“NON BASTA AMARE”
LA MANIFESTAZIONE DELL’AMORE
Questa meditazione si centra su uno dei temi fondamentali del nostro Carisma e della nostra Spiritualità Salesiana. Basterebbe ricordare, tra molti altri testi della nostra Tradizione, la Lettera da Roma del 10 maggio 1884, dove Don Bosco ha plasmato, in maniera insuperabile, questo tratto essenziale del Sistema Preventivo. Nonostante ciò, possiamo correre il rischio di farlo diventare, in maniera superficiale, soltanto uno “slogan” pubblicitario. In realtà, invece, ha una densità straordinaria, non soltanto dal punto di vista pedagogico o spirituale, ma anche ha una ricchezza teologica che è necessario approfondire, perché ci porta alle radici della Rivelazione cristiana.
Come nelle riflessioni precedenti, anche qui prenderemo come punto di partenza l’esperienza umana, non perché si vuole minimizzare la novità cristiana di questo tema, ma perché crediamo fermamente che non c’è nessuna opposizione tra natura e grazia, tra Creazione e Redenzione.
1. L’Amore ha bisogno di manifestarsi
Alla realtà stessa dell’amore, ancora nell’esperienza umana, possiamo applicare, in maniera analoga, quello che san Giovanni dice su Dio: “L’amore, nessuno lo ha mai visto”. Tuttavia, quello che il titolo vuole affermare non è soltanto che, se l’amore non si manifesta, non può essere percepito (questo è ovvio), ma piuttosto vogliamo sottolineare che l’amore, per la sua stessa natura, cerca di rendersi visibile, vuole essere percepito dalla persona amata; e anche - è necessario dirlo con chiarezza - brama una risposta, che non si può dare se non c’è questa manifestazione.
È necessario continuare analizzando questa esperienza, e perciò ci facciamo questa domanda: perché è necessario manifestare l’amore, da parte di chi ama? Senz’altro, perché non può smettere di farlo; ma anche - e questo non sempre si prende in considerazione - per quello che implica per la persona amata: proprio perché quello che voglio di più è la sua felicità, voglio che sappia che è amata.
Questa impostazione ci porta ad una prospettiva della fenomenologia dell’amore che troppe volte si dimentica, o si trascura: non stiamo collocandoci dal punto di vista dell’amare, ma dall’essere- e del sentirsi-amato. Questa dimenticanza è propiziata, molte volte, da un malinteso: quello di pensare che “vale di più dare che ricevere”, arrivando alle volte persino a non volere nessuna risposta da parte della persona amata: come se fosse più nobile questo amore “disinteressato”. E ancor di più: perché pensiamo forse che, in questa maniera, assomigliamo di più a Dio. Il Santo Padre Benedetto XVI, nella sua Enciclica Deus caritas est e, ancor di più, nel suo Messaggio per la Quaresima 2007, offre spunti straordinariamente fecondi per dissipare questo malinteso dalla sua più profonda radice teologica. Come abbiamo visto e come vedremo parlando della gratuità e della Grazia, il Papa scrive: “L’Onnipotente attende il ‘sì’ delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa (…) La risposta che il Signore ardentemente desidera da noi è innanzitutto che noi accogliamo il suo amore e ci lasciamo attrarre da Lui”.
Questo malinteso si fa presente anche, purtroppo, nella stessa concezione della vita cristiana, quando viene intesa più come un “amare e servire Dio”, sperando, in questa maniera, che Lui non potrà fare a meno di corrispondere al nostro amore, e ci salverà; invece di comprenderla e viverla, con la gioia della gratitudine, come un “essere amati da Dio”. Soltanto da questa convinzione della nostra fede può nascere il nostro amore verso di Lui, come risposta riconoscente e gioiosa.
Ritornando alla prospettiva prima abbozzata, cioè: l’esperienza “passiva” dell’essere amati, ha scritto il pensatore cattolico tedesco Josef Pieper pagine straordinarie. Citando nientemeno che Jean-Paul Sartre, il quale afferma: “Questo è il nucleo della gioia dell’amore: noi vi ci sentiamo giustificati di esistere”, Pieper continua: “ (L’amore) non è considerato dalla parte di colui che ama, ma da quella dell’amato. È evidente quindi che non ci basta esistere semplicemente: questo infatti lo facciamo ‘lo stesso’ e ‘comunque’. Ciò che per noi è importante, al di là di questo semplice fatto, è la conferma esplicita: è bene che tu esista, com’è meraviglioso che tu ci sia! In altri termini, ciò di cui noi abbiamo ancora bisogno, oltre il puro esistere, è: essere amati da qualcuno (…) Questa ‘cosa stupenda’, quale ci appare a prima vista, viene del resto confermata in cento modi dall’esperienza che abbiamo a portata di mano, da esperienze cioè che ognuno fa giorno per giorno. Noi diciamo: una persona ‘fiorisce’, ‘sboccia’, quando le succede di essere amata; soltanto allora essa diviene completamente se stessa, incomincia per lei una ‘nuova vita’”1.
Tutti noi, penso, abbiamo vissuto questa esperienza con i giovani nel nostro lavoro educativo e pastorale, e costituisce una delle gioie più profonde e autentiche. Detto altrimenti: mentre non ci sentiamo amati da nessuno, ‘sentiamo vergogna’ di essere in questo mondo, come in una festa alla quale non siamo stati invitati; ma, appena una persona ci ama, diceva sopra Sartre, “sentiamo giustificata la nostra esistenza”; e nell’esperienza pedagogica, il cambiamento (anche esterno) diventa, molte volte, straordinario.
Vorrei insistere in questa dimensione dell’esperienza dell’amore, perché ‘l’essere-amato’ sottolinea il carattere unico, singolare ed irripetibile della persona amata, forse di più che soltanto la dimensione attiva dell’amare, nella quale non viene garantito, automaticamente, questo carattere di singolarità. Basti pensare nella frase, tante volte ascoltata, “fai il bene, senza guardare a chi lo fai”: possiamo parlare qui di amore, mentre consideriamo desiderabile (oltre che questo sia o no possibile) l’anonimato della persona amata? E soprattutto: questa persona si sente soddisfatta così? Forse questo sarà “beneficenza”, ma manca un elemento essenziale perché sia autentico amore.
A mio avviso, considero che qui radica la radice dell’eros, senza il quale tanto la sessualità, da una parte, come lo stesso agape, dall’altra, possono diventare “impersonali”. Come vedremo nella meditazione su Don Bosco, per lui ogni ragazzo era unico e irripetibile, anche se fossero cento, o mille, gli “oggetti” del suo amore!
2. L’espressione e la Manifestazione dell’Amore
Approfondendo nella fenomenologia dell’amore, proprio perché l’amore sia percepito come tale, conviene fare un’importante distinzione tra espressione e manifestazione. L’espressione sgorga più “immediatamente” dalla natura stessa dell’amore, e pertanto, è più legata a chi ama; la manifestazione, invece, guarda più a chi lo riceve, precisando e “spiegando” la prima e, per questo, è più legata alla parola. Purtroppo, anche qui può farsi presente la menzogna: se la parola non corrisponde alla realtà che teoricamente cerca di manifestare.
Possiamo dire che, in uno schema dinamico, l’amore segue questo processo di sviluppo:
realtà - espressione - manifestazione - captazione
Tutto questo ha, nel Carisma Salesiano, una straordinaria applicazione, come possiamo immaginare, e cercheremo poi di vedere.
In questa dinamica, ricordiamo il proverbio spagnolo: “obras son amores, y no buenas razones” (le opere sono la prova dell’amore, più che le belle parole); possiamo dire che l’espressione dell’amore sono le azioni, e la manifestazione tutto quello che ci permette di conoscere la fonte dalla quale provengono queste azioni: cioè, dell’amore stesso. Questa manifestazione, come abbiamo detto prima, è anzitutto la parola, ma ci possono essere altri segni che la fanno possibile. All’amore (anche nella sua realtà umana) possiamo applicare le parole del Concilio Vaticano II: l’economia della Rivelazione si realizza attraverso opere e parole, intrinsecamente legate tra di esse (cfr. DV 2).
Conviene fare due osservazioni ulteriori in quest’analisi dell’esperienza umana. Da una parte, riguardo alla novità della manifestazione: paradossalmente, si può dire che è nuova, e allo stesso tempo non lo é. Non è nuova, perché manifesta qualche cosa che, in certa maniera, pre-esiste; ma è nuova, proprio perché quello che esisteva prima non si era manifestato. Questa manifestazione crea una nuova situazione, e in questo senso possiamo parlare del “avvenimento della Parola”. Dire a una persona: “Ti amo”, stabilisce una nuova (e meravigliosa) realtà.
D’altra parte, la manifestazione è, in un certo senso, “sacramentale”, in quanto l’efficacia dell’amore risiede, in grande parte, nella sua percezione. Se manca il segno, anche se esiste la realtà che lo farebbe possibile, non si produce la captazione e, in conseguenza, non c’è la possibilità della risposta da parte di chi, vero, è amato, ma non lo sa.
Un’esperienza umana simile è stata espressa, in maniera straordinariamente bella, dal poeta spagnolo Gustavo Adolfo Bécquer:
Asomaba a sus ojos una lágrima,
y a mi labio una frase de perdón.
Habló el orgullo y se enjugó su rostro,
y la frase en mis labios expiró.
Hoy voy por un camino; ella, por otro;
pero al pensar en nuestro mutuo amor,
yo digo aún: ¿por qué callé aquel día?
Y ella dirá: ¿por qué no lloré yo? 2
Diciamolo anche, in maniera più semplice e universale: quante volte accade, soprattutto nella vita matrimoniale e famigliare, che, pur esistendo l’amore, e forse anche la sua espressione (in forma di servizio mutuo, di sforzo comune, perfino di sacrificio per quelli che uno ama), manca la manifestazione che permetta percepire l’amore, anche attraverso queste espressioni?
3. “Abbiamo conosciuto l’amore di Dio”
Nelle precedenti riflessioni, commentando il motto della nostra Congregazione, “Da mihi animas, cetera tolle”, abbiamo approfondito alcuni aspetti teologici del Carisma. Qui riprenderemo questo, prendendo come punto di partenza l’Incarnazione del Figlio di Dio, intesa come la manifestazione definitiva, una volta per sempre (=escatologica) dell’Amore di Dio. “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita –poiché la Vita si è manifestata, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi-, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi” (1 Gv 1, 1-3a). In fondo, e detto in poche parole, quello che vogliamo affermare è: il piano intero di salvezza di Dio per l’umanità, che trova il suo centro nell’avvenimento Cristo, si può sintetizzare in una sola parola: EPIFANIA, che ha come finalità che tutti gli esseri umani, di ogni tempo e luogo, non soltanto siano oggetto dell’Amore di Dio, ma lo possano percepire, comprendere nella fede (= credere), e corrispondere col loro amore.
Quando parliamo dell’Incarnazione, non ci riferiamo evidentemente a un momento puntuale (“il 25 marzo”), ma all’insieme dell’esperienza che il Figlio di Dio ha voluto vivere: il “farsi Uomo”, che, (in una prospettiva personalista che, in un certo senso, sarebbe il ‘fondamento teologico’ della vita intesa come processo permanente di formazione) dura tutta la sua esistenza terrena e trova il suo culmine nella sua morte e risurrezione. In questo senso, la parola “epifania” non designa soltanto una “manifestazione sensoriale” (visuale, per esempio) - potrebbe limitarsi soltanto ad un’apparenza (“docetismo”) - ma implica tutta la realtà della sua Persona, che si dona totalmente, esprimendo-manifestando il suo amore “fino all’estremo”.
La teologia cattolica, in dialogo critico con la Riforma protestante, ha affermato sempre che il Dio che si rivela in Gesù Cristo è lo stesso Dio Creatore, che si fa presente nella storia, e, in particolare, si è rivelato come il Dio di Israele, Yahve. Questa posizione cattolica è stata definitivamente affermata nel Concilio Vaticano I, sul fondamento, tra altri testi biblici, di Rom 1, 20: “Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità”.
Tuttavia, lo stesso Concilio, parlando di questa rivelazione di Dio, e in sintonia col testo di Paolo, menzionando “la sua eterna potenza” e, possiamo aggiungere, anche la sua infinita Sapienza, non parla del suo Amore. Forse non si trovava questa distinzione nella intenzione esplicita del Concilio; ma la sua omissione mi sembra molto significativa: proprio perché qui parliamo della Creazione e della Storia come espressione del vero Dio (dunque, del Dio che è Amore): ma questa espressione ha bisogno, per essere compressa come tale, della manifestazione in Cristo. Senza di Lui, mai potevamo arrivare a comprendere che, più in là del suo Potere e della sua Sapienza, che sono infiniti, la Creazione e la Storia ci parlano dell’Amore di Dio; anzi: di un Dio che è Amore.
Ritornando di nuovo all’esperienza umana: quante volte diventa difficile percepire un atteggiamento dell’altra persona come espressione del suo amore, se manca la manifestazione (anzitutto, come abbiamo sottolineato, attraverso la parola), che ci permetta di stabilire questo rapporto.
Oserei dire che la Creazione, e la Storia (intesa come storia universale, ma anche come la “mia” storia, quella di ogni donna e uomo nel mondo) sono agapicamente mute, se prese fuori dalla rivelazione storica di Gesù Cristo. Anche se poi cercheremo di vedere le implicanze - senz’altro, molto rilevanti - che questo ha per il nostro Carisma, vorrei soltanto dire che tutto questo, in “chiave salesiana”, suona così: Dio non si è accontentato di amarci, ma ha voluto anche manifestarci il suo Amore donandoci niente meno che il suo Figlio amato, Gesù Cristo.
Il carattere definitivo della rivelazione di Dio in Gesù Cristo non vuol dire che, in avanti, Dio non “ha detto niente”, e non dirà più niente: in realtà, Dio continua a parlarci, attraverso la storia (anche qui: universale, particolare, personale…); piuttosto vuol dire che non possiamo capire quello che Dio continua a “dirci” lungo la storia, se non la “leggiamo” alla luce di Gesù Cristo, il Quale, in questo senso, possiamo chiamare “Grammatica di Dio”.
Tutto questo ha delle implicanze, (che non possiamo affrontare qui), anche nel dialogo interreligioso; senza chiuderci, in nessuna maniera, a tutti i valori che troviamo fuori dalla nostra fede, a tutto quello di “vero, nobile, giusto…” (Fil 4, 8) che c’è in ogni autentica ricerca di Dio da parte dell’umanità di ogni tempo e luogo, questa prospettiva ci permette di affermare che Gesù Cristo è l’Unico e Universale Salvatore dell’umanità, “è apparsa, infatti, la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini… nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” (Tt 2, 11.13).
4. L’Incarnazione del Figlio di Dio, Epifania dell’Amore divino
Nonostante questo, ancora non arriviamo al midollo della nostra riflessione teologica: in che senso l’Incarnazione del Figlio di Dio costituisce la manifestazione definitiva del suo Amore, in maniera che ci permetta scoprire la sua espressione in ogni momento e circostanza della nostra vita e della vita altrui, della storia particolare e universale? Questa domanda non è retorica, perché, in un primo momento, potrebbe sembrare piuttosto il nascondimento di Dio, il suo occultamento, più che la manifestazione della Divinità: altrimenti, non si prenderebbe sul serio il suo svuotamento (kenosis). Come intendere questa rivelazione definitiva di Dio, proprio attraverso il suo “farsi Uomo”?
Una lettura superficiale del testo paolino di 1 Cor 1, 18-25 potrebbe portarci a pensare che l’Apostolo afferma che Dio, essendo infinita Potenza e Sapienza eterna, si è manifestato in Cristo “alla rovescia” della sua Essenza: cioè, nell’impotenza e nella pazzia della Croce: questa è la maniera in cui, per esempio, Lutero ha capito ed elaborato la sua cristologia sub contrario. In realtà, san Paolo non dice questo; la indubbia contrapposizione conclude così: “Ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (v. 24); e aggiunge una frase, che potrebbe sembrare soltanto un paradosso formale, ma non lo è affatto: “Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (v. 25): proprio perché, essendo la forza e la sapienza dell’Amore di Dio, sembra debolezza e stoltezza, ma, allo stesso tempo, è più forte della forza umana, e più saggio della sapienza umana.
Se partiamo dalla descrizione “teista” di Dio, come Potenza e Sapienza, ci troviamo di fronte a un’alternativa, che diventa un vicolo cieco: il Figlio di Dio, nella sua Incarnazione, o conserva queste caratteristiche, o si svuota di esse. Nel primo caso, possiamo ancora affermare che veramente “si è fatto Uomo”? Nel secondo caso, la sua umanità è evidente; ma smeterebbe di essere “vero Dio”.
La vera soluzione teologica comincia nell’impostazione stessa del problema, cioè: qual è l’immagine autentica del Dio in cui crediamo? Dio non è, anzitutto, Potere o Sapienza, ma Amore.
Ancora una volta, ritorniamo al punto di partenza, cioè, l’esperienza umana. Tutti conosciamo una bellissima frase della saggezza latina: “amor, aut similes invenit, aut similes facit”: o l’amore trova realtà simili o le fa diventare simili”. Applicandolo all’Amore di Dio: la differenza tra Dio e le sue creature: concretamente, gli esseri umani, è infinita. E nonostante ciò, fin dalla stessa radice della differenza (“Io sono Dio, non uomo” - Os 11, 9), nasce la ricerca di questa uguaglianza: perché l’amore non pretende ignorare le differenze, ma neanche si lascia staccare per causa di queste, ma pretende andare oltre, assumendole.
In un bel testo della tradizione orientale, afferma Niccolò Cabasilas:
Giacché gli uomini sono separati da Dio per tre motivi e cioè per la loro natura, per il loro peccato e per la loro morte, il Redentore, eliminando l’uno dopo l’altro gli ostacoli, ha fatto sì che si incontrino senza impedimento alcuno e si ritrovino senza frapposizioni. Il Redentore ha eliminato il primo ostacolo partecipando alla natura umana, il secondo facendosi uccidere sulla croce e abbatté infine l’ultimo muro quando, risorgendo, ha bandito per sempre la tirannia della morte dalla nostra natura” 3.
Se l’amore (o meglio: chi ama) vuole essere uguale a chi ama, nell’Incarnazione il Figlio si svuota dal suo Potere e dalla sua Sapienza no per smettere di essere Dio, ma proprio alla rovescia: per manifestarsi a noi più in pienezza come Amore: e dunque, come Dio (se prendiamo veramente sul serio che “Dio è Amore”).
Detto altrimenti: proprio perché per amore il Figlio di Dio si svuota della sua onnipotenza e della sua onniscienza per diventare vero Uomo, manifesta al massimo il suo Amore, equivale a dire: si manifesta pienamente in quanto Dio.
Andiamo ancora una volta all’esperienza umana: a differenza dell’espressione, il punto di riferimento della manifestazione non è la persona che ama, ma soprattutto i suoi destinatari, cercando la sua percezione piena. Per ciò, non perché in Dio l’Amore sia opposto alla sua Sapienza e Potenza (s’identificano nella assoluta semplicità della sua Perfezione), ma a causa della nostra possibilità di percezione dell’amore, nella quale si oppongono, Dio ha voluto “condiscendere” con la nostra limitata comprensione umana, e così, si è svuotato da tutto quello che potesse, anche in minima parte, nascondere o diminuire la piena manifestazione del suo Amore. Mai è Dio “così pienamente” Dio (o, detto con più esattezza: mai si manifesta a noi così pienamente come Dio) come quando si svuota, per amore e in nostro favore, della sua onnipotenza e della sua onniscienza; in una parola, di tutto quello che non gli permetterebbe, in maniera vera e reale, essere “uno di noi”.
Questo ci porta ad una conclusione estremamente paradossale: qualsiasi intento di negare, o anche di sminuire, la radicale umanità di Gesù Cristo, va contro la sua Divinità, contro la sua “Volontà” –e anche contro la sua Onnipotenza!- che vuole condividere pienamente la nostra esistenza umana, nella sua identità personale di Figlio di Dio (in nessun momento possiamo dimenticare che è Dio stesso Chi, in Cristo, diventa Uno di noi!).
Qui possiamo riprendere quanto detto a proposito della Grazia, cioè, che tutto questo piano meraviglioso dell’epifania dell’Amore di Dio spera una risposta da ognuno di noi; anzi: la brama. Vorrei finire con una affermazione di “sapore salesiano”, intenzionalmente provocatoria: quando il Padre, per opera dello Spirito Santo, invia il suo Figlio nel mondo, gli da questa missione: Studia di farti amare!
5. “non basta amare”: il Sistema Preventivo
Nell’articolo sul Sistema Preventivo, la nostra Regola di vita conclude con quest’affermazione: “Esso permea le nostre relazioni con Dio, i rapporti personali e la vita di comunità, nell’esercizio di una carità che sa farsi amare” (Cost. 20; cf. anche Cost. 15).
Prima di far riferimento, almeno in maniera sintetica, ad alcuni aspetti di questa dimensione centrale del nostro Carisma, vorrei riprendere alcuni brani del discorso che il Cardinale Lucido Maria Parocchi, Vicario di Roma, pronunciò nell’1884, in occasione di un viaggio di Don Bosco a Roma, durante la costruzione della Basilica del Sacro Cuore, e del quale il nostro Rettor Maggiore, citandolo (ACG 394, pp. 35-36), dice: “Se non fosse per alcuni termini obsoleti, potrebbe essere scambiata (la citazione) per contemporanea” (p. 35).
“Intendo di parlarvi di ciò che distingue dalle altre la vostra Congregazione (…) Come in ogni uomo, che Dio mette al mondo, impronta una nota che lo contraddistingue da tutti gli altri uomini, così pure (…) ogni Congregazione Religiosa Dio impronta con una nota, con un carattere, con un suggello, che la distingue dalle altre Congregazioni (…) La Vostra Congregazione pare che risponda a quella di s. Francesco dal lato della povertà, ma la vostra povertà non è quella dei Francescani. Pare che risponda a quella di s. Domenico, ma voi non dovete sostenere la fede contro le preponderanti eresie (…) perché precipuo vostro scopo è l’educazione della gioventù. Pare che risponda a quella di s. Ignazio nella scienza per il numero grande di opere che date alla luce pel popolo, e don Giovanni Bosco è uomo di grande ingegno, di profondo sapere, e dotto in variate discipline; ma però non abbiatelo a male, se io dico che non siete voi che avete inventato la pietra filosofale. Che cosa dunque di speciale vi sarà nella Congregazione Salesiana? (…) Se ne ho ben compreso, il suo scopo, il suo carattere speciale, la sua fisionomia, la sua nota essenziale, è la Carità esercitata secondo le esigenze del nostro secolo: Nos credidimus caritati; Deus caritas est, e si rivela per mezzo della Carità. Il secolo presente soltanto colle opere di Carità può essere adescato, e tratto al bene (…) Dire agli uomini di questo secolo: Bisogna salvare le anime che si perdono (…), gli uomini di questo secolo non capiscono. Bisogna, quindi, adattarsi al secolo, il quale vola terra terra (…) Al secolo presente, (Dio) si fa conoscere colla Carità: Nos credidimus caritati. Dite a questo secolo: vi tolgo i giovani dalle vie perché non siano colti sotto i tramvai (…) li raduno nelle scuole per educarli perché non diventino il flagello della società, non cadano in una prigione; (…) e allora gli uomini di questo secolo capiscono ed incominciano a credere: et nos cognovimus et credidimus caritati, quam habet Deus in nobis (MB XVII, 92-94).
Tra l’altro, vorrei sottolineare alcuni elementi.
1. Nel realizzare la missione salesiana, in quanto segni e portatori dell’Amore di Dio per i giovani più poveri ed abbandonati, Don Bosco è pienamente cosciente della necessità che questo Amore sia espresso e manifestato, in maniera che possa essere percepito al massimo da loro (anche se non lo dice con queste stesse parole). Nel sogno che viene raccontato nella “Lettera da Roma”, lo vediamo con piena chiarezza: il lamento dei suoi interlocutori, riguardo ai salesiani e ai suoi collaboratori, non si riferisce alla mancanza di amore per i giovani, ma neanche alla mancanza dell’espressione di esso: infatti, Don Bosco dice: “Non vedi come sono martiri dello studio e del lavoro? Come consumino i loro anni giovanili per coloro che ad essi affidò la Divina Provvidenza?” Quello che manca è, in realtà, la manifestazione di questo amore, e così viene espresso: “Manca il meglio (…) Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati (…) Senza famigliarità non si dimostra l’amore, e senza questa dimostrazione non vi può essere confidenza”. In questa lettera si riprende questo stesso rapporto tra l’espressione e la manifestazione: “Trascurando il meno, perdono il più, e questo più, sono le loro fatiche”.
2. La motivazione che ci dà il nostro Padre non nasce soltanto dal suo genio pedagogico, ma è pienamente evangelica: “Gesù Cristo si fece piccolo coi piccoli e portò le nostre infermità. Ecco il Maestro della famigliarità (…) Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani (…) Gesù Cristo non spezzò la canna già fessa, né spense il lucignolo che fumava. Ecco il vostro modello!” È il “farci compagni di strada” dei nostri giovani e camminare con loro, come ha fatto Gesù risorto con i discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24, 13-35).
Contemplando Gesù Cristo, Buon Pastore, con lo sguardo di Don Bosco, possiamo dire che l’espressione del suo amore è la ricerca instancabile della pecorella smarrita, la “prediletta” proprio per la sua situazione di abbandono e di pericolo; e la sua manifestazione è il metterla amorevolmente sulle sue spalle…
Qui troviamo, senza dubbio, in grande maniera l’influsso di san Francesco di Sales, che portò Don Bosco a prenderlo come modello e patrono, fin dall’inizio della sua missione, e in particolare quella notte memorabile del raduno annunziato un giorno prima, nella solennità dell’Immacolata Concezione di Maria: il 9 dicembre 1859, in cui annunziò essere arrivato “il momento per dichiarare se volevano o non volevano ascriversi alla Pia Società che avrebbe presso, anzi conservato, il nome da S. Francesco di Sales” (cfr. MB VI, 333-337). Convocò i primi Salesiani a realizzare quella “pratica di carità pastorale” “per la gioventù abbandonata e pericolante”… Si tratta dell’amorevolezza come manifestazione dell’amore salvifico di Dio (cfr. Cost. 15).
3. Le parole del Cardinale Parocchi centrano la caratteristica della missione di Don Bosco nella capacità di concretizzare l’Amore di Dio in maniera che, cercando di rispondere in pienezza ai bisogni autentici e più profondi dei giovani, questi si sentano amati realmente ed in maniera efficace da Dio, attraverso la mediazione salesiana.
Questo vuol dire che, se vogliamo essere veramente fedeli a Don Bosco e alla nostra missione, dobbiamo avere in ogni momento questo atteggiamento di discernimento, come indicano le nostre Costituzioni: “Le necessità dei giovani e degli ambienti popolari (…) muovono e orientano la nostra azione pastorale” (Cost. 7); e anche: “La nostra azione apostolica si realizza con pluralità di forme, determinate in primo luogo dalle esigenze di coloro a cui ci dedichiamo” (Coct. 41). Potrebbe accadere che certe attività e opere, che sono state indubbiamente espressione di amore pastorale, non siano più manifestazione di esso: diventano carismaticamente irrilevanti. In conseguenza, dobbiamo dire (senza nessun’intenzione di cambiare il senso della frase di Don Bosco) che “non basta amare”: ricordando quello che san Paolo chiedeva a Dio per i suoi cari filippesi, il nostro amore deve crescere, sempre di più, nel discernimento e nella percezione (ςςFlp 1, 9). D’altra parte, potrebbe esistere anche il pericolo contrario, cioè: una manifestazione dell’amore che non portasse anche la sua espressione: sarebbe falsa (“figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità”: 1 Gv 3, 18) o, al meno, inefficace (cfr. Gc 2, 15-18).
4. Rievocando il CG 25, considero che anche una grande sfida per la nostra vita salesiana è costituita dal mettere in pratica questo tratto fondamentale del sistema preventivo… nella nostra vita di comunità. Troppe volte dimentichiamo che “Dio ci chiama a vivere in comunità, affidandoci dei fratelli da amare” (Cost. 50); e, senza dubbio, da essere amati da loro, in maniera che, rispecchiando il Mistero della Trinità, troviamo veramente in essa “una risposta alle aspirazioni profonde del cuore”, che non sono altre di quelle di amare e di essere amati; soltanto così diventeremo, “per i giovani segni di amore e di unità” (Cost. 49). Nessuno dà quello che non ha…
Ma ancor di più: non basta amare i nostri fratelli in comunità; è necessario manifestare questo nostro amore, in maniera che sia percepito, e corrisposto. Questa sfida è più urgente nella vita ordinaria, così affrettata, che ci fa dimenticare che la significatività non consiste nella quantità di lavoro fatto, ma nella sua qualità. Se manca questo, non possiamo diventare segni e portatori dell’Amore di un Dio che è, in Sé stesso, Comunità…
5. Finalmente, vorrei sottolineare un tratto che riprenderemo parlando di Don Bosco: la frase programmatica “studia di farti amare” chiude in maniera perfetta l’elisse dell’amore, nella sua realizzazione personale, comunitaria e apostolica. Possiamo citare a questo riguardo l’affermazione straordinaria di Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Quaresima 2007: “In verità, solo l’amore in cui si uniscono il dono gratuito di sé e il desiderio appassionato di reciprocità infonde un’ebbrezza che rende leggeri i sacrifici più pesanti”.
1 J. PIEPER, Sull’amore, Brescia, Morcelliana, 1974, p. 51; cfr. anche pp. 64ss.
2 Spuntava ai suoi occhi una lacrima / ed al mio labbro una frase di perdono. /Parlò l’orgoglio e si asciugò il suo pianto / e la frase nelle mie labbra spirò. / Oggi vado per una strada, ed ella, per un’altra; / ma pensando al nostro mutuo amore, / io dico ancora: perché tacqui quel giorno? / Ed ella dirà: perché non piansi io?
3 N. CABASILAS, De Vita in Christo III, citato da: HANS URS VON BALTHASAR, Teologia dei Tre Giorni, Brescia, Queriniana, 1971, p. 33.