roma per farlo approvare dal Papa. Capo di questa legazione era un certo Felicissimo nemico
ostinato di s. Cipriano e autore di molti disordini. Portava {68 [68]} egli seco un fascio di lettere
piene di calunnie contro a s. Cipriano. Giunto a Roma si presentò arditamente dal Papa
accompagnato da una turba di scismatici pronti a qualsiasi spergiuro per far riconoscere
Fortunato vescovo di Cartagine. Ma Cornelio non volle nemmeno ascoltarlo, e lo escluse dalla
Chiesa come colpevole e condannato per gravi delitti. Di poi diede avviso di quanto aveva
operato con una lettera piena di carità e di fortezza indirizzata a s. Cipriano. I scismatici
vedendosi così smascherati, minacciarono d'infamare il Pontefice e ritornare a Cartagine ed
uccidere s. Cipriano a sassate o a bastonate. Il papa non badò alle loro minaccie e prevenendo s.
Cipriano, lo invitò a dargli ragguaglio di quanto fosse per fare Fortunato.
S. Cipriano scrisse una lettera a Cornelio, in cui, dopo aver narrato le calunnie e l'audacia
di coloro che avevano consacrato vescovo Fortunato, continua il discorso così: «Dopo tali
eccessi osano ancora passare il mare e portar lettere da parte dei scismatici alla Cattedra di s.
Pietro, che è la Chiesa principale, donde emanò la sacerdotale dignità, senza badare {69 [69]}
che quelli a cui si rivolgono sono gli stessi Romani, della cui fede l' Apostolo Paolo fece le più
grandi lodi, ed appresso ai quali l'infedeltà non può aver accesso.
Ma qual ragione possono eglino avere di venire costà a disturbar voi e recar la nuova di
un falso vescovo stabilito contro ai veri vescovi? Imperciocchè è stabilito con giustizia fra noi
che ogni colpevole deve essere esaminato sul luogo dove ha commesso il delitto; a ciascun
pastore poi è data una parte del gregge, perchè la governi e ne renda conto al Signore. Perdono
essi ogni loro diritto dal momento che corrono qua e là per mettere discordia tra i vescovi.
Dovrebbero piuttosto difendere la loro causa nel luogo dove ci siano accusatori e testimonii del
delitto. Se non che questo branco di forsennati non trova sufficiente l'autorità dei vescovi d'
Africa che gli hanno giudicati e già condannati. La loro causa fu esaminata, la sentenza
pronunziata, ed è cosa indegna alla gravità dei vescovi che siano rimproverati d'incostanza,
perchè il Signore c'insegna che noi non dobbiamo dire altro che sì, sì, no, no.» {70 [70]}
Capo XIII. Concilio di Roma - Novaziano si allontana da questa città -
Ritorno alla fede cattolica.
In un concilio convocato in Cartagine, presieduto da s. Cipriano, erasi stabilito che gli
apostati i quali ritornassero alla fede subito dopo la caduta, fossero tosto ammessi alla
comunione dei fedeli. Ma quelli che fossero ricaduti od avessero fatti sacrifizi, oppure avessero
perseverato qualche tempo nell'apostasia non fossero più ricevuti nella Chiesa se non dopo
lunghe e sicure prove. Dipoi s. Cipriano mandò gli atti del concilio a Roma affinchè venissero
approvati dal sommo Pontefice. Il papa, e per trattare quanto riguardava alla Chiesa di Cartagine
ed anche per confermare altre cose che riguardavano la disciplina, convocò in Roma un concilio
di sessanta vescovi con molti sacerdoti e diaconi. Ivi furono attentamente esaminati ed approvati
i decreti del concilio Cartaginese, e fu condannato Novaziano, il suo scisma e la sua dottrina.
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Cornelio diede parte alle altre chiese {71 [71]} della cristianità di quanto erasi fatto in
questo concilio e scrisse molte lettere. In altre diocesi furono pure tenuti concilii particolari
contro a Novaziano. Allora questo scismatico vedendosi confuso a Roma stimò bene di mandare
in Africa Novato con alcuni suoi aderenti per farsi colà novelli seguaci. Il papa però diede tosto
avviso a s. Cipriano affinchè stesse in guardia sul lupo rapace che minacciava di invadere il suo
gregge.
Novato usciva di Roma, e con lui usciva la principal causa dei torbidi e delle discordie.
La pace e la tranquillità cominciavano a ristabilirsi, e molti, anche confessori, che pei raggiri di
lui eransi separati dalla Chiesa, vi ritornarono. Essi eransi finalmente fatti certi che Novaziano li
aveva ingannati colle sue menzogne, coi suoi spergiuri.
La notizia del ritorno di quei scismatici alla Chiesa, fu con gioia portata a Cornelio.
Tuttavia il papa per accertarsi vie più mandò alcuni suoi sacerdoti perchè li udissero di
propria bocca a condannare i loro errori. Interrogati sulle lettere piene di calunnie spedite sotto al
loro nome, e {72 [72]} che furono cagione di disordini in molte chiese, eglino diedero questa
risposta: Noi ne siamo veramente colpevoli, ma fummo ingannati; noi ignoravamo ciò che quelle
lettere contenessero. Nondimeno abbiamo avuto parte nello scisma cooperando alla imposizione
delle mani sopra Novaziano per farlo vescovo.
Ora siamo pentiti; dimandiamo umilmente perdono chiedendo per grazia speciale che i
nostri falli siano posti in dimenticanza e così possiamo essere accolti fra gli altri fedeli. Avuta
relazione di tutto questo, il papa radunò il suo clero con parecchi vescovi che trovavansi a Roma.
Di comune accordo fu stabilita una regola da tenersi verso quei confessori scismatici, indi si
fecero entrare nell'adunanza Massimo, Urbano. Sidonio, Macario ed altri fedeli che eransi loro
uniti. Tutti pregavano unanimi e dimandavano perdono delle loro colpe promettendo di fare
riparazione dello scandalo dato.
Dopo di che il papa con parole di consolazione significò al popolo il ritorno alla Chiesa
di quelli che colla loro apostasia avevano cagionato tanto dolore. Accorse in folla il popolo e tutti
commossi rendevano {73 [73]} grazie al Signore. Di poi abbracciavano con tenerezza i
confessori come se quel giorno stesso fossero usciti di carcere.
I confessori commossi anch'essi fecero pubblica confessione delle loro colpe, e per
riparare lo scandalo proferirono le seguenti parole: «sappiamo che Cornelio è vescovo della S.
Chiesa cattolica per elezione di Dio onnipotente, e di Gesù Cristo nostro Signore. Confessiamo il
nostro errore; noi siamo stati sedotti da ingannevoli discorsi. Sebbene in apparenza noi avessimo
comunicazione con un uomo scismatico ed eretico, tuttavia il nostro cuore fu sempre
sinceramente nella Chiesi, non ignorando noi che non vi è che un Dio solo, un Signor Gesù
Cristo da noi confessato, uno Spirito Santo, e non doverci essere che un vescovo solo capo della
Chiesa cattolica.» Dopo tale ritrattazione il papa ordinò al prete Massimo di riprendere il suo
luogo, ed accolse tutti gli altri con grande applauso del popolo.
Cornelio diedesi premura di comunicare a s. Cipriano queste consolanti notizie, e spedì
l'accolito Niceforo a recarne annunzio a Cartagine e perchè fosse più sollecita la {74 [74]} sua
andata, volle che partisse dalla sala medesima del concilio. Fra le altre cose dava carico a s.
Cipriano di mandare la lettera alle altre chiese, affinchè ognuno ringraziasse Iddio perchè il
numero dei scismatici andava ogni giorno più diminuendo.
Capo XIV. Trattato dell'unità della Chiesa.
Uno dei più preziosi documenti della storia Ecclesiastica è il trattato di s. Cipriano
dell'unità della Chiesa. Egli faceva pervenire questo suo scritto al papa sia per dar segno della
sua sommessione alla Santa sede, sia per confermare nella fede i confessori poco prima
riconciliati colla Chiesa. In questo trattato ricorda che noi dobbiamo temere la persecuzione, ma
temere assai più l'inganno, perciocchè il privo uomo non fu rovinato dalla persecuzione ma dalla
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frode. Al contrario Gesù Cristo respinse il demonio che lo insidiava. Di poi prende a parlare così:
«cristiani, imitiamo l'esempio di Gesù Cristo, teniamoci fermi alla sua parola. Satana, vedendo
{75 [75]} gli idoli abbandonati, immaginò una nuova frode, quella cioè d'ingannare i cristiani
sotto al nome stesso di cristiani. Egli ha inventato a questo fine le eresie e gli scismi, quelle per
guastare la fede, questi per rompere l'unità della Chiesa. Questo avviene perchè non ascendiamo
alla fonte della verità, perchè non cerchiamo il Capo, non serbiamo la dottrina del Divin
Maestro.
Non è lunga, nè difficile la prova della fede. Gesù Cristo disse a s. Pietro: io dico a te: tu
sei Pietro e sopra questa pietra fonderò la mia chiesa, col resto. Sopra quest'uno egli fondò la sua
chiesa, e dà a lui l'autorità di pascere le sue pecorelle.
E benchè dopo la sua risurrezione egli abbia dato un simile potere a tutti i suoi apostoli,
nondimeno per manifestare l'unità egli ha stabilito una cattedra e fondata l'origine dell'unità
facendola derivare da un solo. Certamente gli altri apostoli erano egualmente presenti con Pietro
e parteciparono dello stesso onore e della stessa autorità; ma il principio viene dall'unità; e il
principato vien dato a Pietro per dimostrare non esservi che una sola Chiesa di Gesù Cristo ed
una sola sede. Tutti i {76 [76]} vescovi sono pastori, ma non si vede che un solo gregge, il quale
tutti gli apostoli di comune accordo devono pascere per mostrare che la Chiesa di Cristo è una.
Forse chi non conserva questa unità, potrà credere di serbare la fede? Forse chi ha in dispregio la
Chiesa, chi abbandona la cattedra di s. Pietro, sulla quale fu fondata la chiesa di Cristo, potrà egli
fidarsi di essere nella Chiesa di Gesù Cristo?
Noi vescovi siamo quelli che sopra tutti dobbiamo fermamente attenerci a questa unità e
difenderla; noi che presediamo agli altri nella Chiesa, onde poter così provare che l'episcopato
medesimo è uno ed indiviso. Sì, l'episcopato è uno, ed ogni vescovo ne possiede indivisamente
una porzione. La Chiesa similmente è una, e per la sua fecondità si spande in una moltitudine
sempre crescente. La Chiesa è come il sole, i cui raggi sono innumerabili, ma la luce è una sola;
è un albero di moltissimi rami, ma di un tronco solo: spezzate uno di questi rami e il ramo
tagliato non potrà più ripullulare. Così chi si separa dalla Chiesa e da Cristo non potrà giammai
ottenere le ricompense di Cristo. Egli è uno straniero, un profano, un {77 [77]} nemico; egli non
può avere Dìo per padre chi non ha la Chiesa per madre.
Ditemi se alcuno potè, salvarsi fuori dell'arca di Noè, ed allora sarà anche possibile di
salvarsi fuori della Chiesa.
Il Signore dice: io e il Padre siamo una stessa cosa. È pure detto del Padre, del Figliuolo e
dello Spirito Santo: questi tre sono una medesima cosa. E vi sarà chi creda che questa unità, la
quale nasce dall'immutabilità di Dio ed è inseparabilmente congiunta co' celesti misteri, possa
essere divisa nella Chiesa per la discordanza delle opinioni? Allorchè avvenne la divisione delle
dieci tribù d'Israele, il profeta Achia tagliò in brani il suo mantello. Ma poichè il popolo di Cristo
non potrebbe essere diviso, perciò la veste del Salvatore fu inconsutile, cioè tessuta da alto in
basso e traente la sua unità dal cielo e dal Padre. Questa veste ovvero questa unità non potrebbe
giammai essere divisa da chi la riceve o la possiede. Niuno s'immagini che i buoni possano
uscire dalla Chiesa; il vento non porta seco il frumento, bensì trasporta la loppa ossia la minuta o
leggiera polvere. E noi chiamiamo loppa coloro che contro alle regole da Dio stabilite
s'innalzano {78 [78]} da se stessi sopra una turba di temerarii che si fanno prelati contro i canoni
prescritti per l'ordinazione. Costoro si attribuiscono da se stessi il nome di vescovi senza che
alcuno dia loro l'episcopato. Lo scisma è colpa sì grave che la morte medesima non vale ad
espiarla; chi non è nella Chiesa non può esser martire; ben può essere ucciso, ma non coronato.»
Questa dottrina di s. Cipriano dimostra chiaramente come in ogni tempo fu giudicato
principio di fede invariabile l'unità della dottrina; che questa unità deve cercarsi unicamente nella
Chiesa Cattolica e che la Chiesa di Roma fu sempre considerata maestra di questa unità presso a
tutte le chiese del mondo.
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Don Bosco - La persecuzione di Decio e il pontificato di San Cornelio I papa
Capo XV. Morte dell'imperatore Decio. - Trasporto delle reliquie di S.
Pietro e di S. Paolo. - Rinnovamento della persecuzione.
Dio viene sempre in aiuto alla sua Chiesa ogni qual volta apparisce, grave il bisogno. La
storia poi ci ammaestra che coloro i quali {79 [79]} movono persecuzioni o disordini contro di
essa, per lo più vanno ad urtare come in un terribile scoglio contro a cui rovinando se stessi
rendono chiaramente manifesta la vendetta del cielo. Decio non voleva crederlo ma lo provò col
fatto. L'anno secondo del suo regno, fu il tempo più burrascoso per la Chiesa. L'apostasia di
parecchi fedeli, l'ostinazione degli eretici, il furore della persecuzione non lasciavano un
momento di riposo al vecchio pontefice. Allora appunto la divina Provvidenza portò soccorso ai
cristiani, togliendo di mezzo l'autore di tanti mali. Ecco il fatto.
Uno sciame di barbari, che venivano dalle parti settentrionali dell'Europa, minacciavano
d'invadere i confini del romano impero. In numero sterminato eransi accampati sulla riva destra
del Danubio e minacciavano di voler passare quel fiume a qualunque costo. L'imperatore si diede
coraggiosamente a combatterli e dopo di aver loro fatto toccar sanguinosa sconfitte li ridusse a
gravi strettezze. Alfine poi di averli tutti a sua discrezione, ed impedire che neppure uno potesse
fuggire dalle sue mani, spedì un generale, di nome Gallo, con parte dell'esercito ad impedir loro
il {80 [80]} passaggio del fiume, mentre col grosso delle truppe egli si avanzava per assalirli e
costringerli ad arrendersi od essere tutti trucidati. I barbari erano accampati al di là di una palude,
e Decio giudicando di poter superare quel passaggio si avanzò versò di loro, e impegnò un
accanito combattimento. Ma là era il luogo fissato dalla divina giustizia per fargli pagare il fio
delle crudeltà usate contro a' cristiani e specialmente contro al vicario di Gesù Cristo. Decio perì
miseramente con suo figlio e con una parte delle sue genti in mezzo ad un pantano.
Il generale Gallo venne accusato di essersela intesa co' nemici; e un tale sospetto parve
cangiarsi in certezza quando esso fu salutato imperatore, e fu creato Cesare Volusiano suo figlio.
Mentre i novelli capi dell'impero erano intenti a consolidare il loro governo si mitigò alquanto la
persecuzione, e il sommo pontefice potè con qualche tranquillità occuparsi a riordinare molte
cose che riguardavano la disciplina della Chiesa. In questo tempo si attribuisce a s. Cornelio il
trasporto del corpo di s. Pietro e di s. Paolo dalle catacombe di s. Callisto. S. Pietro principe degli
Apostoli {81 [81]} era stato sepolto sul monte Vaticano; dopo la sua morte, s. Anacleto aveva
fatto costruire una piccola chiesa sopra la tomba di lui. Ma nell'anno 224 s. Zefirino per timore
che quel sacro deposito cadesse in mano dei pagani, i quali certamente lo avrebbero profanato, lo
trasportò con quello di S. Paolo nelle catacombe che furono di poi dette di S. Callisto. Quelle
sacre reliquie stettero là per lo spazio di 30 anni, finchè S. Cornelio nell'anno 254, aiutato in ciò
da una ricca matrona romana di nome Lucina, trasportò il corpo di s. Pietro nel luogo di prima
cioè sul monte Vaticano dove tuttora si conserva. Il corpo di s. Paolo fu portato fuori di porta di
Ostia in un monumento fatto preparare da s. Lucina, in un sito di sua proprietà a poca distanza
dal luogo, ove quel santo apostolo aveva sostenuto il martirio.
Ma appena Gallo e Volusiano furono tranquilli possessori di Roma si posero di bel nuovo
a perseguitare i cristiani, e richiamarono in vigore i sanguinosi decreti che Decio aveva
promulgato. Essi ne seguirono così bene le traccie che nella storia spesso confondesi la
persecuzione di Gallo e di Volusiano con quella di Decio sotto al {82 [82]} nome di settima
persecuzione. Egli è perciò che certi scrittori rapportano il martirio di s. Cornelio sotto a Decio,
mèntre altri sotto a Gallo e Volusiano; si viene cioè ad indicare che questo pontefice morì nella
persecuzione cominciata sotto a Decio e continuata sotto a Gallo suo successore. S. Cornelio
parla del rinnovamento della persecuzione in una lettera scritta a san Lupicino vescovo di Vienna
in Francia. Questa lettera è breve ma piena di sublimi sentimenti; essa è del tenore seguente:
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Cornelio a Lupicino
VESCOVO DI VIENNA, SALUTE.
«Sappi, o fratello carissimo, che l'ala del Signore (la Chiesa), è terribilmente agitata dal
vento della persecuzione, e i cristiani sono ovunque oppressi da crudeli tormenti ordinati dagli
imperatori. Nella stessa Roma avvi un prefetto deputato all'esecuzione dei sanguinosi editti. Le
cose sono a tal punto che essi non possono nemmen più radunarsi nelle più nascoste critte per
ascoltare la santa messa. Procuriamo pertanto di svegliare la nostra carità verso di Gesù Cristo, e
niuno tema quelli che {83 [83]} possono soltanto uccidere il corpo. Temiamo unicamente colui
che ha il potere di condannare corpo ed anima nel fuoco eterno. Già molti nostri fratelli sono
stati coronati del martirio. Prega affinchè possiamo anche noi compiere la nostra carriera che è
presso a finire, siccome ci è stato rivelato dal Signore. Sta sano, o fratello nel Signore, e saluta
tutti quelli che ci amano in Gesù Cristo.»
Capo XVI. Gloriosa confessione di S. Cornelio. - Suo esilio. - Lettera a
lui scritta da S. Cipriano.
Il motivo del rinnovamento della persecuzione fu il solito pretesto basato sopra calunnie.
Si andava dicendo che i cristiani erano gente perversa, e che colla loro magia cagionavano la
gran pestilenza che in quei tempi desolava il romano impero. A fine di purgarsi di tale
imputazione i cristiani erano costretti a far sacrifizi per placare lo sdegno degli Dei. S. Cornelio,
come capo de' fedeli, fu il primo ad essere assalito. {84 [84]}
Egli fu interrogato, minacciato, posto in prigione, ma tali patimenti non servirono che a
farlo conoscere più forte e pronto a confessare Gesù Cristo.
Alla fermezza e costanza del pastore i cristiani di Roma, ben lungi dal disperdersi,
accorsero in folla intorno a lui; e molti che già avevano prevaricato vennero coraggiosamente a
riparare il loro scandalo confessando con intrepidezza il nome di Gesù Cristo.
S. Cipriano parla di questo fatto come di uno de' più gloriosi spettacoli, che tutti i fedeli
di Roma unitamente col loro pastore abbiano, quasi fossero un sol uomo, confessata la fede. Il
santo pontefice rimanendo fermo nella fede col clero e con molti fedeli fu mandato in esilio a
Centocelle, oggidì Civitavecchia. Mentre era a Civitavecchia ebbe la consolazione di ricevere
una lettera dal suo amico s. Cipriano. Per la importanza delle cose in essa contenute noi
giudichiamo bene di riferirla. Ella è del tenore seguente:
CIPRIANO A CORNELIO
FRATELLO IN GESÙ CRISTO, SALUTE.
«Abbiamo saputo, o fratello in G. C. carissimo, la gloriosa testimonianza della {85 [85]}
vostra fede e della vostra fortezza, ed abbiamo udito colla più grande consolazione la gloria
grande e l'onore procuratovi con tale confessione.
Abbiamo ricevuto tale notizia come se fosse nostro merito e nostra gloria, perchè
desideriamo di partecipare alla medesima e di esservene compagni. Imperciocchè avendo noi una
sola Chiesa unita con un solo spirito, ed una concordia indivisibile, chi non godrà delle lodi de'
suoi compagni fratelli come di cosa sua propria?
Non si può abbastanza esprimere quanto grande sia stata poi in Cartagine l'allegrezza e la
gioia quando ci giunse la notizia delle gloriose e forti vostre azioni. Queste cose crescono di
pregio al considerare che tu fosti guida a' fratelli nella confessione, cosicchè mentre tu precedi
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gli altri alla gloria, ti fai molti compagni di quella gloria medesima e facesti sì che l'intero popolo
di Roma diventasse confessore mentre tu il primo eri pronto a confessare per tutti. Non saprei
che cosa io debba in voi maggiormente lodare, se più la tua fermezza nella fede, oppure
l'inseparabile e costante carità de' fratelli.
Colà fu pubblicamente comprovata la {86 [86]} virtù del vescovo che precedeva, e fu
conosciuta la bella schiera de' fratelli che lo seguiva. Mentre presso di voi eravi un solo cuore ed
una voce sola, tutta la chiesa romana ha confessato. Con questi fatti, o fratelli carissimi, voi
rendeste più luminosa quella fede che il s. Apostolo vi ha predicata. Quell'apostolo prevedeva
collo spirito la lode della vostra virtù e la vostra costanza nel patire, e col presagire i futuri meriti
della vostra gloria lodava i parenti mentre invitava i figli alla gloria.
La vostra unità di pensiero, la vostra fermezza nel patire fu di luminoso esempio agli altri
cristiani a seguirvi. Così tacendo voi avete insegnato quanto si debba temere Iddio e con quale
fermezza ognuno debba stare unito a G. C. Avete insegnato come la plebe nei pericoli deve
unirsi ai sacerdoti; nelle persecuzioni i fratelli non devono separarsi dai fratelli; avete insegnato
che i cristiani quando sono uniti, sono invincibili; imperciocchè quanto si dimanda a Dio insieme
da tutti, il Dio della pace lo concede agli uomini pacifici. Il nemico dell'uman genere era uscito
con violento furore per seminare il disordine. Il nemico dei cristiani li assalì con grande {87
[87]} violenza; ma col medesimo impeto con cui venne all'assalto con altrettanto di forza fu
cacciato e vinto; e quanto fu grande il timore ed il terrore che egli cagionò, altrettanto fu grande
il coraggio e la fermezza che egli ha trovato. Questo nemico aveva pensato di poter di bel nuovo
sorprendere i fedeli come aveva fatto sotto a Decio; coglierli come deboli novizii, non preparati
alla guerra e così secondo il solito atterrirli.
Ha fatto appunto come fa il lupo il quale prima cerca di allontanare la pecora dal gregge;
ha fatto come lo sparviere che si sforza di allontanare la colomba dalle altre sue compagne.
Imperciocchè colui che non sentesi abbastanza forte per assalire i suoi rivali tutti insieme, cerca
di assalirli insidiosamente uno per volta separati. Ma egli s'ingannò; egli trovò i soldati di G. C.
uniti e forti che stavano vigilanti contro al nemico, vigilanti colla fede e colla sobrietà, e pronti
alla battaglia; conobbe insomma che quei cristiani potevano morire, ma non essere vinti. Egli
appunto li trovò invincibili perchè non temevano la morte, anzi erano preparati a spargere tutto il
loro sangue per separarsi più presto dai {88 [88]} mali e dalle miserie di questo mondo, dove
cotanto abbonda la malizia e l'empietà. Che grande spettacolo fu agli occhi di Dio, quale
allegrezza nel cospetto della chiesa di Gesù Cristo! Il nemico aveva provato di assalire i soldati
separatamente, ma trovò tutto l'esercito pronto alla pugna: imperciocchè è certo che tutti
sarebbero venuti a confessare la fede, ed avrebbero fatto sentire la loro voce, se avessero potuto
essere uditi. Altro effetto della vostra fortezza fu il buon esempio ed il coraggio inspirato nei
deboli. Molti sgraziatamente erano caduti sotto alla persecuzione di Decio; ora mossi dalla vostra
costanza si presentarono anche essi e riparando il loro scandalo confessarono la fede pronti a dar
la vita per espiare i loro delitti.»
(S. Cip. Ep. 57).
Capo XVII. S. Cornelio richiamato a Roma è interrogato
dall'imperatore. - Guarisce una paralitica. - Converte alla fede la
famiglia di S. Cereale. ― Suo martirio.
Le relazioni che il santo pontefice aveva coll'intrepido s. Cipriano, le lettere che {89
[89]} egli scriveva a varii vescovi della cristianità, il grande concorso che da tutte parti facevasi
a Civitavecchia per consultarlo come capo della Chiesa, fecero sì, che Roma sembrasse colà
traslocata. Di che l'imperatore provò gran dispiacere, e richiamò Cornelio a Roma per farsi
rendere conto dei disordini, come egli dicea, che per cagion sue ogni giorno avvenivano. Di poi
ordinò che nottetempo venisse condotto alla sua presenza e cominciò ad interrogarlo così: Ti
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pare, o Cornelio, di fare quanto dovresti fare? Perchè non porti rispetto ai nostri Dei, non
ubbidisci ai precetti imperiali, e non temi le mie minacce; anzi vai scrivendo lettere ai nemici
della repubblica a danno e dispregio della medesima?
Cornelio prese con calma a rispondere cosi: le lettere che ho scritto e le risposte che ho
ricevuto non riguardano per nulla gli affari della repubblica. Questi scritti trattano soltanto della
lode e della gloria di Gesù Cristo mio Dio. Posso assicurarti che quanto feci e dissi non ha altro
scopo che procurare al mio simile la salute dell'anima. L'imperatore si sdegnò ancor più,
perciocchè pei rapporti a lui fatti pensava che {90 [90]} le relazioni del sommo pontefice
riguardassero ad affari politici, onde trasportato dalla collera comandò che il Papa fosse
allontanato dalla sua presenza ordinando che fosse battuto nella faccia con un mazzo di funicelle,
alla cui estremità erano legate altrettante palline di piombo. Ut os eius plumbatis coederetur.
(Acta mart. S. Cornelii).
Poscia, quasi per usargli bontà, l'imperatore comandò che fosse condotto in prigione. La
divina provvidenza, che in modi maravigliosi chiama le anime a sè, dispose che s. Cornelio
guadagnasse alla fede il custode della carcere di nome Cereale. Questo carceriere mosso dalla
santità che il Vicario di G. C, nelle opere e nelle parole manifestava, si persuase che quegli fosse
un uomo straordinario e molto amico di Dio.
Lo pregò pertanto di venire in casa sua per visitare la sua moglie, di nome Sallustia, che
da 15 anni giaceva immobile paralitica in letto. Cornelio, che sempre godeva in cuor suo
qualunque volta poteva esercitare qualche opera di carità, entrò in casa di Cereale con due
sacerdoti ed un chierico lettore. Il santo pontefice invitò tutti gli altri a pregare, ed egli stesso
postosi {91 [91]} ginocchioni con fervore innalzò al cielo questa preghiera: «Signore Iddio
Creatore di tutte le cose visibili ed invisibili, tu che nella tua grande misericordia sei venuto dal
cielo in terra per salvare noi miserabili peccatori; Tu rendi la primiera sanità a questa tua serva
inferma, ed usa con lei misericordia siccome la usasti col cieco nato del Vangelo, per far
conoscere la tua gloria, ed esaltare il tuo santo nome.» Quindi si alzò e prendendo Sallustia per
mano le comandò di levarsi da letto dicendo: «In nome di Gesù Nazareno alzati e cammina co'
tuoi piedi.» Come il cieco nato del Vangelo alle parole del Salvatore acquistò sull'istante la vista,
così Sallustia perfettamente guarita si alzò gridando ad alta voce: Veramente Gesù Cristo è Dio,
ed è figlio di Dio. Di poi illuminata dalla grazia del Signore disse a s. Cornelio: Io ti prego per
amore di Gesù Cristo che mi amministri il Battesimo. Ciò detto coi primi passi, che fece dopo 15
anni di paralisia, andò a prendere dell'acqua, e la portò al pontefice perchè la battezzasse.
I divini favori per lo più sono collegati insieme, e chi corrisponde al primo, Dio {92 [92]}
abbonda concedendone altri anche maggiori. Laonde alla vista di quel miracolo molti soldati e
custodi, che dimoravano nella casa di Cereale, si prostrarono ai piedi di s. Cornelio, dimandando
colle lacrime di essere eglino pure battezzati. S. Cornelio riconobbe la mano del Signore in quel
memorabile trasporto per la fede, e facendo loro imparare le più necessarie verità della religione,
loro amministrò il sacramento del Battesimo. E per ringraziar degnamente il Signore dei benefizi
ricevuti, offrì per loro sacrificium laudis, cioè il santo sacrifizio della messa. Di poi tutti
parteciparono del corpo e del sangue di nostro Signor G. Cristo. (V. Bar. all'an. 255).
Informato l'imperatore di queste cose, arse maggiormente di sdegno, e diede ordine che
tutti quelli che erano stati battezzati nella casa di Cereale, unitamente al santo pontefice, fossero
condotti fuori della città nella via Appia dove eravi un tempio dedicato a Marte. L'ordine era di
metterli tutti a morte se avessero esitato a far sacrifizio agli Dei.
I degni confessori di G. C, sentirono con gioia tale sentenza; perciocchè erano deliberati
di patire non una, ma mille morti {93 [93]} piuttosto che negare il loro Dio. Nel cammino s.
Cornelio incontrò un suo arcidiacono, di nome Stefano, a cui diede alcuni ricordi pel buon
governo della Chiesa, e fra le altre cose gli raccomandò di distribuire il più presto possibile ai
poveri quei pochi danari che rimanevano a disposizione della Chiesa.
Giunti al luogo stabilito le guardie usarono ogni arte per indurre s. Cornelio e i suoi
compagni a fare sacrifizio a Marte; ma scorgendo inutile ogni tentativo deliberarono di eseguire
gli ordini ricevuti. Condussero il santo pontefice fino al cimitero di s. Callisto, dove giunto gli fu
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tagliata la testa il 14 di settembre dell'anno 255 dopo aver governata la santa sede circa due anni.
S. Cereale, s. Sallustia con altri in numero di venti furono nel medesimo tempo martirizzati.
Alcuni preti vennero nottetempo al luogo del martirio e colla massima venerazione, in
compagnia di s. Lucina, lo portarono ad essere seppellito in un sito che questa pia matrona aveva
fatto preparare in un suo podere vicino al cimitero di s. Callisto. {94 [94]}
Capo XVIII. Ordinazioni e scritti di S Cornelio. - Suo culto e protezione
di lui contro alla paralisia.
S. Cornelio tenne due volte la sacra ordinazione nel mese di dicembre. In queste due
ordinazioni consacrò quattro diaconi, quattro preti e sette vescovi che egli mandò in diversi
luoghi. Nel decorso della vita di questo pontefice abbiamo più volte parlato de' suoi scritti, e
sebbene molte sue opere siano andate perdute, tuttavia ce ne rimangono a sufficienza per darci
una giusta idea del suo coraggio apostolico e della profonda sua dottrina. S. Girolamo lo
annovera fra gli scrittori ecclesiastici de' tre primi secoli della Chiesa, e fra le altre cose dice
quanto segue: «Cornelio vescovo della santa romana chiesa scrisse una lettera a s. Fabiano
vescovo d'Antiochia, dove parla del concilio tenuto in Roma e di quello tenuto in Cartagine.
Altra lettera scrisse intorno all'eretico Novaziano, dove parla specialmente di quelli che caddero
in tempo di persecuzione. Una terza tratta {95 [95]} delle cose decretate in que' concilii. La
quarta lettera assai più lunga della prima fu indirizzata al medesimo s. Fabiano dove tratta delle
cose che hanno dato origine allo scisma di Novaziano e della condanna del medesimo. Vi sono
otto lettere di s. Cipriano indirizzate a questo pontefice. (S. Gir. de script. eccl.).
Scrisse anche molte altre lettere, e fece diversi decreti, ma questi preziosi documenti
andarono in gran parte perduti. Di questo pontefice si fa ogni giorno speciale menzione nel
sacrificio della S. Messa, e fin da' primi tempi si ebbe grande venerazione verso le sue reliquie. Il
pontefice s. Leone fece innalzare una basilica vicino al luogo di sua sepoltura.
Da molti suole invocarsi la protezione di questo Santo contro gli accidenti di paralisia:
questo pare fondato sulla guarigione ottenuta a s. Sallustia mentre esso era condotto al martirio.
Certo è che si ottennero molte grazie da' divoti di s. Cornelio specialmente contro alla paralisia:
ne citeremo un fatto solo. A' tempi di Carlo il Calvo re di Francia (secolo IX), trasportavansi
alcune reliquie di s. Cornelio da Roma in Compiègne, città di quel regno. {96 [96]} Fra i molti
prodigi, che in questa congiuntura si operarono, si notano i seguenti: tre ciechi acquistarono
perfettamente la vista; tre sordomuti acquistarono l'udito e la loquela; e fra gli altri vi fu un
numero grandissimo di paralitici che furono portati presso all'urna in cui erano chiuse le reliquie
del Santo, e alla presenza della moltitudine invocarono la protezione di lui e ottennero l'uso
perfetto de' loro membri (V. Boll. 14 sett.).
Capo XIX. Profanazione di alcune reliquie di S. Cornelio. Sono tolte al
furore de' protestanti.
Le parti principali del corpo di S. Cornelio sono in Roma; parecchie parti però di esso
furono trasportate in varii paesi della cristianità, e furono sempre avute quali sorgenti di
benedizioni presso a que' popoli che le hanno possedute. Ma le reliquie che dai cattolici sono
tenute come oggetti di tenera divozione, invece dai protestanti sono avute nel massimo
disprezzo. Una delle ragioni di questo disprezzo pare che derivi da questo, che i protestanti non
{97 [97]} possono vantarsi di un solo de' loro correligionari, le cui azioni della vita mortale od i
fatti gloriosi operati dopo morte ne abbiano reso le reliquie degne di culto speciale. Perciò non
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possono mai dall'esempio de' loro maggiori essere eccitati alla pratica delle virtù cristiane, nè a
grandi azioni di carità o di religione.
Sanno essi inoltre che i cattolici prestando ossequio alle reliquie, sentonsi naturalmente
portati verso Dio con desiderio d' imitare le azioni di coloro le cui anime sono amiche di Dio e
gloriose in Cielo, e le cui ceneri sono oggetto di venerazione sopra la terra. Perciò possiamo dire
che avranno sempre un grande ostacolo a superare per combattere la religione cattolica, finchè
non ne hanno indotto i seguaci ad abbandonare il culto delle reliquie. Per questi motivi i
riformatori, o protestanti o gli evangelici, che sono una cosa sola, cercano tutti i modi per
eccitare il disprezzo verso le ceneri di questi amici di Dio; anzi pare che provino gran gusto
qualora si presenti l'empia occasione di poter profanare, e, se possono, spezzare e calpestar le
reliquie di qualche santo. Noi abbiamo già parlato di tali profanazioni {98 [98]} nella vita di s.
Ireneo, vescovo di Lione; ora dobbiamo esporre simile sacrilegio commesso contro alle ceneri di
san Cornelio.
L'anno 950 una parte delle reliquie di questo pontefice da Roma furono portate in Fiandra
in una città detta allora Rotnaco ed oggi appellata Ronse. Ivi rimasero circa 600 anni esposte alla
venerazione de' popoli, con gran vantaggio di chi recavasi a venerarle. L'anno 1572, i protestanti
che mettevano sossopra quasi tutta l' Europa, riuscirono anche ad impadronirsi di quella città.
Dopo d'aver saccheggiato ogni cosa, quasi per compimento della loro barbarie, si diedero alla
profanazione delle cose sacre e specialmente delle reliquie di s. Cornelio. Noi racconteremo
questo fatto colle parole, con cui una persona che si trovò presente a tale sacrilego spettacolo,
racconta e depone con giuramento quanto egli ha veduto (Boll. gior. 14 sett.).
Nel mese di settembre, egli dico, giorno di domenica, gli eretici protestanti a mano
armata s'impadronirono della fortezza di Pamella che difendeva la città di Ronse. Ivi erano state
trasportate le reliquie di s. Cornelio per sottrarle dal furore degli {99 [99]} eretici. Dopo aver
posta ogni cosa a ruba portarono il loro sguardo sopra l'urna che racchiudeva le sante reliquie. Il
vederla, prenderla, spezzarla e disperdere le venerande ceneri fu cosa di un momento. Io vidi
quel sacrilegio con grande afflizione dell'animo mio. Gli eretici presero l'urna la ridussero in
pezzi; si appropriarono l'oro e l'argento che la ornavano, di poi dispersero qua e là le reliquie e
con somma empietà le calpestarono. Io ne ebbi orrore al pensiero che quelle erano state gli
organi e gli strumenti, pel cui mezzo lo Spirito Santo aveva fatto molte opere buone e che un
giorno sarebbero per rivivere e conseguire la vita eterna. Tra la speranza ed il timore, ma col più
grande rispetto, raccolsi quei sacri pegni qua e là dispersi, e segretamente li portai in un
nascondiglio di quella fortezza. Intanto quegli eretici dopo aver profanato le cose sacre si volsero
alle cose profane. Spogliarono molti ecclesiastici e molti personaggi secolari, eccitarono molti
incendii, commisero molti ladronecci. Finchè cangiando le sorti della guerra, gli eretici vennero
inseguiti, e per buona fortuna cacciati da quella fortezza per ordine del cattolico re di Spagna
detto Filippo. {100 [100]}
Allora le reliquie di s. Cornelio furono tolte dal luogo in cui erano state nascoste, e
portate nella chiesa collegiata in quello stesso sito, onde erano state tolte per sottrarle dal furore
degli eretici (V.Boll.14 sett.).
Capo XX. Dottrina della Chiesa Cattolica intorno al culto delle reliquie.
Gli eretici e specialmente i protestanti dicono che il culto portato alle sante reliquie è
contrario alla ragione ed alle divine scritture, aggiungendo non doversi adorare le reliquie,
perchè soltanto Iddio è degno di essere adorato in ispirito e verità. Noi diremo che gli eretici con
tale asserzione dimostrano di essere poco instruiti nella dottrina cattolica. Diremo in generale,
che noi giudichiamo cosa ragionevole dare segno di stima e di affetto alle ceneri di coloro che
vivendo furono i benefattori dell'umanità, furono modelli di virtù a quelli che vissero nel mondo
dopo di loro, e che ora, fatti amici di Dio, regnano con lui gloriosi in cielo.
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Gli eretici poi commettono un grande {101 [101]} errore allorchè dicono i cattolici
adorare le reliquie de' santi. Niun catechismo, niun pontefice, niun concilio, niun santo padre e,
diremo in breve, niun cattolico ha insegnato, nemmeno insegna presentemente, doversi adorare
le reliquie. La chiesa cattolica insegna di venerare le reliquie dei santi, ma non mai di adorarle.
Dunque noi cattolici diremo a' protestanti che veneriamo, cioè portiamo stima e rispetto alle
reliquie, come oggetti appartenenti ad individui cari a Dio ed agli uomini; ma non prestiamo loro
alcuna adorazione, perchè adoriamo un solo Dio Creatore del cielo e della terra.
Quando poi dicono che il culto delle reliquie è contrario alla Bibbia, essi asseriscono il
contrario di quanto sta scritto nella medesima Bibbia, perchè noi proviamo che tale dottrina è
appoggiata sulla Bibbia, e che Dio medesimo ha fatto conoscere con miracoli che egli approva il
culto delle reliquie, i quali miracoli sono pure registrati ne' libri santi. Accenneremo qui soltanto
alcuni de' molti fatti che si potrebbero addurre. Quando Mosè era per partire dall'Egitto alla testa
del popolo di Israele trasportò le reliquie dei patriarca {102 [102]} Giuseppe, perchè fossero con
grande onore seppellite nella Palestina. Come di fatto furono più tardi sepolte vicino alla città di
Sichem (Esodo c. 13).
Leggesi che alcuni ebrei mentre portavano un morto alla sepoltura, per timore de' ladri si
nascosero in una caverna, ove era stato sepolto il corpo di Eliseo. Appena il cadavere toccò le
ceneri del santo profeta risorse a nuova vita (Lib. 4, de' Re, cap. 13).
Una donna, che da molti giorni pativa il flusso di sangue, spinta dal desiderio di essere
guarita, con viva fede cercava di avvicinarsi al Divin Salvatore. La qual cosa non potendo fare,
perchè impedita dalla turba, toccò l'orlo della vestimenta di Gesù Cristo. E questo bastò per farla
sull'istante guarire dalla sua infermità (S. Matteo c. 9).
S. Pietro operava grandi miracoli, guariva molti infermi. Ma per la folla de' languenti che
a lui erano portati, non potevano tutti avvicinarsegli; onde mettevansi in letto e li collocavano
lungo le vie, affinchè almeno l'ombra di Pietro li andasse a toccare. E tutti quelli, sopra cui
passava quell'ombra, erano guariti dalle loro infermità (Att. ap. c. 5). S. Agostino ci assicura
{103 [103]} che fra i miracoli operati dall'ombra di Pietro si annovera la risurrezione di un
morto.
Iddio operava pure grandi maraviglie per mezzo dell'Apostolo S. Paolo. I medesimi
sudarii e le cinture, cioè le camicie, lenzuola ed altri pannilini che avevano toccato le membra di
quel santo apostolo si portavano a gara sopra gl'infermi, e tutti, a tale maraviglioso contatto,
erano liberati da' loro languori e dalle loro infermità (At. ap. cap. 19).
Molti miracolosi fatti di tal genere sono registrati nella Bibbia. Moltissimi poi si leggono
nella storia ecclesiastica che noi per brevità tralasciamo3.
Con questi fatti noi siamo dalla Bibbia assicurati, che la nazione degli ebrei e lo {104
[104]} stesso Mosè professavano venerazione alle reliquie; che le ossa di un profeta hanno fatto
risuscitare un morto; che l'orlo della veste del Salvatore, i pannolini di s. Paolo, l'ombra di s.
Pietro erano tenuti in grande venerazione. Ma quello che più importa si è che Dio dimostrò
gradimento di tale divozione con luminosi miracoli, i quali sono da Dio operati soltanto in
conferma della verità. Ora se i protestanti vogliono disapprovare il culto delle reliquie bisogna
che prima disapprovino il sentimento religioso degli ebrei e de' cristiani di tutti i tempi e dicano
che Dio abbia con miracoli approvata una dottrina riprovevole. Noi crediamo che i protestanti
non saranno mai per giungere a tale enormità; ma che piuttosto deporranno la loro avversione
verso le sante reliquie.
Noi intanto invitiamo tutti i fedeli cristiani ad usare grande venerazione verso le reliquie,
sia che queste vengano esposte nelle pubbliche chiese sui nostri altari, sia che si conservino nelle
case dei privati. Le onorino e le facciano onorare da' loro dipendenti e si persuadano che in esse
avranno altrettante sorgenti di grazie e di benedizioni. Di più quelle maraviglie che {105 [105]}
3 Chi volesse instruirsi più a lungo intorno a questa materia potrebbe leggere S. Agostino De civitate Dei, S.
Epifanio nella vita di Isaia, Ezechiele e Geremia, S. Basilio nell'orazione recitata in lode di Marnante, Giuditta ed
altri. S Gregorio Nazianzeno ove parla di S. Cipriano. Lo stesso dicono S. Giovanni Grisostomo, S. Ambrogio, S.
Girolamo in molti luoghi delle loro opere. Leggansi pure i Bollandisti nel 14 di settembre, ove a lungo parlasi del
culto e delle reliquie di S. Cornelio.
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Don Bosco - La persecuzione di Decio e il pontificato di San Cornelio I papa
Dio volle far registrare nella Sacra Bibbia e nella storia ecclesiastica, operate per virtù delle
reliquie dei santi e segnatamente delle reliquie di s. Cornelio; le stesse maraviglie saranno pure
rinnovate a nostro vantaggio spirituale e temporale, purchè con fede abbiamo a quelle ricorso.
Fortunati quei paesi e quelle case ove si conservano colla debita venerazione le reliquie dei santi;
fortunati que' cristiani che con viva fede ricorreranno a coloro che già regnano beati in cielo e le
cui reliquie veneriamo sopra la terra.
FINE {106 [106]}
Indice
Capo I. Sede vacante - Caduti - Sacrificati - Turificati - Idolatri - Libellatici
- Fedeli - Martiri - Confessori - Estorri – Professori
Capo II. Gloriosa confessione di s. Acacio
Capo III. S. Vittoria e s. Anatolia, martiri
Martirio di s. Agata
Capo IV. Storia dei sette dormienti
Capo V. Moltitudine di Martiri - S. Polliutto - Pionio - Andrea - Paolo -
Dionigia - S. Cristoforo e sue immagini - S. Venanzio
Capo VI. Ritiro di s. Cipriano - Lettera al suo clero ed ai confessori di
Cartagine
Capo VII. Biglietti d'indulgenza - Fermezza della Chiesa Romana - Lettera
ai Cartaginesi
Capo VIII. Attaccamento di s. Cipriano alla Chiesa Romana - Lettera del
clero di Roma a questo Santo
Capo IX. Elezione di s. Cornelio – Rare virtù di questo Pontefice
Capo X. Scisma di Novaziano - Eccessi di questo scismatico
Capo XI. Lettera di s. Dionigi alessandrino - Rispetto di s. Cipriano pel
Sommo Pontefice
Capo XII. Felicissimo a Roma - Lettera di s. Cipriano al Papa
Capo XIII. Concilio di Roma - Novaziano {108 [108]} si allontana da
questa città - Ritorno alla fede cattolica
Capo XIV. Trattato dell'unità della Chiesa
Capo XV. Morte dell'imperatore Decio - Trasporto delle reliquie di s. Pietro
e di s. Paolo - Rinnovamento della persecuzione
Lettera di s. Cornelio a Lupicino, vescovo di Vienna
Capo XVI. Gloriosa confessione di s. Cornelio - Suo esilio - Lettera a lui
scritta da s. Cipriano
Capo XVII. S. Cornelio richiamato a Roma è interrogato dall' imperatore -
Guarisce una paralitica – Converte {109 [109]} alla fede la famiglia di s.
Cereale - Suo martirio
Capo XVIII. Ordinazimi e scritti di s. Cornelio - Suo culto e protezione di
lui contro alla paralisia
Capo XIX. Profanazione di alcune reliquie di s. Cornelio – Sono tolte al
furore dei protestanti
Capo XX. Dottrina della Chiesa cattolica intorno al culto delle reliquie
Pag. 3
8
17
24
28
39 {107 [107]}
Pag. 45
49
53
57
61
65
68
Pag. 71
75
79
83
84
Pag. 89
95
97
101 {110 [110]}
Con approvazione delta Revisione Ecclesiastica. {111 [111]} {112 [112]}
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