CERIA_Eugenio-La_vita_religiosa_negli_insegnamenti_di_S._Francesco_di_Sales-OCR


CERIA_Eugenio-La_vita_religiosa_negli_insegnamenti_di_S._Francesco_di_Sales-OCR

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1.2 Page 2

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Formazione
Salesiana
1 SERIE
I voti: Introduzione - Povertà
(Sac. P. Ricaldone)
a
I voti: Castità - Ubbidienza
i S»c- P. Ricaldone)
; Introduzione - La Fede
TUC. ?. riiÓ H'
in preparazione
Le t -ti; La Speranza
S»e. P. Kicaldone)
Le virtù: La Carità
(Sac. P. Ricaldone)
Voi. I.
Voi. II.
Voi. III.
II S E R 1 E
Don Bosco con Dio
(Sac. E. Ceria)
Oratorio festivo, Catechismo.
Formdzione religiosa
(Sac. P. Ricaldone
La vita relisiota
(Sac. E. ORII
Sac. EUGENIO CERIA
Salesiano
LA
VITA RELIGIOSA
NEGLI INSEGNAMENTI DI,
S. FRANCESCO DI SALES
Bonis religiosis melius
nihil est, malis nihil peius.
(S. FRANCESCO DI SALES,
Lettera a Clemente V i l i ) .
Terza edizione
LIBRERIA DOTTRINA CRISTIANA
COLLE DON BOSCO (Asti)

1.3 Page 3

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AL LETTORE
Visto per la Congregazione Salesiana
Torino. 1 Gennaio 1926
S a c . D o t t . BARTOLOMEO FASCIK
S i a - tra per la stampa
Torino. 4 Gennaio 1926
T e o l . C. MARITANO, Fev. del.
IMPRIMATUR
C. F*A5C*8CC D I V I S A , Prov. Gen.
Empiili! i •• i tSki f iniii TV-lira Cnsbau - Colle Don Bosco (Àsti)
StsaK»ÌS ;
Ho ponto mano a questo lavoro per ottemperare
i un desiderio espressomi dal reverendissimo Don
Filippo Rinaldi, Rettor Maggiore dei Salesiani, la
prima volta che mi presentai a lui dopo la sua ele-
zione a terzo successore del venerabile Giovanni Bo-
*co. Egli mi disse allora che avrebbe veduto volen-
tieri che io compilassi dagli scritti di san Francesco
di Sales un manuale di vita religiosa per utilità del-
le persone consacrate a Dio. Messo pertanto da parte
ogni altro studio, nei tempi liberi dalle mie ordinarie
occupazioni venni leggendo da capo a fondo le opere
del santo Dottore nella mirabile edizione di Anneey
e segnando in margine quei punti ohe potessero of-
frire ai religiosi e alle religiose gradito e profittevole
pascolo di lettura spirituale. Tradotti poi i luoghi
notati e raggruppatili intorno ad alcuni concetti fon-
damentali, amalgamai ogni gruppo in guisa da farne
risultare tanti capitoli e paragrafi nettamente distinti,
dove il filo delle idee procedesse in ordine logico e
v

1.4 Page 4

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abbastanza serrato da itoti lasciare apparire di trop-
po il mosaico. Questa è stata l'origine, questa è l'in-
dole del presente lavoro, nel quale di mio il lettore
non troverà che la diligenza in raccogliere, tradurre
e ordinare Ut dottrina del Santo sulla natura della
vita religiosa e sulle virtù che la debbono santificare.
I materiali qni raccolti provengono quasi per in-
tero dai Trattenimenti spirituali, dalla seconda serie
dei Sermoni e dalle Lettere.
Ma e la Filotea? e il Teotimo? Tutto ben consi-
derato, è parso miglior consiglio non attingere a que-
ste due fonti, per tre motivi: primo, il carattere in-
trinseco e l'intento speciale di queste due opere, co-
me ben sanno tutti coloro che le abbiano lette; secon-
do, perchè, essendo letterariamente più elaborate, le
parti desunte dalle medesime non avrebbero armoniz-
zato abbastanza bene col resto; terzo, perchè si trat-
tava di due capolavori notevolmente divulgati anche
iti italiano e quindi alla portata di chiunque li vo-
glia leggere. Invece, le altre fonti accennate, mentre
davano un contributo pressoché omogeneo quanto alla
forma e scaturito nella sostanza da immediate oppor-
tunità di ordine preralentemente pratico, sarebbero
rimaste purtroppo inaccessibili al maggior numero
delle persone religiose, qualora con acconce deriva-
zioni non se ne fossero accostate ai più le benefiche
linfe.
vi
L'ascetica del Salesio, così illuminata e consolante,
è fatta apposta per avvicinare soavemente a Dio le
anime desiderose della cristiana perfezione. Le veri-
tà rivelate, passando per il suo spirito eletto, ne esco-
no rivestite di forme sì attraenti, che fanno amare
la bontà divina, ispirano carità sincera .e operosa
verso il prossimo, e muovono le volontà ad abbrac-
ciare serenamente anche i più duri sacrifici per man-
tenersi fedeli nei loro santi propositi. La naturale
perspicacia di lui, avvolorata dallo studio, dall'espe-
rienza e dalla fede, lo rese insigne in quella che vien
denominata la discrezione degli spiriti; la santità poi
della vita lo abituò a quell'altra discrezione, che fa
l'uomo di Dio moderato nell'esigere e pieno d'indul-
genza di fronte alle miserie della povera umanità
peccatrice. Così, lontano del pari da esasperante ri-
gidezza e da snervante lassismo, diresse per anni e
anni con tatto finissimo coscienze d'ogni genere: della
qual direzione è monumento di valore incomparabile
il voluminoso Epistolario, e sono documento vivo e
parlante le conferenze e le prediche da lui fatte alle
tue buone religiose, le quali con mani pie le vollero
raccogliere per iscritto, e così fu che poterono essere
tramandate fino a noi. Ecco dunque la triplice mi-
niera, da cui in massima parte è stato estratto il te-
soro spirituale, che nella più organica forma possi-
bile noi osiamo presentare a quanti figli della Chie-
VII

1.5 Page 5

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sa attendono alla propria santificazione sotto qualsiasi
Regola di vita religiosa.
Genzano di Roma, 26 maggio 1925.
N. B. - Le citazioni più ordinarie delle opere di San Fran-
cesco sono fatte nel modo seguente:
E. — Les vrays Entretiens spirituels.
S. R. = Sérmons Recueillis par les Religieuses de la
Visitation.
L. — Lettres.
Seguono il numero di ordine dell' E., del S., o della L., e tra
parentesi il voi. nella serie dell'edizione suddetta e le pagine
dei passi riportati.
LA VITA RELIGIOSA
YIXX

1.6 Page 6

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INTRODUZIONE
La vita spirituale.
Vivere vita spirituale è pensare, parlare, operare
in modo conforme alle virtù che risiedono nello spi-
rito, e non secondando i sensi e sentimenti che sono
.nella carne. Di questi bisogna servirsi, tenendoli
soggetti e non vivendo a norma di essi; invece, alle
virtù dello spirito bisogna che serviamo noi e che
facchini servire tutto il resto.
Ma quali sono le virtù dello spirito? La fede, che
ci mostra verità interamente rivelate, superiori ai
sensi; la speranza, che ci fa aspirare a beni invi-
sibili; la carità, che ci fa amar Dio sopra ogni cosa
e il prossimo come noi stessi, con amore non sen-
suale, non naturale, non interessato, ma puro, sal-
do e immutabile, fondato in Dio.
Il sentimento umano, basato sulla carne, c'impe-
disce talvolta di abbandonarci interamente nelle
mani di Dio, perchè ci diamo a credere che, non
valendo noi niente, Dio non debba fare nessun con-
3
_

1.7 Page 7

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to di noi, come si suole appunto dagli uomini, che
vivono secondo i dettami della saviezza umana, di-
sprezzando chi non sia loro utile; invece lo spirito
che ha per base la fede, si rincora in mezzo alle
difficoltà, ben sapendo che Dio ama, compatisce e
soccorre i meschini, sol che sperino in lui. Il sen-
timento umano vuole ingerirsi in tutto ciò che si fa,
ed è tanto egoista che per buona non ritiene cosa
alcuna, nella quale non siasi intromesso; invece lo
spirito si att/ene a Dio e va ripetendo che ciò che
non è Dio l'iiaper nulla, e come per carità prende
parte nelle cose che gli vengono comunicate, così
per abnegazione e umiltà rinuncia volentieri alla
sua partecipazione in quelle che gli si tengono
celate.
Vivere vita spirituale è amare spiritualmente, e
vivere vita carnale è amare carnalmente, percliè l'a-
more è la vita dell'anima, come l'anima è la vita
del corpo. Un confratello è dolce e amabile, e io
l'ho molto caro; egli mi ama grandemente, mi col-
ma di gentilezze, e per questo lo riamo anch'io: chi
non vede che lo amo secondo i sensi e la carne?
Gli animali che non hanno anima spirituale, ma
soltanto carne e sensi, amano anch'essi chi fa loro
del bene e li tratta con dolcezza e amabilità. Un
altro conlratello è rude, aspro, sgarbato; ma, tolto
ciò, è piissimo ed anche desideroso di acquistare
4
maniere dolci e civili; ed io tratto con lui in ogni
circostanza, non per gusto o interesse che me ne
venga, ma perchè così piace a Dio: gli voglio bene,
vado con lui, gli presto servizio, gli fo cortesie; ec-
< o un amore spirituale, perchè qui la carne non en-
tra affatto.
Io sono per indole timido, vergognoso e diffidente
• li me, e quindi vorrei esser lasciato vivere secondo
(uesta inclinazione, in disparte, dovendo fare molta
violenza alla ritrosia esagerata che provo e all'ec-
cessiva mia timidezza. Chi 11011 vede clie questo non
• vivere secondo lo spirito? Da giovane, quando non
avevo ancora spirito, vissi già così; ma ora, benché
per indole sia pauroso come una talpa, voglio sfor-
armi di vincere queste naturali tendenze e venir-
mi abituando a compiere tutti i doveri della carità
mpostami dall'obbedienza, cioè, da Dio. E qui chi
non vede che questo è vivere secondo lo spirito?
Vivere vita spirituale è fare le azioni, dire le pa-
le e formare i pensieri, che lo spirito di Dio vuole
da noi. E quando dico formare i pensieri, intendo
pensieri volontari. Io, per esempio, sono malinco-
nico e non ho voglia di parlare: i carrettieri e i pap-
: agalli fanno lo stesso; sono malinconico, ma, poi-
ché la carità richiede ch'io parli, parlerò: così fan-
no le persone spirituali. Mi disprezzano, e me n'a-
' «tonto: così fanno i pavoni e le scimmie; mi disprez-

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zano, e ne gioisco: facevano così gli Apostoli.
Vivere dunque Aita spirituale è fare quello che
c'insegnano la fede, la speranza e la carità, sia nel-
le cose temporali che nelle spirituali.
Vivi sécondo lo spirito, standotene tranquilla-
mente in pace. Tieni per fermo che Dio ti aiuterà:
qualunque cosa ti accada, riposa fra le braccia del-
la sua misericordia e bontà paterna. Dio sia sem-
pre il tuo tutto (1).
(1) L. MCXCVII (t. XVII, pi>. 205-7).
C A P O P R I M O - Della perfezione.
§ 1. TRE GIÌADI DI PERFEZIONE.
Il Signore ha detto queste tre parole, che com-
; :endono tutta la dottrina intorno alla perfezione
ristiana: Giti vuol venire dietro a me, rinneghi ne
o, prenda la sua croce e mi segua (1).
Rinnegare se stesso.
Rinnegare se stesso vai quanto dire purificarsi;
--1 che tutti abbiamo bisogno. Sì, sappiamolo bene;
finché staremo in questa misera vita, avremo sem-
; re bisogno di purificarci, rinunciando a noi stessi,
- per alcun .altro fine ci è data la vita presente.
Erra chi crede di poter arrivare a tal grado di per-
rione, che non gli rimanga più nulla da fare; il no-
- :o amor proprio vien germinando continuamente
perfezioni, che fa d'uopo estirpare. Per questo si
6
(1) MATT., XVI, 27.
7

1.9 Page 9

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serve (lei nostri sensi, ed è tanto malizioso, che,
quando noi lo mettiamo nell'impossibilità di pro-
durre i suoi effetti per mezzo della vista, si appi-
glia all'udito, e così via; di modo che noi siamo
sempre quaggiù nella stagione della fatica.
Vediamo un po' che cosa intenda il Signore con
quella prima parola: Rinneghi ne stesso. Noi abbia-
mo due noi stessi; e, poiché rinnegare se stesso signi-
fica purificarsi, quale sarà il noi da purificare! Uno
dei due noi è tutto celeste (1), ed è quello che ci fa
fare le opere buone; è l'inclinazione dataci da Dio ad
amarlo, aspirando al godimento della Divinità nella
vita eterna. L'altro noi, quello da rinnegare, è co-
stituito dalle nostre passioni e cattive inclinazioni,
dai nostri affetti depravati, in una parola, dal nostro
amor proprio.
Non illudiamoci, pensando di poter seguitare il
Signore senza rinnegare interamente, e senza riser-
va, noi stessi; ce l'ha insegnato il Salvatore mede- I
simo nella sua Passione e Morte, rinunciando al ,
naturale istinto della vita per sottomettersi alla vo-
lontà del Padre col farsi obbediente fino alla morte,
e morte di croce (2): così dobbiamo fare anche noi.
Voglio dire che bisogna rinnegare il nostro noi cat-
"ivo per assoggettarlo all'altro, cioè alla ragione e
il a parte superiore dell'anima, tendente sempre al
vero bene per l'inclinazione datagli da Dio. Rin-
negare se stesso e fermarsi lì non gioverebbe a nulla :
filosofi antichi lo fecero magnificamente, ma senza
oro. Rinneghiamo l'uomo terrestre per fortificare il
• leste: è cosa certa che l'indebolirsi dell'uno porta
il rafforzarsi dell'altro (1).
Su questo punto è detto tutto, quando si sa che
rinnegare se stesso vale purificarsi di quanto si fa
I»T impulso dell'amor proprio, il quale purtroppo,
tìncliè vivremo quaggiù, produrrà sempre germogli
i- recidere e troncare; si fa come con la vite, nella
;iale non basta mettere la mano una volta, ma bi-
- >gna prima potare, poi spampanare, e così più
"Ite nell'anno dar di piglio alla roncola perla ri-
mondatura. Una cosa sola resta da aggiungere: che
vuol coraggio, senza mai lasciarsi abbattere uè
-i'igottire dalle proprie imperfezioni, essendoci tutto
1 tempo della vita assegnato per disfarci e purifi-
carci da esse.
Prendere la sua croce.
Il Signore dice in secondo luogo, che dopo aver
nnegato se stesso bisogna prendere la propria cro-
(1) / Cor., xv, 47.
(2) Phìl.. il. 8.
1) Cfr. Il Cor., iv, 16.

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ce. Che significa questo? Eccolo Jin una parola:
— Prendi e accetta di buon animo tutte le pene,
contrarietà, afflizioni e mortificazioni, che ti acca-
dranno in questa vita. — Sei rinnegare noi stessi
noi facciamo ancora qualche cosa di nostra inizia-
tiva, perchè siamo noi ad agire: qui invece si
prende la croce, come la ci viene posta sulle spalle:
nel che entra già meno di elezione nostra, e vi è
perciò un grado di perfezione superiore al prece-
dente. Il Signore e Maestro nostro amatissimo ci
ha mostrato assai bene come dobbiamo non già
sceglierci noi la croce,"ma pigliarla e portarla tale
quale ci venga presentata. Allorché egli volle mo-
rire per redimerci e soddisfare alla volontà del Pa-
dre, non si scelse da sè la croce, ma umilmente
ricevette quella preparatagli dai Giudei.
Il suo grande Apostolo san Paolo ci assicura,
che niente lo dividerà dal suo Maestro (1), perchè è
contrassegnato col suo segno (2), sicché, dovunque
vada, sarà sempre riconosciuto per suo. Ma qual
è questo segno, se non il soffrire? Egli si diceva
un uomo torturato, perchè soffriva interiormente-
una pena insopportabile, causatagli dall'amore in-
tenso per il suo Maestro, amore che lo tirava forte
(1> Rom., vili, 39.
(2) Gal., vi, 17.
10
dalla parte del Cielo col desiderio di andare a go-
derlo (1). D'altro lato pativa fieri travagli e tor-
menti nel corpo, perchè, e lo sappiamo da lui, fa
battuto tre volte con le verghe, talmente che glie ne
restarono le cicatrici sulle spalle; indi fu lapidato,
e gli si vedevano ancora le ammaccature; poi an-
dò a fondo in mare e altre sofferenze (2). Ecco il
contrassegno del Signore, ecco lo stimma che lo fa-
ceva riconoscere per suo.
Tocchiamo ora di un inganno, che è nell'animo
di molti. Dico di quelli, che non pregiano uè vo-
gliono le croci loro presentate, se non sono grosse
e pesanti. Per esempio, un religioso si rassegne-
rebbe volentieri a grandi austerità, come a digiuni,
cilici, aspre discipline, ma mostra ripugnanza a
ubbidire, se gli si comanda di non digiunare o di
prender riposo e cose simili, in cui sembri trovarsi
più sollievo che pena. Tu t'inganni, se credi, che
vi sia minor virtù a sottomettersi ili questo; il me-
rito della croce non istà nel suo peso, ma nel mo-
do di portarla. Dirò di più: vi è talvolta virtù mag-
giore a portare una croce di paglia che non una
croce molto pesante, perchè ci vuole maggior at-
tenzione a non perderla. In altri termini, vi può
(1) Il Cor., v, 2-8; Phil., i, 23.
(2) li Cor., xi, 23-27.
Il

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2.1 Page 11

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V
essere più virtù a non dire una parola che i supe-
riori non vogliono o a non alzare gli occhi per guar-
dare una cosa clie si avrebbe gran voglia di vede-
re, anziché portare il cilicio, perchè, quando que-
sto è sulla persona, non ci si pensa più, mentre
nelle piccole obbedienze bisogna stare sempre at-
tenti per non mancare.
È chiaro dunque che l'ordine del Signore di
prendere la propria croce significa ricevere di buon
grado contrarietà e mortificazioni, secondochè ci
vengono, sebbene leggiere e di poca importanza.
Ti porterò un bellissimo esempio, per mostrarti
quanto valgano le croci piccole, cioè certi atti di
obbedienza, condiscendenza, pieghevolezza alla vo-
lontà altrui, ma specialmente a quella.dei superiori.
Santa Geltrude, fattasi religiosa, si rivelò subito di
complessione gracile e delicata; ond'è che la supe-
riora le faceva usat e dei riguardi maggiori che alle
altre nel vestire e nel mangiare, nè le permetteva
di praticare le austerità usate in quella religione.
Che cosa pensi tu che facesse la poverina per san-,
tificarsi? Nient'altro che sottomettersi con tutta
semplicità al volere della superiora. E sebbene for-
se nel suo fervore bramasse di fare come le altre,
pure non ne dava mai segno. Comandata di anda-
re a letto, vi andava senz'altro, persuasa che avreb-
be goduta la presenza del suo Sposo stando là per
12
obbedienza, non meno che se stesse con le consorelle
nel coro. E in prova della gran pace e tranquilli-
tà acquistata da lei con questa pratica, abbiamo la
rivelazione che il Signore fece alla sua compagna
santa Metilde, dicendo che chi voleva trovar lui in
questa vita, lo cercasse prima nel santo Sacramento
e poi nel cuore di santa Geltrude.
Bisogna dunque star bene in guardia per non
secondare la propria volontà nè dare ascolto all'a-
mor proprio, quando usano i loro stratagemmi, con
cui attirare la nostra attenzione. Il rimedio è que-
sto. Coloro che navigavano per mare, avvicinandosi
al luogo delle sirene, correvano sempre grave rischio
di perdersi, a motivo dei canti deliziosi, con cui
quelle addormentavano i remiganti; ma certuni, per
non lasciarsi attirare da quelle melodie sull'orlo
della nave, ricorrevano allo spediente di farsi legare
all'albero maestro, piantato nel mezzo. Facciamo
così anche noi, quando le sirene della nostra vo-
lontà, cioè le ripugnanze e le ragioni dell'amor pro-
prio ci verranno a solleticare le orecchie, per in-
durci a secondarle; leghiamoci, dico, strettamente
all'albero della nave, che è appunto la croce, ri-
cordando che il Signore per secondo grado di per-
fezione ci comanda di prendere la nostra croce. La
nostra, egli dice, per prevenire la stranezza di tanti,
che, capitando loro qualche- cosa di mortificante,
13

2.2 Page 12

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si adombrano e dicono: — Se fosse la cosa che è
toccata al tale, me la sopporterei volentieri. — Lo
stesso avviene per le malattie: si vorrebbero quel-
le date da Dio. ad altri, e non quelle che si
hanno.
Seguire Gesù Cristo.
Veniamo ora al terzo grado. Nel primo, che è il
rinnegamento di noi stessi, ci vogliono due risolu-
zioni inseparabili e immutabili: una, di purificarci
e mortificarci continuamente, finche saremo in que-
sto mondo, non potendo la rinettatura di noi stes-
si finire se non con la vita; l'altra, di farci corag-
gio, non isbigottendoci che vi sia da faticare, ma la-
vorando sempre con la massima diligenza possibile.
A questo il Signore aggiunge che si prenda ognu-
no la sua croce, e poi, per conclusione, che si se-
gua lui. Vi è differenza fra l'andare dietro al Si-
gnore e il seguirlo. Tutti i Cristiani, che aspirano
al Cielo, vanno dietro al Salvatore, essendoché non
per i meriti proprii ne sperano il possesso, pur os-
servando i suoi comandamenti; ma seguir il Signore
è calcare le sue orme, cioè imitarne le virtù, adem-
pierne i voleri e formare un cuor solo con lui. Qua!
sarà la ricompensa che ti attende per tale sequela? Se
perseveri così per tutèa la vita, egli ti porrà final-
14
mente davanti a sè, dandoti a godere la chiara vi-
sione della sua faccia (1) e intrattenendosi con te
da amico ad amico, e cotesta intimità durerà in
eterno (2).
2. LE TRE GRANDI RINUNOIE.
È una verità detta e ridetta spesse volte dalla
Scrittura e dai Padri, che la perfezione cristiana
sta tutta nel rinunciare al mondo, alla carne e alla
propria volontà. Quel gran padre della vita spiri-
tuale che fu Cassiano (3), parlando di questa per-
fezione, dice che base e fondamento di essa è il
rinnegare interamente tutte le voglie umane. E
sant'Agostino (4), trattando di quelli che si consa-
sacrano a Dio per tendere alla perfezione, scrive:
«Costoro che altro sono, se non un'accolta di per-
sone, le quali vanno sotto le armi per muovere in
guerra e combattere contro il mondo, la carne e se
stessi? ».
(1) I Cor., xiu, 12; Il Cor., ira, 18.
(2) S. R. II, (t. ix, pp. 15-21).
(3) Instit., IIV, 44.
(4) Ep., ccxx, 12 (ad Bonif ). Contro Faust, v, 9.
1

2.3 Page 13

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Rinuncia al mondo.
Clie cosa è il mondo? Un affetto disordinato ai
beni, alla vita, agli onori, alle dignità e preminenze,
alla stima propria e simili bagattelle, cercate e ido-
latrate dai mondani. 11 mondo, io non so come, è
penetrato talmente nel cuore umano, che l'uomo è
diventato mondo, e il mondo, uomo. Sant'Agosti-
no, parlando del mondo, (lice (1): «Che cosa è il
mondo? Nient'altro che l'uomo. E l'uomo che cosa
è, se non il mondo?» Quasi volesse dire: L'uomo
ha il cuore tanto attaccato agli onori, alle ricchez-
ze, alle dignità e preminenze, alla stima propria,
che ha perduto per questo il nome di uomo e ri-
cevuto quello di mondo; e il mondo ha tirato così
fortemente a sè gli affetti e le inclinazioni dell'uo-
mo, che non si è più chiamato mondo, ma uomo.
Di questo mondo o di questi uomini parla il gran-
de Apostoìo, quando scrive: II mondo non ha cono-
sciuto Dio e perciò non l'ha ricevuto (2), rifiutando di
sentirne le leggi e di riceverle e osservarle, perchè
del tutto opposte alle sue. ;E il Signore stesso dice
in proposito: Non prego il Padre per il mondo con
grat. Chr., 20; Opus imperf. c. Jul., XV, 77.
?
I, 10, 1 1 ; XVII, 2 5 ; I Cor., I, 2 1 ; M, 6-8.
preghiera efficace, perchè il mondo non conosce mi
e neppur io conosco lui. Oh, quant'è difficile ren-
dersi indipendente dal mondo! 1 nostri affetti vi
sono tanto impigliati e il nostro cuore n'è tanto
contaminato, che si richiede un gran da fare per
isbrattarcene bene e non esserne sempre maculati.
Tariti si credono d'aver fatto e faticato grandemente
nell'esercizio della rinuncia al mondo; ma purtroppo
sono in grave errore: sol che dessero uno sguardo
da vicino, troverebbero di essere appena principianti
e vedrebbero che il fatto non è nulla in confronto
di quel che dovevano e devono ancor fare.
.Ecco perchè i capi e fondatori degli Ordini re-
ligiosi, governati e retti nelle loro imprese dallo
spirito di Dio che regnava in essi, cominciarono
tutti di lì. Il grande san Francesco, entrando in
chiesa, udì quelle parole del Vangelo (1): Va',
rendi tutto quello che hai, dallo ai poveri e seguimi.
Obbedì, e pose nel principio della sua Regola questa
rinuncia. Sant'Antonio, al sentire le medesime pa-
role, lasciò tutto e fece quanto da quelle gli veniva
: iccomandato. Anche il glorioso san Nicola da To-
- ntino si convertì, ascoltando in chiesa un Ago-
- ;niano che spiegava nella predica le parole di san
• riovanni Evangelista: Il mondo passa (2). II pre-
D I MATT., XIX, 21.
(2) / Ep., II, 17.
17

2.4 Page 14

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dicatore esortava caldamente il popolo a non per-
dersi dietro le pompe e vanità, dicendo: — Vi prego,
fratelli carissimi, di non attaccare il cuore e l'af-
fetto al mondo, perchè passeranno il cielo e la ter-
ra (1) e tutto ciò che ivi si trova; quello che il
mondo vi presenta, ha solo un po' di apparenza:
sì, son fiori caduchi e presto avvizziti (2). Se vo-
lete restare nel mondo, servitevi delle cose che vi
si trovano, usatene pigliando quel tanto che il bi-
sogno richiede; ma, per amor di Dio, non vi ci af-
fezionate, non vi ci attaccate in maniera da obliare
i beni celesti- ed eterni, per i quali siete creati;
giacché son tutte cose che passeranno. — San Ni-
cola, udite queste parole, abbandonò tutto, si fece
agostiniano, e visse e morì santamente.
Lasciare il mondo e tirarsi fuori da' suoi tram-
busti per entrare in qualche religione è già una
gran cosa; ma bisogna uscirne col cuore, non con
il corpo solo. Vi sono tanti che, facendosi religiosi,
conservano l'affetto agli onori, alle dignità e pre-
minenze, alle distinzioni e ai piaceri mondani, e
quello che non possono possedere in effetto, lo pos:
seggono col cuore e col desiderio. Questo è un gran
male. Viene qui a proposito il fatto del senatore
( 1 ) M'ATT., XXIV, 3 5 ; Apoc., x x i , 1, 4.
(2) Eccli., xiv, 18; Is., L, 6; IAC., I, 10, 11.
1
Sindetico. Einunciò egli alla sua condizione per
farsi monaco; ma quello che non possedeva in ef-
fetto, lo possedeva col cuore e si andava aggirando
col pensiero fra le delizie, i piaceri, gli onori e altre
bagattelle mondane. San Basilio che lo sapeva, gli
scrisse una lettera, dicendogli così: « Che hai fatto,
padre Sindetico? Hai lasciato il mondo e la condi-
zione di senatore per farti monaco; ma al presente
non sei nè monaco nè senatore ». Per esser monaco
non basta portare l'abito, ma bisogna concentrare
i propri affetti in Dio e vivere in una rinuncia as-
soluta al mondo e a tutto quello che gli appartiene.
Ecco dunque donde comincia la perfezione cristiana:
da questa rinuncia e abnegazione.
Rinuncia alla carne.
La seconda rinuncia è quella della carne: è più
difficile della precedente e rappresenta un grado
più alto. Tanti lasciano il mondo e ne distaccano
nche l'affetto, ma stentano a sbarazzarsi della carne.
Per questo il grande Apostolo dice (1): — Non vi
fidate di cotesto mortale nemico, che sta sempre
con noi, e badate che non vi seduca. — Chi è il
^mico di cui parla san Paolo? La carne che por-
ci) Rom., VII, 23; Gal., v, 16, 17.
19

2.5 Page 15

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tiamo sempre con noi: o si beva o si mangi o si
dorma, sempre la carne ci accompagna e cerca di
trarci ne' suoi inganni. È proprio il nemico più
sleale, più traditore, più perfido, clie si possa dire,
e quindi il rinunciarvi continuamente costituisce
un difficilissimo dovere. Ci vuol coraggio ad affron-
tare questo combattimento; ma per pigliar animo
teniamo gli ocelli rivolti al nostro Capo, al nostro
sommo Duce.
Il Signore ha fatto in modo perfettissimo questa
rinuncia alla carne: tutta la sua santa vita è stata
un incessante mortificare e rinnegare la carne. La
sua carne fu, è vero, docilissima allo spirito, nè
mai fece ribellioni; pure egli non lasciò di mortifi-
carla, per dare esempio a noi e insegnarci il modo
di trattare la nostra, che fa guerra allo .spirito (1).
La lezione dataci dal nostro caro Maestro su questo
punto è di non trasformare lo spirito in carne per
condur vita da bruti e non da uomini, ma di tra-
sformare la carne in spirito per vivere vita spiri-
tuale e divina; al che si arriva per mezzo di con-
tinua mortificazione e rinuncia. Oli, se il Signore
ha trattato sì duramente la sua carne santissima,
che non aveva inclinazioni cattive, noi che l'abbia-
mo sì sleale, traditrice e maligna, saremo ritrosi
(1) Ibid.
0
e infingardi a mortificarla per sottometterla allo spi-
rito? E, vedendo quel che lui fatto il nostro Capo
e Duce, saremo'soldati codardi e imbelli! In reli-
gione si viene appunto per crocifiggere la carne e
i sensi, e questo vi s'insegna fin da principio.
Rinuncia a se stesso.
La terza rinuncia è la più importante di tutte:
rinunciare a sè costa molto più che non il fare le
altre due rinunce. In queste due, tanto tanto, si
viene a capo; ma nella terza, dove si tratta di la-
sciare se stesso, cioè spirito, anima, giudizio pro-
prio, anche in cose buone, anzi credute migliori
delle comandate, e dipendere interamente dalla di-
rezione altrui, oh sì, ci vuole del buono! Eppure
si mira a questo nella vita religiosa, perchè qui sta
la perfezione cristiana, nel morire talmente a sè
che si possa ripetere con l'Apostolo (1): Vivo non
già io, ina vive in me Gesù Cristo. Ora la pratica
di questa rinuncia dev'essere continua, perchè,
finché vivrai, troverai sempre in che rinunciare
a te stesso, e tale rinuncia sarà tanto più meritoria
quanto più la farai con fervore. Qui non bisogna
stancarsi mai: la rinuncia alla propria volontà è il
(1) Gal., n, 20.
21

2.6 Page 16

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R
punto di partenza e di arrivo nella vita spirituale.
Non t'illudere dunque: se entri in religione con il
tuo spirito proprio, vi patirai spesso turbamenti e
scosse, giacché ivi troverai uno spirito che sarà del
tutto opposto al tuo e che attraverserà il tuo di
continuo, finché non te ne sia interamente liberato.
Coraggio dunque; se per questo hai da soffrire,
non rammaricartene, perchè la cosa non potrebbe
andare diversamante.
San Paolo con quelle mirabili parole: Vivo non
già io, ma vive in me Gesù Cristo, voleva dire: —
Benché fatto di carne, io non vivo secondo la carne,
ma secondo lo spirito (1); e non secondo loispirito
mio proprio, ma secondo quello di Gesù Cristo, che
vive e regna in me. — Ora, il grande Apostolo
non è arrivato a tanta abnegazione di se stesso sen •
za molte pene e scosse spirituali; ce ne fa fede la
Scrittura (2). Quest'abnegazione, lo vedi bene, sta
nel rinunciare alla propria anima, al proprio spirito
per sottometterli all'altrui. Gli Angeli divennero
demonii e piombarono nell'inferno per non aver
voluto sottomettersi a Dio; perchè, sebbene non
avessero anima umana, avevano però spirito pro-
prio, a cui non vollero rinunciare per assogget-
ti) Cfr. Rom., vili, 12, 13.
(2) 11 Cor., XII, 7, 9, 10.
tarlo al Creatore e così andarono miseramente per-
duti. Sì, tutta la nostra felicità dipende da questa
sottomissione dello spirito, come per contrario tutta
la nostra infelicità viene dalla mancanza di tale
sottomissione.
Le persone divote che vivono nel mondo, fanno
più o meno le due prime rinunce; ma quest'ultima,
oh, certo, si fa soltanto in religione; perchè, quan-
tunque i secolari rinuncino al mondo e alla carne
e fino a un certo punto stiano sottomessi, pure si
ritengono sempre qualche cosa, riserbandosi tutti
per lo meno la libertà nella scelta delle pratiche
spirituali. Ma in religione si rinuncia a tutto e si
sta soggetti in tutto, perchè con il rinunciare alla
libertà propria si rinuncia a qualsiasi scelta negli
esercizi divoti per seguire l'indirizzo della comunità.
Anche quest'abnegazione fu praticata in grado
eccellente dal nostro caro Maestro e Salvatore; te
lo spiegherò con una similitudine di sant'Agosti-
no (1). La mandorla, dice, ha tre parti principali: la
prima è il mallo, tutto lanuginoso; la seconda, il
guscio legnoso, che .racchiude il seme; la terza, il
seme. Il mallo che forma l'involucro esterno, rap-
presenta l'umanità del Signore, tutta così illividita
e pesta dai colpi, che gli fece dire di essere verme
('1) Serm., xxxi.
23

2.7 Page 17

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e non uomo (1). Il seme, che non solo è dolce e
buono a mangiare, ma', franto, serve anche a far
olio per illuminazione, ci significa la divinità. Il
guscio ci raffigura il legno della croce, sul qua'e
il Signore fu confitto e talmente premuto, che man-
dò fuori olio di misericordia, illuminando siffatta-
mente il mondo, da liberar'o dalle tenebre dell'igno-
ranza. Su questo legno il nostro caro Salvatore e
sommo Duce ha fatto la piena rinuncia di se stesso;
a questa croce si sono stretti tutti i Santi, prendendo
i dolori di Gesù per argomento speciale nelle loro
orazioni. Così il v'ero religioso deve avere sempre
Croce e Crocifisso dinanzi agli occhi per imparare
di lì l'abbandono e il rinnegamento di se. E seb-
bene la bontà del Signore sia tanto grande da farci
gustare talvolta la dolcezza della sua Divinità, ac-
cordando alle anime grazie e favori, non dimenti-
chiamo con questo le amarezze da lui sofferte per
noi nella sua umanità: io ho detto e dirò e non
lascerò mai di ridire che la religione è un Calvario,
dove bisogna crocifiggersi col Signore, se si vuole
con lui regnare (2).
(1) Ps., xxi, 7.
(2) S. R. xxxiv (t. ix, pp. 340-354 passim).
§ 3. TRE SEGRETI PER ARRIVARE ALL'ACQUISTO
D E L L A P E R F E Z I O N E (TF).
Vi sono tre effetti dell'amore, che rappresentano
tre caratteri delicatissimi della vita spirituale. Sono
tre segreti tanto più preziosi per l'acquisto della
perfezione, quanto meno conosciuti dalla maggior
parte di quelli che fan professione di tendervi.
Primo segreto:
tutto per Dio e niente per sè.
Dice la sacra sposa (1): 11 mio diletto è tutto
per me, e io sono tutta per lui: egli sta sempre
rivolto verso di me per pensare a me, e io mi ri-
metto a lui e a lui mi affido.
Che bella e nobile regola non è mai questa di
fare tutto per Dio, lasciando intera a lui la cura
di noi stessi! Nè parlo soltanto per quel che riguarda
il temporale, cosa facile a intendersi, ma anche ri-
spetto allo spirituale e all'avanzamento delle nostre
anime nella perfezione. Qual fortuna per noi, se fa-
fa) In questo paragrafo, eliminata la similitudine delle co-
lombe, si è conservata solamente la dottrina.
(1) Cfr. Cant., II, 16; VI, 2; Vlil, 10.
25

2.8 Page 18

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cessimo tutto per il nostro Dio! Egli allora si pi-
glierebbe cura di noi e delle nostre necessità, e cura
tanto più larga, quanto maggiore si venisse facendo
la nostra fiducia nella sua provvidenza. Né vi sa-
rebbe mai da dubitare che Dio ci lasciasse, perchè
infinito è l'amor suo per l'anima che in lui si ri-
posa. Gode l'anima, che lasciando al suo Dio ogni
cura di se stessa e di quanto le occorra, non pensa
ad altro che a formare e nutrire desideri di piacer-
gli; gusta ella così fin dalla vita presente una tran-
quillità e pace siffatta, che non si dà uè si può
dare l'eguale in questo mondo, ma solamente lassù
nel Cielo si gode una quiete pari alla sua.
Ci sono i desideri e gli effetti dei nostri desideri.
Ma fra i nostri desideri uno ve n'ha che sorpassa
tutti gli altri e vuol essere di preferenza carezzato
e favorito, per poter piacere a Dio, il quale si fa
chiamare lo Sposo delle anime nostre, tanta bontà
e tanto amore egli nutre per noi. È il desiderio che
abbiamo portato con noi entrando in religione, il
desiderio di praticare le virtù religiose: ecco un
ramo dell'amor di Dio e un ramo dei più alti che
crescano su questo albero divino. Ma un tal desi-
derio non va esteso oltre i mezzi indicatici nelle
regole e costituzioni per il conseguimento di quella
perfezione, a cui ci siain proposto e fatto un obbligo
di aspirare: desiderio da coltivarsi per tutto il tempo
della vita. Stiamo attaccati ai mezzi che sono a noi
prescritti per la nostra perfezione, lasciando ogni
cura di noi all'amabilissimo nostro Dio, il quale
non permetterà mai, che ci manchi nulla di quanto
ci abbisogna per piacergli.
Fa pena certamente il vedere anime, purtroppo
numerose, che, aspirando alla perfezione, s'immagi-
nano che tutto si riduca a moltiplicare i desideri e
quindi s'affannano a escogitare ora un mezzo ora
un altro per giungervi, non mai contente né tran-
quille dentro di sé; appena formato un desiderio,
corrono subito a concepirne un altro, simili alle gal-
line, che, fatto un novo, ne preparano immediata-
mente un secondo, lasciando là il primo senza co-
varlo, sicché non ne nasce il pulcino. Non così la
colomba: essa cova e scalda i suoi piccoli fino a che
non siano in grado di volare e di andarsi a cercare
il becchime. Poi, la gallina, quando ha i pulcini, si
mette in orgasmo e non finisce mai di chiocciare e
fare schiamazzo; la colomba invece se ne sta cheta
cheta senza clamori nè strepiti. Così certe anime
non fanno che chiocciare e dibattersi dietro i loro
piccoli, cioè dietro i loro desideri di perfezione, e
non trovano mai gente abbastanza per conferire e
chiedere nuovi mezzi opportuni. Insomma, parlano
e riparlano della perfezione che vogliono acquista-
re, ma dimenticano il mezzo più importante, cioè
2?

2.9 Page 19

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la calma e la piena confidenza in colui eli e solo può
dare il crescere a quanto esse ban seminato e pian-
tato (1). Ogni nostro bene dipende dalla grazia di
Dio, nella quale dobbiamo riporre tutta la nostra
confidenza; eppure al vedere tanta smania di far
molto si direbbe eli e confidano nell'opera propria
e nella moltiplicità delle pratiche abbracciate, senza
mostrare mai d'averne abbastanza. Cose buone, se
vi andassero di concerto la pace e un'amorosa dili-
genza a far bene quel che fanno, subordinando però
sempre il tutto alla grazia di Dio e non a1 le loro
pratiche, non aspettandosi cioè verun frutto dalle
loro pratiche senza il concorso della grazia di Dio.
Queste anime affannantisi dietro alla perfezione
mostrano di aver dimenticato o di non sapere quel
che dice Geremia (2): — Povero uomo, perchè mai
confidi nella tua fatica e industria? Non sai che, se
tocca a te coltivar bene la terra, lavorarla, semi-
narla, spetta a Dio dare il crescere alle piante e farti
fare un buon raccolto e mandarti in tempo la piog-
gia sui seminati? Tu puoi ben innaffiare; ma questo
non ti servirebbe a nulla, se Dio non benedicesse
il tuo lavoro e non ti desse, per pura grazia sua e non
per i sudori tuoi, un raccolto buono: aspetta dun-
(1) I Cor., IIII9 <6, 7.
(2) JER., v. 2 4 ; ix, 2 3 ; xn, 13.
que tutto dalla sua bontà. — Proprio così: la parte
nostra è di coltivar bene; ma il buon èsito della
nostra fatica dipende da Dio. La Chiesa lo canta
nelle feste dei santi Confessori: — Dio onorò le vo-
stre fatiche, facendovi da esse ricavare frutto (1);
— e lo fa per mostrarci che da noi non possiamo
niente senza la grazia di Dio, nella quale sola bi-
sogna confidare senza niente attenderci da noi.
Dunque non tanti affanni in questa faccenda: per
condurla innanzi bene ci vuole applicazione, ma con
tranquillità e pace, fidando non nella nostra fatica,
ma in Dio e nella sua grazia. Le inquietudini di
spirito per progredire nella perfezione e per vede-
re se vi si progredisce, non piacciono a Dio, ma
servono soltanto a contentare l'amor proprio, il gran
faccendone che vuol sempre abbracciar molto, seb-
bene poi riesca a stringere poco. Un'opera buona
fatta bene con tranquillità di spirito vale assai più
di molte fatte con inquietudine.
L'anima che ama veramente Dio, si appiglia con
tutta semplicità e senz'affannarsi ai mezzi che le
sono prescritti per la sua perfezione, non cercan-
done altri, siano pur perfetti quanto si voglia. Il
aio diletto, dice, pensa a me, e io mi affido a lui;
-gli mi ama, e io per testimoniargli il mio amore
(1) Sap., x, 10.
29

2.10 Page 20

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sono tutta sua. Tempo fa alcune sante religiose mi
dissero: — Monsignore, che cosa faremo quest'anno?
L'anno scorso digiunammo tre giorni alla settimana
e altrettante volte ci davamo la disciplina; e que-
sfanno eli e cosa faremo? Bisogna bene far qualche
cosa di più per render grazie a Dio dell'anno testé
decorso e per andare senjpre avanti nella via di Dio.
— Ben detto, risposi, bisogna sempre andare avanti;
per altro, il nostro avanzamento non si fa come cre-
dete voi, con il moltiplicare gli esercizi di pietà, ma
con perfezionarci nella pratica di essi, confidando
nuovi, parlar molto di Dio e degli argomenti più spi-
rituali per muoverci, diciamo noi, a divozione, ascol-
, tare molte prediche, pigliar sempre consiglio, fare
r assai spesso la comunione, più spesso ancora la
| confessione, servire i malati, parlare molto delle no-
I stre disposizioni interne per far vedere la volontà
! -che abbiamo di perfezionarci, e perfezionarci quanto
' più presto sia possibile: non sono tutte cose utilissime
! alla nostra perfezione e all'attuazione dei nostri de-
| sideri? Sì, purché si facciano in modo conforme al-
l'obbedienza e sempre dipendentemente dalla grazia
.ognor più in Dio e ognor più diffidando di noi stessi. di Dio, non mettendo cioè la nostra fiducia in tali
L'anno scorso digiunavate tre giorni alla settimana cose, per buone che siano, ma unicamente in Dio,
e vi davate tre volte la disciplina; volendo sempre che solo può farci cavar frutto da tutti i nostri e-
raddoppiare le vostre pratiche, quest'anno farete sercizi.
così tutti i giorni della settimana: e l'anno venturo
come farete? Vi ci vorranno settimane di nove gior-
ni o dovrete digiunare due volte al giorno. —
Gran follìa perdersi in desideri di soffrire il mar-
tirio nelle Indie, e non applicarsi a quello che si
ha da fare secondo la propria condizione! inganno
grande il voler mangiare più di quanto si possa di-
gerire! Non abbiamo calore spirituale bastante a
Considera un poco la vita di quei santi religiosi
antichi. Un sant'Antonio, così onorato da Dio e
la gli uomini per la sua altissima santità, dimmi,
some arrivò a sì eminente grado di perfezione? for-
<echè col molto leggere o col molto ragionare o con
e molte comunioni o con le molte pratiche? Nient'af-
atto: vi giunse mercè, l'esempio dei santi eremiti,
ligliando da uno l'astinenza, dall'altro l'orazione
smaltire tutto ciò che prendiamo per la nostra per-
fezione; eppure non ci vogliamo liberare dalle no-
stre smanie, provenienti dal desiderio di fare molto
molto. Leggere molti libri spirituali, massime se
- così via, a guisa di ape industriosa, pecchiando
- raccogliendo le virtù dei servi di Dio per com-
7'orne il miele di una vita edificante e santa. E un
•an Paolo, primo eremita, si fece santo con la let-
31

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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r
tura (lei libri? non ne aveva affatto. Forse mediante
le comunioni o le confessioni? ne fece due sole in
tutta la vita. Forse per mezzo di ragionamenti spi-
rituali o di prediche? non ne ebbe la possibilità, non
avendo mai veduto nel deserto nessun altro, sal-
vo che sant'Antonio, recatosi a visitarlo quand'era
in fin di vita. Sai che cosa fu che lo santificò? Il
perseverare in quello che intraprese da principio
secondo la sua vocazione, senza perder tempo in
altro.
I santi religiosi che vivevano sotto il regime di
san Pacomio, avevano libri e prediche? no. Ave-
vano trattenimenti spirituali? sì, ma di rado. Si con-
fessavano spesso? qualche volta nelle maggiori so-
lennità. Ascoltavano molte messe? le domeniche e
le feste: fuori di lì, mai. Come va dunque che, ci-
bandosi tanto scarsamente delle vivande spirituali
che nutrono le anime per l'immortalità, erano tut-
tavia sempre in così buono stato, cioè così forti e
animosi nell'acquisto delle virtù e nel camminare
alla perfezione, meta dei loro desideri? Come va che
noi, pur nutrendoci molto, siamo sempre sì min-
gherlini, cioè sì rilassati e languidi nel cammino in-
trapreso e, se non ci accompagnano le consolazioni
spirituali, sembra che non abbiamo un briciolo di
coraggio nè di vigore nel servizio di Dio? Imitiamo
perciò quei santi religiosi, badando al fatto nostro,
32
cioè a quello che Dio richiede da noi secondo la no-
stra vocazione, con fervore e umiltà, senza pensare
ad altro nè sognarci di trovare mezzi migliori per
il nostro perfezionamento.
— Con fervore, voi dite (potresti replicare); ma
come farò io, che fervore non ho? — Non, come
l'intendi tu, con fervore sensibile, che Dio dà a chi
gli pare e che non è in poter nostro di avere, quando
ci piace. Aggiungo, con umiltà, appunto perchè non
vi sia motivo di scusa. E non dire: — Io non ho
umiltà; non è in poter mio d'averla —; perchè lo
Spirito Santo, che è la bontà per essenza, ne fa dono
a chi glie la chiede (1). Non intendo per umiltà quel
sentimento della nostra pochezza che ci fa con tanto
gusto essere così umili in tutte le cose; ma parlo
dell'umiltà che ci fa conoscere la nostra miseria e
che, fattacela riconoscere in noi, ce la fa amare:
questa è la vera umiltà.
Non s'è inai studiato tanto come al presente.
Quei grandi santi che furono Agostino, Gregorio,
Ilario e molti altri, non istudiarono così; non avreb-
bero potuto farlo, con tanti libri che scrivevano,
con tanto predicare e lavorare nelle cose del loro
ministero; ma avevano tanta confidenza in Dio e
nella sua grazia e tanta diffidenza di sè, che non
(1) Lue., xi, 13.
33
-• - E. CERIA. l.a Dita religiosa ecc.

3.2 Page 22

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facevano assegnamento di sorta sulle proprie indu-
strie e fatiche, sicché compierono tutte le loro gran-
di opere puramente mercè la fiducia riposta da essi
nella grazia e onnipotenza divina. — Sei tu, Signo-
re, dicevano, che ci fai operare, e per te noi ope-
riamo; benedici' tu i nostri sudori, e ci darai buon
raccolto. — Così, libri e predicazioni producevano
frutti meravigliosi. Noi invece contiamo sulle no-
stre belle parole, sulla nostra eloquenza e dottrina,
e ci vediamo andar in fumo tutte le fatiche, sen-
z'altro frutto che vanità. Conclusione di questa pri-
ma norma sia dunque l'aver piena fiducia in Dio
e fare tutto per lui, a lui lasciando ogni cura di te:
egli avrà per te un occhio speciale, usandoti una
provvidenza tanto più singolare, quanto più sarà
intera e perfetta la tua confidenza.
Secondo segreto:
quanto più venga tolto, tanto più fare.
Giobbe, il gran servo di Dio, che fu lodato dalla
bocca di Dio medesimo (1), non si lasciò vincere da
alcuna delle afflizioni sopraggiuntegli; anzi, quanto
più Dio gli toglieva, tanto più egli faceva. Che cosa
non faceva durante la primiera felicità? quante o-
H ) Job., r, 8 ; II, 3 ; XLII, 7, 8.
4
pere buone non compiva? Lo dice egli stesso in que-
sti termini (1): — Io fui piede allo zoppo, facendolo
portare o mettendolo sul mio asino o camello; io fui
occhio al cieco, facendolo condurre; io fui dispen-
siere all'affamato e rifugio a tutti gli afflitti. — Ec-
colo ora ridotto alla miseria; però non si lagna che
Dio gli abbia tolti i mezzi di fare tante opere buone,
ma par quasi che dica: — Più mi si toglie e più
io faccio. — Limosine, no, non ne può fare, non
avendo di che; ma con quel solo atto di rassegna-
zione al vedersi privato di tutto, anche dei figli,
fece più che non avesse fatto con tutte le limosine
•ìistribuite nel tempo della prosperità, e si rese più
accetto a Dio con quel solo atto di pazienza che
non avesse fatto con tante e tante opere buone com-
piute nel corso della vita; la ragione è che per que-
st'atto solo ci volle un amore più forte e generoso
he non fosse stato richiesto per tutti gli altri mes-
si insieme.
Facciamo dunque anche noi così, lasciandoci dal
nostro sovrano Padrone privare dei mezzi di attuare
nostri desidèri, ogniqualvolta a lui piaccia di farlo,
per buoni ch'essi siano, nè rammarichiamoci, quasi
he egli ci arrecasse un grave torto; raddoppiamo
nzi, non i desideri nè gli esercizi divoti, ma la per-
d i Ib., xxix, 15, 16.
35

3.3 Page 23

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fezione in farli, procurando per tal modo di guada-
gnare, come indubbiamente guadagneremo, con un
atto solo più che non faremmo con cento altri con-
formi alla nostra inclinazione e di nostro gusto. Il
Signore vuole che lo onoriamo, portando la croce
messaci da lui sulle spalle: quella è la croce nostra.
Ma purtroppo non lo facciamo; perchè, quando la
sua Bontà ci priva della consolazione che soleva
darci nei nostri esercizi, a noi sembra che tutto sia
perduto e che Dio ci tolga i mezzi per continuare
quanto abbiamo cominciato.
' Nel tempo della consolazione che santi desidèri
di piacere a lui! Nell'orazione è un intenerirsi alla
sua presenza, uno struggersi nella sua dilezione, un
abbandonarsi nelle braccia della sua divina provvi-
denza. Ottimamente: e non mancano i buoni effetti.
Invero, che cosa non si farebbe allora! Opere di
carità in gran numero; una modestia visibile a tutti;
un'edificazione senza pari; ammmirazione da parte
di quelli che sono testimoni o ne han notizia. —
Le mortificazioni, dirà in seguito un'anima siffatta,
non mi costavan nulla in quel tempo, anzi erano
godimenti per me, e l'obbedire una festa; appena
udito il primo tocco di campana, balzavo in piedi;
non un'occasione mi lasciavo sfuggire di praticare
ìa virtù, e tutto io faceva con pace e tranquillità
grandissima. Ora invece che provo ripugnanze e pa-
36
tisco ordinariamente aridità nell'orazione, non mi
sento più la forza di correggermi, non ho più il so-
lito ardore negli esercizi divoti: insomma, inverno
e gelo è piombato su di me. — Oh, lo credo. Ba-
sta vedere in che modo la povera anima si lamenta
della sua disgrazia: ha la scontentezza dipinta sul
viso, è accasciata e malinconica nel portamento, va
ittorno tutta pensierosa e si mostra così sconcer-
tata che nulla più. — Ma che hai? — si è costretti
a domandarle. — Che ho? sono tanto illanguidita!
niente mi appaga, tutto mi disgusta, ho la testa
così confusa! — Ma di quale confusione? Ve n'è
di due sorta: una conduce all'umiltà e alla vita, l'al-
tra alla disperazione e quindi alla morte (1). — Oh,
; roprio, sono tanto confusa, che perdo quasi il co-
tygio di andare avanti nel proposito di tendere
Ila perfezione. — Che debolezza! manca la conso-
izione, e perciò anche il coraggio. Non bisogna
: ire così; ma, quanto più Dio ci priva della conso-
izione, tanto più dobbiamo sforzarci di mostrar-
la nostra fedeltà. Un atto solo compiuto in ari-
à di spirito vale più di molti fatti in grande tene-
nza, perchè, com'io diceva parlando di Giobbe,
~i entra un amore più forte, sebbene non così sen-
~ bile e gradevole. Più mi si toglie, e più io fo.
'1» Cfr., II Cor., VII, 10, 11.

3.4 Page 24

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Terzo segreto: eguaglianza di spirito.
È istinto delle colombe piangere e gioire nella
stessa maniera, cantando sempre sul medesimo tono,
sia per esprimere la loro contentezza che per emet-
tere lai di dolore. Questa, santissima eguaglianza di
spirito io auguro a te: non dico eguaglianza d'u-
more nè d'inclinazione, ma di spirito: perchè io nè
fo nè desidero che si faccia caso dei turbamenti
causati dalla parte inferiore dell'anima nostra, la
quale è quella che genera inquietudini e volubilità,
se la parte superiore non fa il dover suo di domi-
narla, nè sta bene all'erta per iscoprire i nemici e
così esser messa prontamente sull'avviso intorno
alle mosse e agli assalti direttile contro dall'altra
a mezzo dei sensi e delle inclinazioni e passioni allo
scopo di darle battaglia e ridurla in sua balia. Dico
invece di star fermi e risoluti nella parte superiore
dello spirito, riguardo alla pratica della virtù, se-
coudochè richiede la nostra professione, mantenendo
una continua eguaglianza nelle cose avverse e nelle
prospere, nella desolazione e nella consolazione, fra
le aridità e fra le dolcezze.
Giobbe anche su questo punto ci dà esempio:
egli eseguì sempre sulla stessa aria le melodie
da lui composte che sono la storia della sua vita.
Che cosa diceva infatti quando Dio ne moltiplicava i
beni, gli dava figliuoli, gli faceva riuscire tutto a
seconda dei desidèri che potesse avere in questa
vita? non diceva sempre: — Sia benedetto il nome
di Dio —? Era questo il canto d'amore, che intonava
:n ogni circostanza. Infatti, nel massimo dell'afflizio-
ne, che fa egli? innalza il suo canto di lamento sull'a-
ria identica del canto di gioia: Abbiamo ricevuto
ìalla mano del Signore i beni; perchè non prende-
remo anche i malif II Signore aveva dato, il Signore
•i tolto: sia benedetto il suo nome (1). Sempre il me-
: esimo Sia benedetto il nome del Signore! Quell'anima
-anta era davvero casta e amorosa palombella, ama-
" -sima dal suo diletto Colombo. Sia così anche di
"i: in ogni circostanza riceviamo dalla mano del
-Signore beni e mali, consolazioni e afflizioni, into-
mdo sempre il medesimo dolcissimo cauto: Bene-
•ito il nome del Signore! e intonandolo sempre
- ir un'aria invariabilmente uguale. Non imitiamo
loro che al venir meno della consolazione piangono
al suo ritornare cantano senza posa: somigliano in
ìesto alle bertucce e ai babbuini, che sono sempre
- musiti e nervosi, quando fa pioggia o nuvolo,
non finiscono mai di sgambettare e spiccar salti,
.andò fa bello.
il) Job., il, 10; i, 21.
39

3.5 Page 25

▲back to top
Conclusione.
Queste sono le tre norme che io ti suggerisco e
che, ispirate unicamente all'amore, obbligano solo
per amore. L'amore dunque che noi portiamo al Si-
gnore, ci spronerà a osservarle e a custodirle, sic-
ché possiamo anche noi ripetere con la sacra Spo-
sa dei Cantici: — II mio diletto è tutto mio, e io
sono tutta sua, nulla mai facendo se non per piacere
a lui. Egli ha sempre il suo cuore rivolto a me con
.la preveggenza, e io ho il mio rivolto a lui con la
confidenza. — Dopoché in questa vita noi avremo
fatto tutto per il nostro Diletto, egli in premio della
nostra fiducia penserà a largirci la sua gloria eterna.
Vedremo allora la felicità di quelli che, lasciata ogni
superflua e inquietante preoccupazione circa la
propria persona e il proprio perfezionamento,
si saranno con tutta semplicità dedicati a fare
la parte loro, mettendosi senza riserva nelle mani
della Bontà divina e per essa sola faticando: que-
ste fatiche verranno finalmente coronate da una
pace e quiete ineffabile, nel perenne godimento del
sommo Bene. Anche la felicità di quelli che avran
praticato la seconda norma, sarà grande; poiché,
essendo stati sempre sottomessi al beneplacito del
loro Signore, canteranno lassù nel Cielo l'inno dol-
4
cissimo: Dio sia benedetto (1); e lo canteranno tanto
più entusiasticamente fra le consolazioni, quanto
più fervorosamente l'avran cantato ira le desola-
zioni, gli abbandoni e le ripugnanze della breve vita
mortale, in cui dobbiamo fare ogni sforzo per ser-
bare gelosamente la costante e amabilissima egua-
glianza di spirito (2).
§ 4. CENTRO DELLA PERFEZIONE
È FARE LA VOLONTÀ DI DIO.
La volontà di Dio è tutto.
Nella perfezione il principio fondamentale è que-
sto: vedere che cosa vuole Dio e, conosciutolo, cercar
di farlo con allegrezza o almeno con coraggio; nè
fermarsi qui, ma insieme amare questa volontà di
Dio e l'obbligazione che per noi ne deriva, fosse
anche di guardare i porci per tutta la vita e di ese-
guire i servizi più vili del mondo: in qualunque sal-
sa Dio ci metta, dev'essere per noi tutt'uno. Qui
sta il centro della perfezione, a cui dobbiamo driz-
zare la mira: chi va più vicino, vince la gara.
(1) Apoc., v, 9-1,3'; VII, 12.
(2) E. VII (t. vi, pp. 103-119).
41

3.6 Page 26

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È una gran parola il dire: Dio mi metta nella
salsa che vuole, per me è tutt'uno, purché lo serva.
Bisogna però masticarla e rimasticarla bene dentro
di noi: bisogna farla sciogliere in bocca, e non in-
ghiottirla tutta intiera. La Madre Teresa nota (1)
che tante volte noi diciamo simili parole per abitu-
dine e superficialmente, e che ci sembra di dirle dal
fondo del cuore, mentre non è vero affatto, come
si vede poi in pratica. Oh, quanto è sottile l'amor
proprio a insinuarsi nei nostri sentimenti, per divoti
che sembrino essere! (2).
Non giudichiamo dunque delle cose secondo il
gusto nostro, ma secondo il gusto di Dio; essere
santi secondo la nostra volontà e non essere santi
mai: bisogna che siamo santi secondo la volontà di
Dio. L'ho detto e lo ripeto: non si guardi alla scorza
delle azioni, ma al midollo, cioè se Dio le voglia o
no. Le idee mondane vengono sempre a mescolarsi
e a confondersi coi nostri pensièri. Nella casa di un
principe, no, non è la stessa cosa fare lo sguattero
di cucina o il gentiluomo di camera; ma nella casa
di Dio spazzaturaie e spazzaturai sono ben sovente
le persone più degne, perchè, quantunque s'insudi-
cino, lo fanno per amor di Dio, per volontà sua,
(1) Camm. della perfez., C. XXXVIII.
(2) L. CCLXXVII (t. XIII, pp. 21 e 20).
ed è questa volontà che avvalora le nostri azioni,
non l'esteriorità loro (1).
Il Signore disse in croce: Padre nelle tue mani
io rimetto il mio spirito (2): ecco dove consiste la
perfezione cristiana. La quintessenza della vita spi-
rituale è quest'intero abbandono nelle mani del Pa-
dre celeste, questa totale indifferenza di fronte a'
suoi divini voleri. Se nell'atto di consacrarci al ser-
vizio di Dio rimettessimo subito in modo assoluto
e senza riserva il nostro spirito nelle sue mani, come
siremmo fortunati! Si tarda tanto a raggiungere
la perfezione, perchè manca quest'abbandono; di lì
'•lisogna cominciare, lì proseguire, così condurre a
termine la vita spirituale, ad esempio del Salvatore,
che così ha fatto sul principio, nel progresso e alla
line della sua vita.
Si trovano tanti, che, venendo al servizio di Dio,
ìicono al Signore: — Io rimetto nelle tue mani il
".io spirito, ma a patto che tu mi mantenga il cuo-
re fra dolcezze e consolazioni sensibili, nè mi fac-
•ia mai sottrile aridità di sorta. Rimetto il mio spi-
ato nelle tue mani, ma a condizione che non mi si
ontrarii la volontà o purché tu mi dia un superio-
re che mi vada a genio. Rimetto il mio spirito nelle
(1) L. OCCLXI (t. XIII, pp. 214-5).
(2) Loc., xxm, 46.
43

3.7 Page 27

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tue mani, ma anche tu farai in modo clie almeno mi
amino sempre quei che mi dirigeranno e nelle cui
mani mi metto per amor tuo: farai dunque che ap-
provino e trovino buone le mie azioni, almeno in mas-
sima, parte, perchè non essere e non sentirsi amato
è cosa da non potersi sopportare. —
Ma non vedi che questo non è rimettere lo spi-
rito nelle mani di Dio, come fece il Signore! Ecco
qiii la radice di tutti i nostri guai, turbamenti, in-
quietudini e altre simili miserie: basta che le cose
non vadano come noi ci aspettavamo o ci ripromet-
tevamo, perchè subito la desolazione ci assalga lo
spirito, non assuefatto a un'indifferenza e abban-
dono totale nelle mani di Dio. Che fortuna per noi,
se praticassimo beue questo punto, compendio e
quintessenza della vita spirituale! Arriveremmo così
all'altissima perfezione dei Santi, che erano come
cera nelle mani del Signore e dei propri superiori,
pronti sempre a ricevere qualunque impronta si vo-
lesse loro dare (1).
Mantieni i tuoi affetti subordinati all'affetto che
porti al tuo Salvatore, procurando di non nutrirne
sotto qualsiasi pretesto altri che non rechino il sug-
gello del Ee celeste. Ea' il possibile di non amare
la volontà di Dio, perchè la vedi conforme alla tua,
(1) S. R. LXV (t. x, pp. 389-390).
ama invece la tua, quando e perchè fa vedi con-
forme a quella di Dio (1).
Come si riconosce la volontà di Dio.
Il proposito di fare in tutto e per tutto la vo-
lontà di Dio è espresso nell'orazione domenicale con
quelle parole da noi ripetute ogni giorno: Sia fat-
ta la tua volontà sopra la terra come nel Cielo. Nes-
suna resistenza alla volontà di Dio è nel Cielo, dove
tutto sta a lui soggetto e gli obbedisce; così chie-
diamo che sia di noi e così domandiamo al Signore
•di fare, senza mai resistergli in alcun modo, ma mo-
strandoci sempre docilissimi in tutte le circostanze
alla divina volontà. Ma le anime che hanno presa
questa decisione, devono essere illuminate sul modo
di riconoscere la volontà di Dio.
La volontà di Dio si può intendere in due sensi:
volontà espressa e volontà di beneplacito. La volon-
tà espressa è di quattro specie: comandamenti di
Dio e della Chiesa, consigli, ispirazioni, regole. Ai
comandamenti di Dio e della Chiesa ognuno deve
necessariamente obbedire, trattandosi della volontà
(li Dio assoluta, a cui egli vuole che obbedisca chi
desidera salvarsi. I suoi consigli Dio vuole bensì che
11' L . MCMLXXVI ( t . XXI, p . 1 6 ) .
45

3.8 Page 28

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vengano osservati, però lo vuole non con volontà
assoluta, ma solo a modo di desiderio; ond'è che
non perdiamo la carità nè ci separiamo da Dio per
il fatto che non ci basti l'animo d'abbracciare l'ob-
bedienza ai consigli. Così pure non dobbiamo vo-
lerli praticare tutti, ma quelli soltanto che siano più
conformi alla nostra vocazione; ve ne sono infatti
di quelli talmente opposti fra loro, che tornerebbe
del tutto impossibile darsi alla pratica di uno senza
privarsi del mezzo di praticare l'altro. Un consiglio
dice di abbandonar tutto per seguire il Signore nel
suo spogliamentó di ogni cosa, e un altro consiglio
dice di dare in prestito e di far limosina: ora, chi
tutto in una volta ha lasciato quello che possedeva,
con che cosa può far limosina, uon avendo più nul-
la? Bisogna dunque seguire i consigli che Dio vuole,
da noi seguiti, e non già credere ch'ei li abbia dati
tutti per tutti. I consigli da praticarsi in religione
sono quelli contenuti nelle regole.
Dio ci significa la sua volontà anche Con ispira-
zioni, è vero, ma egli non intende con questo che
discerniamo da per noi, se nella cosa ispirata vi è
la sua volontà e nemmeno che si seguano le sue ispi-
razioni alla cieca. Non intende neppure che si aspetti
da lui direttamente la manifestazione de' suoi vo-
leri o l'invio di Angeli a comunicarceli; ma è vo-
lontà sua che nelle cose dubbie e importanti si ri-
46
corra a chi egli ha incaricato di guidarci e che si
stia in tutto al loro consiglio e parere riguardo a,
quello che concerne la perfezione delle anime no-
stre.
Nei modi anzidetti ci manifesta Dio la sua vo-
lontà, chiamata da noi espressa. Vi è poi la sua
volontà di beneplacito, che si ravvisa in tutti gli
avvenimenti, cioè in tutte le cose che ci accadono;
malattie e morti, afflizioni e consolazioni, avversità
e prosperità, ogni accidente insomma che ci capiti
imprevisto. A questa volontà di Dio bisogna sotto-
mettersi prontamente in qualsiasi occorrenza, nelle
cose spiacevoli o piacevoli, nella morte o nella vita:
a farla corta, in tutto quello che non sia evidente-
mente contrario alla volontà di Dio espressa, giac-
ché questa ha la precedenza. Per farti intender me-
glio la cosa, ti dirò quello che si legge nella vita
del grande sant'Anselmo. Nel tempo che fu abate
del monastero, egli era molto amato da tutti per
la sua condiscendenza non solo verso i religiosi, ma
anche verso gli estranei. Uno andava a dirgli: —
Padre, vostra Riverenza dovrebbe prendere un po'
di brodo; — ed egli lo prendeva. Andava un altro
e gli diceva: — Padre, questo vi farà male; — ed
egli subito lo lasciava. Così, dovunque non fosse
offesa di Dio, si adattava al volere dei fratelli, che
senza dubbio seguivano l'inclinazione propria, ma
4

3.9 Page 29

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ancor più i secolari, che a lor talento lo volgevano
per ogni verso. Ora tanta arrendevolezza del Santo
non aveva l'approvazione di tutti, sebbene egli fosse
da tutti grandemente amato; perciò un giorno alcuni
suoi fratelli si fecero a osservargli, che a giudizio loro
quello non andava bene e che non bisognava essere
così pieghevole al volere di tutti, ma che egli avreb-
be, dovuto piuttosto piegare al volere suo i dipen-
denti.
— Figliuoli miei, rispose il gran Santo, voi non
sapete forse, quale sia la mia intenzione in far così.
Sappiate dunque che io, ricordando il precetto del
Signore (1) di fare agli altri quello che vorremmo
fatto a noi, non posso agire diversamente. Io vor-
rei che Dio facesse la mia volontà, e quindi faccio
volentieri la volontà dei fratelli e dei prossimi, affin-
chè piaccia alla bontà del Signore di fare qualche
volta la mia. Inoltre, io considero un'altra cosa:
dopo quello che è conforme alla volontà di Dio e-
spressa, io non ho mezzo migliore nè più sicuro che
la voce del prossimo per conoscere la sua volontà
di beneplacito: giacché, per manifestarmi il suo be-
neplacito, Dio non mi parla, e tanto meno mi man-
da degli Angeli. Pietre, animali, piante non parlano;
non vi è dunque altri che l'uomo capace di signi-
(1) MATT., VII, 1 2 ; L u e . , v i , 3 1 .
Bearmi la volontà del mio Dio, e alle sue signifi-
cazioni, per quanto posso, mi attengo. In terzo luogo,
Dio mi comanda la carità col prossimo; orbene, è
grande carità tenersi uniti gli uni agli altri, e per
questo io non trovo nulla di meglio che l'usar dol-
cezza e condiscendenza. La dolce e tonile condiscen-
denza deve galleggiare sempre su tutte le nostre
azioni. Ma la cosa principale per me è il credere
che Dio mi manfesti i suoi voleri mediante i voleri dei
miei fratelli; laonde tutte quante le volte che con-
discendo ad essi, obbedisco a Dio. Finalmente, non
ha detto il Signore (1) che, se non ci faremo pic-
coli come fanciulli, non entreremo nel regno de' cie-
li? Non vi meravigliate quindi, se mi vedete dolce
e facile come un fanciullo a condiscendere: in que-
sto io non faccio nè più nè meno di quello che mi
è stato comandato dal mio Salvatore. Non è cosa
di grande importanza per me coricarmi o stare alza-
to, andar là o rimanere qui: ma sarebbe certo un'im-
perfezione il non cedere al mio prossimo. —
Vedi, come il grande sant'Anselmo si arrende
ni tutto quello che non sia contrario ai comanda-
menti di Dio o della santa Chiesa o alle regole: poi-
ché questa triplice obbedienza va sempre in prima
linea. Io non posso nemmeno pensare che, se si fosse
('1) MATT., XVIIÌ, 3.
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3.10 Page 30

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voluto fargli fare qualche cosa contro di essa, egli
l'avrebbe fatta; oh, no, assolutamente: ma, fuori di
lì, aveva per norma generale nelle cose indifferenti
di condiscendere in tutto e a tutti. Il glorioso san
Paolo, dopo aver detto (1) che niente lo separerà
dalla carità di Dio, non la morte, non la vita, e nep-
pure gli Angeli, e che tutto l'inferno, se si scagliasse
contro di lui, non vi riuscirà, soggiunge: — Io non
conosco nulla di meglio che farmi tutto a tutti (2),
ridere con chi ride, piangere con chi piange (3), in
una parola, uniformarmi a ciascheduno. —
Un giorno san Pacomio faceva stuoie, quando
un fanciullo, osservando come lavorava, gli disse:
— Padre, voi non lavorate bene: non si fa così.
— Il gran Santo, quantunque facesse bene le stuoie,
si alzò tosto e andò a sedersi vicino al fanciullo,
che gli mostrò in che modo bisognava fare. Vi fu
qualche religioso che gli disse: — Padre, voi fate
due mali, condiscendendo alla volontà di cotesto
fanciullo: mettete lui nel pericolo d'invanirsi e ro-
vinate le vostre stuoie, che andavano meglio come
le facevate prima. — Bispose il beato Padre: — Fra-
tello, se Dio permette che il fanciullo abbia della
(1) Rom., vili, 38, 39.
(2) I Cor., IX, 22 (cfr. 11 Cor., XII, 15, 16).
(3) Rom., XII, 15.
vanità, può darsi che in premio conceda dell'umiltà
a me; e quand'egli me l'abbia concessa, potrò dopo
farne parte al fanciullo. Non vi è poi gran male a
intrecciare così o cosà i giunchi per fare delle stuoie;
ma sarebbe male non avere in mente la celebre pa-
rola del Salvatore: Se non vi farete piccoli come fan-
ciulli, non avrete parte nel Regno del Padre mio. —
Sì, è un gran bene mostrarsi flessibili e lasciarsi
volgere per ogni lato!
Nè i Santi solamente ci hanno insegnato questa
pratica di sottomettere la nostra volontà, ma anche
il Signore e con l'esempio e con la parola. Come?
anche con la parola! Sì: il consiglio del rinnegare
se stesso (1) che altro è se non rinunciare in ogni
occasione alla propria volontà e al proprio giudizio,
per secondare il volere altrui, cedendo a tutti, salvo
sempre il caso dell'offesa di Dio? — Ma, potresti
dire, io vedo chiaro che quanto mi si vuol far fare
proviene da volontà umana e da naturale disposi-
zione; quindi non è Dio che ha ispirato al mio su-
periore o al mio confratello di farmi fare una cosa
simile. — No, Dio non avrà forse ispirato a quello
di fartela fare, ma ha ispirato a te di farla, sicché
se la tralasci, contravvieni al tuo proposito di com-
piere in tutto la volontà di Dio, e quindi vieni meno
(1) MATT., XVI, 2 4 ; L u e . , IK, 23'.
51

4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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alla cura clie devi avere della tua perfezione.
Per dire uua parola intorno alla volontà delle
creature, essa si può presentare sotto tre aspetti:
come penosa, come piacevole e come inopportuna.
Nel primo caso, bisogna avere fortezza d'animo e
accogliere di buon grado voleri contrari al nostro;
del resto, generalmente parlando, è una pratica che
costa molto questa di secondare i voleri altrui, i
quali in massima parte sono differenti dai nostri.
Prendiamo dunque a titolo di penitenza l'eseguire
voleri di tal fatta e natura e facciamo servire di
morti Acazione siffatte contrarietà quotidiane, accet-
tandole con amore e dolcezza. Per le volontà di no-
stro gusto non occorrono esortazioni a farcele secon-
dare; ben volentieri si obbedisce nelle cose che piac-
ciono, si prevengono anzi i voleri di questo genere
con l'offerta dei nostri servigi. Non così quando si
tratta di voleri inopportuni e di cui non conosciamo
la ragione: allora ci vuole del bello e del buono.
Perchè farò io la volontà del confratello anziché la
mia? la mia non é al pari della sua conforme alla
volontà di Dio in questa inezia? Per qual motivo deb-
bo credere che quauto quegli mi dice di fare, sia ispi-
razione di Dio più che 11011 la volontà venuta a me
di fare altro?
Ecco, mio caro, dove il Signore vuol farci me-
ritare il premio della sommissione: se vedessimo sem-
pre la ragionevolezza dei comandi o delle preghiere
di fare date cose, non avremmo gran merito facen-
dole, nè vi proveremmo gran ripugnanza, perchè
allora senza dubbio vi ci adatteremmo volentieri con
tutta l'anima; quando invece i motivi ci son nasco-
sti, allora è che la volontà reagisce, il giudizio ri-
calcitra e si sente il conf itto. Ebbene, in tali occa-
sioni appunto bisogna dominarsi e mettersi con
semplicità infantile all'opera senza tanto discorrere
e ragionare, dicendo: — Io so essere volontà di Dio
ch'io faccia la volontà del prossimo anziché la mia,
e quindi mano all'opera, senza star a guardare se
sia o no volontà di Dio che mi adatti a fare cosa
suggerita da passione e inclinazione, o ispirata e
dettata dalla ragione: in simili coserelle bisogna
andare con semplicità. — Ohe opportunità vi sareb-
be mai di star a riflettere un'ora per sapere se sia
volontà di Dio che, pregato di bere, io beva o mi
astenga dal farlo per penitenza o sobrietà? Sono
minuzie che non meritano tanta considerazione, mas-
sime se vedo che, facendole, renderò come che sia
contento il prossimo.
Nemmeno per cose d'importanza è necessario per-
der tempo a pensarci su: rivolgiamoci ai nostri su-
periori per conoscere il da fare, e poi non pensia-
moci più, ma rimettiamoci senz'altro al loro senti-
mento, avendoceli dati Dio perchè dirigano le anime
53

4.2 Page 32

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nostre nella perfezione del suo amore. Se conviene
cedere alla volontà di ognuno, molto più questo si
dovrà fare per la volontà dei superiori, che sono
da ritenersi e da riguardarsi fra noi come la persona
di Dio stesso,' di cui tengono il luogo. Quindi è che,
quand'anche ci accorgessimo che talvolta comanda-
no o riprendono mossi da naturali impulsi e anche
da passioni, non vi sarebbe punto da stupirsene:
sono uomini come gli altri e perciò soggetti a incli-
nazioni e passioni; ma non è lecito a noi giudicare
che ci comandino per questi motivi, e bisogna guar-
darsi bene dal farlo. Per altro, se anche toccassimo
con mano che è così, non converrebbe lasciar di
obbedire con amorosa dolcezza e di piegare umilmen-
te il capo alla correzione.
.•
È duro purtroppo all'amor proprio il sottostare
a tutti questi contrattempi: ma non è questo l'amore
che noi dobbiamo contentare o ascoltare, bensì l'a-
more santissimo delle nostre anime, che è Gesù.
Egli chiede alle sue dilette spose una santa imita-
zione dell'obbedienza perfetta da lui prestata, non
che alla giustissima e ottima volontà del padre, an-
che a quella dei parenti e, cosa più notevole, dei
nemici, mossi certamente dalle loro passioni nell'in-
tìiggergli tante sofferenze, a cui nondimeno il buon
Gesù non lascia di assoggettarsi con una dolcezza
piena d'umiltà e d'amore. A quest'amore dando a-
scolto, noi vedremo chiaramente che il Signore, co-
mandando a tutti di pigliare la loro croce, intende
dire di accettare volentieri le contrarietà che ad ogni
tratto ci vengono dalla santa obbedienza, benché
in cose lievi e di poca importanza (1).
Volontà di Dio e libertà spirituale.
Ogni uomo virtuoso è libero dalle azioni mor-
talmente peccaminose e non vi è punto legato con
l'affetto: è questa una libertà indispensabile alla sal-
vezza, ma io qui non ne parlo. Parlerò invece della
libertà dei figli (1) prediletti. Cos'è questa libertà?
È un affrancamento del cuore cristiano da tutte le co-
se per seguire la volontà di Dio riconosciuta. Capi-
rai facilmente il pensiero che voglio esprimere, se
Dio mi darà la grazia di mostrarti i contrassegni,
i caratteri, gli effetti e gli esempi di questa libertà.
Noi domandiamo prima d'ogni altra cosa a Dio
che sia santificato il suo nome, che venga il suo re-
gno, che si faccia la sua volontà in terra come nel
Cielo. Sta tutta qui la spirituale libertà; infatti,
quando sia santificato il nome di Dio e Dio regni
(1) E. xv (t. vi, pp. 264-273).
(2) Rom., voi, 21.
55

4.3 Page 33

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in noi e si faccia la volontà di Dio, lo spirito è
libero da preoccupazioni d'ogni altro genere.
Eccone i contrassegni: 1° Il cuore che possiede
questa libertà, .non ha attaccamento alle consolazio-
ni, ma riceve le afflizioni con tutta la dolcezza die è
compatibile con l'infermità della carne. Non dico che
non ami e non desideri le consolazioni; ma io dico che
non vi si attacca. 2° Non si lega agli esercizi spiritua-
li; -sicché, se per malattia o per altro accidente ne
venga impedito, non ne prova rammarico di sorta.
Non dico nemmeno qui che non li ami; dico che non
vi si attacca. 3° Non perde'a lungo la sua allegrezza;
non c'è privazione clie attristi chi non aveva at-
taccamento a cosa alcuna. Non dico che non la per-
da affatto: dico che la perde per brev'ora.
Effetti di questa libertà sono soavità grande di
spirito, grande dolcezza e condiscendenza dovun-
que non sia peccato o pericolo di peccato, pieghe-
volezza spontanea agli atti d'ogni virtù e special-
mente della carità. Per esempio: un'anima che ab-
bia attaccamento all'esercizio della meditazione, fa-
glielo interrompere e la vedrai venir via di malu-
more, con affanno e fuori di sè. Un'anima che ab-
bia la vera libertà, se ne verrà con sembiante inal-
terato e con fare cortese verso l'importuno che
l'ha disturbata; è tutt'uno per lei servir Dio me-
ditando o sopportando il prossimo: T u n a e l'altra
cosa è volontà di Dio, ma è necessaria la tolle-
ranza del prossimo in quel momento. Porgono oc-
casioni a questa libertà tutte le cose che ci capi-
tano contrarie alla nostra inclinazione: chi non è
schiavo delle proprie inclinazioni, non s'impazien-
tisce, quando ne vieue frastornato.
Questa libertà ha contro di sè due difetti: mu-
tabilità e costrizione, ossia sbrigliatezza e schiavitù.
La mutabilità di spirito o sbrigliatezza è un ecces-
so di libertà, per cui senza ragione e senza cono-
scere se sia volontà di Dio, si vuol cambiare pra-
tiche divote e stato di vita. Ad ogni piè sospinto
si muta esercizio, intenzione, regola di condotta;
ad ogni più lieve circostanza si lascia la norma
e consuetudine lodevolmente seguita, e così il cuore
si dissipa e si smarrisce e, somiglia a un frutteto
aperto ai quattro venti, sicché i frutti non sono
per il padrone, ma per tutti coloro che passano (1).
La costrizione o schiavitù è un manco di liber-
tà, per cui lo spirito è vinto dal disgusto o dal di-
spetto, quando non può fare quello che aveva di-
visato, ancorché possa fare di meglio. Per esempio:
stabilisco di fare la meditazione ogni giorno al
mattino: se ho spirito mutabile o sbrigliato, alla
menoma occasione la rimanderò alla sera: basterà
(1) Cfr. Ps. ixxvx, 13.
5?

4.4 Page 34

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LI LI cane che non mi abbia lasciato dormire, o una
lettera da scrivere, benché non uggente. Invece, se
ho spirito inceppato o schiavo, non lascerò la mia
meditazione nè quando un malato abbia gran bi-
sogno della mia assistenza in quell'ora, nè quando
sia da sbrigare, una corrispondenza molto impor-
porante e che non ammetta dilazione.
Mi rimane da portarti tre o quatro esempi di
questa libertà, donde tu possa meglio intendere l'i-
dea, che io non so esprimere. Ma debbo dire prima
di due regole da osservarsi in questa materia per
non .imciampare. Prima regola: una persona non
tralasci mai i suoi esercizi e le vie ordinarie delle
virtù, se non vede la volontà di Dio dall'altra
parte. Ora, la volontà di Dio si fa manifesta in
due modi: dalla necessità e dalla carità. Io, per
esempio, voglio predicare questa quaresima in un
paesetto della mia diocesi. Se però cado ammalato
o mi rompo una gamba, non ho punto da ramma-
ricarmi nè da inquietarmi di non poter predicare,
essendo evidentemente volontà di Dio che io lo
serva soffrendo e non predicando. Che se non fossi
ammalato, ma si presentasse l'occasione di andare
in altro paese, dove, non recandomi io, si fareb-
bero tutti ugonotti, ecco abbastanza chiara la vo-
lontà di Dio, ch'io muti tranquillamente pensiero.
Seconda regola: quando si fa uso della propria
libertà per motivi di carità, la cosa sia senza scan-
dalo e senza ingiustizia. Per esémpio: io so che sarei
più utile in un luogo lontano dalla mia diocesi; eb-
bene, non devo in questo caso usare della mia li-
bertà, perchè darei scandalo e commetterei ingiusti-
zia, essendo qui i miei obblighi. Questa libertà dun-
que non torna mai a pregiudizio delle vocazioni;
anzi, fa amare a ognuno la propria, ben sapendosi
essere volontà di Dio che tutti restino nella loro (1).
Considera ora l'esempio di san Carlo Borromeo.
Egli era l'uomo più stretto, rigido e austero che
si possa immaginare: beveva solo acqua e mangiava
•puro pane: tanto rigoroso, che, fatto arcivescovo, in
ventiquattro anni due volte appena entrò in casa
dei fratelli, perchè malati, e due volte nel giardino:
eppure con tutto il suo rigore, mangiando spesso in
compagnia di Svizzeri, suoi limitrofi, per guada-
gnarli al bene non aveva difficoltà di fare con loro
un paio di libazioni o brindisi ad ogni pasto, oltre
a quanto aveva bevuto per dissetarsi. Ecco un
tratto di santa libertà nell'uomo più rigido del suo
tempo. Uno spirito sbrigliato avrebbe fatto di trop-
po; uno spirito inceppato avrebbe pensato di com-
mettere peccato mortale; uno spirito libero fa a
quel modo per carità.
(1) I Cor., VII, 20, 24.
59

4.5 Page 35

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Spiridione, antico vescovo, avendo albergato un
pellegrino mezzo morto di fame in tempo di qua-
resima, e in luogo dove non trovavasi altro che
carne salata, la fece cuocere e la presentò al pelle-
grino. Questi non voleva mangiare, nonostante la sua
necessità; il Vescovo, che pure uon aveva necessità
di sorta, ne mangiò il primo per carità, a line di to-
gliere col suo esempio lo scrupolo al pellegrino. Vedi
qui la caritatevole libertà di un sant'uomo.
Sant'Ignazio di Loyola, il mercoledì santo, man-
giò carne sulla semplice parola del medico, che lo
giudicava opportuno a motivo d'un suo piccolo ma-
lessere. Uno spirito impastoiato si sarebbe fatto
pregare tre giorni.
Ma io voglio presentarti l'esempio di uno che
splende fra tutti come un sole: di uno spirito ve-
ramente affrancato e libero da ogni attaccamento e
pronto solo al cenno della volontà di Dio. Ho pen-
sato spesso quale fosse stata la maggior mortifica-
zione fatta dai Santi, di cui conoscevo la vita, e
dopo molto riflettere ho trovato che fu la seguente.
San Giovanni Battista andò al deserto in età di
cinque anni, e sapeva che il nostro e suo Salvatore
era nato vicino vicino a lui, a una giornata o due
o tre, su per giù, di strada. Dio sa quanto il cuore
di san Giovanni, tocco dall'amore del suo Salva-
tore fin dal seno materno, ardesse di goderne la
60
dolce presenza. Passa nondimeno venticinque aiini
senz'andarle una volta sola a vederlo; poi, quando
esce, si ferma a catechizzare e non va dal Signo-
re, ma aspetta che il Signore venga da lui. Dopo
di che, battezzatolo, non lo segue, ma se ne ri-
mane a compiere il suo ufficio (1). Che mortifica-
cazione di spirito! Essere così poco lungi dal suo
Salvatore, e non andarlo a vedere; averlo così vi-
cino, e non goderne la presenza! Che è questo, se
non possedere uno spirito distaccato da tutto, fl-
nanco da Dio, per fare la volontà di Dio e servirlo?
che è, se non lasciar Dio per Dio e non amarlo per
amarlo vie più e con più puro amore? E un esem-
pio che mi opprime la mente, tanto mi sembra
grande (2).
§ 5. DESIDERI E RISOLUZIONI
NEL CAMMINO DELLA PERFEZIONE.
I troppi desideri.
Il formar desidèri su desidèri di cose che non
>i potranno mai attuare, è una gran tentazione,
inzi principio d'altre tentazioni. La varietà dei cibi,
quando sia molta, carica sempre lo stomaco; se poi
(1) MATT., III; Lue., ni.
(2) L. ccxxxiv (t. xn, pp. 362-7).

4.6 Page 36

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questo fosse debole, lo rovina. Un'anima che siasi
liberata dalle concupiscenze e purgata dalle affe-
zioni cattive e mondane, trovandosi dinanzi alle
cose spirituali e sante, a guisa di famelica, si riem-
pie di tanti-desidèri ed ha tanta avidità da rima-
nere oppressa. Bisogna allora chiedere i rimedi al
Signore e ai padri spirituali clie si hanno vicini:
questi, toccando con mano il male, conoscono bene
le medicine da apprestarvi. Io per altro dirò qui
schiettamente quello che a me sembra.
Comincia subito a mettere in pratica alcuni de'
tuoi desidèri; se no, si andranno ogni di più mol-
tiplicando e t'ingombreranno lo spirito a segno che
non saprai più come trarti d'impiccio. Metti dun-
que mano all'opera.. Ma con qua! ordine? Comincia
dalle cose a portata di mano ed esterne, che sono
maggiormente in tuo potere, come per esempio fare,
certi atti di carità verso il prossimo o far servizi
bassi in casa per umiltà: ecco i desidèri fondamen-
tali, senza di cui gli altri sono e devono essere
sospetti e trascurati. Fa' perciò di esercitarti nel-
l'attuazione di tali desidèri, giacché non te ne
mancheranno mai nè occasioni nè motivi. Si tratta
di cose che dipendono da te, e quindi è tuo dovere
di compierle; sarebbe inutile metterti in capo di
eseguire cose che non fossero per natura loro in
tuo potere o stessero lungi da te, qualora tu non
facessi quelle che hai a tua disposizione. Perciò at-
tienti fedelmente all'esecuzione dei desidèri modesti
e ordinari suggeriti dalla carità, dall'umiltà e da al-
tre virtù, e vedrai che te ne troverai bene. Bisogna
he la Maddalena lavi i piedi del Signore, li baci, li
asciughi (1), prima d'intrattenersi cuore a cuore con
lui nel segreto della meditazione (2), e che spanda
/unguento sul corpo di lui prima di versare il balsa-
mo delle sue contemplazioni sulla, sua Divinità.
Desiderar molto è cosa buona; ma ci vuole or-
dine nei desidèri, mettendoli a effetto in tempo op-
portuno e secondo la possibilità. Si sfrondano viti
e alberi, affinchè il loro umore e succo basti poi a
produrre i frutti e non vada tutto il vigor naturale
della pianta in esuberante produzione di foglie.
Così conviene mettere un limite a questo moltipli-
carsi di desidèri, per tema che l'anima si esauri-
sca in essi, dimenticando di venire agli effetti, la
cui esecuzione anche minima giova ordinariamente
più che non i grandi desidèri di cose remote dalla
possibilità nostra: Dio vuole da noi la fedeltà nelle
cose piccole, messe da lui in nostro potere, più che
non l'ardore per le grandi non dipendenti da noi (3).
(1) Lue., VII, 37, 38.
(2) /&., x, 39.
(3) L. CLXXXI (t. XII, pp. 181-2).
63

4.7 Page 37

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Desidèri e risoluzioni superficiali.
Il divin .Maestro disse a san Giacomo e a san
Giovanni: Potete voi bere il calice che berrò io? Ri-
sposero: Possiamo (1). Io considero il fervore, con
cui diedero tale risposta. Anche a noi, quando siamo
infervorati da buoni sentimenti e da consolazioni
spirituali, sembra possibile far meraviglie; ma poi
alle minime occasioni s'inciampa e si va per le
terre. Se ci toccano la punta di un dito o di un
piede, ci tiriamo subito indietro; se ci dicono una
paroletta ohe non ci vada a genio, ce ne offendiamo.
Facciamo come i soldati di Efraim, che nella loro
immaginazione si credevano d'aver compiuto grandi
prodezze e si ritenevano così valorosi da poter pas-
sare a fil di spada tutti i loro nemici; ma, quando
si venne al fatto e si fu alle prese, impallidirono,
si perdettero d'animo e volsero le spalle (2). Siamo
anche noi così: facciamo in astratto tante belle cose
e tante belle risoluzioni e c'immaginiamo realmente
di fare questo e quello per Iddio; ma all'atto pra-
tico ci voltiamo indietro scoraggiati e incostanti.
U ) MATT, XX, 22.
(2) Ps. LXXV8T, 9.
6-1
San Pietro disse con fervor grande al Signore:
— Io non ti abbandonerò, ma morrò con te (1) —;
e alla semplice voce d'una fantesca, lo rinnegò tre
volte (2). Certo, quando ci vengono desidèri così
ardenti di fare gran cose per Iddio, proprio allora
dobbiamo sprofondarci più che mai nell'umiltà e
nella diffidenza di noi stessi e nella confidenza in
Dio, gettandoci fra le sue braccia e riconoscendoci
del tutto incapaci di eseguire le nostre risoluzioni
e i nostri buoni desideri, e di fare cosa alcuna che
-ia a lui gradita, ma persuasi che in lui e con la
<aa grazia tutto ci sarà possibile (3). Sarebbe folle
davvero chi pretendesse di tirar su un grande edi-
ficio senza prima fare i conti se abbia abbastanza
di che spendere (4). Così noi altri che vogliamo
: aggiungere il Cielo e per questo costruire il grande
-r lifìcio della nostra perfezione, siamo ben folli,
uando non calcoliamo se ci bastino i mezzi che
ibbiamo e quanto sia il fabbisogno: senza questo
ilcolo si resta a mezzo.
Il capitale per l'acquisto della perfezione è la
:.»stra volontà, che bisogna alienare tutta quanta.
11) L u e . , XXII, 3i3 ; JOAN., XIII, 37.
I2> MATT., XXVI, 69-75.
i3) Philipp., iv, 13.
(4) Cfr. Lue., xiv, 28-30.
65
3. - E. CERIA, La vita religiosa ecc.

4.8 Page 38

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r
Sì, dobbiamo rinunciare a noi stessi e prendere la
croce; dobbiamo assoggettare il nostro giudizio; dob-
biamo disfarci delle nostre male inclinazioni e ten-
denze. Non c'è altra via per conseguirla: si ha da
vendere tutto per acquistare la perla preziosa (1)
del sauto amore che Dio è disposto a darci, se noi
siamo assidui alla fatica per ottenerlo. Felici dun-
que le anime, che bevono il Calice col Signore, che
cioè si mortificano, portano la croce e soffrono amo-
rosamente per suo amore e ricevono senza distin-
zione dalla sua mano qualunque cosa loro accada.
Ma purtroppo sono ben poche!
Eppure, dirai, vi son tanti che desiderano di
soffrire e di portare la croce. È vero: lo so anch'io
che molti desiderano e domandano a Dio pene e
afflizioni e lo pregano di farli soffrire; ma vi met-
tono la condizione che egli li visiti e ne consoli
spesso le sofferenze e mostri loro il suo gradimento
compiacendosi di vederli soffrire e assicurandoli che
ne li ricompenserà con una gloria immortale. Molti
vi sono pure, i quali desiderano e vogliono sapere I
che grado di gloria avranno nel Cielo. Questa cer-
tamente è sconvenienza somma, uon dovendo noi •
in alcun modo avere tali pretese. È obbligo nostro
di servir Dio il meglio e il più fedelmente che ci
(1) MATT., XIII, 46.
66
- a possibile, osservandone oon esattezza comanda-
menti, consigli e voleri, e insieme con la massima per-
: -zione, purità e amore, senza sindacare quale ricom-
pensa ce ne darà, ma rimettendoci alla Bontà sua,
lie non mancherà di premiarcene con una gloria in-
anità e incomprensibile, cioè col donarci in contrac-
imbio se stesso (1), tanto egli ha in conto e gradisce
nel clie facciamo per lui. Dio insomma è un buon
P drone; basta che noi siamo servitori fedeli, perchè
- a ci sia poi indubbiamente fedele Rimuneratore(2).
È felicità incomparabile servire a questo divino
- '.vatore delle anime nostre e bere con lui il suo
lice. Non vedi, come la grande santa Caterina da
> >riia preferì la corona di spine a quella d'oro1? Fac-
cio anche noi così: alla fin fine la strada della
• e, delle sofferenze e afflizioni è una strada si-
:;i per andare a Dio e incamminarci alla perfe-
:ie del suo amore, sol che noi abbiamo costanza.
-- conclusione, beviamo coraggiosamente il calice
Signore e stiamo crocifissi con lui in questa
"a: se ne seguiremo gli esempi e le orme, dalla
Bontà riceveremo la grazia di essere con lui
. "iAcati (3) nell'altra (4).
11 Gen., xv, 1.
: ' MATT., XXV, 21, 23.
Rom., vili, 7.
S. R. xi (t. ix, pp. 78, 81-3).
6?

4.9 Page 39

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Due specie di pii desidèri.
Vi sono due specie di pii desidèri: desidèri che
aumentano la grazia e la gloria dei servi di Dio, e
desidèri che non producono nulla. I desidèri della
prima specie si esprimono, per esempio, così: —
Desidererei fare limosina, ma non la faccio, perchè
non ne ho i mezzi. — Tali desidèri accrescono gran-
demente la carità e santificano l'anima; in questo
modo appunto le anime ferventi desiderano il mar-
tirio, gli obbrobri e la croce, che per altro non pos-
sono ottenere.
I desidèri della seconda specie si esprimono co-
sì: — Desidererei di fare limosina, ma non ho vo-
glia di farla. — Tali desidèri sono impediti non da
impossibilità, ma da ignavia, tiepidezza e pusillani-
mità; quindi riescono inutili e non santificano l'ani-
ma nè producono aumento di grazia: di questi buoni
desidèri san Bernardo dice che è pieno l'inferno.
Nota però che certi desidèri sembrano della se-
conda specie, mentre invece appartengono alla pri-
ma; come viceversa altri sembrano della prima e
sono della seconda. Per esempio, nessun servo di
Dio può non avere questo desiderio: — Quanto de-
sidererei di servir meglio Dio! Quando lo servirò
secondo il mio desiderio1? — E poiché si può sem-
pre fare qualche cosa di meglio, sembra che gli ef-
/
fetti di tali desidèri restino frustrati da insufficiente
risolutezza: ma non è vero, perchè l'impedimento
viene dalla condizione di questa vita mortale, in cui
è più facile desiderare che fare. Quindi è che sif-
fatti desidèri sono generalmente buoni, e rendono
: ìigliore l'anima, infervorandola nell'amore del suo
vanzamento.
Non così, quando si presentano particolari oc-
asioni di avanzare nel bene e invece di venire al-
l'opera si rimane col desiderio. Per esempio: si pre-
muta l'occasione di perdonare un'ingiuria o di ri-
- unciare alla propria volontà in qualche cosa spe-
lale, e invece di accordare il perdono o di fare la
rinuncia, io dico soltanto: —Vorrei perdonare, ma
*1 n mi ci sento; vorrei rinunciare, ma non vi rie-
-••'>. — Chi non vede che qui il desiderio è una
pura velleità, anzi mi rende più colpevole, perchè,
• ntre ho tanta disposizione a fare il bene, non
" poi la volontà di venire all'atto? Desidèri così
concepiti parrebbero della prima specie, ma sono
iella seconda (1).
Desidèri e risoluzioni efficaci.
Anche gli spiriti più energici, allorché differì -
- '>no alquanto l'esecuzione dei loro buoni propo-
11) L. MCXCIII (t. XVII, pp. 191-2).
69

4.10 Page 40

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siti, Tanno soggetti alla tentazione di abbandonar-
li (1). A rendere ferme ed efficaci le risoluzioni non
c'è di meglio che metterle in pratica. Mi dirai di
sentirti sempre così debole, che con tutte le tue
forti e ripetute risoluzioni di non cadere più in qual-
che difetto, da cui desideri emendarti, al presen-
tarsi dell' occasione non sei capace di non ruzzolare.
Vuoi che io ti dica il perchè di questa nostra con-
tinua debolezza? La ragione è che non Togliamo
astenerci da TiTande malsane. Una persona desi-
dera bensì di non patire mal di stomaco, e Ta dal
medico e gli domanda come fare, e il medico le dice
di non mangiare le tali e tali A'iTande, perchè le
causerebbero indigestione e dolori; ma essa non se
ne Tuole astenere. Così facciamo noi: Torremmo,
per esempio, riceTere volentieri le correzioni, ma poi
Togliamo essere ostinati: oh, che follia! è una cosa im-
possibile. Non aTrai forza a sopportare di buon ani-
mo le correzioni, finché ti andrai nutrendo della sti-
ma propria. Io Torrei tenere l'anima raccolta, e in-
tanto non ne Toglio sbandire certi pensieri inutili: è
impossibile. Vorrei perseTerare ne' miei esercizi di
pietà, ma Torrei anche non proTarvi tanta diffi-
Tita, coltà; in una parola, Torrei troTare tutto bell'e fat-
to. Non sono cose possibili in questa
doTe aTre-
(1) L. MCCX (t. XVII, p. 225).
70
mo sempre da fare. La festa della Purificazione
non ha ottaTa.
Prendiamo due risoluzioni nello stesso tempo:
una di rassegnarci a Teder crescere nel nostro giar-
dino erbe cattiTe, e l'altra di aTer tanto coraggio
da Tedercele strappare e da strapparcele noi stessi;
poiché il nostro amor proprio, finché noi Tivremo,
non morrà, e Tiene da lui questa malnata Tegeta-
zione. Per altro, non è fiacchezza il cadere talvolta
in peccati Teniali, purché ce ne rialziamo subito,
riTolgendo l'anima a Dio con tranquilla umiltà. Non
prediamoci di poter TiTere senza commetterne sem-
pre qualcuno: soltanto la Madonna godette di que-
-"o prrvilegio. Purtroppo, ci rallentano un po', ma
r.on ci portano fuor di strada: un semplice sguardo
Dio li cancella.
Del resto, non cessiamo mai di fare buone rlso-
".zioni, ancorché Tediamo, al solito, di non prati -
irle, anzi, quand'anche prevediamo l'impossibilità
praticarle al sopraggiungere dell'occasione; e fac-
imolo con maggior fermezza che non se ci sentis-
- mo capaci di riuscirvi, dicendo al Signore: — Io
irtroppo non avtò la forza di fare o di sopportare
me la tal cosa; ma ne gioisco, perchè farà que-
• in me la tua forza (1). — Così premunito Ta'
11) II Cor., XII, 9, 10.

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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caraggioso alla battaglia, e, non dubitare, riporte-
rai vittoria. Il Signore fa con noi proprio come uu
buon padre o una buona madre, clie lascia cam-
minare da solo il figlio, quand'egli va per un bel
prato erboso o sul muschio, dove, anche cadendo,
non si potrà fare gran male; ma per istrade cattive
e pericolose lo porta con ogni cautela in braccio.
•Abbiamo veduto sovente sopportarsi con coraggio
e vittoriosamente fieri assalti da anime, che poi ri-
masero sconfitte in leggerissimi scontri. Donde ciò?
.perchè il Signore, visto che non si sarebbero fatto
gran male cadendo, le lasciò andare sole solette, il
che non fece quand'erano per i dirupi di gravi ten-
tazioni, ma ne le trasse fuori con la sua mano on-
nipotente. Santa Paola, già così generosa nel di-
sbrigarsi dal mondo, che abbandonò la città di Iioma
e tante agiatezze, nè si lasciò scuotere dall'affetto
materno verso i suoi figli, tanta era la sua risolu-
tezza in dir addio a tutto per il Signore, ecco che
dopo sì grandi prodigi cedette alla tentazione del
giudizio proprio, che le faceva credere non essere
necessario piegarsi al parere di alcuni santi uomini,
i quali volevano che attenuasse,alquanto le sue or-
dinarie austerità; e in questo san Girolamo confessa
che ella meritava biasimo (1).
(1) E. ìx (t. VII, pp. 153-6).
Il Signore sa, per qual motivo egli permetta che
tanti buoni desidèri vogliano tempo e fatiche per
sortire il loro effetto, e persino che talvolta non ap-
prodino a nulla. Se in questo non vi fosse altro
vantaggio che la mortificazione delle anime di lui
amanti, sarebbe già molto. Insomma, ecco la nor-
ma: non volere afi'atto le cose cattive, voler poco le
buone e volere senza misura il solo bene divino, che
è Dio stesso (1).
La risolutezza è il coltello
della circoncisione spirituale.
L'opera della perfezione cristiana è una circonci-
-ione spirituale, a cui più d'ogni altro son tenute le
persone consacrate al servizio di Dio. Si recidono per
essa tutte le superfluità delle passioni, degli affetti,
dei gusti, delle tendenze; al che si richiede un accu-
rato e serio esame per conoscere non solo ciò che è
nfermo, ma anche ciò che potrebbe 'causare peri-
oli, incomodi o impedimenti nella vita spirituale,
tagliarlo via col coltello della circoncisione. Que-
sto coltello è una buona e forte risoluzione, che fac-
•ia sormontare tutte quante le difficoltà. Con esso
n religione si curano, oltreché le malattie perico-
(1) L. MDCCCXLIV (t. XX, p. 170).
73

5.2 Page 42

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lose e mortali, anche le indisposizioni leggere e
senza pericolo. Anzi, si va più oltre, fino ad eli-
minare ogni minimo neo, ogni coserella che possa
tampoco impedire la vita spirituale e rallentare la
perfezione. Si amputano anche le cause del male,
facendo passare il coltello torno torno al cuore, che
è la parte, dove bisogna sempre operare nella cir-
concisione interiore; il che si ottiene stando bene
in guardia e vigilando per iscoprire quali pensieri,
desidèri, passioni, inclinazioni, sentimenti, ripu-
gnanze, antipatie sorgano nel cuore, e farvi i ta-
gli necessari.
. — Va bene, dirà taluno; ma io già tante volte
ho messo il coltello in certe passióni e inclinazioni,
in certe ripugnanze e autipatie, che veggo essere nel
mio cuore incirconciso e che mi muovono fiera guerra,
e sebbene abbia già fatto, mi sembra, tutto il pos-
sibile, sebbene vi abbia speso attorno tempo e
cure, nondimeno continuo sempre a sentire forti e
gagliardi movimenti che mi travagliano e combat-
tono. — Eh, mio caro, non si viene a farsi reli-
giosi per godere, ma per patire; aspetta ancora un
poco, e un giorno sarai nel Cielo, dove regna sol-
tanto pace e gioia; là non proverai più passioni^,
moti d'invidia, antipatie, ripugnanze, ma posse-
derai perenne tranquillità e riposo. Lassù dunque
si godrà, non in questa vita; qui bisogna soffrire
74
e circoncidersi. Chi al mondo fosse senza passioni,
non patirebbe, ma di già godrebbe; la qual cosa
non può nè deve essere, perchè, finché avremo vi-
ta, avremo passioni, e non ne saremo liberi prima
che venga la morte: appunto dal combattere tali
passioni e movimenti verrà la nostra vittoria e il
nostro trionfo.
Io so bene che vi furono in Palestina eremiti e
•nacoreti, i quali vollero sostenere che l'uomo me-
nante una mortificazione assidua poteva arrivare
.d essere senza passioni e senza moti d'ira; che
poteva ricevere uno schiaffo e non farsi rosso; es-
sere ingiuriato, beffato, percosso, e non risentirsi.
Ma la loro opinione venne condannata come falsa
- rigettata dalla Chiesa, la quale ha definito, ed è
osi di fatto, che l'uomo, finché trascinerà la vita
questa terra, avrà sempre passioni, fremiti di
oliera, sussulti al cuore, affetti, inclinazioni, ripu-
gnanze, antipatie e miserie simili, a cui tutti an-
gamo soggetti.
Nessuna meraviglia dunque, se, quando ci si di-
".10 i nostri difetti o ci si fanno riprensioni, noi pro-
mo lì per lì od anche abbastanza a lungo certe
osse, e se ci disgustiamo di quel che ci accade e
je ci si fa contro le nostre inclinazioni, e così an-
he se portiamo più affetto a uua cosa che non ad
- 'altra. Si tratta di passioni naturali, che per sè

5.3 Page 43

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non sono peccati. Non ti devi credere di peccare
o di mancare come clie sia, quando senti commozioni
e ripugnanze. Nient'affatto! sono cose indipendenti
da noi: cotesti moti non sono colpevoli, non lì bi-
sogna portare il coltello della circoncisione. È un
inganno di molti l'immaginarsi che la perfezione
stia nel non risentirsi di nulla, e il credere che ad
ogni ribellione di passioni tutto sia perduto. Eh,
pòveri voi! non vedete che la parte più malata e
da circoncidere non è lì, non dipendendo tali com-
movimenti da voi?
• Ma che cosà circoncidere dunque? Ecco: circon-
cidi quello che tiene dietro a cotesti movimenti,
mettendo il coltello sopra le parole risentite e cir-
concidendo quei pensieri di mormorazione che ca-
rezzi, rumini, trattieni nel cuore i giorni, le setti-
mane, i mesi interi: quelle ripugnanze avvertente-
mente fomentate riguardo alle obbedienze contrarie
al tuo gusto e alla tua fantasia. Mettiti dunque
intorno al cuore, osserva attentamente le tue pas-
sioni, inclinazioni e affetti, e poi porta via tutto
con un taglio ifetto e iu pieno. Non contentarti di
blande incisioni, come quei che vivono nel mondo,
ma ricorri a energiche circoncisioni spirituali e in-
terne (1).
(1) S. R. LII (t. x, pp. 150, 152-5).
6
§ 6. D U E BUONI MEZZI
PER PROGREDIRE NELLA PERFEZIONE.
Primo mezzo: la vita ordinaria e comune.
Io ritengo che sia atto di somma perfezione il
• ouformarsi in tuttto alla comunità, senza giammai
ripartirsene di proprio arbitrio; infatti, oltre a es-
sere ottimo mezzo di unione col prossimo, serve
incora per nascondere ai nostri occhi la nostra
perfezione.
• Vi è una certa semplicità di cuore, che racchiu-
le in sè la perfezione delle perfezioni, ed è quella
-einplicità, la quale fa sì che l'anima nostra si rac-
>lga e concentri tutta nella fedele osservanza delle
sue regole, senza effondersi iu altri desidèri nè vo-
-r intraprendere cose maggiori. Essa non cerca
fare cose alte e straordinarie, che le potrebbero
"tirare stima dalle creature; ma si tiene bassa
-sa dentro di sè e non ha grandi aspirazioni,
•me quella che non fa nulla di propria volontà
- più degli altri: per tal modo tutta la sua san-
" ta è nascosta agli occhi di lei: Dio solo la vede
•>i compiace di tale semplicità, con cui essa gli
: ipisce il cuore e a lui si unisce. Così è beli'e sbri-
g a dagli artifìci dell'amor proprio, che si diletta

5.4 Page 44

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immensamente a tentar cose grandi ed elevate, àc-
conce a farci stimare da più degli altri.
Nessuno pensi nè creda che col non fare più
degli altri per seguire la comunità, si acquisti mi-
nor merito. Oh, no: la perfezione non consiste
nelle austerità; sebbene queste siano buoni mezzi
per conseguirla e siano anche buone in se stesse,
cessano però di esser tali, ogniqualvolta non siano
conformi alle regole e allo spirito delle regole: mag-
gior perfezione è stare semplicemente all'osservan-
za delle regole e seguire la comunità, che non vo-
lersi spingere più oltre. Chi si terrà entro questi
limiti, io l'assicuro che in breve farà molta strada
e arrecherà col suo esempio gran vantaggio ai con-
fratelli. Quando si è in parecchi a remare, bisogna
andare a tempo; i remiganti del mare, più presto
che dal remigare con fiacchezza, sono vinti dal
non dare dei remi a tempo. Si allevino i novizi
tutti a un modo, facendo far loro le medesime
cose, sicché si remi a dovere; e se poi non tutti
fanno con egual perfezione, ci vorrà pazienza: è
cosa che succede in tutte le comunità (1).
Gioverà presentare qualche esempio notevole per
far vedere, quanto piaccia a Dio il conformarsi in<
in tutto alla comunità. Qual motivo credi tu che
(1) E. xni (t. vi, pp. 23'5-6).
vesserò il Signore e la sua santissima Madre di
ssoggettarsi alla legge della presentazione e pu-
rificazione, se non il loro amore alla vita comune?
È un esempio che dovrebbe bastare ai religiosi per
-eguire puntualmente la loro comunità e non dipar-
tirsene mai. Figlio e madre non erano tenuti affat-
to a osservare quella legge: non il Figlio, perchè
Dio; non la Madre, perchè Vergine purissima. Inol-
tre, se ne potevano di leggieri esimere senza che
-e ne accorgesse alcuno; non si sarebbe potuta in-
fatti Maria recare a Nazaret, anziché a Gerusalem-
me? Invece no, fece con tutta semplicità quello che
comunemente si faceva. — La legge, potè ella di-
te, non è fatta per il mio carissimo Figlio nè per
me, e non ci obbliga menomamente; ma, poiché
tutti gli altri vi sono obbligati e la osservano, vi
•i sottomettiamo ben volentieri anche noi per con-
formarci a tutti loro e non essere singolari in nul-
la.— Disse molto bene l'Apostolo san Paolo (1) che
1 Signore dovette essere in tutto simile ai fratelli,
fuorché nel peccato. Ma dimmi, era forse il timore di
una trasgressione quello che rendeva Madre e Figlio
osi esatti nell'osservanza della legge? No, certamen-
te, non essendovi trasgressione per loro; ma ve li mo-
veva l'amore che portavano al loro eterno Padre.
(1) Hebr., II, 17; iv, 15.
79

5.5 Page 45

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Ecco il punto: non ama il comando chi non a-
ma colui che lo dà; quanto più si ama e si stima
il legislatore, tanto più si è diligenti nell'osservarne
la legge. Gli uni sono attaccati alla legge con ca-
tene di ferro, altri con catene d'oro: i secolari, che
osservano i comandamenti di Dio per timore di an-
dar all'inferno, li osservano per forza e non per
amore; ma i religiosi e quelli che attendono alla
perfezione dell'anima, vi stanno legati con le ca-
tene d'oro dell'amore: sì, amano i comandamenti
e amorosamente li osservano e per osservarli meglio
abbracciano la pratica nei consigli. Davide dice (1)
che Dio ha ordinato di custodire i suoi comanda-
menti con grande esattezza. Vedi quale puntualità
egli esige? Così fanno per l'appunto i veri aman-
ti: non evitano solo la trasgressione della legge,
ma anche l'ombra della trasgressione. Naturalmen-
te., chi di sua spontanea volontà col voto di obbe-
dienza si spoglia della volontà propria nelle cose
indifferenti, mostra abbastanza la sua buona disposi-
zione a star soggetto nelle necessarie e obbligatorie.
Siamo dunque puntualissimi nell'osservanza delle
leggi e regole dateci dal Signore, ma soprattutto nel
seguire interamente la comunità.
Veniamo a qualche caso pratico. Guardiamoci
( 1 ) Ps., CXVIII, 4 .
0
dal dire, per esempio, che noi non siamo tenuti a
osservare una regola o un comando del superiore,
perchè la cosa riguarda i deboli, mentre noi siamo
forti e robusti, nè che, all'opposto, quella disposi-
zione riguarda i forti, mentre noi siam deboli e in-
fermi. Dio ci liberi da tali massime nelle comunità!
Se tu sei forte, io ti scongiuro di farti debole per
conformarti agli infermi; e se sei debole, ti dico:
— Sforzati d'adattarti ai forti. — Il grande Apo-
stolo san Paolo dice di essersi fatto tutto a tutti, per
tutti far salvi (1). Chi è infermo, che non sia infer-
mo anch'io? (2). Come vedi, san Paolo, quando è
con infermi, si fa infermo e usa volentieri delle co-
modità necessarie all'infermità di quelli, per dar
loro animo a fare altrettanto. Ma quando si trova
con forti, è un gigante, per incoraggiarli (3); e ac-
corgendosi che il prossimo si scandalizza di cosa
fatta da lui, benché gli sia lecito di farla, pure è
tanto tenero dell'altrui pace e tranquillità di spirito
che volentieri se n'astiene (4).
— Ma, mi dirai, ora che è tempo di ricreazione,
io sento grandissimo desiderio di andar a fare ora-
ti) / Cor., IIX, 22.
(2) II Cor., XI, 29.
(3) Galat., n, 11.
(4) 1 Cor., vili, 13.
81

5.6 Page 46

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zione per unirmi più strettamente alla Bontà divi-
na. Non posso credere che la legge di far ricrea-
zione non obblighi me, che sono già abbastanza al-
legro? — No,, non è cosa cotesta da dirsi e nem-
meno da pensarsi; se non hai bisogno tu di ricrearti,
fa' la ricreazione per quelli che ne han bisogno.
— Non vi sono dunque eccezioni nella vita re-
ligiosa? le regole obbligano tutte a un modo! — Sì,
la legge è uguale per tutti, e nessuno se ne può
dispensare da sè; i superiori però ne moderano il
rigore secondo il bisogno di ciascuno.
Ancora un'osservazione. Non si creda che gl'in-
fermi in religione siano più inutili dei sani o che
facciano meno e abbiano minor merito: tutti fanno
egualmente la volontà di Dio. Le api ci offrono un
esempio di quello che diciamo: le une stanno a guar-
dia dell'alveare e le altre sono sempre in moto per
cercare il miele; tuttavia le api che rimangono nel-
l'alveare non mangiano meno miele di quelle che fan-
no la fatica di andar peccliiando suifiori. Non ti sem-
bra forse che Davide (1) facesse una legge ingiu-
sta, quando ordinava che i soldati, rimasti a guar-
dia del bagaglio, avessero parte al bottino come
quelli andati alla battaglia e tornati carichi di fe-
rite? No, nessuna ingiustizia: i primi facevano la
( 1 ) I Reg., XXX, 23-5.
82
guardia al bottino per i combattenti e gli altri com-
battevano per le guardie del bottino: quindi meri-
tavano tutti la stessa ricompensa, perchè tutti ob-
bedivano egualmente al re (1).
Secondo mezzo: la correzione reciproca.
Ohi attende seriamente alla perfezione, ama di
essere corretto, nè solo si lascia correggere, ma si
compiace di ricevere correzioni in tutti gl'incontri,
non provando maggior gusto che nel venir ripreso
e avvertito de' suoi difetti e mancamenti. Fortuna-
te le anime che, quando parlano fra loro, lo fan-
no unicamente per ammonirsi in ispirito di carità
e umiltà! ma più fortunate ancora quelle che sono
sempre disposte ad accogliere con dolcezza, con cal-
ma e tranquillità di cuore la correzione fraterna!
Queste hanno già fatto un bel cammino, e arrive-
ranno al colmo della perfezione.
Abbiamo in proposito un notevole esempio. Il
grande san Carlo, volendo andare a Milano, prefe-
rì recarvisi per acqua anziché per terra, onde ave-
re maggior comodità di compiere le sue pratiche
divote, come recitare l'ufficio, fare la sua ora di me-
ditazione, leggere qualche buon libro, dire qualche
(1) E. XIII (t. vi, pp. 238-243).

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buona parola: tutte cose più agevoli navigando che
non cavalcando.
Fatte le preghiere consuete, il Santo disse ai suoi
compagni di viaggio: — Su via, bisogna che ci pren-
diamo un po' di svago. — E che faremo per divertir-
ci? — gli si domandò. — Facciamo qualche giuoco, ri-
spose. Facciamo a dircele chiare e nette fra noi, sen-
za alcuna lusinga e senza tanti riguardi. Ognuno di-
ca al suo vicino, e così via gli uni agli altri. —
Che bel giuoco era quello! Ma non tutti lo san-
no nè a tutti piace. Al certo, lo Spirito Santo re-
gnava in quella ricreazione, ed è veramente ricrea-
zione da Santi l'ammonirsi con umiltà e carità l'un
l'altro, dicendosi così alla buona il vero. Cominciò
il giuoco. A qualcuno fu detto: — Abbiamo notato
in voi che avete spesso un parlare e un fare am-
biguo: uou vi è semplicità nelle vostre parole, nè
sincerità nelle vostre azioni. — Altri dicevano: —
Si è osservato che voi siete vano e orgoglioso; vi
compiacete di quei due bei baffi, vi guardate spes-
so la barba se è ben liscia; insomma, si vede che
avete una buona dose di vanità. — Avresti veduto
chi arrossire, chi impallidire, chi farsi così o così,
secondo la diversità dei sentimenti, con cui le os-
servazioni venivano ricevute.
Finalmente giunse il turno di un gentiluomo, che
stava vicino a san Carlo: toccava a lui dirgli le sue.
84
Ecco il Santo col berretto ili mano pregarlo di pa-
lesargli con tutta semplicità quanto sapeva: — Non
mi risparmiate, 110, vi prego, ditemi le mie; sono
tutt'orecchi per ascoltarvi. — L'altro che già da un
pezzo teneva il suo pensiero in mente, gli rispose:
— Monsignore, da tempo si è notato in voi una
grande sconvenienza; e questo non da me solo, ma
da parecchi altri, che vi hanno giudicato e ritenu-
to per isconsideratissimo. — San Carlo, ciò uden-
do: — Signore, disse, vi ringrazio, bau ragione, è
proprio così. Ma vi prego di specificar bene la cosa:
la vostra osservazione è troppo generica: aspetto
• che, di grazia, veniate al particolare. Parlate senza
riguardo. —
— Monsignore, riprese quegli, si ritiene sconve-
nienza grande la vostra di non dormire la notte e
dormire poi durante il giorno. Così, quando siete in
chiesa ad ascoltare la Messa o la predica, vi addor-
mentate. Quei che vi vedono, ne rimangano sor-
presi e dicono: Ecco il nostro Arcivescovo che dor-
ine! non sarebbe meglio che dormisse la notte e non
venisse a dormire qui? Questo potrebbe anche fare
un po' dispiacere al predicatore e cagionargli qual-
che distrazione. Perciò mi sembra che dovreste
emendarvi di questa sconvenienza, prendendovi la
:.otte per dormire, a fine di poter poi vegliare
durante il giorno. —

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San Carlo sorrise ringraziando affettuosamente
e mostrando d'aver ascoltato con umiltà e dolcez-
za l'avviso: poi disse: — È verissimo, io commetto
sovente questa sconvenevolezza; ma vi assicuro, ed
è la pura verità, clie vado soggetto a tali cascag-
gini, che, quand'anche la notte avessi dormito nove
ore, non lascerei per questo di dormire ancora lun-
go il giorno. — E trascorsero così la loro ricreazio-
ne (1). .
§ 7. ALCUNI IMPEDIMENTI
ALL'ACQUISTO DELLA PERFEZIONE.
1. Attaccamento al proprio giudizio.
L'essere proclive a seguire il proprio parere è
cosa molto contraria alla perfezione? L'essere o non
essere inclinato ad avere opinioni proprie è cosa per
se stessa nè buona nè cattiva, trattandosi di mera
disposizione naturale. Ognuno lia opinioni sue; ma
questo non c'impedisce di arrivare alla perfezione,
purché non vi ci attacchiamo nè le amiamo, cliè sol-
tanto l'amare le proprie idee costituisce un ostacolo
straordinario alla perfezione: l'attaccamento al pro-
prio giudizio suol essere la causa, per cui sono tan-
to pochi i perfetti. Di quelli che o per un verso o
(1) S. R. LXIV (t. x, pp. 349-353).
86
per l'altro rinunciano alla propria volontà, se ne
trovano molti; non dico solamente fra i religiosi,
ma anche fra i secolari e nelle corti stesse dei prin-
cipi. Al comando del principe non rifiuterà mai il
cortigiano d'ubbidire; ma riconoscere che il coman-
do sia buono, è cosa che avviene di rado. — Parò
quello che mi comandate, risponderà, e nel modo
che mi dite; ma... — Si sta sempre col proprio « ma »,
che vai quanto dire: — So bene io che sarebbe
meglio altrimenti. —; Nessun dubbio che questo sia
contrarissimo alla perfezione; d'ordinario infatti
produce inquietudini di spirito, scalda la fantasia,
suscita mormorazioni, e poi fomenta l'amore della
stima propria; quindi non si deve amare nè stimare
la propria opinione e il proprio giudizio.
Debbo dire però che vi sono persone, le quali
hanno l'obbligo di formarsi idee proprie, come i Ve-
scovi, i superiori in carica e tutti quelli che gover-
nano; gli altri non lo devono fare assolutamente, sal-
vo che l'imponga loro l'ubbidienza: se no, perdereb-
bero il tempo che hanno da impiegare a star sempre
con Dio. E come questi ultimi sarebbero giudicati
dei perditempo, incuranti della loro perfezione, se
volessero fermarsi a vagheggiare le proprie idee, così
i superiori meriterebbero di venir considerati disa-
datti ai loro uffici, se non si formassero le loro idee
e non si risolvessero mai a prendere decisioni: non

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bisogna però che se ne compiacciano nè vi si affe-
zionino, perchè questo sarebbe contrario alla loro
perfezione.
Il grande San Tommaso, che aveva un ingegno
insuperabile, formulando delle opinioni, le fondava
sopra argomenti stringentissimi; eppure, se trovava
chi non approvasse quello che aveva giudicato giu-
sto, o gli dicesse contro, nou contendeva nè si of-
fendeva, ma pigliava tutto in buona parte; nel che
mostrava di non amare la sua opinione, quantunque
nemmeno la riprovasse: lasciava la cosa com'era,
senza preoccuparsi che gli altri la trovassero giusta
o no. Fatta la parte sua, egli non si dava pensiero
del resto. Neppure gli Apostoli erano attaccati alle
loro opinioni, perfino in cose di tanta importanza
come quelle riguardanti il governo della santa Chie-
sa: definita la controversia con la decisione presa,
non si offendevano, se altri esponesse il proprio mo-
do di vedere, e qualora certuni rifiutassero di accet-
tare le loro opinioni, per quanto solidamente fondate,
non si affannavano a farle ammettere, sollevando
discussioni o contese (1).
I superiori pertanto che volessero cambiar parere
ogni momento, passerebbero per leggeri e impruden-
ti nel loro governo; ma anche quelli che non hanno
(1) Act., xv, 7, 12, 13; / Cor., xr, 16.
uffici, se volessero star attaccati alle loro idee, cer-
cando di sostenerle e farle accettare, sarebbero te-
nuti per ostinati; è certissimo infatti che l'amore
della propria opinione degenera in ostinatezza,
quando non sia prontamente mortificato e troncato:
ne vediamo l'esempio anche fra gli Apostoli. Fa
meraviglia il vedere come il Signore abbia permesso
che tante azioni degli Apostoli, ben degne di essere
scritte, fossero passate sotto assoluto silenzio, e che
fosse riferita un'imperfezione commessa insieme dal
grande san Paolo e da san Barnaba: questo si deve
certo a speciale provvidenza del Signore, che così
ha voluto nostro insegnamento. Se n'andavano
essi in compagnia a predicare il Vangelo, menando
seco un giovane per nome Giovan Marco, parente
di san Barnaba, quando presero a contendere, se
lo dovessero condurre o lasciare, e in questo dispa-
rere non trovando via d'accordo, si separarono (1).
Dimmi ora tu: ci turberemo noi al vedere dei difetti,
se perfino gli Apostoli ne commisero?
Vi sono uomini d'ingegno e di virtù, ma così
schiavi delle loro opinioni e così persuasi della bontà
di esse, che non vogliono mai cedere. Guai a inter-
rogar costoro all'improvviso! Detto che abbiano in-
consideratamente una cosa, diventa quasi impossi-
(1) Act., xv, 37-40.
89

5.10 Page 50

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bile far loro conoscere e confessare d'aver sbagliato,
tanto s'ingolfano nella ricerca di ragioni per soste-
nere ciò che una volta lian detto essere giusto: a
meno che non siano uomini assai dediti alla perfe-
zione, non c'è più mezzo di farli disdire. Vi sono
però uomini di vaglia non soggetti a questa imper-
fezione, ma pronti ad abbandonare le loro opinioni,
anche ottime. Questi non impugnano le armi per
la difesa, quando loro si muove opposizione, o si
contrappongono idee contrarie a quelle da esse giu-
dicate buone e . sicure, come dicevamo del grande
san Tommaso. Di qui si vede, quanto sia cosa na-
turale lo stare avvinti alle proprie opinioni.
Le persone malinconiche vi sono d'ordinario at-
taccate più che non altre di umor gioviale e gaio:
queste si lasciano agevolmente volgere da ogni lato
e sono facili a credere quello che loro si dice. La
grande santa Paola era ostinata nella sua opinione
circa la pratica di dure austerità, nè voleva sotto-
mettersi al parere di chi le consigliava di astener-
sene; e così diversi altri Santi, persuasi che biso-
gnasse macerarsi duramente per piacere a Dio, ri-
cusavano di obbedire al medico e di far quanto si
richiedeva alla conservazione di questo corpo cadu-
co e mortale. Era un'imperfezione la loro; ma non
per questo lasciarono di essere grandi Santi e molto
cari a Dio. Impariamo di qui a non turbarci scor-
0
gendo in noi imperfezioni o inclinazioni contrarie
alla soda virtù, purché non ci sia ostinatezza a per-
severare in quelle; santa Paola e gli altri che si
mostrarono così ostinati, benché in cosa da poco, fu-
rono per questo meritevoli di riprensione. Quanto
a noi, non lasciamoci talmente infatuare dalle no-
stre idee, che, all'occorrenza, stentiamo a staccar-
cene, siamo o no obbligati di formarci un pensiero
nostro intorno alle cose.
Che faremo dunque per mortificare questa na-
turale inclinazione a tener gran conto del giudizio
proprio? Le sottrarremo l'alimento. Ti salta in ca-
po che il far fare la tal cosa nel tal modo non
vada, e che sarebbe meglio farla come l'hai ideata
tu! manda via quel pensiero, dicendo fra te: — Che
c'entro io nella tal cosa, non a me affidata? — È
sempre molto meglio allontanare così senz'altro il
pensiero, che non andare con la mente in cerca di
ragioni, con cui persuaderci d'aver torto; poiché,
invece di mirare a questo, la nostra niente, già
prevenuta in favore del nostro giudizio personale, ci
cambierebbe le carte in mano e, non che rintuz-
zare la nostra opinione, ci fornirebbe argomenti per
sostenerla e farcela ritenere come buona. Giova più
disprezzarla senza neanche volgerle uno sguardo,
appena avutone sentore, scacciandola così in fretta,
da non sapere nemmeno qua! ne fosse il sugo. Non
91

6 Pages 51-60

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6.1 Page 51

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si può, è vero, impedire un primo moto di compia-
cimento al vedere approvato e seguito il nostro pa-
rere, essendo ciò inevitabile, ma non facciamovi ca-
so: invece, benediciamo Dio, e passiamo oltre senza
darci alcun pensiero di tale compiacenza, come nean-
che d'una punturetta di dispiacere che sentissimo,
nel caso che non fosse la nostra opinione seguita
0 giudicata buona. Richiesti dalla carità o dall'ob-
bedienza di esporre il nostro parere intorno all'ar-
gomento, di cui si tratta, facciamolo con semplicità;
ma frattanto manteniamoci indifferenti riguardo al
venire esso o non venire accettato. Converrà pure
talvolta discutere le opinioni altrui e contrapporvi
1 motivi, su cui si fondano le nostre; ma in questo
si proceda con modestia e umiltà, senza disprezza-
re il parere degli altri nè questionare per imporre
il nostro.
Mi domanderai se non sia un dare alimento a
questa imperfezione il cercar di riparlare della cosa
con chi sia stato del nostro avviso, allorché non si
tratti più di decidere, ma siasi già stabilito il da
farsi. Certamente sarebbe questo un alimentare e
tener vivo il nostro modo di sentire e quindi un
commettere imperfezione: si avrebbe qui la prova
sicura che non ci siamo arresi al parere altrui, ma
che continuiamo a preferire il nostro. Una volta dun-
que che sulla proposta siasi deliberato, non se ne
parli più, anzi neppure vi si ripensi, a meno che
si trattasse di cosa notevolmente cattiva; perchè in
tal caso,, se fosse ancora possibile trovare un ripiego
per mandare a monte l'esecuzione o mettervi rime-
dio, bisognerebbe farlo, ma con la massima carità e
delicatezza, per non inquietare nessuno nè mostrar
disprezzo di quello che altri avesse trovato buono.
Unico rimedio per guarire dall'attaccamento al
proprio giudizio è non far conto di quel che ci vie-
ne in mente, rivolgendo il pensiero a qualche cosa
di meglio; perchè, se vogliamo tener dietro a tutte
le idee da quello suggeriteci nelle varie occorrenze,
non sarà questo un continuo distrarci e distornarci
dalle cose più utili e meglio confacenti alla nostra
perfezione, rendendoci così inetti e sgagliarditi per
la santa orazione? La nostra mente, lasciata libera
di baloccarsi in frascherie di questo genere, vi s'im-
mergerà sempre più, producendo un brulichio di pen-
sieri, sentimenti, discorsi, che nell'orazione c'impor-
tuneranno oltremodo. Far orazione è applicare in-
teramente a Dio lo spirito con tutte le sue facoltà;
ma, quando lo spirito siasi stancato dietro oggetti
inutili, sarà tanto meno disposto e atto alla consi-
derazione dei misteri, su cui si vuole meditare.
Riassumendo, ripeto che non l'aver opinioni pro-
prie è cosa contraria alla perfezione, ma l'esservi
attaccati con l'amore e la stima. Chi non le stima
93

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non le ama, e elii non le ama, non si curerà guari
che siano approvate, nè sarà mai così leggero da
dire: — Gli altri la pensino come vogliono, quanto
a me... — Sai che cosa significa questo «quanto
a ine »? Ecco: — Io non mi ci arrendo, ma terrò
duro nel mio proposito e nella mia opinione. — L'ho
detto e lo ridico: questa è l'ultima cosa che abban-
doniamo; eppure è una di quelle, a cui bisogna più
necessariamente rinunciare per l'acquisto della per-
fezione; se non si fa così, addio umiltà, che c'im-
pedisce e proibisce la stima di noi e delle cose no-
stre; e così, senza la pratica di questa virtù tanto
raccomandata, c'immagineremo sempre di essere da
più di quel che siamo e che gli altri siano con noi
in debito (1).
2. L'esser troppo tenero di sè.
Un altro grave ostacolo nel cammino della perfe-
zione è la tenerezza di noi stessi. A meglio inten-
dere questo, ti ricordo che due amori noi abbiamo,
amore affettivo e amore effettivo, e ciò tanto riguar-
do a Dio che riguardo al prossimo e a noi stessi;
ma qui parleremo solo dell'amore del prossimo, per
ritornare quindi a noi stessi.
(1(1 E. xiv (t. vi, pp. 244-251).
I teologi, per far comprendere bene la differen-
za di questi due amori, costumano ricorrere alla si-
militudine del padre che ha due figli, uno ancora
vago fanciullino e tutto vezzoso, e l'altro uomo fatto,
tiravo e nobile soldato o di qualsivoglia condizione.
Il padre li ama grandemente entrambi, ma con a-
more diverso. Ama il piccolo con amore tenerissi-
mo e affettivo: vedi perciò quante cose si lascia fa-
re dal bimbo e fa egli stesso con lui: lascia che gli
attorcigli la barba intorno alla mano e che glie la
volti in su o glie la stringa in pugno; lo palleggia,
lo baciucchia, lo tiene sulla ginocchia e in braccio
• con una dolcezza straordinaria e per il piccino e per
sè. Se un'ape glie lo punge, non cessa di soffiare do-
v'è il male, finché il dolore non sia calmato; se in-
vece il figlio maggiore fosse punto da cento api,
non s'incomoderebbe a muovere un piede: eppure
lo ama di assai forte e sodo amore. Nota la differen-
za dei due amori: il padre, nonostante la tenerez-
za che hai veduta in lui per il suo figlioletto, non
depone per questo il pensiero di mandarlo fuori della
casa e farlo cavaliere di Malta, destinando il Alag-
gi ore a suo erede e successore nei beni. Questi dun-
que è amato d'amore effettivo, e quegli d'amore af-
fettivo: amati tutt'e due, ma in modo differente.
Tale è l'amore che portiamo a noi stessi, affet-
tivo ed effettivo. Effettivo è l'amore che domina i
95

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grandi, avidi d'onori e di ricchezze, sempre intenti
a procacciarsi quanto più possono di beni e non mai
sazi d'acquistarne: costoro si amano molto d'amore
effettivo. Altri si amano più d'amore affettivo, e
sono quelli «he, teneri teneri di se stessi, non fan-
no mai altro che pigolare, carezzarsi, vezzeggiarsi,
usarsi riguardo, così paurosi di quanto possa loro
nuocere, che è una pietà. Se sono malati, avessero
male anche solo alla punta di un dito, non c'è nes-
suno, a sentir loro, più malato di essi: ah, sono
tanto disgraziati! Nessun male, per grande che sia,
sarebbe mai paragonabile al loro, nè vi sono me-
dici che bastino a guarirli. Pigliano medicine su
medicine e, mentre pensano di conservarsi la salute,
la perdono e la rovinano del tutto: ma se amma-
lano gli altri, oh, non è nulla! Essi, essi meritano
compassione, e piangono, piangono i lori guai, cer-
cando di muovere a compassione chi li vede: a loro
poco importa di essere o non essere stimati pazienti,
ma si preoccupano solo di venir creduti molto ma-
lati e tribolati. È un'imperfezione puerile e, vorrei
dire, muliebre: fra gli uomini, prende individui ef-
feminati e senza energia: in spiriti magnanimi non
alligna. Persone a modo non si perdono in simili
inezie e tenerumi, che servono solo a impedirci di
progredire nella via della perfezione. E con tutto
questo, il non poter soffrire di passare per troppo
96
delicati non è proprio esser tali in alto grado?
In una casa religiosa di Parigi trovai fra le pro-
bande una giovane mite, maneggevole, sottomessa
e obbediente al sommo: aveva, in una parola, tutti
i requisiti per essere una vera religiosa. Se non che,
all'ultimo, disgrazia volle che le suore ravvisassero
in lei un difetto fisico, onde incominciarono a pen-
sare se non fosse il caso di rimandarla. La madre
superiora le voleva molto bene, e le rincresceva di
far ciò; nondimeno le suore nicchiavano molto su
quell'inconveniente. Quand'io passai di là, fu ri-
messa a me la sorte della povera figliuola, che era di
buona famiglia. Condotta alla mia presenza, si pose
in ginocchio e disse: — È vero, Monsignore, che
io ho il tal difetto, purtroppo alquanto umiliante (e
lo nominò chiaramente con grande semplicità). Con-
fesso che le suore han ragione, ragionissima di non
volermi ricevere, perchè col mio difetto sono insop-
portabile; ma vi supplico di essermi favorevole, e
vi assicuro che, se mi faranno la grande carità di
accettarmi, io starò molto attenta a non dar loro
fastidio, adattandomi di tutto cuore a lavorar l'orto o
a fare qualunque altro ufficio che mi tenga lontana
dalla loro compagnia, sicché non abbiano da me al-
cuna molestia. — La giovane mi commosse: ella non
era davvero tenera di se stessa! Io non mi potei
trattenere dal dirle che di buon grado avrei voluto
9?
4. - E. CERIA, La vita religiosa ecc.

6.4 Page 54

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1
avere il medesimo difetto fisico e insieme il corag-
gio di parlarne alla presenza di tutti con la mede-
sima semplicità, con cui lo faceva essa alla presen-
za mia.
Quella figliuola non aveva paura, come tanti al-
tri, di perdere la stima e non era tenera di se stessa,
nè faceva le solite vane e inutili considerazioni:
— Che cosa dirà il superiore o la superiora, se io
vado a dire questo o quello1? Se chieggo un po' di
sollievo, dirà o penserà che sono troppo delicata.
— Ma se la cosa è vera, perchè non volere che la
si pensi? — Ma quando espongo il mio bisogno, mi
fa un viso così freddo, che mostra abbastanza di
non averne piacere. — Può darsi che il superiore
o la superiora, avendo tante altre cose per il capo,
non abbia sempre voglia di ridere o parlare con
molta affabilità quando tu vai a dire il tuo guaio,
ed ecco quello che ti urta e ti toglie, dici tu, la
confidenza di andar a direi tuoi incomodi. Barnhi
nate! Vacci con semplicità. Se la superiora o il su-
periore una o più volte non ti avrà fatto le acco-
glienze che ti aspettavi, non te ne aver per male e
non credere che farà sempre così: oh no, il Si-
gnore toccherà forse il loro cuore con il suo spirito
di dolcezza, rendendoli più amorevoli al tuo primo
ritorno.
Del resto, non siamo sì teneri da voler sempre
98
dire ogni nostro incomodo, quando non siano cose
d'importanza: un piccolo mal di capo, un piccolo
mal di denti, che forse passerà presto, se lo vorrai
sopportare per amor di Dio, non occorre che tu lo
vada a dire per averne un po' di compatimento.
Forse non lo dirai al superiore o a chi ti potrebbe
porgere sollievo, ma più facilmente agli altri, affer-
mando di volerlo soffrire per amore di Dio. Ma
se davvero tu volessi soffrirlo per amore di Dio, non
l'andresti a dire a chi sai che potrebbe sentirsi in
obbligo di farne parola al superiore; sicché avrai
di sbieco il sollievo che sarebbe stato meglio doman-
dare schiettamente a chi ti poteva dare il permesso
di prendertelo:"giacché sai bene che il confratello, a
cui dici che ti duole molto la testa, non ha la fa-
coltà di mandarti a letto. Non vi è dunque altro
scopo nè intenzione, sebbene non vi si pensi espres-
samente, che d'essere un po' compatito, e que-
sto piace molto all'amor proprio. Credo anch'io che
hai più gusto e confidenza a parlare del tuo male
con chi non è incaricato di sellevartene, anziché
< on chi tiene tale incarico;finché fai così, tutti com-
patiscono il caro confratello tale e si danno attorno
;>er aiutarlo: invece, dicendolo a chi di ragione, bi-
sognerebbe assoggettarsi a fare ciò che verrebbe or-
dinato: e appunto questa sottomissione noi ci stu-
diamo sempre di evitare, perchè l'amor proprio
99

6.5 Page 55

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vuol farla con noi da pedagogo e da padrone della
nostra volontà.
Questa tenerezza è molto più biasimevole nelle
cose dello spirito cbe non in quelle del corpo; e pur-
troppo la secondano e fomentano le persone spiri
tuali, quando vorrebbero diventar sante di punto
in bianco, senza che però costi loro nulla, senza
nemmeno provare i travagli delle lotte causate dalla
parte inferiore con le sue resistenze a tutto ciò che
contraria la natura. Ma, volere o no, bisogna aver
il coraggio di soffrire e per conseguenza di resistere
a quegli assalti in numerosi scontri durante il corso
della nostra vita, se ci preme di non venir meno alla
perfezione da noi cercata. Io desidero vivamente
che si distinguano sempre nell'anima nostra gli ef-
fetti della parte superiore dagli effetti della parte
inferiore, e che non ci rechino sorpresa le emana-
zioni dell'inferiore, per cattive che siano: èi tratta
di cose che non possono.assolutamente arrestare il
nostro cammino, purché ci teniamo saldi nella parte
superiore, risolati di andare sempre avanti senza
mai fermarci nè perder tempo in lamentele, dicen-
do che siamo imperfetti e in lacrimevoli condizioni,
quasi non ci fosse di meglio per noi che piagnu-
colare sulla nostra miseria e sulla mala sorte di do-
ver procedere così a rilento verso il termine dell'o-
pera nostra.
100
La buona figliuola accennata sopra non era pun-
to tenera di sè, quando mi parlava del suo difet-
to; anzi me lo disse con tanta franchezza d'animo
e di sembiante, che me la rese più cara. Per noi
invece, quale soddisfazione a deplorare i nostri di-
fetti! è cosa che appaga tanto l'amor proprio! No,
coraggio! non ci faccia stupire il vederci soggetti
a imperfezioni d'ogni genere: non curiamoci di in-
clinazioni, umori, bizzarrie, sensibilità, mortificando
costantemente tutto questo in qualsiasi occasione.
Che se nondimeno ci avviene or qua or là di cadere
in fallo, non ce ne adombriamo, ma, ripreso animo,
stiam più fermi al primo incontro e tiriamo diritto,
avanzando sempre più nella via di Dio e verso il
rinnegamento di noi stessi (1).
3. 11 troppo sottilizzare.
Vi sono anime, le quali badano tanto a pensare
come faranno, che non riman loro il tempo di fere;
eppure nel negozio della nostra perfezione, che con-
siste nell'unione dell'anima nostra con la Bontà di-
vina, non è questione d'altro che di sapere un poco
e di far molto. Secondo me, coloro che si sentono do-
mandare qual è la strada del Cielo, han tutta la
ragione di rispondere come chi dice che per andare
(1) E. xiv (t. vi, pp. 251-8).
101

6.6 Page 56

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in uu dato luogo bisogna sempre andare, cioè met-
ter piede avanti piede, e che per tal modo si arri-
verà alla mèta desiderata. Avanti sempre, dirò alle
anime bramose della perfezione, avanti per la stra-
da della vostra vocazione con tutta semplicità, ba-
dando più a fare che a desiderare: è questa la via
più breve (1).
Quando si ha una risoluzione generale e univer-
sale di servir Dio nel miglior modo possibile, non
si vada a sottilizzare tanto per trovare quale sia il
modo migliore, come fanno certuni, in cui la finezza
e l'acume della mente tiranneggia la volontà, sin-
dacandola con troppa insistenza e minuziosità.
Dio vuole in generale che lo serviamo, amando
lui sopra tutte le cose e il prossimo come noi stessi;
in particolare vuole che osserviamo una regola.
Tanto basta: facciamolo alla buona, senza sofisticar-
vi tanto su; facciamolo com'è fattibile a questo mon-
do, ove non istà di casa la perfezione; facciamolo
all'umana e secondochè è possibile nél^tempo^a--
spettando il giorno di farlo poi alla divina e all'an-
gelica e secondo l'eternità. Affannarsi, inquietarsi a
pensarvi su non serve a nulla: il desiderare giova,
ma sia senz'ansietà. Guardiamoci da questo affan-
narsi come da un'imperfezione madre di tutte le
imperfezioni.
(1) E. ix (t. vi, p. 151).
102
Non esaminarti dunque tanto minutamente per
vedere se sei nella perfezione o no. Eccone due ra-
gioni. La prima è che, quand'anche fossimo i più per-
fetti del mondo, noi non lo dovremmo giammai sape-
re nè conoscere, ma sempre dovremmo giudicarci
imperfetti. Non deve mai il nostro esame mirare a
conoscere se siamo imperfetti, perchè su di questo
non ha da cadere alcun dubbio. Per conseguenza non
meravigliamoci di vederci imperfetti, non essendo
lecito di vedersi altrimenti in questa vita; nè ramma-
richiamocene, perchè non v'è rimedio: umiliarci, sì,
dovremo, perchè così metterem riparo ai nostri di-
retti, e insieme correggerci con calma. Ecco ap-
punto lo scopo pratico, per cui ci sono lasciate le
nostre imperfezioni; non vi sarà scusa per noi, se
non ne cercheremo l'emenda, nè saremo senza scusa
non riuscendovi completamente, giacché per le im-
perfezioni la cosa non corre come per i peccati.
La seconda ragione è che tale esame, fatto con
insietà e agitazione, è un vero perditempo: quei
he lo fanno somigliano ai soldati, che per appa-
eccliiarsi alla battaglia eseguissero fra di loro ma-
- >vre così eccessive, che, venuto il momento di
:are sul serio, si trovassero stanchi e spossati (1):
sono come i musici che a forza di provare il canto
(1) Cfr. Ps. LXXVII, 9.
103

6.7 Page 57

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di im mottetto si arrochissero. La mente si stanca
in quest'esame così intenso e continuo e, giunto il
tempo di venire all'opera, non ne può più.
Sii poi semplice nel tuo modo di giudicare: non
tante riflessioni nè repliche, ma semplicità e confi-
denza. Per te due cose sole esistono al mondo: Dio
e tu; il resto non ti deve importare se non in quan-
to Dio te lo comanda e nella forma che te lo co-
manda. Non volger l'occhio di qua e di là, tieni lo
sguardo raccolto in Dio e in te. Non ti accadrà mai
di vedere Dio senza bontà, nè te senza miseria, e
vedrai la sua bontà ben disposta verso la tua mi-
' seria, e la tua miseria oggetto della sua bontà e
misericordia. Non mirare dunque ad altro: intendo .
dire con sguardo fìsso, lungo e ostinato: a tutto il
resto guarda sol di passaggio. Quindi anche ri-
spetto a ciò che fanno gli altri, non cercare il pelo
nell'uovo nè preoccuparti tanto del loro'avvenire^
ma osservali con occhio semplice, buono, dolce e
affettuoso. Non pretendere in essi più perfezione che
in te, e non ti rechi stupore la singolarità delle
imperfezioni: un'imperfezione non diventa maggior
imperfezione, perchè è fuor dell'ordinario e strana.
Imita le api, succhiando il miele da tutti i fiori.
Per ultimo, ti raccomando di fare come i bam-
bini. Finché sentono la madre che li tiene per le
dande, vanno franchi e sgambettano di qua e di là.
104
nè si sbigottiscono dei piccoli strabalzamenti che fa
far loro la debolezza delle gambe. Così tu, finché
ti accorgi che Dio ti regge mediante la buona vo-
lontà e risoluzione che ti ha date di servirlo, va'
avanti francamente, senz'aver paura delle scosserel-
le e degli scappucci che prendi; son cose da non allar-
marsene, perchè di tratto in tratto tu ti getti nelle
sue braccia e lo baci col bacio della carità (1). A-
vanti dunque allegramente e a cuore aperto, quanto
più potrai; e se allegramente non puoi sempre an-
dare, va' sempre con coraggio e confidenza (2).
4. Eccessiva fretta.
Un altro inganno io devo scoprire. Certuni vor-
rebbero una perfezione bell'e fatta, sicché bastasse
infilarla, come una sottana, per trovarsi perfetti sen-
za fatica. Oh, davvero, se questo fosse possibile,
io sarei l'uomo più perfetto del mondo; poiché, se
stesse in poter mio di dare la perfezione agli altri
senza che essi facessero nulla, ti assicuro che co-
mincerei a pigliarmela per me. Sembra a costoro
che la perfezione sia un'arte di cui basti trovare il
segreto, per diventarne subito padroni senza alcuna
(1) Cant., i, 1.
(2) L. CLXXIV (t. XII, pp. 167-9).
105

6.8 Page 58

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difficoltà. Glie inganno! Il gran segreto è fare e fa-
faticare assiduamente nell'esercizio del divino amo-
re, per giungere all'unione con la Bontà divina.
Si noti però bene, cbe, quando dico fare, io
intendo sempre di riferirmi alla parte superiore del-
l'anima nostra, che delle resistenze provenienti dal-
la parte inferiore non bisogna far caso maggiore di
quello che facciano i viandanti dei cani che abba-
iano da lungi (1).
Soffriamo con pazienza il ritardo a raggiungere
la nostra perfezione, facendo sempre e di buona
voglia tutto il possibile per andare innanzi. Fortu-
nati coloro che in quest'attesa non si stancano di
attendere! I.o dico per tanti che, desiderosi di per-
fezionarsi con l'acquisto delle virtù, vorrebbero a-
verle senz'altro, quasiché la perfezione stesse nel
desiderarla. Sarebbe gran ventura poter essere li-
mili, appena concepitone il desiderio, senza bisogno
d'alcuna fatica. Avvezziamoci a cercare la nostra
perfezione per le vie ordinarie, con tranquillità d'a-
nimo, facendo quanto dipende da noi per l'acquisto
delle virtù mediante la costanza nel praticarle se-
condo la nostra condizione o vocazione; poi, per
quel che riguarda l'arrivare presto o tardi alla mè-
ta sospirata, pazientiamo, rimettendoci alla divina
(1) E. ix (t. vi, pp. 151-2).
106
provvidenza, che penserà a consolarci nel tempo da
lei prestabilito; e quand'anche dovessimo aspettare
tino all'ora della morte, contentiamoci, paghi di com-
piere il nostro dovere con far sempre quello che sta
da noi ed è in poter nostro. Avremo sempre abba-
stanza presto la cosa desiderata, allorché piacerà a
Dio di darcela. È necessarissima questa rassegnazio-
ni' ad attendere, perchè la mancanza di essa turba
ii>rtemente l'anima. Contentiamoci dunque di sapere
che chi ci governa, fa le cose bene, e non preten-
diamo speciali sentimenti nè un lume particolare,
ma camminiamo a guisa di ciechi dietro la scor-
ia di questa provvidenza e sempre con questa fi-
ducia in Dio, anche fra desolazioni, timori, tene-
bre e croci d'ogni sorta, che piacerà a lui d'inviar-
ei (1).
Ricomincia ogni giorno: per condurre a buon
l i mine la vita spirituale non c'è mezzo migliore che
rifarsi tutti i giorni da capo, senza credere giam-
mai di aver fatto abbastanza (2). È cosa buona a-
Siirare in generale al più alto grado della perfezio-
ne cristiana, ma senza filosofar tanto in p,articolare,
< ive non si tratti del nostro miglioramento e pro-
gresso in quello che concerne la vita ordinaria, gior-
(1) E. x (t. vi, pp. 164-5).
(2> L. CDLV (t. x i v , p. 22).
10

6.9 Page 59

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no per giorno, rimettendo alla provvidenza di Dio
l'adempimento del nostro desiderio generale e get-
tandoci nelle sue braccia, come il bambino, clie per
crescere mangia dì per dì quello che il padre gli por-
ge, fidente che glie ne somministrerà a misura del-
l'appetito e del bisogno (1).
Il tempo e la regola, in cui si vive, sono il ri-
medio ordinario per guarire dalle imperfezioni, come
per certe malattie fìsiche la cura sta nel buou regime
dietetico. Pur troppo l'amor proprio, la stima di
noi stessi, la falsa libertà dello spirito sono radici
non facili a svellersi dal cuore umano: si può sol-
tanto impedire clie producano i loro frutti, cioè i
[leccati; finché viviamo quaggiù, impedirne del tut-
to gl'impeti, i primi scatti, i germogli, ossia le pri-
me scosse o i primi moti, è impossibile, benché sia
possibile moderarli, e diminuirne il numero e l'in-
tensità mediante la pratica delle virlù contrarie,
massime con l'amore di Dio. Pazienza dunque! A
poco a poco si raddrizzino e si tronchino le cattive,
abitudini, si dominino avversioni, si rintuzzino in-
clinazioni e umori a seconda dei casi : alla fine dei
conti, questa vita è una guerra continua (1) e nes-
suno ha il diritto di dire: — Io non ho assalti. —
(1) L. Dxii'i (t. xiv, p. 122).
(2) Job., VII, 1.
10
11 riposo ci è riservato nel Cielo, dove ci attende
palma della vittoria. Sulla terra, dura sempre la
lotta, che ondeggia fra timore e speranza, ma con
" i clausola che la speranza abbia ognora il soprav-
vento, grazie all'onnipotenza di Colui che ci porge
accorso.
Xon istaucarti dunque mai nel lavoro incessante
lei tuo perfezionamento. Bada che la carità ha tre
parti: amor di Dio, affètto a sè e dilezione del pros-
-'ino. Le regole guidano il religioso nella pratica
•li tutto questo.
Più volte al giorno offri con grande confidenza
Dio cuore, mente e occupazione, dicendogli con
l'avide: Son tuo, /Signore, salvami (1).
Riguardo all'affètto per te, tieni bene aperti gli
«echi sulle tue inclinazioni sregolate per isradicarle.
Non ti spaventare mai di vederti meschino e pieno
di male tendenze. Tratta il tuo cuore con vivo de-
siderio di perfezionarlo; metti una cura instanca-
bile a rialzarlo con dolcezza e carità, ogniqual-
volta inciampa. Soprattutto fa' ogni sforzo possi,
•ile per consolidare la parte superiore dello spirito,
non cercando sensibilità e consolazioni, ma for-
cando propositi risoluti e ardenti, ispirati dalla
tede, dalla regola e dalla ragione.
(1) Ps. cxvrai, 94.
109

6.10 Page 60

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Nessuna tenerezza con te: le mamme tenere gua-
stano i tìgli. Non essere querulo nè piagnone: nes- I
suna paura di certi disturbi e assalti, clie piovi
difficoltà a manifestare. No, nessuna paura: Dio li j
permette per farti acquistare la vera umiltà. Son
cose da combattere con aspirazioni a Dio, disto-
gliendo la mente dalle creature per elevarla al
Creatore.
Col prossimo finalmente sii tutto bontà e benché I
abbi moti e scatti d'ira, ripeti spesso spesso nelle ]
varie occorrenze le divine parole del Salvatore: —
Io amo, Signore, questi miei prossimi, perchè li
ami tu e me li hai dati per fratelli e sorelle (1), e I
vuoi che, come li ami tu, così li ami anch'io. —
In particolar modo ama i confratelli, ai quali la
mano stessa della Provvidenza ti ha unito e stretto
con vincolo celeste; sopportali, trattali con affetto j
e mettili nel cuore (2).
Tutta questa impresa non devi credere che pos-
sa condursi a termine tanto presto. I, ciliegi frut-
tificano presto, perchè fanno soltanto delle ciliege, j
frutti di breve durata; ma le palme, regine delle '
piante, portano, si dice, i primi datteri dopo cen-
t'anni. Una vita mediocre si ottiene in un anno; I
;.a la perfezione, alla quale aspiriamo noi, richiede,
via ordinaria, anni e anni (1).
Poniamo pure che tu sii morto al mondo e che
mondo sia morto in te: è solo una parte dell'olo-
ìsto. Ne rimangono ancora due: scorticare la
vittima, spogliando il cuore di se stesso e tagliati-
lo via tutte le impressioncelle prodottevi dalla na-
rra e dal mondo, e poi bruciarla, riducendo in ce-
• re l'amor proprio e convertendo interamente l'a-
rma in fiamme d'amor celeste. Tutte cose che non
- fanno in un giorno: ma Colui che ti ha dato la
grazia di vibrare il primo colpo, farà teco anche
• altre due operazioni, e poiché ha una mano pa-
n i a , o agirà insensibilmente o, se si farà sentire,
darà la costanza, anzi la gioia accordata già a
- n Lorenzo sopra la graticola . Non ti preoccupa-
"lunque: chi ti ha dato il volere, ti darà il fare (2).
Sii soltanto fedele nel poco, ed egli ti farà padrone
el molto (3).
Perciò non ti lamentare, perchè la tua vita è
iena d'imperfezioni e difetti, nonostante il tuo de-
- derio di conseguire la perfezione e la purezza
(1) Cfr. JOAN., XV.II, 6 ; MATT., XII, 50.
(2) L. MCLXXIII (t. xvm, 160-2).
110
11) L. MDLXXIX (t. XIX, p. 7 5 ) .
(2) Philipp., IH, 13.
(3) MATT., XXV, 21, 23. — L. MDCXCV (t. x i x , p. 314).
Ili

7 Pages 61-70

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7.1 Page 61

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dell'amor divino. È impossibile clie arriviamo a li-
berarci interamente di noi stessi. Quaggiù ci dob-
biamo portare da noi, fino a che ci porti Dio nel
Cielo, e in noi non portiamo niente di buono. Quin-
di, ci vuol pazienza; non pensiamo di poter gua-
rire in un giorno da tante cattive abitudini con-
tratte col trascurare la nostra sanità spirituale. Dio
ha ben guarito alcuni in un attimo, senza lasciare
in essi traccia delle infermità precedenti, come fece
con la Maddalena, che in un istante da fogna di
corruzione fu cambiata in sorgente di acque pu-
rissime, da quel momento non più intorbidate.
Ma è anche vero che il medesimo Iddio in parecchi
suoi cari discepoli lasciò non pochi contrassegni delle
loro male inclinazioni, e tutto per loro maggior
profitto: prova ne sia il glorioso san Pietro, che
dopo la sua vocazione inciampò più volte in im-
perfezioni e da ultimo, stramazzò del tutto, e assai
miserevolmente, con la negazione.
Salomone dice (1) che è un animale molto in-
solente la serva divenuta in un subito padrona.
Per l'anima che abbia servito lungamente alle sue
passioni e inclinazioni, vi sarebbe pericolo di or-
goglio e vanità, se in un momento ne diventasse
del tutto padrona. Conviene che a poco a poco e
(1) Prov., xxx, 21, 23.
1
passo passo veniamo acquistando questo domin io
per conquistare il quale i Santi e le Sante hanno
speso decine d'anni. Ci vuol pazienza con tutti,
ma in primo luogo con noi stessi (1).
Osserva inoltre che corre gran differenza tra la
cessazione di un difetto e l'acquisto della virtù
contraria. Tanti sembrano molto virtuosi, men-
tre poco o punto hanno di virtù, non avendo
faticato per acquistarla. È frequente il caso che
le nostre passioni s'addormentino e stiano assopite
e se durante quel tempo non ci provvediamo di
•forza per combatterle e rintuzzarle, al loro ride-
starsi rimarremo vinti nella lotta. Teniamoci sem-
pre umili, nè diamoci a credere di possedere le
virtù, benché, almeno per quanto risulta a
noi, non cadiamo più in colpe ad esse contrarie,
gioiti purtroppo s'ingannano a partito immaginan-
dosi che le persone professanti vita perfetta non deb-
bano mai inciampare in imperfezioni, massime i
religiosi, quasi che bastasse entrare in religione per
essere perfetti; ma non è così: le varie religioni
non hanno per iscopo di adunare gente perfetta,
ma gente che abbia la buona volontà di tendere
alla perfezione (2).
(1) L. CCLXXVII (t. xirn, p. 19).
(2) E. xvi (t. vi, pp. 294-5).
113

7.2 Page 62

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Te lo ripeto: 11011 dimenticare mai la massima
dei Santi, che nel cammino della perfezione dob-
biamo credere ogni giorno di cominciare: se pensas-
simo bene a (presto, non ci stupiremmo di trovare
in noi miserie e cose da togliere. Non si è mai alla
line, ma bisogna sempre ricominciare di buona vo-
glia. Quando l'uomo avrà finito, dice la Scrittura (1),
allora sarà da capo. Il giiì fatto è buono, ma quello
che tosto cominceremo, sarà meglio; finito questo,
ricominceremo altro, che sarà meglio ancora, e poi
di nuovo altro, fino a che ce n'andremo da questo
mondo a cominciare un'altra vita che non avrà fine:
là, più nulla di meglio ci potrà toccare. Vedi adun-
que se vi sia da rammaricarsi, quando nell'anima
si trova che c'è ancora da fare e se non bisogni
al contrario aver coraggio e andar sempre avanti
senza fermarsi mai, e se non faccia d'uopo mettersi
con risolutezza a menar tagli, dovendosi portare la
lama fino alla divisione dell'anima. e dello spirito,
delle giunture e delle midolle (2).
Finirò con un esempio, che si legge nelle Vite
dei Padri. Un giovane, chiamato da Dio a farsi re-
ligioso, andò in un monastero della Tebaide a trovare
(1) Eccli., xvm, 6.
(2) Hebr., ìv, 12. — L. MXDIX (t. xvi, p. 312).
114
un buon padre, a cui espose la sua intenzione, sup-
plicandolo di riceverlo per discepolo. Nel suo fer-
vore gli tenne un bel discorso dicendo: — Padre,
vengo da voi, perchè abbiate la bontà d'insegnar-
mi la maniera di divenire presto presto perfetto.
— Egli, come vedi, aveva voglia di essere perfetto,
ma molto in fretta. 11 padre ne lodò l'intenzione e
poi soggiunse: — Figlio, quanto a insegnarti la via
della perfezione, lo farò ben volentieri; ma che tu
diventi perfetto così presto- come vorresti, non te
lo posso promettere: in questa casa noi non ab-
biamo una perfezione bell'e fatta, ma bisogna che
. ognuno se la faccia da sè. —
Il poverino credeva che gli si sarebbe data "la
perfezione, come si dà l'abito religioso; ma ne fu
disingannato per bene. Il buon padre, ripigliando,
disse: — Figlio, la perfezione non si acquista d'un
tratto, come pensi tu; con la tua fretta non ci si
arriva. Si procede per gradi, cominciando dall'in-
fimo e andando su su fino al sommo. Nella scala
di Giacobbe non vedi che vi erano tanti gradini e
che bisognava salire dall'uno all'altro fino alla ci-
ma, per incontrare il Padre celeste? Per arrivare a
lui, si fa un gradino alla volta. La perfezione da
te desiderata non si trova lì su due piedi. Se la
vorrai un giorno avere, io t'insegnerò il modo di
acquistarla, pureliè, figlio mio, tu abbia coraggio
115

7.3 Page 63

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e costanza a fare quanto ti dirò. — Il giovane
promise. Allora il buon padre continuò: — Ebbene,
figlio, per tre anni, oltre la pratica generale di
tutte le virtù, procurerai di aiutare tutti i fratelli;
quando, per esempio, t'imbatterai nel cuoco cbe va
ad attingere acqua o a far legna o a spaccarne, vi
andrai tu in sua vece. E se t'imbatterai in qual-
che altro con un peso sulle spalle, ne lo allevierai
prendendo e portando tu il carico. La farai, in-
somma, da servo di tutti, prestando loro servizio
in ogni cosa senza riserva. Ne avrai il coraggio!
— Il giovane principiante, bramoso della perfezio-
ne, vi si sottomise. — Ma in capo a questi tre
anni sarò perfetto? — chiese. — Di ciò, rispose il
padre, io non posso saper nulla; quel che sarà poi,
lo vedremo. —
Spirato il triennio, ritorna il buon novizio dal
suo maestro, per sapere se fosse perfetto. — Padre,
disse, eccomi alla fine del tempo assegnatomi. —
Gli rispose il buon padre: — Questo non basta; vi
è un secondo esercizio da cominciare per altri tre
anni, se vuoi essere perfetto. Nei tre anni passati
hai fatto bene, è vero, e con diligenza le cose da
me ordinate, ma non bisogna fermarsi lì. — Co-
me! replicò il povero giovane. Non è ancor finito?
bisogna cominciare un'altra volta? ci vogliono tanti
noviziati! tre anni non bastano! Ohimè! io mi cre-
116
devo di essere perfetto con solamente volerlo, e
invece mi rimane ancora tanto da fare! — Termi-
nate le querimonie, il buon maestro, senza punto
scomporsi, prese a incoraggiarlo, dicendo che, do-
po aver già fatto tanto, gli conveniva proseguire
e che la perfezione era un bene così grande da non
doversi rimpiangere nè la fatica nè il tempo spesi
ad acquistarla.
Alla fine il povero novizio si lasciò così ben
persuadere, che promise di fare per altri tre anni
quanto il padre gli avesse detto. La nuova ingiun-
zione fu di ricevere mortificazioni, dispregi, rim-
proveri e vilipendi senza mai rifiutarsi di fare qual-
che servizio o cortesia a chi ne fosse l'autore, e
questo con la massima sollecitudine; non potendo
altro, facesse mazzolini di fiori o stuoie o cose si-
mili da presentargli. Promise il giovane di farlo, e
lo fece coscienziosamente; e non glie ne mancò dav-
vero l'occasione, perchè il buon padre aveva dato
ai religiosi la parola d'ordine di metterlo alla pro-
va sul serio, sicché ad ogni piè sospinto egli era in
faccende a preparar presenti, tanti dispregi, mor-
tificazioni e umiliazioni gli toccava continuamente
ricevere.
Compiuto il secondo noviziato, andò dal mae-
stro per rendergli conto, smanioso di sapere se
allora fosse perfetto. Ma il padre gli disse: —

7.4 Page 64

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Figlio, a Dio solo spetta di giudicare se tu sei per-
fetto o no; ma se vuoi, ne faremo una piccola pro-
va. — Il padre dunque gli fece impiastricciare tutta
la faccia e lo condusse a una città vicina, dove sta-
vano sulla porta dei soldati, elio sembrava non
avessero altro da fare che squadrare i passanti e
trarne materia di riso; quindi, appena videro il
povero giovane, cominciarono ad andargli dietro
e chi lo motteggiava, chi gli dava colpi, chi gli
scagliava ingiurie: insomma, si presero giuoco di
lui come di uno scemo. E ciò che li convinceva
esser tale, fu l'osservare, come a siffatti maltrat-
tamenti gongolasse di gioia, lasciandola trasparire
sul volto, e mostrandosi tanto più lieto e contento
quante più villanie gli venissero fatte. Stupivano
gli astanti, ma si rallegrava il buon padre, che
durante la prova non lo perdeva di vista.
Da ultimo, uno dei soldati, riflettendo al con-
tegno del povero novizio, preso da stupore, si fece
a interrogarlo, come mai potesse ridere e mostrarsi
così impassibile agli insulti. Il Signore, come vedi,
fa sempre in modo che le virtù de' suoi veri amici
e servitori siano riconosciute da qualcuno. Rispo-
segli il novizio: — Mi sembra di avere tutte le ra-
gioni di ridere e di essere contento, perchè in
mezzo alle vostre provocazioni e ai vostri dileggi
io godo la pace dell'anima; oltre a questo, ho un
1
litro motivo di allegrezza, ed è che voi altri mi
-iete, a dir vero, assai più amorevoli e gentili che
non mi sia stato il mio maestro, che voi vedete là
e che qui mi ha condotto: per tre anni, a quelli
che mi bistrattarono, io era da lui costretto a of-
frire doni in ricompensa delle offese fattemi. Voi
invece gareggiate a farmi augherie e vessazioni,
senza costringermi a ricompensarvene. —
A tanta tranquilità di spirito si arriva solo con
o stringere intorno alla parte superiore dell'anima
l'intelletto, la memoria e la volontà (1). A questo
line bisogna recidere adagio adagio dalla nostra
vita le superfluità e le mondanità. Le viti non si
rimondano a colpi d'accetta, ma si potano bel bello
con la roncola, sarmento per sarmento. Io ho ve-
duto una statua, intorno alla quale lo scultore la-
vorò dieci anni prima che fosse perfetta, nè finiva
mai di adoprarvi lo scalpello e il bulino, levando
via a spizzico tutto ciò che offendesse l'armonia
delle parti. No, non è possibile arrivare in un gior-
no alla perfezione: dobbiamo vincere oggi qua,
domani là, e passo passo renderci padroni di noi
stessi, che non sarà piccola conquista. Avanti,
avanti con fiducia e sincerità in questa santa im-
presa! Da essa dipende tutta la consolazione che
(1) S. R. xxx (t. ix, pp. 303-7).
1

7.5 Page 65

▲back to top
proverai nell'ora della morte, tutta la dolcezza della
vita presente, tutta la sicurezza per la vita futura.
So bene che è grande l'impresa, ma non quanto
la ricompensa. Per un'anima generosamente risoluta,
non v'è nulla d'impossibile, mercè l'aiuto del suo
Creatore (1).
5. Scoraggiamenti.
È cosa ordinarissima nei giovani, che fanno il
tirocinio della perfezione, venir assaliti da tentazioni
di scoraggiamento; poiché, ad ogni difficoltà che
incontrano sul loro cammino, subito si attristano
e muovon lamenti da far pietà. L'orgoglio o la va-
nità non permette loro di commettere un difettuc-
cio qualsiasi, che tosto non si abbattano fin quasi
alla disperazione. — Ohimè! esclamano, nulla più
si deve aspettare da me! io non farò mai niente
che valga! — Dici bene: ti pensavi forse di essere
così buono da non mai cadere in fallo? In tutte le
arti bisogna fare il principiante prima di essere
maestro (2).
Benché vogliamo, e con ferma volontà, il bene,
pure compaiono in noi tante imperfezioni! Spuntano
(1) L. ccxci (t. XIII, pp. 58-9).
(2) S. R. xxxi (t. ix, p. ai(3").
120
esse allora aalla volontà? No, non dalla volontà nè
per opera della volontà, ma nlela volontà e sulla
volontà. Mi sembra che avvenga come del vischio,
il quale nasce e cresce sopra un albero e in un al-
bero, ma non dall'albero nè per opera dell'albero
(1). Quindi delle nostre piccole cadute e imperfe-
zioni non isbigottiamoci punto: sono tanti piccoli
richiami, perchè stiamo bassi e umili davanti a
Dio, e vigilanti nel nostro posto di guardia (2).
Certo, ci piacerebbe essere senza imperfezioni;
ma rassegniamoci a essere della natura umana, e
non Xii quella angelica. Le nostre imperfezioni non
ci debbono piacere, anzi dobbiamo dire col santo
apostolo (3): Infelice me! chi mi libererà da questo
corpo di morteV Ma non ci facciano stupire nè ci
tolgano il coraggio. Caviamone bensì confusione,
umiltà e diffidenza di noi stessi; ma non {scorag-
giamento né afflizione d'animo e tanto meno sfiducia
nell'amor di Dio verso di noi; poiché Dio, se non
ama le nostre imperfezioni e venialità, ama però
noi nonostante quelle. Come la infermità del figlio
dispiace alla madre e ciò nondimeno questa non
solo non lascia di amarlo, ma lo ama con tenera
(1) L. DXM (t. xiv, pp. 178-9).
(2) L. DCLXXIV (t. x v , p. 3 7 ) .
(3) Rom., vi, 24.
121

7.6 Page 66

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compassione, così Dio, sebbene non ami le nostre
imperfezioni e venialità, non lascia per quelle di
teneramente amarci, siccbè con ragione disse Da-
vide al Signore (1): Abbi pietà di me, Signore, perchè
sono senza forze (2).
Neanche dobbiamo sbigottirci per avere delle
passioni: non ne andremo esenti mai: certi eremiti
che pretesero di sostenere il contrario, furono cen-
surati dal sacro Concilio di Efeso, e la loro opinione
venne condannata e qualificata per erronea. Qualche
mancamento si commetterà sempre; facciamo però
in modo che questo ci capiti di rado e possibilmente
due' volte sole in cinquantanni, come fu per gli
Apostoli in tutto il tempo che vissero dopo ricevuto
lo Spirito Santo. Del resto, fosse anche tre, quattro,
sette, otto volte in tanti anni, non sarebbe cosa da
impensierirsi nè da perdere il coraggio, ma bisogne-
rebbe sempre ripigliar lena e vigore per fare me-
glio (3).
Diventare in un subito padroni dell'anima pro-
pria e averla completamente nelle mani di primo
acchito è impossibile. Contentati di guadagnar ter-
reno a poco a poco di fronte alla passione che ti
(1) Ps. vi, 3.
(2) L. MCDII (t. xviii, p. 172),
(3) E. xvi (i. vi, p. 299).
122
fa guerra. Bisogna sopportare gli altri; ma innanzi
tutto sopportiamo noi stessi e abbiamo pazienza di
essere imperfetti. Yoremnio arrivare al riposo interio-
: e senza passare per le ordinarie contrarietà e lotte?
Pratica bene le cose che ti dico. Disponi fin dal
lattino l'anima tua alla tranquillità; durante il
giorno abbi cura di richiamarla sovente e di ripi-
Jiarla nelle tue mani. Se ti capita qualche po' di
Iterazione, non te ne spaventare, non dartene il
•nenomo pensiero; ma, avvertitala, umiliati quieta-
mente dinanzi a Dio e procura di rimettere lo spi-
ito nello stato di dolcezza. Di' all'anima tua: —
• >rsù, abbiam messo il piede in fallo; andiamo ora
•el bello e stiamo in guardia. — E tutte quante
• volte che ricadrai, ripeti la stessa cosa.
Quando poi godrai quiete, profittane di buona
oglia, moltiplicando gli atti di dolcezza in tutte
occasioni possibili, anche piccole; perchè, come
'ice il Signore (1), a chi è fedele nelle piccole cose,
• iranno affidate le grandi. Ma soprattutto non per-
derti di animo, Dio ti tiene per mano e, benché ti
tsci inciampare, lo fa per mostrarti che, se egli
ion ti tenesse, cadresti del tutto: così tu ne afferri
iù strettamente la mano (2).
i l ) L u e . , x v i , 10; MATT., XXV, 21, 23.
(2) L. CDXLIV (t. x i v , p. 2).
1

7.7 Page 67

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In questo modo, vivendo interamente per Iddio
e per l'amore che egli ti ha portato, sopporta te
stesso in tutte le tue miserie. Essere buon servo di
Dio non vuol dire essere sempre consolato, sempre
in dolcezza, sempre senza avversioni e ripugnanze
al bene: se così fosse, nè san Paolo nè altri Santi
e Sante avrebbero servito bene Dio. Essere servo
di Dio significa essere caritatevole col prossimo,
formare nella parte superiore dello spirito una riso-
luzione impreteribile di seguire la volontà di Dio,
avere una profondissima umiltà e semplicità che
c'inspiri confidenza in Dio e ci aiuti a rialzarci da
tutte quante le nostre cadute, a pazientare con noi
nelle nostre miserie, a sopportare pacificamente gli
altri nelle loro imperfezioni (1).
Ciò posto, allorché abbiam commesso qualche
difetto, esaminiamo subito il nostro cuore e doman-
diamogli, se conserva sempre viva e intera la riso-
luzione di servir Dio; spero che ci risponderà di
sì e che soffrirebbe più d'una morte, anziché abban-
donare questa risoluzione. Poi, domandiamogli di
nuovo: — Perchè dunque vai ora incespicando?
perchè sei così dappoco! — Ti risponderà: — Mi
son lasciato sorprendere, non so come; ma ora mi
sento qui un peso! — Ebbene, perdoniamogli: i suoi
(1) L. CDIK (t. XIII, pp. 313-4).
124
mancamenti non vengono da infedeltà, ma da in-
fermità. Correggiamolo dunque con dolcezza e calma,
senza affliggerlo e turbarlo di più. — Su via, dicia-
mogli, mio caro cuore, in nome di Dio, fatti co-
raggio: andiamo avanti, vigilando e guardando in
alto al nostro soccorso che è Dio. — Eh, sì, siam
caritatevoli con l'anima nostra e non facciamole
rampogne, finché vediamo che non manca delibe-
ratamente. Con questo esercizio, come vedi, si pra-
tica anche la santa umiltà. E tutto quello che si
fa per la nostra salvezza, si fa per il servizio di
Dio; giacché il Signore stesso in questo modo non
ha fatto altro che provvedere alla nostra salvez-
za (1).
Dirò di più. Servi fedelmente il Signore, ma ser-
vilo con libertà filiale e amorosa, senz'amareggiarti
fastidiosamente il cuore. Mantieni in te uno spirito
di santa letizia, moderatamente diffusa nelle tue a-
zioni e parole, sicché ne ricevano allegrezza le per-
sone virtuose che ti vedono, e ne glorifichino Dio
(2), unico oggetto delle nostre aspirazioni (3).
Termino supplicandoti di riflettere con calma su
queste quattro parole: Tu sei uscito dal mondo, tu
(1) L. CDLVIII (t. x i v , p. 27).
(2) MATT., V, 16; / PETR., II, 12.
(3> L. CDLXXII (t. x i v , p. 57).
125

7.8 Page 68

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ascendi passo passo il monte della perfezione; in-
dietro non guardare, dinanzi a te mira il Cielo (1).
6. Voler essere quello che non si è.
il male dei mali nelle persone animate da buoni
desideri è voler sempre essere quello che non pos-
sono essere, e non voler essere quello che debbono
essere. La natura ha dato alle api la legge, che
ognuna faccia il miele dentro la sua arnia e dai
fiori che le stanno intorno (2). Il demonio è solito di
presentarci alla mente oggetti lontani, per impedirci
di usare i mezzi che sono presenti. È un'infermità
spirituale, in coloro che sono infermi tisicamente,
il desiderare medici di paesi lontani e preferirli a
quelli che si hanno vicini. Non si desideri l'impos-
sibile, nè si faccia assegnamento su cose difficili e
incerte. Non basta credere che Dio ci può soccor-
rere con ogni sorta di strumenti; ma bisogna cre-
dere ancora che non è sua intenzione di adoperare
quelli che allontana da noi, ma quelli che ci stan-
no da presso (3).
Non vi è cosa che tanto c'impedisca di perfezio-
n i L. c c x (t. XIII, p. 97).
(2) L. cccxxxvm (XIII, pp. 160-1).
(3) L. CLXXXI (t. XII, p. 181).
1
narci nella nostia vocazione, quanto l'aspirare ad
un'altra; così facendo, noi, invece di lavorare nel
campo dove siamo, spingiamo buoi e aratro nel cam-
po del vicino, dove poi non potremo mietere alla
line dell'anno. È tutto tempo perso; volgendo al-
trove pensieri e aspirazioni, noi non possiamo ap-
plicare seriamente l'animo all'acquisto delle virtù
che sono richieste nel luogo di nostra dimora. Gl'I-
sraeliti non riuscirono mai a cantare in Babilonia,
perchè avevano il pensiero al proprio paese (1); in-
vece, io vorrei che noi cantassimo in qualunque
luogo (2).
Bando ai vani desideri di una vita differente da
quella che si deve condurre. Non ho parole per e-
spriinere, quanto io tenga ferma quest'idea, che non
bisogni seminare nel campo del vicino, per bello che
sia, finché il nostro ha mestieri di noi. Nuoce sem-
pre distrarre il cuore, avere cioè il cuore in un luo-
go e il proprio dovere in un altro (3). No, non se-
minare i tuoi desideri nel giardino altrui, ma col-
tiva bene solamente il tuo. Non desiderare di es-
sere quello che non sei: rivolgi i tuoi pensieri a per-
fezionarti in questo, ed a portare le croci, o grandi
(11 Ps. cxxxvi, 1-4.
(2D L. CCCLIX (t. XIII, pp. 206-7).
(3) L. cccxx (t. XIII, p. 123).
12?

7.9 Page 69

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o piccole, che ti si pareranno ivi dinanzi. Credimi,
sta qui il gran segreto, e il meno inteso, della di-
rezione spirituale. Ognuno ha i suoi gusti; pochi
hanno i gusti che dovrebbero avere, cioè conformi a
quelli del Signore. A che prò fabbricare castelli in
aria, dal momento che bisogna abitare in terra?
Questa è la mia vecchia lezione (1).
Non è la proprietà delle rose esser bianche, per-
chè le rosse sono più belle e più odorose; è invece
la proprietà del giglio. Studiamoci di essere quello
che siamo, e siamolo bene, per fare onore al divino
Artefice, di cui siamo opera (2). Si rise del pittore
che, volendo dipingere un cavallo, fece un magni-
fico toro: lavoro bello in sè, ma poco onorevole per
l'autore, che aveva altra idea in mente e solo per
caso era riuscito a fare così bene. Procuriamo di
essere quello che vuole Dio, giacché siamo cosa sua,
e nou cerchiamo di essere quello che vogliamo noi
contro la sua intenzione; quand'anche fossimo le
più belle creature del Cielo, che ne avremmo, non
essendo quali ci vuole Dio? (3).
La provvidenza di Dio la sa più lunga di noi.
Talvolta sembra a noi che, cambiando barca, sta-
t i ) L . CD ( t . XIII, p . 291).
(20 Ephes., m, 10.
(3) L. CCLXXXIX (t. XIII, pp. 53-4).
128
remo meglio; sì, qualora ci cambiassimo noi pure.
Io son nemico giurato di questi desidèri inutili, pe-
ricolosi, cattivi; ancorché la cosa da noi desiderata
sia buona, cattivo nondimeno è il desiderio, perchè
Dio non vuole da noi quella specie di bene, ma un'al-
tra, e a questa è sua volontà che noi attendiamo.
Talora egli ci vuole parlare fra le spine e nel ro-
veto, come fece con Mosè (1), e noi vorremmo che
ci parlasse in dolce e fresco venticello, come fece
con Elia (2).
Scendiamo un po' più alla pratica. Tutti abbia-
no care le virtù loro confacenti, ognuno secondo la
ina vocazione: soprattutto le virtù ordinarie. Certe
elevazioni straordinarie si lascino alle anime privi-
legiate, che ne siano degne. Noi non meritiamo un
grado simile nel servizio di Dio; serviamolo in uf-
fici bassi prima di venire ammessi nella sua inti-
mità (3). Chiamo virtù ordinarie quelle, di cui il Si-
gnore ci ha dato l'occasione di procurarci l'acquisto;
come la pazienza, l'indulgenza, la mortificazione del
cuore, l'umiltà, l'obbedienza, la povertà, la castità,
la compassione del prossimo, la tolleranza delle pro-
(1) Exod., IIB, 2.
(20 III Reg., xix, 12. — L. DXII (t. xiv, pp. 120-1).
(3) L. DV (t. xw, p. 109).
129
5. - E. CERTA, La Dita religiosa ecc.

7.10 Page 70

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prie imperfezioni, la diligenza e il santo fervore (1).
Osserva la santa Vergine, dovunque si trovi.
Prima, nella sua stanza a Nazaret: vi pratica la
pudicizia temendo, il candore desiderando di essere
ben informata e interrogando, l'abbassamento e l'u-
miltà dicendosi ancella. Poi, a Betlemme: vi prati-
ca una vita semplice da povera, e ascolta i pastori,
come se fossero dottori magni. Con i re: non pensa
nè poco nè punto a tener loro alti discorsi. Alla
Purificazione: vi si reca per obbedire all'usanza
rituale. Nell'andare e tornare dall'Egitto: obbedisce
con semplicità a san Giuseppe. Non crede tempo
perso l'andar a trovare sua cugina Elisabetta per
debito di caritatevole cortesia. Cerca il Signore non
in allegrezza, ma in lacrime. Sente compassione della
povertà e del rossore di quelli che l'hanno invitata
a nozze, provvedendo alle loro necessità. Se ne sta
ai piedi della croce umile, bassa e forte.
Dio non ricompensa i suoi servi secondo la di-
gnità dell'ufficio esercitato. Non dico già che non
si aspiri alle virtù alte e sublimi; dico di eserci-
tarsi nelle piccole, senza di cui le grandi sono spesso
false e fallaci. Impariamo a soffrir volentieri parole
umilianti e dirette a deprimere le nostre opinioni
e proposte; impareremo poi dopo a soffrire il mar-
(1) Introd. à la vie dév., IH, 2 (t. Ili, p. 132).
10
irio, a fare l'annientamento in Dio e a entrare
nell'insensibilità assoluta. Davide imparò prima a
-gozzare le bestie e poi a debellare gli eserciti (1).
È noto quel che fece Eliezer per conoscere se Re-
: -ecca fosse atta a divenire sposa del figlio di Abra-
mo, suo padrone: le chiese acqua da bere, per os-
servare se ne avrebbe data volentieri a lui ed egual-
mente volentieri a' suoi camelli (2). Cortesia da po-
• o. umile virtù; ma indizio di virtù ben grande.
Non escludo l'elevazione dell'anima, l'orazione
mentale, la conversazione interna con Dio, il con-
tinuo slancio del cuore nel Signore; ma sai che cosa
ti voglio dire? Voglio dirti di essere come la donna
torte, di cui parla il savio (3): A forti cose stende
n mano, e le sue dita maneggiano il fuso. Medita
•ure, eleva lo spirito, portalo in Dio, cioè, tira
Dio nel tuo spirito: ecco le cose forti. Ma con tutto
piesto, non dimenticare la rocca e il fuso: fila le
piccole virtù, scendi a esercitare la carità. Chi dice
dtramente, t'illude ed è illuso.
Cammina sempre sotto gli sguardi di Dio e guar-
dando dove vai. Dio si compiace di vederti muo-
ere i tuoi passettini, e a guisa di buon padre, che
(1) / Reg., XVII, 3 - 3 7 ; Eccli.,
(2) Gerì., XXIV, 13-20.
( 3 ) Prov., XXXI, 19.
XLVII, 3-8.
131

8 Pages 71-80

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8.1 Page 71

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y
tiene per mano il figliuoletto, adatterà i suoi passi
ai tuoi, contento di non andare più in fretta di te.
Di che preoccuparti? Forse di andare da una parte
o dall'altra? di andare in fretta o adagio? Purché
egli sia con te e tu sia con lui, puoi startene tran-
quillo (1).
Il Signore vuole che tu pensi a cogliere sempre
e a ben usare le occasioni di servirlo e di praticare
le virtù minuto per minuto, senza alcuna sollecitu-
dine del passato e dell'avvenire. Ogni minuto pre-
sente ci porti quello che dobbiamo fare (2).
7. Moltiplicità d'occupazioni.
La moltiplicità delle occupazioni è una condi-
zione favorevole per l'acquisto delle vere e solide
virtù. È un martirio continuo il moltiplicarsi delle
faccende; come a chi viaggia d'estate danno più
travaglio e fastidio le mosche che non il viaggio
stesso, così la diversità e moltitudine delle occupa-
zioni riesce più molesta della loro gravezza.
Nel disbrigo de' tuoi affari non fidarti di poter
riuscire con la tua industria, ma solo mercè l'aiuto
di Dio; perciò confida interamente nella provvi-
(1) L. DV (t. xiv, pp. 109-111).
(2) L. DUI (t. xiv, pp. 106-7).
132
videnza di lui, convinto ch'ei farà il tuo meglio,
purché tu dal canto tuo vi metta una tranquilla
diligenza. Dico tranquilla diligenza, perchè le di-
ligenze impetuose danneggiano cuore e affari, e non
sono diligenze, ma ansietà e turbamenti.
Presto saremo nell'eternità, dove si vedrà quan-
to piccola cosa siano tutti gli affari di questo mondo
e quanto poco importasse sbrigarli o no; qui al
contrario vi ci affanniamo intorno, quasi fossero cose
grandi. Quando eravamo piccini, che ardore mette-
vamo a raccogliere pezzi di tegole, legno e fango
per costruire case e minuscoli edifici! E se qual-
cuno ce li gettava giù, eran duoli e pianti; ma
adesso conosciamo che tutto quello aveva ben poca
importanza. Così sarà un giorno nel Cielo; vedre-
mo allora che i nostri attaccamenti al mondo erano
vere fanciullaggini.
Non intendo con questo di sbandire la cura che
dobbiamo avere di tali inezie e bagattelle, avendo-
cele date Dio per nostra occupazione in questo
mondo; ma vorrei levare di mezzo l'ardor febbrile
nell'attendervi. Facciamo pure le nostre fanciullag-
gini, giacché siàm fanciulli; ma nel farle non per-
diamo la testa. E se taluno ci rovescia casette e fab-
bricuzze, non crucciamoci tanto, perchè al soprag-
giungere della sera, in cui ci dovremo mettere al
coperto, voglio dire nel punto della morte, tutte que-
1

8.2 Page 72

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ste casicciuole non serviranno a niente: allora bi-
sognerà ritirarci nella casa del nostro Padre (1).
Attendi con diligenza ai tuoi affari; ma sappi che
non hai affare più. importante della tua salvezza (2).
Nella diversità dunque delle occupazioni unica
sia la disposizione d'animo, con cui vi attendi. L'a-
more soltanto è quello che diversifica il valore delle
cose che facciamo. Il divin Salvatore è Figlio di-
letto del Padre nel fiume Giordano dove si umilia,
alle nozze di Cana dov'è esaltato, sul monte Ta-
bor dove appare trasfigurato, e sul monte Calvario
dov'è crocifìsso; la ragione si è che in tutte que-
ste azioni egli onora il Padre con medesimezza di
cuore, parità di sommissione, eguaglianza d'affetto.
Studiamoci anche noi di avere una delicatezza e
nobiltà di sentimenti, che ci faccia ricercare uni-
camente il gusto del Signore, ed egli renderà le
nostre azioni belle e perfette, per piccole e comuni
cbe possano essere (3).
8. Dire: È il mio carattere!
Certuni dicono: — È vero, io sono iracondo; ma
che farci? è il mio carattere! — Chi non vede qui
(1) Ps. cxxa, 1.
(2) L. CDLV (t. xiv, pp. 21-2).
(3) L. MCMLXXV (t. XXI, pp. 14-5).
1
l'inganno dell'amor proprio? Come se per bontà
di Dio non fosse in poter nostro di vincerci e vi-
vere all'opposto delle nostre passioni e in modo
conforme ai dettami della ragione, che c'insegna
di non ascoltarle! Un altro dirà: — Sì, purtroppo
sono un po' vanitpso; ma è la mia inclinazione; mi
piace far buona figura: non saprei che farci! —
Ah! non »i riflette al fine, per cui la Bontà divina
permise che in pena del primo peccato molte male
inclinazioni ci restassero anche dopo il battesimo,
quantunque la grazia ci venga data in misura suf-
ficiente per dominarle. Questo fine è di porgerci
un mezzo, con cui acquistare maggiori meriti, fa-
uimosamente per amore di Dio ogni sforzo
po di vincere noi stessi (1).
§ 8. DELLE IMPERFEZIONI
IN OHI ATTENDE ALLA PERFEZIONE.
Le imperfezioni nei religiosi.
Lo stato religioso è un grande ospedale pieno
d'infermi, che però sono tutti medici, giacché con-
tinuamente si guariscono l'un l'altro, ed anche
ognuno da sè, accusandosi e purificandosi dei loro
(1> S. R. xvni (t. ix, p. 150).

8.3 Page 73

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difetti. Dico che si guariscono continua inente, per-
chè sono continuamente infermi; infatti, finché sia-
mo in questa vita mortale, nbn facciamo altro che
guarire e scoprire infermità. Non perdiamoci dun-
que di coraggio a curarci: è la nostra occupazione
per tutto il tempo che staremo in questa valle di
miserie. Nessuno, per santo e perfetto che sia, può
dirsene dispensato, dal momento che in questo sog-
giorno non vi è uomo che goda sanità piena e inte-
ra o almeno che la goda a lungo. Tant'è vero che,
quando si vede taluno sano per lungo tempo, ben-
ché sempre con qualche incomoduccio, si dice quel-
lo essere sintomo che fa presagire qualche grossa
malattia.
Nei nostri cuori fermentano umoracci maligni,
cioè passioni e inclinazioni viziose, che ci cagionano
tante gravi e pericolose malattie, alla cui guarigio-
ne dobbiamo sempre vegliare e combattere. I mae-
stri della vita spirituale riducono questi umori a
quattro principali: timore e speranza, tristezza
e gioia. Quando una di queste passioni predomina
sulle altre, ingenera malattie nell'anima; e perchè
riesce difficilissimo tenerle a segno, ne deriva che
gli uomini si mostrino fantastici e volubili, e si
veggano in essi bizzarrie, incostanze e leggerezze.
Oggi stemperata gioia, domani smodata tristezza;
adesso speranza cieca senz'ombra di timore, di qui
136
a poco timor tale da credersi sull'orlo dell'inferno.
Insomma, dallo squilibrio di queste passioni pro-
vengono tutte le infermità spirituali.
E ve ne hanno di mortali: son quelle, a cui si
Trascura di applicare i rimedi riconosciuti neces-
sari per guarirle. Rimedio precipuo è vigilare del
continuo sul proprio cuore e sul proprio spirito per
tener a dovere le passioni sotto l'impero della ra-
gione; altrimenti, non si vedranno che alti e bassi.
Per ovviare a tale inconveniente i Padri della vita
spirituale suggeriscono di contrapporre a queste
passioni la pace e tranquillità interiore, donde na-
sce la dolce eguaglianza di cuore e di spirito co-
-anto raccomandata e inculcata dai primi Cristiani,
come ce lo attesta il saluto che si scambiavano
con le parole: — La pace sia con voi. — Il glo-
rioso apostolo san Paolo ne fa uso di frequente
nelle sue lettere, augurando la pace e tranquillità
nteriore come unico rimedio a tanti mali piccoli
e grandi che assediano le anime. Nella pace sta il
più alto grado della vita spirituale; e per acqui-
-tarla e conservarla ci vuole continua vigilanza e
fatica. Dopo la caduta dei progenitori la nostr'a-
nima è rimasta come un terreno arido e sterile, che
non può produrre frutti di buone opere, se non è
accuratamente coltivato.
Adamo ed Eva, quand'erano nel paradiso ter-
1

8.4 Page 74

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rettre in 'stato di giustizia originale, non -aveva-
no bisogno di lavorare la terra, perchè quel giar-
dino abbondava di alberi buoni e belli; gli uni por-
tavano frutti piacevoli, dolci e leggiadri, e altri pro-
ducevano quelli necessari al mantenimento dell'uo-
mo. Erano alberi che frondeggiavano e fruttificavano
sempre senza bisogno di coltivazione. Nulla cresce-
va in quel luogo, che non fosse eccellente ed utile.
Adamo coltivava la terra per isvago e curvava gio-
vani germogli per farne pergole e chioschi, aven-
dogli Dio ordinato di occuparsi così per suo eser-
cizio e per evitare l'ozio. Ma dopoché egli peccò
e la terra fu maledetta, questa non proibisse più
da sè altro che triboli e spine; quindi per trarne
il necessario alla vita fa d'uopo lavorarla a forza
di braccia e col sudore della fronte, e poi gettar-
vi la semenza. Bisogna starvi attorno con l'occhio
e con la mano per {sradicarne spine e cardi, suo
prodotto ordinario, nè mai stancarsi o tediarsi, se
non si vuole che le male erbe rovinino e isterili-
scano tutto. Il buon giardiniere non si contenta di
formare il suo piano erboso, ma in due o tre tempi
dell'anno vi lavora sopra e sta ben attento a di-
struggervi la vegetazione spontanea, che ne soffo-
cherebbe disegni e aiuole, da lui formati con tan-
ta fatica.
Se tanta cura e pazienza ci vuole intorno ai
1
giardini materiali, a più forte ragione ce ne vorrà
per coltivare la terra e il giardino dei nostri cuori
e dei nostri spiriti, e strapparne le erbacce delle
nostre inclinazioni, abitudini e passioni, ed i sem-
pre nuovi germogli dell'amor proprio, cioè malumo-
ri, capricci, inquietudini, fantasie e simili futilità,
che assalgono ogni momento il nostro povero spi-
rito, sicché, se non si vigila, guastano e rovinano
quanto di bello e buono spunta sul fondo verdeg-
giante delle anime nostre. Per impedire questo dis-
sesto e disordine di male tendenze e tenerle a se-
gno, si richiede una cura e costanza grande, vigi-
lando del continuo sul cuore con risolutezza infles-
sibile e strappandone le erbe maligne, ma il tutto
facendo con la maésima tranquillità. È questa un'oc-
cupazione indispensabile a tutti gli uomini, non es-
sendovi alenilo così perfetto, che non debba più la-
vorare per accrescere la sua perfezione e per conser-
varla, nè così padrone delle sue passioni da non
andar più soggetto ai loro perturbamenti.
Ma benché tutti i Cristiani siano obbligati a cu-
irsi in tal modo, questo è nondimeno precipuo do-
vere dei religiosi, che debbono risplendere al di so-
pra dei secolari nel mantenere un sì desiderabile
r ;uilibrio. Ecco perchè fra loro non si vede tanta
moltiplicità di pratiche e di metodi come fra i mon-
ini; questi oggi digiunano, e domani banchettano;

8.5 Page 75

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oggi si alzano di buon'ora, e domani staranno a
poltrire nel letto fin tardi; insomma la loro vita è
tutta dominata dall'incostanza. Al contrario, nello
stato religioso le regole prescrivono un tenor di vita
fisso, uniforme' e invariabile. Ivi sempre i medesi-
mi esercizi, la levata sempre alla stessa ora, sem-
pre alla stessa ora il pranzo e la cena, e così tut-
to il resto procede secondo l'ordine stabilito: quello
che si fa oggi, si farà anche domani e doman l'al-
tro; quello clie si praticherà posdomani, si prati-
cherà tutto l'anno, e la vita di un anno è la vita
di tutti gli anni'. Questa uniformità e costanza,
mantenuta sempre nello stato religioso, vi genera la
pace e tranquillità di spirito che conduce alla per-
fezione (1).
Le imperfezioni nei Santi.
I mondani, volendo lodare qualche persona da
loro amata, ne sogliono raccontare le virtù, perfe-
zioni ed eccellenze, i titoli e le qualità onorevoli,
e ne nascondono, ricoprono, seppelliscono colpe e
imperfezioni, mettono cioè in oblìo quanto le pos-
sa recare umiliazione e disdoro. Ma la nostra Ma-
dre Chiesa, Sposa di Gesù Cristo, fa tutto il con-
trario. Quantunque ami teneramente i suoi figli,
(1) S. R. L (t. x, pp. 117-121).
140
pure, quando li vuol lodare ed esaltare, dice senza
reticenze i peccati da loro commessi prima di conver-
tirsi, per magnificare così la grandezza di Colui che
li ha santificati a suo maggior onore e gloria, fa-
cendo in essi risplendere la misericordia infinita,
con la quale, sollevatili dalle loro miserie, li lia ri-
colmi di tante grazie e ripieni del suo santo amore.
Gli è che questa buona Madre non vuole che
alcuno di noi si sbigottisca nè si sgomenti per quel-
lo che fu, cioè per i gravi peccati della vita pas-
sata nè per le miserie presenti; purché, ben inteso,
vi sia ora una risoluzione energica e incrollabile di
essere interamente di Dio, abbracciando sul serio
la pratica della perfezione e l'uso di tutti i mezzi
che possano far "progredire nel santo amore e così
rendere questa risoluzione eflìcace e attiva. No, le
nostre miserie e debolezze, per grandi che siano ora
o che siano state nella vitajntecedente, non ci sco-
raggino, ma ci facciano abbassare la testa e ci so-
spingano tra le braccia della misericordia divina,
che resterà tanto più glorificata in noi, quanto più
le nostre miserie saranno grandi, semprechè procu-
riamo di rialzarci da esse: la qual cosa si deve spe-
rar di fare mediante la sua santa grazia.
Il grande san Giovanni Crisostomo, parlando di
san Paolo, gli tributa le più alte lodi possibili e con
termini di tant' onore e stima, che si resta ammirati
1

8.6 Page 76

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al vedere in qual modo celebri le virtù, perfezioni,
eccellenze, prerogative e grazie, di cui Dio l'ha ric-
camente insignito. Con tutto questo però il mede-
simo Sauto, a mostrare come tali doni non venis-
sero da lui, ma dalla bontà influita di Dio, che
l'aveva fatto qual era, parla anche dei propri di-
fetti e racconta esattamente peccati e imperfezioni,
dicendo: — Vedete questo gibbosetto e rachitico
(poiché era di bassa statura e di poca presenza),
come Dio nè ha fatto un suo strumento eletto (1);
questo gran peccatore e persecutore dei Cristiani, co-
me l'ha cambiato di lupo in agnello; questo stizzoso,
questo caparbio, questo superbo e ambizioso, come
l'ha riempito e colmato di grazie e benedizioni, ren-
dendolo cos'i umile e caritatevole, che si proclama il
minimo e l'ultimo degli Apostoli (2) e il massimo
peccatore (3) e si fa tutto a tutti per tutti far sal-
vi (4). E dice ancora il glorioso Apostolo (5): Chi
è infermo, che non sia infermo anch'io? chi triste,
che io non sia triste? chi allegro, che io non sia al-
legro? chi è scandalizzato, che io non arda'ì — Certo
(1) Act, ix, 15.
(2) I Cor., XV, 9.
(3) I Tini., i, 15.
(4) I Cor., ix, 22.
(o) II Cor., xi, 29; cfr. Rem., XII, 15.
142
è che gli antichi, scrivendo vite di santi, erano scru-
polosi in ricercarne difetti e peccati, che racconta-
vano e mettevano in vista allo scopo di esaltare e
magnificare il Signore, a cui risaliva la gloria di aver-
li sollevati dalle loro miserie, di averli convertiti e
cotanto santificati.
Anche del glorioso e amabilissimo san Giovanni
Evangelista, che, data la sua grande purezza e ca-
stità, aveva ben pochi difetti, ci è narrata qualche
eoserella. Era giovane ancora, quando fu preso, in-
-ieme col fratello san Giacomo, da quella stolta am-
bizione di voler sedere uno a destra e l'altro a sini-
stra del Signore (1). Si deve credere che concertas-
sero fra loro due la maniera di arrivare a questa
iignità: domandarla, no, non volevano, perchè gli
ambiziosi, per tema di venir giudicati tali, si guar-
ìano bene dal chiedere essHtin ore. Ricorrono dun-
,ue a un espediente e dicono: — La nostra madre
una buona donna, che ci vuole tauto bene; farà
>ì la parte nostra; e il Maestro, che pure ci vuol
•ene, ci concederà senza dubbio il favore. — Sì, egli
amava molto, specialmente san Giovanni, il disce-
polo prediletto, dotato di un cuore amabile oltre
?ni dire. Vanno dunque dalla madre a pregarla
ie faccia la domanda; e la madre, desiderosa quan-
( 1) MATT., XX, 21.
1

8.7 Page 77

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to mai del bene dei figli, va dal Signore per que-
sto fine, come dice san Matteo, e furba come una
volpacchiotta, gli gira intorno con genuflessioni e
inchini, e gli si prostra davanti, per entrare così nelle
sue buone grazie e ottenere quanto da lui desidera.
Il divin Salvatore al vederla le dice: — Che cosa
mi vuoi domandare? — Rispose: — Una cosetta avrei
da domandarti. — Vedi come la buona donna vada
per giri e rigiri, anziché procedere con semplicità.
Per suggerimento dell'amor proprio, evita di dirgli:
— Vorrei la tal .cosa; concedimi la tal grazia. —
L'amor proprio la sa più lunga, è più accorto; fa
fare preamboli e discorsi ben concertati, conditi di
Anta e falsa umiltà, affinchè la gente pensi che noi
siamo persone capaci e prudenti. È una brutta be-
stia che ci fa molto male, impedendoci di andare
in tutte le nostre azioni con semplicità e franchezza
e movendoci alla ricerca del nostro tornaconto e del-
la nostra soddisfazione in ogni cosa. Si trovano ben
pochi, anche fra le persone più spirituali, che mi-
rino puramente a Dio, senza cercare il proprio con-
tentamento, e che desiderino di contentare lui solo
e non se stessi.
Le disse dunque il Signore: Che cosa vuoi? Tan-
te chiacchiere non garbavano a lui, così amante
della schietta semplicità. La donna rispose: Signo-
re, ti domando che questi miei figli seggano uno alla
1
destra e l'altro alla sinistra nel tuo regno. E i figli
che erano con lei, aggiunsero: Noi desideriamo che,
qualunque cosa domanderemo, tu ce la conceda (1).
Vedi quant'è grande la nostra miseria! Volere che
Dio faccia la nostra volontà e non volere noi fare
la sua, se non quando la sua si accordi con la no-
stra! Esaminiamoci bene, e constateremo quasi tutti
che le nostre domande sono molto impure e imper-
fette; nell'orazione, vogliamo che Dio ci parli, ci
venga a visitare, a consolare, a rallegrare; gli di-
ciamo che faccia questo, che ci dia quello; e, se non
ci esaudisce, benché sia per il nostro meglio, eccoci
inquieti, turbati, afflitti.
\\
L'anima nostra ha due rampolli, il proprio giu-
dizio e la propria volontà, che vogliono sedere il
' rimo alla destra e la seconda alla sinistra. Sì, il
nostro giudizio vuole spuntarla su tutti senza mai
-ottomettersi; la nostra volontà fa altrettanto. Vi
sono molti che obbediscono, ma pochissimi che sot-
tomettano il loro giudizio e rinunzino interamente
Ila loro volontà. Si trova spesso chi si umilia, chi
si mortifica, porta il cilicio, pratica penitenze e au-
sterità, chi prega e medita, ma molto di rado chi
sottometta per intero giudizio e volontà.
Nulla è sì pernicioso nella vita spirituale, nulla
(1) MARC., X, 35.

8.8 Page 78

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c'impedisce tanto di andare innanzi nella via di Dio;
perchè, se regnasse in noi la sua santa volontà, non
si commetterebbero mai peccati, nè si soppor-
terebbe di vivere in balìa delle proprie inclinazioni
e fìsime, essendo la volontà divina regola d'ogni
bontà. Insomma, questa volontà propria, dice san
Bernardo, è quella che andrà a bruciare nell'infer-
no. Se entra in cielo, la si mette fuori; infatti, gli
Angeli ne furono espulsi, perchè «avevano volontà
propria e vollero essere simili a Dio: e così piom-
barono nell'inferno. Dove poi fa capolino nel mondo,
tutto va a male e in rovina. Ogni qualvolta dun-
que riscontriamo in noi cosa non conforme alla
volontà del nostro cavo Salvatore, prostriamoci di-
nanzi a lui e diciamogli che noi la detestiamo e la
sconfessiamo, promettendogli di non voler altro fuo-
ri di quello che sarà conforme al beneplacito e al
volere divino.
Il Signore rispose alla madre e ai tigli: Non sa-
pete quello che domandate. Non sapevano davvero
quello che domandavano: non vi è sinistra nel Cielo,
ma dove stanno i dannati, privi della presenza di
Dio: la destra soltanto vi è nel soggiorno dei Beati,
che godono e godranno eternamente dell'Essenza
divina, la quale li colmerà di contentezza e felicità
d'ogni genere. Non si sa proprio quello che si do-
manda, allorché si dice al Signore che faccia la
146
nostra volontà e ci dia quello che desideriamo noi.
Non sai tu, che tutto il nostro bene dipende dal-
l'essere noi interamente nelle mani della Provriden-
za di Dio, senza cercar altro che il suo beneplacito,
sottomessi pienamente alla sua santissima volontà,
lieti di veder compiersi questa in noi e in tutte le
creature, benché a costo di pene e sofferenze? Noi
invece siamo talvolta disposti e inclinati a praticare
le virtù che ci vanno a genio. Per esempio, una
persona inferma, se le diciamo: — Non sai che i di-
sagi e i patimenti sopportati con pazienza e rasse-
gnazione al divino volere sono più d'ogni altra co-
-à graditi a Dio? — Sì, ci risponderà; ma io vor-
rei andare alla preghiera come gli altri, vorrei fare
penitenze e mortificazioni e opere buone al par di
loro, e con fervore e sentimento. — Eccoti che si
vorrebbe servir Dio cou l'azione, mentr'egli vuol es-
sere servito col patire e soffrire per amor suo.
Il divin Salvatore disse agli apostoli sull'ambi-
zione dei due Santi: — Non pensatevi che per pre-
minenze e dignità da voi sostenute abbiate poi ad
avere uel mio Regno maggior gloria e amore (1).
Da me scelti (2) e destinati a sedere sopra dodici
troni per giudicare con me nel giorno del giudizio
(1) MATT., xx, 25, 26.
(2) JOAN., xv, 16.
1

8.9 Page 79

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(1), non per questo sarete più in alto nè avrete glo-
ria maggiore. Oh no; la mia cara Madre, benché
non eletta a tal dignità, non lascerà di avere nel
Cielo una gloria e un amore infinitamente più gran-
de che non voi e che non altri (2).
Tornando a ciò che dicevamo in principio, si ve-
de da questo luogo del Vangelo, come non s'arrechi
ingiuria ai Santi, allorché nel parlare delle loro vir-
tù se ne riferiscono anche i difetti e peccati; dirò
anzi che gli agiografi fanno gran torto agli uomini
celandoli loro sotto pretesto d'onore o non narrando
il -principio della vita di quelli per tema di sminuire
la stima della lor santità. Questo non è vero; per
tal modo si commette ingiustizia verso i Beati e
verso tutti i loro posteri. Tutti i grandi Santi, scri-
vendo vite di altri Santi, ne han dette sempre in ter-
mini chiari e netti le colpe e imperfezioni, persuasi,
com'è realmente, di rendere, con questo, onore a
Dio non meno che ai Santi, di cui narrano le virtù.
Il glorioso san Girolamo, nel tessere l'elogio della
sua cara Paola (3), dopo le virtù, ne dice aperta-
mente i difetti, condannandone con la massima fran-
chezza alcune azioni come imperfette e procedendo
(1) MATT., XIX, 2 8 .
(2) S. R. XII (t. ix, pp. 73-78).
(3) Ep. CVIII, ad E u s t o c h .
1
così con tutta verità nel suo racconto, ben convinto
che il riferire le perfezioni di lei non fosse meno
utile del palesajpneTe^imperfezioni.
Selle vite dei Santi è cosa buona vedere i difet-
ti, non solo per ravvisarvi la bontà di Dio nel per-
dono, ma anche per imparare ad aborrirli, a schi-
varli, a farne, com'essi, penitenza. Naturalmente
noi dobbiamo guardare anche alle loro virtù per i-
mitarle; i veri Cristiani, i veri religiosi sono come
le api che vanno svolazzando su tutti i fiori per rac-
cogliere il miele e farne loro cibo. Così faceva il
grande sant'Antonio, che, ritiratosi dal mondo, gi-
rava per il deserto andando di grotta in grotta da-
gli anacoreti, non solo per osservare e raccogliere,
a guisa d'ape santa, il miele delle loro virtù, di cui
formare il suo alimento, ma anche per mettersi be-
ne in guardia da tutto ciò che trovasse in quelli di
male o d'imperfetto; in questo modo egli divenne
in fine un gran Santo.
Certe anime invece fanno il contrario: sono si-
mili non alle api, ma alle vespe, cattivi insetti che
van volando anch'essi sui fiori, per trarne però non
miele ma veleno; e se raccolgono miele, lo conver-
tono in fiele. Parlo di coloro che girano intorno
alle opere e azioni del prossimo non per fabbricare
miele di'santa edificazione, considerandone le virtù,
ma per cavare veleno, osservando difetti e imper-

8.10 Page 80

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fezioni sia liei Santi, di cui è narrata la vita, sia
in quelli che convivono con loro, e di lì pigliando
ansa a commettere gli stessi mancamenti.
Per esempio, apprendendo da san Girolamo che
santa Paola aveva l'imperfezione di piangere e an-
gustiarsi tanto in morte dei figli e del marito da
cadere inferma fin quasi a morirne: — Oh, dicono,
se santa Paola, che era sì gran santa, soffriva così
a separarsi dai suoi cari, qual meraviglia che ne
soffra io, non santo nè santa, e che non mi sappia
rassegnare sempre alle cose ordinate dalla Provvi-
denza, quantunque per mio bene? — Onde, ripresi di
qualche mancamento o imperfezione, non pensano
punto a correggersi, ma ribattono senz'altro: — Il
tal Santo faceva così, e io non sono migliore nè più
perfetto di lui. — Oppure: — Se la tal persona fa-
ceva così, non posso fare così anch'io? — Bella ra-
gione questa! Poveri noi! come se non avessimo già
abbastanza da faticare dentro di noi per liberarci
e districarci dalle nostre imperfezioni e male abitu-
dini, senza che andiamo a prenderci anche quelle
osservate negli altri!
Purtroppo, è tanta la nostra stoltezza, che in-
vece di evitare i difetti notati nel prossimo, ce li
addossiamo in sovraccarico o li facciamo servire di
scusa per ostinarci nei nostri. Così, leggendo la vi-
ta del grande apostolo san Paolo e vedendo quel
150
che accadde fra lui e san Barnaba (1), diciamo che
contendere e litigare è cosa buona. Un san Pietro
fu aspro e impulsivo: qual meraviglia che lo sia an-
ch'io! Questo lo't'órf^a^spesso a commettere dei
falli, e che c'è,-, se io pure ne commetto? Oh, le belle
ragioni! Ma che follìa è questa di prendere da ciò
motivo a fomentare le imperfezioni proprie ed a co-
vare le cattive abitudini? (2).
Alcune norme pra'iche.
L'amor proprio suscita e alimenta in noi un for-
micolaio di cattive inclinazioni. Finché però si tratta
di semplici inclinazioni, che consideriamo importune
e di cui il cuore prova rincrescimento, non è vero-
simile che vi sia alcun consenso o almeno un con-
senso deliberato. Quando un'anima ha accolto in
sè il vivo desiderio ispiratole da Dio di essere tutta
sua, non creda, facilmente d'aver prestato il suo
consenso a questi moti contrari. Il cuore può al-
lora ricevere forti scosse dalle sue passioni; ma io
ritengo che di rado pecchi mediante il consenso.
Infelice me! diceva il grande Apostolo (3), chi
(1) Act., xv, 37-40.
(2) S. R. LXIV (t. X, pp. 345-8).
(3) Rom., VII, 24.
15

9 Pages 81-90

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9.1 Page 81

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mi libererà da questo corpo di morte2 Gli pare che
un esercito di pensieri, abitudini, risentimenti, ten-
denze naturali abbia cospirato per dargli la morte
spirituale: e col timore che ne ha, mostra di odiarli,
e odiandoli, non li può sopportare senza dolore, e
il dolore lo fa prorompere in quell'esclamazione, a
cui risponde egli stesso con dire che la grazia di
Dio per Gesù Cristo lo premunirà non dal timore,
non dallo sbigottimento, non dall'apprensione, non
dalla lotta, ma dalla sconfitta, e gl'impedirà di re-
star vinto.
Vivere in questo mondo e non subire tali as-
salti di passioni sono due cose incompatibili. Il glo-
rioso san Bernardo (1) chiamava eresia il dire che
noi possiamo perseverare quaggiù in un medesimo
stato, dacché lo Spirito ha dichiarato per bocca di
Giobbe (2) che l'uomo in un medesimo stato non re-
sta mai. Questo valga per chi si duole della sua
mobilità e incostanza: l'anima purtroppo è conti-
nuamente agitata dai venti delle sue passioni e
quindi è sempre in moto; ma la grazia di Dio e la
risolutezza nostra possono trovarsi costantemente
nella parte più alta del nostro spirito, dove sven-
tola sempre lo stendardo della croce e donde la fe-
(1) Ep. CCLIV, ad Guarinum.
(2) Job., xiv, 2.
152
de, la speranza£_la carità sempre lanciano il for-
te grido: Viyx GEStfl
È un fatto che i moti d'orgoglio, di vanità e del-
l'amor proprio si cacciano dappertutto e, avvertita-
mente o no, insinuano i loro sentimenti in quasi
tutte le nostre azioni, ma non ne costituiscono per
questo i motivi. San Bernardo, sentendo un giorno
che gli davano briga mentre predicava: — Via da
me, Satana, disse (1); non per te ho cominciato, e
non per te finirò. —
Specialmente nel parlare è facile che talvolta si
mescoli pian piano dell'ostentazione, senza che la
si avverta; ma appena ce ne accorgiamo, cambia-
mo subitamente tono. Nello scriver lettere questa
sarebbe cosa molto più biasimevole; perchè vi si
vede meglio quello che si fa e, qualora si avvertisse
una certa dose di vanità, si punisca la mano che
ha scritto, facendole scrivere la lettera in altra forma.
Del resto è ben credibile che in tanto viavai di
sentimenti s'intrudano colpe veniali; tuttavia, es-
sendo passeggiere, non sottraggono il frutto delle
nostre risoluzioni, ma ci tolgono soltanto di gode-
re la dolcezza che proveremmo in non commettere
mai tali mancamenti, dato che la condizione di que-
sta vita lo permettesse.
( 1 ) MATT., IV, 10.
15

9.2 Page 82

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Dunque, non troppo scusare nè troppo accusare
l'anima tua, per impedire che, scusata senza ragio-
ne, imbaldanzisca, e clie, accusata con troppa fa-
cilità, si abbatta e cada nella pusillanimità. Cam-
mina con semplicità, e camminerai con confiden-
za (1) (2).
Il nostro amor proprio non muore interamente
prima che muoia il nostro corpo; rassegniamoci quin-
di a soffrirne gli assalti aperti e le coperte mano-
vre, finché vivremo in questo esilio. Basta che non
vi si consenta con un consenso voluto, deliberato,
mòroso. Negli scatti improvvisi, umiliamoci davanti
a Dio e chiediamogli pietà. Bialziamoci poi calmi
e tranquilli, riannodando il filo della nostra santa
indifferenza e continuando l'opera nostra. Non si
spezzano le corde del liuto nè si abbandona lo stru-
mento, quando si avverte qualche stonatura; si aguz-
za invece l'orecchio per sentire donde venga il di-
saccordo, e adagio adagio si tira o si rallenta la
corda, secondo l'esigenza dell'arte (3). Ritieni che
il desiderio della perfezione è già in sè un buon
principio per conseguirla (4).
(1) Prov., x, 9.
(2) L. MDLXEV (t. xix, pp. 50-52).
(3) L. MDLXXV (t. xix, pp. 272-3).
(4) L. ccxxi (t. xai, p. 277).
154
§ 9. M a r i a SANTISSIMA
MODELLO DI PERCEZIONE RELIGIOSA.
11 religioso ritragga "nel cuore il volto della Santa
Vergine. In che modo? Imitando i pittori, allorché
fanno un ritratto: considerane con viva attenzione
le virtù, e con amorosa cura imprimile nel tuo cuo-
re, medita cioè la sua santa vita e a quella con-
forma la tua. Ti spiegherò come si fa per ottenere
un bel ritratto, che riproduca al vivo le sembian-
ze di chi si vuol dipingere.
In primo luogo, per fare un ritratto, è neces-
sario che la cosa, su cui si vuol dipingere, sia ben
netta e non contenga altra pittura; se così non fosse,
bisognerebbe prima lavarla, perchè non potrebbe
ricevere le fattezze del volto da riprodurre. Fortu-
nati coloro che, entrando in religione, sono a guisa
di tela netta e disposta a ricevere tutte le pennel-
lature che vi si vorranno dare! cioè senz'affetto ai
beni e agli agi, contrari alla povertà; senz'amor dei
piaceri e delle mollezze, contrari alla castità; sen-
z'attaccamento a voleri e desidèri personali, con-
trari all'obbedienza; senza propensioni per il mondo
e per le sue vanità e sensualità. Ma purtroppo que-
sto non avviene, perchè, entrando in religione, vi
si portano cuori già tanto inzafardati, che fan pietà
15

9.3 Page 83

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a vedersi. Ecco perchè si spende tutto un anno di
noviziato a tergerli e purificarli: e non basta, ma
anche tutto il tempo della vita dev'essere una con-
tinua purificazione. Ci animi dunque il pensiero,
che, una volta lavati e netti, ci sarà facile ripro-
durre in noi le sembianze della Vergine.
Ohi entra in religione con affetti mondani o gran-
demente contrari allo spirito religioso, e. non se ne
sbratta, non possederà mai la vera pace dei figli
di Dio. Con persone di tal genere i Padri antichi
usano un linguaggio molto severo; perchè chi la-
scia il mondo e conserva nel cuore gli affetti mon-
dani, non è assolutamente in grado di ricevere l'a-
zione della grazia e le consolazioni celesti. Ma ecco,
secondo me, il punto più. delicato: -si lasciano, sì,
gli affetti secolareschi, ma si tiene in serbo un certo
amore di sè, che ci fa cercare studiosamente il no-
stro prò e fuggire ogni disagio. Piace tanto vivere
e fare il proprio comodo! si ha tanta paura di mo-
rire! Quanta mollezza! quanta delicatura! Via, via
tutto, se si vuol ritrarre in sè il volto della Madonna!
In secondo luogo, non basta al pittore pulir bene
la tela dal cattivo che vi è, ma ne toglie anche del
buono; perchè un tessuto che fosse colorato, non
potrebbe affatto ricevere la pittura da farvi sopra,
nemmeno quando fosse tinto in scarlatto, che è il
colore più dolce e omogeneo di tutti. Donde vedi
156
che per essere buon pittore non devi solo nettar il
cuore di quanto v'è di cattivo, ma anche di tutte
quelle tinte, che tu gli avresti voluto lasciare. Certe
persone infatti entrano in religione con abitudini di
pietà che sembran loro elevate e sublimi, e vogliono
governarsi di loro testa, foggiandosi una divozione
tutta estasi e sovraeminenze, che sdegna le prati-
che semplici, basse e umili. Divozione fantastica e
frivola, per nulla confacente alla loro condizione e
così pervasa d'amor proprio che neppur esse, non
che altri, arrivano a vederci chiaro, e non si sa-
prebbe dire se per loro sia divozione l'amor proprio
o sia amor proprio la divozione. Via dunque tutte
queste cose, ancorché buone in apparenza, e lasciar-
si dirigere da altri, abbracciando la semplicità e
l'umiltà, che s'accompagnano ai pensieri modesti
delle cose ordinarie, e non invaghirsi di sottigliezze
e d'elevatezze superiori alla nostra portata.
La terza condizione per poter dipingere è che la
tela preparata a ricevere la pittura venga fissata in
guisa che non si muova, ma stia ben ferma men-
tre vi si conduce sopra il pennello. Buon per te,
se, fatti i voti, starai irremovibilmente attaccato
alla Croce del Salvatore e alla tua vocazione! allora,
come su d'un quadro da dipingere, ti si verrà ri-
traendo nel cuore e nella mente il volto della Ma-
donna. Ti sei con i tre voti fissato come con tre
15

9.4 Page 84

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chiodi, per non più cambiare nè vacillare nella scelta
fatta della vocazione. Che felicità, che grazia es-
sere costretti a star attaccati e inchiodati, come
quadri da dipingere, per godere e possedere in que-
sta vita il bene a noi offerto e donato, e che go-
dremo nell'eternità! Quante anime purtroppo, se
non fossero obbligate a legarsi nelle vocazioni, a
cui furono chiamate, vacillerebbero e le abbandone-
rebbero dinanzi alla più piccola difficoltà, bizzarria
o strana idea, che ne assalisse e impressionasse la
mente! Quanti matrimoni vedremmo sciogliersi, se
non fossero resi insolubili dal Sacramento, che im-
pedisce di cambiare stato! Quanti ecclesiastici ve-
dremmo abbandonare il sacerdozio, dimentichi della
promessa fatta a Dio nel ricevere l'Ordine sacro!
Che bella sorte l'esserti dovuto legare coi voti per
mantenerti fedele! Senza di questa necessità il pen-
nello non avrebbe mai potuto dipingere in te la vita
spirituale, perchè tu avresti avuto una mobilità e
instabilità continua nelle tue risoluzioni.
La quarta cosa per dipingere bene è che vi sia
ombra e non troppa luce; perciò il savio pittore
chiude l'imposta della finestra, lasciando aperto solo
uno sportellino, affinchè la soverchia luce non gl'im-
pedisca di pennelleggiare bene e di cogliere esat-
tamente la fisionomia, di chi vuol ritrarre. Fortu-
nati coloro, che non portano in religione idee lumi-
15
nose! Questi sono i migliori, perchè, non avendo
tanto lume naturale, sono più atti a ricevere quel
dello Spirito Santo, comunicato loro da altri. Ma
quei che vengono con grande chiaroveggenza, quei
che sanno a menadito come regolarsi e non sentono
più il bisogno dell'altrui direzione, non saran buoni
pittori giammai; il soverchio lume impedirà loro di
ben rilevare nella Madonna i lineamenti del volto.
Chiudano, chiudano^edstoro^imposta, rinunciando
a questa luce naturale o immaginaria per ricevere
quella soprannaturale, comunicata da Dio nell'om-
bra dell'umiltà interiore.
• Quinto, per fare bene un ritratto, il pittore guar-
da più e più volte la persona da ritrarre, a fine
d'imprimersi nell'immaginazione la forma e i linea-
menti del suo volto, e la stessa persona bisogna
che fissi qualche oggetto: perciò i pittori vogliono
che si guardi a loro e su di loro si fermi l'occhio.
So bene che si può dipingere la faccia d'una per-
sona anche a sua insaputa; ma questo è da artisti
di vaglia e molto addestrati: raramente si vede un
pittore riprodurre al vivo là faccia di una persona
osservata appena una volta di passaggio. Io ne co-
nosco uno solo, che abbia fatto così: Apelle, che,
tanto caro ad Alessandro Magno, gli fece su due
piedi il ritratto di un individuo, da cui aveva ri-
cevuto offesa. Tu medita spesso la vita della Santa

9.5 Page 85

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Vergine e abbi sempre davanti agli occhi le sue
virtù per imitarle. Oh, com'è soave, dolce, umile,
tranquillo chi s'intrattiene di frequente con la Santa
Vergine! quanta eguaglianza, calma, piacevolezza
nel suo conversare!
Mettiti dunque a dipingere nel tuo cuore la dolce
e cara immagine della Santissima Vergine così come
ti ho esposto. Rammenta le parole del Salmista (1),
dove dice che il buon servitore ha sempre gli oc-
chi rivolti alle mani del suo padrone e la buona an-
cella a quelle della sua padrona. San Paolo, il quale
h a una grazia meravigliosa in tutto ciò che scrive,
raccomanda talora ai servitori di Gesù Cristo di
tenere gli occhi rivolti agli occhi del loro Signore,
talora di tenerli rivolti alle sue mani e talora an-
che di non fare quello che fanno per gli occhi nè
per le mani di lui (2). Ora, quando dice di tenere
gli occhi rivolti agli occhi, le mani alle mani, vuol
significare che in fare quel che fanno mirino al pia-
cere di Dio e guardino alle sue azioni per imitarle.
Quando poi dice di non guardare agli occhi nè alle
mani del Signore, non intende già che non si fac-
cia quello che si fa per piacere agli occhi di Dio e
per imitarlo; ma che, sebbene non si fosse osser-
(1) Ps. CXXII, 2, 3'.
(2) Rom., XII, 17; Ephes., w, 5-7; Coloss., in, 22-24.
160
vati dal Signore, non si dovrebbe per questo lasciar
di fare quello che è di suo gradimento. La fedeltà
del servo si riconosce dal compier egli i suoi do-
veri in assenza del padrone egualmente bene che
se questi fosse presente: si vede mai un servo, per
negligente che sia, non fare il dover suo, quando
sa che il padrone tiene gli occhi sulle sue mani*
E non far le cose per le- mani del Signore, è agire
per amore e non per timore del castigo.
Abbi d'ora in poi gli occhi rivolti al tuo Signore
che è Gesù "Cristo, e alle mani della tua Signora,
la Santa Vergine, imitandone le virtù, in special
modo l'umiltà. Dipingi nel tuo cuore la sua imma-
gine e conservala ivi con diligenza, perseverando
costantemente in quello che hai promesso con voto,
perchè dalla perseveranza viene che le opere no-
stre siano gradite a Dio e da lui premiate (1).
§ 10. GESÙ CRISTO
MODELLO DI PERFEZIONE RELIGIOSA.
La vita del Signore costituisce la norma per-
fetta per tutti gli uomini, ma particolarmente per
quelli che vivono nello stato di perfezione, come i
(1) S. R. L (t. x, pp. 122-132 passimi.
161
6. - E. CERIA, La vita religiosa ecc.

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religiosi e i Vescovi. Questo stato di perfezione va
considerato in due modi: per i religiosi è uno stato
che serve all'acquisto della perfezione, e per i Ve-
scovi la suppone di già acquistata. Così la vita del
Nostro Divin Salvatore si deve distinguere in due
parti. La prima fa per i religiosi, e va dall'infanzia al
principio della perfezione, perchè l'Evangelista (1)
dice espressamente che egli era soggetto a' suoi pa-
renti. Poi dal punto che cominciò a insegnare e pre-
dicare, esercitò tutte le funzioni appartenenti ai Ve-
scovi. Istituì allora i Sacramenti; indi sul legno
della croce offrì il sacrificio cruento di sè, e già
prima nella cena con gli Apostoli aveva istituito il
santissimo Sacramento dell'Altare, che è il sacri-
ficio incruento.
Consideriamolo qui soltanto come l'esemplare
della vita religiosa. Secondo i Padri, la disciplina
monastica si può ridurre tutta all'abnegazione. Ora,
vediamo in che modo abbia il Signore praticata mi-
rabilmente quest'abnegazione per tutto il tempo del-
l'infanzia; ma, per meglio intenderci, ne formeremo
tre punti, con riferimento alle tre virtù, di cui i re-
ligiosi fanno voto, cioè povertà, castità e obbe-
dienza.
In primo luogo, qua! povertà più povera di
(1) Lue., il, 51.
1
quella del Salvatore? Rinuncia alla casa del Padre
e della Madre avanti ancora di nascere; poiché viene
al mondo in una città, sua, se si vuole, essendo egli
della schiatta di Davide, jfwrcón ìm distacco sì to-
tale da ogni cosa, che « i n d u c e in una stalla, de-
stinata a ricovero di bestie. Appena nato, è messo
a giacere in una greppia, che gli fa da culla. Quante
privazioni non dovette soffrire lungo il viaggio in
Egitto e durante la sua dimora colà! Insomma, la
povertà di lui fu così grande che giunse alla men-
dicità; infatti, viveva di limosina. Poi, quando si
trattò di far ritorno dall'Egitto dopo la morte di
Erode, se i suoi parenti avessero avuto qualche pro-
prietà in Israele, non sarebbero rimasti esitanti fra
l'andare colà o il ritornare in Giudea; ma, nulla
possedendo o ben poco in entrambi i luoghi, non
sapevano da che parte avviarsi. Inoltre, l'amore che
Il nostro caro Maestro portava alla povertà, gli fece
prendere e portar sempre il nome di Nazzareno,
perchè Nazaret era una spregiata cittaducola, tal-
mente spregiata, che, al dire di Natanaele, non si
credeva potervisi trovare alcunché di buono (1). Si
sarebbe potuto far denominare da Betlemme o da
Gerusalemme, ma non volle.
In secondo luogo, una rinuncia intera a tutti i
(l'i JOAN., i. 46.
163

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piaceri sensuali. Il Signore ebbe una purezza sem-
pre senza pari; ma vedi un po' come fin dal suo
ingresso nel mondo privò i suoi sensi di qualsiasi
diletto. Nel tatto, soffrì un freddo intenso. Nell'o-
dorato, quale soavità, quale fragranza si può go-
dere dentro una stalla! I figli dei grandi re, quando
nascono, benché siano poveri uomini al par degli
altri, si avvolgono in tanti profumi, si trattano con
tanti riguardi; e per il nostro Salvatore, che è non
solo uomo, ma anche Dio, nulla di nulla! E quale
musica ne ricrea l'udito? Un bue e un asino can-
tano la nascita del Ile celeste. In lui, niente che
provi qualche soddisfazione, se si eccettua il po' di
gusto clie ìiceve dalla benedetta sua Madre col latte
santissimo venuto dal Cielo: più delizioso al certo
di qualsiasi vino (1), ma gustato non più a lungo
del tempo che impiegava a scendere per la gola.
In terzo luogo, rinnegamento di sè. Chi è mai
arrivato a una rinuncia così piena nel lasciarsi con-
durre dalla volontà dei superiori? Iu questo, dav-
vero, il divino Infante si è mostrato perfetto reli-
gioso! San Giuseppe e la Madonna sono i suoi su-
periori, che lo conducono, lo portano da un luogo
all'altro, senza che egli dica mai una paiola. Fu
ubbidiente alla natura stessa, non volendo crescere
(1) Cant., I, 1.
164
nè parlare in modo diverso dagli altri bambini. Oh,
abnegazione inaudita! potrebbe far miracoli, e non
ne fa. Veramente, se ne vedono intorno a lui nella
sua Natività: la vocazione dei gentili rappresentati
dai re Magi che vennero ad adorarlo, la chiamata
dei pastori, gli Angeli che cantano nell'aria; ma
nella sua persona, assolutamente nulla. Nel suo
esteriore si mostra un bambino qualunque: egli, da
cui gli Angeli sono illuminati e per cui intendono
e comprendono tutto, non fa rivelazione di sorta,
non lascia che i messaggeri celesti vengano a farne
al suo padre putativo. Quando bisogna fuggire da
Erode, egli non fa motto, ma aspetta che lo dica
l'Angelo. Morto Erode, si deve tornare dall'Egitto;
avrebbe potuto dire alla Madre o a San Giuseppe,
che teneramente lo amavano: — Cara Madre, pa-
dre mio, torniamocene pure, il temuto Erode è mor-
to. — Invece no; aspetta che l'Angelo lo riveli a
San Giuseppe.
Non è oggetto della più gran meraviglia, che il
santissimo Infante abbia così rinunciato al pensie-
ro di sè, lasciandosi guidare dalla volontà de' suoi
superiori, senza proferire memmeno una parola per
anticipare la partenza! Particolare notevolissimo: il
Signore possedeva tutte le scienze (1), anzi era la
(1) Coloss., lì, 3.
15

9.8 Page 88

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scienza e la sapienza in persona; eppure serba con-
tinuo silenzio, mentre d'ordinario le persone del
mondo, quando hanno un'oncia di sapere, non si
possono trattenere dal parlare, tanta è la loro sma-
nia di farsi stimar dotti.
Essendo pertanto venuto il Salvatore per dare
un perfetto esempio di vita religiosa, ragion vuole
che vada dietro a lui chi abbraccia una vita a lui sì
cara. Perciò chiunque entri nello stato religioso, ha
dovuto fare queste considerazioni: — Se il mio Signo-
re e Dio mio ha voluto rinunciare alle ricchezze, alla
patria e alla casa de' suoi parenti per l'amore che
portava alla povertà, perchè a sua imitazione non fa-
rò io altrettanto? E se ha rinunciato a tutti i piace-
ri ed anche a se medesimo, a fine di star soggetto
per amor mio e mostrarmi quanto gli sia cara la
vita religiosa, in cui tutto questo si pratica, per-
chè non lo farei anch'io a fine di piacergli? No, io
non abbandono il mondo per acquistare il Cielo,
perchè anche le persone che vivono nel mondo pos-
sono acquistarlo, osservando i comandamenti di
Dio; ma lo lascio per accrescere un po' più la
mia carità e il mio amore verso la Bontà divina (1).
(1) S. R. xvrn (t. IX, pp. 140-144).
166
§ 11. COMBATTIMENTO SPIRITUALE.
La lotta.
Ci avverte il Savio (1): Figliuolo, che sei riso-
luto di servir Dio, prepara l'anima tua alla tenta-
zione. È verità infallibile che ninno va esente da
tentazione, quando è ben deciso di servir Dio. Os-
serva però che niuno deve recarsi da sè nel luogo,
dove la tentazione si trova; perchè senza dubbio
chi la cerca, vi perisce (2). Ecco perchè gli Evan-
gelisti dicono che il Signore fu condotto dallo Spi-
rito nel deserto per essere tentato: non dunque di
sua volontà (parlo riguardo alla sua natura uma-
na), ma per l'obbedienza dovuta al Padre celeste
egli andò nel luogo della tentazione (3). Se nel luo-
go della tentazione ci conduce lo spirito di Dio, non
dobbiamo temere, ma riteniamo per fermo che egli
ci renderà vincitori (4); tuttavia, ripeto, per santi
e animosi che ci pensiamo di essere, non la cer-
chiamo, nè andiamola a provocare: non siam più
(1) EcclL, in, l.
(2) Ib., in, 27.
(3) S. R. LV (t. x, p. 196).
(4) / Cor., x, 13.
1

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bravi di Davide o del nostro diviu Maestro, che non
la volle cercare. Il nostro nemico è un cane legato:
se non ci avviciniamo a lui, non ci farà nessun male,
benché tenti di spaventarci, abbaiandoci contro (1).
Il nostro nemico, sì, è un grande schiamazza-
tore. Non dartene pensiero: sai bene che non ci può
nuocere. Burlati di lui e lascialo fare. Ha schiamaz-
zato anche coi Sant;, ma che cosa ha guadagnato?
eccoli ora nel posto da lui perduto (2). Lascialo
infuriare alla porta: bussi, cozzi, gridi, urli, faccia
il peggio che può: noi siamo accertati che non po-
trebbe entrare nell'anima se non per la porta del
nostro consenso. Teniamola ben chiusa: di tutto il
rimanente non curiamoci punto, perchè non v'è
nulla da temere (3).
Del resto, a chi vuoi che il demonio presenti le
sue tentazioni, se non a coloro che le disprezzano?
I peccatori si tentano da sè, il demonio li ritiene
già per suoi: gli sono alleati, perchè non ne riget-
tano le suggestioni, anzi le cercano, sicché la ten-
tazione alberga iu essi. Nel mondo il demonio quasi
non si affaccia per tendervi insidie; ma nei luoghi
di ritiro egli crede di ottenere gran guadagno se
t i ) S. R. LV (t. x, pp. 197-8).
(2D L. CCXXXVIIII bis (t. XIII, pp. 392, d, c).
(3) L. c c c x x x (t. XIII, p. 28).
1
riesce a far scapitare le anime, che vi si apparta-
no per servire più perfettamente il Signore (1).
La resistenza.
Non ti sbigottire degli assalti del nostro nemico:
tienti solo al riparo de' tuoi grandi e inviolabili
propositi, al riparo de' tuoi voti e delle tue consa-
crazioni al Signore. Lasciamolo pure sbraitare: tan-
to, non potrebbe farci alcun male: suo scopo è d'in-
cuterci almeno spavento e così inquietarci e con
l'inquietudine stancarci e con la stanchezza farci
desistere. Abbiamo timore di Dio solo, ma timore
amoroso; teniamo ben chiuse le porte; guardiamo
di non lasciar crollare i muri delle nostre risoluzioni
e viviamo in pace. Il nemico giri pure e rigiri intor-
no: s'arrabbi pure, pieno di maltalento: la verità è
che non può far nulla. Credimi, non ti angustiare
per tutte le suggestioni di quest'avversario. Ci vuo-
le solo un po' di pazienza a soffrire lo strepito
e il frastuono che fa alle orecchie del nostro cuo-
re: fuori di lì, non ci può recare altro nocumento (2).
Il diffidare di poter resistere alle tentazioni è
(1) S. R. LV (t. x, p. 201).
(2) L. CDV (t. XIII, p p . 300-301J.

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miglior sentimento che non il ritenersi per sicuro
e abbastanza forte, sempre che, quanto non s'at-
tende dalle proprie forze, si attenda dalla grazia di
Dio;infatti molti, i quali si ripromettevano di fare mi-
rabilia per Iddio, al momento buouo vennero meno,
e molti altri che sentivano gran diffidenza delle loro
forze e gran timore di soccombere all'occasione, fe-
cero d'un tratto mirabilia, avendoli questo vivo sen-
timento della propria debolezza spinti a cercare l'aiu-
to divino, a vigilare, a pregare, a umiliarsi per non
entrare in tentazione. Dico di più: sebbene non sen-
tiamo in noi un briciolo di forza o di coraggio per
resistere alla tentazione che ci si potesse presentare
in questo momento, purché abbiamo il desiderio di
resistervi e speriamo che al suo sopraggiungere Dio
ci aiuterà, non attristiamoci punto: non fa bisogno
di sentire continuamente in sè forza e coraggio, ma
basta desiderare e sperare di averne al momento
opportuno. Nè occorre avere qualche segno o in-
dizio sensibile che il coraggio allora si avrà, ma è
sufficiente sperare che Dio ci darà aiuto. Sansone,
chiamato il forte, non sentiva mai in sè le forze
soprannaturali comunicategli da Dio se non nelle
dovute occasioni; perciò è detto (1) che, quando
s'imbatteva nei leoni o nei nemici, lo spirito di Dio
(1> ]udic., xiv, 6, 19; xv, 14.
170
lo investiva, perchè li uccidesse. Così Dio, che non
fa niente invano, a noi non dà nè forza nè corag-
gio quando non vi è necessità di valercene, ma nelle
occasioni non ci abbandona mai; speriamo dunque
che iu ogni occorrenza egli ci aiuterà, sol che noi
lo invochiamo. Facciamo sempre nostre le parole
di Davide (1): Anima mia, perchè ti rattristi e ti
conturbi? Spera nel Signore. Nostra parimente fac-
ciamo l'orazione da lui usata (2): Quando verrà
meno la mia forza, non abbandonarmi, o Signore.
Se dunque desideri di essere tutto di Dio, non
temere la tua debolozza: basterà che tu non ti ap-
poggi menomamente ad essa, ma che speri in Dio.
Chi spera in Lui, non sarà mai confuso (3). Quindi
alle obiezioni, che potessero sorgere dentro di te,
rispondi semplicemente, che in ogni circostanza tu
desideri di compiere il tuo dovere e che Iddio te
ne darà la grazia; ma non indugiarti a esaminare
se il tuo spirito sarà poi o non sarà fedele: tali in-
dagini portano a fallaci conclusioni: tanti sono
valorosi quando non vedono il nemico, ma non lo
sono più in sua presenza, e tanti altri temono prima
del combattimento, mentre il pericolo presente in-
Cl) Ps. XLI, 6, 12; XLII, 5.
(2) Ps. LXX, 9.
(3) Cfr. Eccli., il, 11.
1

10 Pages 91-100

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10.1 Page 91

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fonde loro coraggio. Insomma, non si deve temere
il timore (1).
Non discutere mai nè poco nè molto con le sug-
gestioni del nemico in materia di fede, di castità,
di obbedienza promessa con voto e riguardo al pro-
posito di tendere alla perfezione. Il tuo cuore è al
sicuro: questi articoli ne sono guarentigie fondamen-
tali. Glie bisogno di fare discussioni? No, neppure
una parola di risposta, tranne quella del Signore (2):
Vattene, Satana; non tenterai il /Signore Dio tuo (3).
L'ozio è un grande incentivo alla tentazione.
Non dire: — Io non la cerco; soltanto, me ne sto
senza far nulla. — Basta questo per essere tentato,
perchè la tentazione esercita un'efficacia straordi-
naria sopra di noi, quando ci trova oziosi (4).
Nelle tue tentazioni immagina di esser vicino
a Gesù crocifisso e baciando e ribaciando il suo
costato, digli: — Qui è la mia speranza, qui la fonte
viva della mia felicità; ecco il cuore della mia ani-
ma, ecco l'anima del mio cuore. Nulla mi staccherà
mai dal mio amore: lo stringo e non lo laseierò (5),
(1) L. MCMLXXIV ( t . XXI, pp. 12-4).
(2) MATT., IV, 10, 7 ; L u e . iv, 12.
GB) L. DV (t. xiv, p. 111).
(4() S. R. LV (t. x, p. 197).
(5) Cant., in, 4.
172
finché non mi abbia messo al sicuro. — Ripe-
tigli sovente: — Che cosa posso avere io sopra la
terra o che cosa voglio mai per me nel cielo, se non
te, mio Gesù? Tu sei Dio del mio cuore e la porzione
che desiderose/- l'eternità (1). — Che temi? Odi il
Signore che dice ad Abramo ed anche a te: Non
'• mere, io sono il tuo scudo (2). Che cosa cerchi
-ulla terra fuori di Dio? Ecco che l'hai. Sta' saldo
nelle tue risoluzioni; rimani nella tua barca: venga
pure il vento e la tempesta: viva Gesù, non peri-
rai! Egli dormirà forse; ma a tempo e luogo si sve-
glierà per renderti la calma! (3).
San Pietro, dice il Vangelo (4), vedendo la vio-
-nza della tempesta, ebbe paura e, appena impau-
rito, cominciò a sommergersi; onde gridò: Signore,
'ali-ami. E il Signore lo prese per mano e gli disse:
')h, uomo di poca fede, perchè hai dubitato'ì Vedi
questo santo Apostolo: cammina a piedi asciutti so-
pra le acque, dove le onde e i venti non riuscireb-
bero a farlo sommergere; ma la paura del vento e
delle onde lo perderebbe, se il maestro non lo scam-
passe. La paura di un male è mal peggiore del
( 1 ) Ps. LXXII, 25, 26.
(2) Gen., xv, 1.
(3) MATT., VIII, 24-26.
(4) MATT., XIV, 29-31.
1

10.2 Page 92

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male. Oli, uomo di poca fede, perchè temi! No, non
temere; tu cammini nel mare fra venti e flutti, ma
con Gesù: che cosa vi è da temere? Ma se ti pren-
de la paura, grida forte: — Oh, Signore, salvami!
— Egli ti stenderà la mano: allora tu stringila be-
ne, e va' avanti allegramente (1).
Mai in vita mia io avevo avuto il menomo sento-
re di tentazione contro la mia professione, quando
un giorno, ai primi di marzo del 1608, senza che io
vi pensassi, me ne venne una. Non era già il desi-
derio di non essere nello stato ecclesiastico: questa
sarebbe stata troppo grossa: ma ecco come andò la
cosa. Poco prima, parlando con persone di mia con-
fidenza, io avevo detto che, se fossi ancora libero
e mi trovassi erede di un ducato, sceglierei sempre
egualmente lo stato ecclesiastico, tanto esso mi pia-
ce. Allora, che è che non è, mi sorse nell'anima un
contrasto, il quale mi durò un po' di tempo. Pare-
vami di vederlo giù, molto giù, in fondo in fon-
do alla parte inferiore dell'anima, gonfiare gon-
fiare come un rospo. Ma io me ne feci beffe, nè
volli manco pensare se vi pensassi: così andò pre-
sto in fumo, nè più lo vidi. Mi venne ben in mente
di preoccuparmi della cosa, ma avrei guastato tutto:
alla fine riflettei meco stesso che io non meritava
G ) L. CCCLIX (T. XIII, pp. 210-211).
1
ili godere una pace così profonda, che il nemico
non ardisse nemmeno di guardare da lungi le mie
mura. Stiamo tranquilli. La fede, la speranza, la ca-
rità, che sono i capisaldi del nostro cuore, stanno
pur esse esposte al vento, benché non vadano sog-
gette a crolli: come vorremmo che ne fossero immu-
ni le nostre risoluzioni? Contentiamoci che il nostro
libero resti bene e profondamente radicato, senza
pretendere che neppure una foglia ne venga agita-
ta (1).
I vantaggi.
Nel tempo della tentazione guarda all'intenzio-
ne di Dio; non già che si possa pensare o dire
• he egli ci tenta: ohibò! Dio non può fare questo (2)
ma solo permette che siamo tentati e provati. E per
inai fine, se non per agguerrirci, fortificarci, ren-
derci gagliardi e animosi nel suo servizio per l'ac-
quisto delle vere e solide virtù? S'illude chi crede
• li acquistare le virtù e giungere al possesso della
perfezione senza essere tentato in senso contrario.
Vaneggiano i mondani, quando pensano che le a-
nime pie non siano tentate; ma più vano è il lamen-
(1) L. CDXXXIII (t. XIII, p. 1666-7).
(2) JAC., i, 13.
175

10.3 Page 93

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tarsi e dolersi che fanno le anime divote per le loro
tentazioni <5 aridità, potendo esse da queste ricava-
re molto vantaggio (1).
La virtù forte non si acquista mai in tempo di
pace, quando non siamo esercitati da tentazioni in
contrario. Chi è molto dolce, quando non ha con-
traddizioni e non ha conquistato questa virtù con la
spada sguainata, sarà esemplarissimo flncliè si vuole
e di grande edificazione; ma mettilo alla prova, e lo
vedrai dibattersi e mostrare che la sua dolcezza non
era virtù forte .e salda, ma più immaginaria che,
reale (J).
Poi, piace tanto a Dio l'umiltà, che egli ci tenta
qualche volta, 11011 per farci commettere il male, ma
per mostrarci con la nostra propria esperienza quello
che siamo; così permette che diciamo 0 facciamo
qualche grossa sciocchezza 0 altra cosa simile clie ci
dia motivo di abbassarci (3).
Talvolta, pensando di esserci interamente sba-
razzati dei vecchi nemici, sui quali abbiamo da tem-
po riportato vittoria, ce li vediamo ricomparire da
un'altra parte, donde meno si aspettava. È proprio
così: il più sapiente degli uomini, Salomone, che
(1) S. R. ILI (t. IX, pp. 24-5).
(2) E. xvi (t. vi, p. 294).
(3) S. R. LXI (t. x, p. 305).
176
aveva fatto cose mirabili in gioventù, ritenendosi
ornai sicuro di sè per la lunga durata delle sue virtù
e pigliando fidanza dagli anni passati, allorché sem-
brava fuori di tiro, fu sorpreso dal nemico che in
via ordinaria egli avrebbe dovuto temere di meno
(1). Questo serve a darci due lezioni importantissi-
me: una, che dobbiamo sempre diffidare di noi stes-
si, camminare in santo timore, chiedere continua-
mente gli aiuti del Cielo, vivere in umile divozione;
l'altra, che i nostri nemici possono venir respinti,
ma non uccisi. Ci lasciano qualche volta iu pace, ma
lo fauno per muoverci una guerra più accanita.
Con tutto ciò non iscoraggiarti punto, ma con
serena vigilanza prendi tempo e modo a guarire l'a-
nima dal male, che potrebbe aver ricevuto da si-
mili assalti, umiliandoti profondamente dinanzi al
Signore, uè meravigliandoti della tua miseria. Sa-
rebbe proprio da stupire, se non andassimo soggetti
a questi assalti e a queste miserie.
Certe scosse ci fanno rientrare in noi medesimi
ci fan considerare la nostra fragilità e ricorrere più
fervorosamente al Signore. San Pietro camminava
franco e sicuro sulle onde: si leva il vento e le onde
sembra che lo vogliano inghiottire: allora egli gri-
da: Signore, salvami. E il Signore, prendendolo per
(1) / Reg., xi.
1

10.4 Page 94

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la mano: Uomo di poca fede, gli dice, perchè dubi-
ti? (1). Fra gli sconvolgimenti delle passioni, fra i
venti e le burrasche delle tentazioni, noi invochiamo
il Salvatore; se egli permette che siamo agitati, lo
fa appunto per provocarci a invocarlo con più ar-
dore.
Insomma, non angustiarti o per lo meno non tur-
barti per essere stato turbato, non alterarti per es-
sere stato alterato, non inquietarti per essere stato
inquietato da queste fastidiose passioni; ma ripiglia
il tuo cuore e rimettilo pian piano nelle mani del
Signore, supplicandolo di guarirlo. Fa' poi dal can-
to tuo tutto quello che potrai con rinnovare propo-
nimenti, con leggere libri adatti a produrre tale gua-
rigione, con usare altri mezzi opportuni-..così facen-
do guadagnerai molto nella tua perdita e godrai
miglior salute in grazia della tua malattia (2).
(1) MATT., XIV, 29-31.
(2) L.CMX (t. xvr, 63-4).
1
CAPO SECONDO.
Dello stato religioso e della vita religiosa,
§ 1. I CONSIGLI EVANGELICI
NEGL'INSEGNAMENTI DELLA SCRITTURA
E NELLA PRATICA DELLA CHIESA.
Insegnamenti della Scrittura.
Un giovane ricco diceva al Signore d'aver osser-
vato i comandamenti di Dio fin dalla giovinezza; e
il Signore che vede tutto, miratolo, gli mostrò af-
fetto, segno che erano state vere le sue parole, e poi
gli diede questo avvertimento: Se vuoi essere perfet-
to, va?, vendi quanto possiedi, e avrai un tesoro nel
cielo, e vieni e seguimi (1). San Pietro ci presenta
l'esempio suo e de' suoi compagni: JVoi abbiamo ab
bandonato tutto e ti abbiam seguitato. E il Signore gli
rispose con questa solenne promessa: Voi che mi
(1) MARC., X, 17-21; MATT., x i x , 16-21.
179

10.5 Page 95

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avete seguito, sederete su dodici troni e giudicherete le
dodici tribù d'Israele; e chiunque avrà abbandonato
la casa o i fratelli o le sorelle o il padre o la madre
o la moglie o i figliuoli o i poderi per amor mio, ri-
ceverà il centuplo e possederà la vita eterna (1). E
dopo le parole, ecco l'esempio. Il Figliuolo dell'uo-
mo non ha dove posare la testa (2); si fece povero per
arricchire noi (3); egli viveva di limosina, dice san
Luca (4): Varie donne lo assistevano con le loro sostan-
ze. In due Salmi (5) che, secondo l'interpretazione
di san Pietro (6) e san Paolo (7), toccano la sua perso-
na", è chiamato mendico. Inviando i suoi Aspostoli a
predicare, ordinò di non prender nulla per il viaggio,
eccetto il solo bastone, e di non portare pane, non bi-
saccia, non denaro nella borsa, ma di calzare i sandali
e di non aver due vesti da vestirsi (8). Questi insegna-
menti non sono comandi assoluti, benché quest'ul-
timo fosse per un tempo comando; furono però sa-
lutari consigli ed esempi.
(1) MATT., XIX, 27-9.
(2) lb., vili, 20.
(3) II Cor., Vili, 9.
(4) Lue., vm, 3.
(5; Pss. vm, 22; xxxix, 18.
(6) Act., i, 20.
(7) Hebr., X, 7.
(8) MARC., VI, 8, 9.
180
Ed ecco altri insegnamenti sopra di uu altro
punto. Vi sono degli eunuchi che son tali dalla na-
scita; e vi sono degli eunuchi che tali sono stati fatti
dagli uomini, e ve ne sono di quelli che si son fatti
eunuchi da loro stessi per amore del regno de' cieli.
Chi può capire, capisca (1). È quello che era stato
predetto da Isaia (2): Non dica l'eunuco: Ecco che io
sono un legno secco. Queste cose dice il Signore agli eu-
nuchi: Coloro che osserveranno i miei sabati e ameran-
no quello che io voglio e manterranno il patto con me,
darò loro nella mia casa e dentro le mie muraglie
un posto e un nome migliore di quello che danno i
figli e le figlie: un nome sempiterno io darò loro; che
mai perirà. Chi non vede qui che il vangelo coincide
esattamente con la profezia? E nell'Apocalisse (3)
quelli che cantavano un nuovo cantico, che nessun al-
tro poteva cantare, erano i vergini; questi seguono
l'Agnello, dovunque vada. A questo si riferiscono le
esortazioni di san Paolo: A quei che non hanno
moglie, e alle vedove, io dico che è bene per loro che
se ne stiano così, come anch'io (4). Intorno alle ver-
gini io non ho comandamento del Signore; ma dò con-
(1) MATT., XIX, 12.
(2) Is., LVI, 3-5.
(3) Apoc., xiv, 3, 4.
(4) l Cor., vii, 8.
1

10.6 Page 96

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siglio, come avendo ottenuto dal Signore misericor-
dia,, perchè io sia fedele (1). E ne adduce la ragione.
Colui che è senza moglie, ha sollecitudine delle cose
del Signore, del come piacere a Dio. Ma chi è am-
mogliato, ha sollecitudine delle cose del mondo, del
come piacere alla moglie, ed è diviso. E la donna
non maritata e la vergine han pensiero delle cose del
Signore, affine di essere sante di corpo e di spirito;
invece la maritata ha pensiero delle cose del mondo
del come piacere al marito. Or questo io lo dico per
vostro vantaggio; non per allacciarvi, ma per quello
che è' onesto, e che dia facoltà di servire al Signore
senza impedimento (2). E più avanti: Chi dunque ma-
rita la sua fanciulla, fa bene, e chi non la marita,
fa meglio (3). Poi parlando, della vedova: Sposi chi
vuole, purché secondo il Signore. Ma sarà più beata
se si resterà così, secondo il mio consiglio; or io mi
penso d'avere io pure lo spirito di Dio (4). Questi
gl'insegnamenti del Signore e degli Apostoli, questo
l'esempio del Signore, della Madonna, di san Gio-
vanni Battista, di san Paolo, di san Giovanni e di
san Giacomo; che vissero in verginità.
(1) ib„ 25.
(2) I Cor., vili, 32-35.
(3) lb., 38.
(4) lb., 39-40
182
Viene infine l'umilissima obbedienza del Signore,
particolarmente indicata nel Vangelo, non solo ver-
so il Padre (1) a cui era obbligato, ma anche a San
Giuseppe, alla Madre (2), a Cesare, al quale pagò
il tributo (3), e a tutte le creature nella sua Pas-
sione per amor nostro: Umiliò se stesso, fatto ub-
bidiente sino alla morte, e morte di croce (4). E ri-
guardo all'umiltà: Il Figlio dell'uomo non è venuto
per essere servito, ma per servire (5). Io sono tra voi
come uno che serve (6). Ripete e ribadisce la stessa
dolce lezione, quando dice: Imparate da me che son
mansueto e umile di cuore (7). Se alcuno vuole tener-
mi dietro, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e
mi seguiti (8).Chi osserva i comandamenti, rinuncia
a se stesso, quanto basta per esser salvo: è questo
un umiliarsi sufficientemente per venir esaltato; ma
vi rimane un'altra obbedienza, umiltà e rinuncia di
sè, a cui c'invitano l'esempio e gl'insegnamenti del
Signore. Il Signore vuole che noi impariamo la sua
(1) JOAN, VI, 38.
(2) Lue., il, 51.
(3) MATT., XVII, 26.
(4) Philipp., IL, 8.'
( 5 ; MATTH., XX, 28.
(6) Lue., xxn, 27.
(7) MATT., XI, 29.
(8) Lue., ix, 23.
1

10.7 Page 97

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umiltà, ed egli si umiliava non solo a chi, in quan-
to portava la forma di aereo (1), egli era inferiore,
ma anche ai propri inferiori; dunque il Signore de-
sidera che, com'egli si è abbassato, non mai contro
il dovere, ma oltre il dovere, così noi obbediamo vo-
lontariamente a tutte le creature per amor suo (2).
Vuole che rinunciamo a noi stessi conforme al
suo esempio; ma egii ha rinunciato così energica-
mente alla sua volontà, che si è assoggettato alla
croce ed ha servito i suoi discepoli e servi, e ce lo
attesta colui che, trovando la cosa troppo strana,
gli diceva: Non laverai a me i piedi in eterno (3)..
In queste parole e azioni dunque non riconosciamo
un dolce invito a una sommissione e obbedienza vo-
lontaria verso coloro a cui d'altronde non abbiamo
obbligo di obbedire? E in quésto non appoggiando-
ci menomamente alla nostra volontà e al nostro giu-
dizio, secondo l'avviso del Savio (4), ma facendoci
sudditi e servi a Dio, e agli uomini per amor di Dio?
Così i Recabiti sono lodati altamente in Gere-
mia (5), perchè obbedirono al loro padre Gionadab
in cose molto dure e straordinarie, a cui egli non
(1) Philipp., IL, 7.
(2) I PETR., II, 13.
(3) JOAN., XIII, 8.
(4) Prov., IDI, 5.
(5) IEREM., XXXV.
184
aveva autorità di obbligarli; cioè di non ber vino,
nè essi nè qualunque dei loro, di non seminare, di
non piantare nè possedere vigne, di non fabbricare.
I padri certo non possono legare tanto strettamente
le mani dei loro discendenti, se questi non vi prestano
volontario assenso; orbene i Recabiti sono lodati e
benedetti da Dio, che approvò quindi l'obbedienza
volontaria, con cui avevano rinunciato a se stessi
mediante una rinuncia straordinaria e più perfetta.
Pratica della Chiesa.
Questi esempi e insegnamenti così elevati di po-
vertà, castità, rinnegamento di sé, a chi furono la-
sciati? Alla Chiesa. La Chiesa dunque li doveva
mettere in pratica, altrimenti sarebbe stato inutile,
che le fossero stati proposti; ed essa ha saputo be-
nissimo farli suoi e trarne profitto.
Non appena il Signore ascese al Cielo, i Cristiani
presero a vendere ognuno la roba sua, recandone il
prezzo ai piedi degli Apostoli; e san Pietro, che pra-
ticava il primo consiglio,' diceva: Io non ho argento
nè oro (1); san Filippo aveva quattro figliuole ver-
gini (2), che Eusebio attesta essere sempre rimaste
(1) Act., i(v, 34-5; ni, 6.
(2) lb., XXI, 9.
15

10.8 Page 98

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tali (1); san Paolo conservò la verginità o il celiba-
to (2), come fecero pure san Giovanni e san Gia-
como; e quando san Paolo (3) riprende e condanna
certe giovani vedove, che, divenute insolenti contro di
Cristo, vogliono rimaritarsi, e hanno la dannazione,
perchè hanno renduta vana la prima fede, il quarto
Concilio di Cartagine (4) (a cui assistette sant'A-
gostino), sant'Epifanio (5), san Girolamo (6) e tutti
gli antichi, intendono delle vedove che, fatto voto a
Dio di serbare castità, rompevano il voto, contraen-
do matrimonio contro la fede data precedentemente
allo Sposo celeste. Fin d'allora dunque il consiglio
evangelico e quello di san Paolo erano praticati nel-
la Chiesa.
Dice Eusebio di Cesarea (7) che gli Apostoli in-
segnarono due generi di vita, una dei comandamen-
ti e l'altra dei consigli; e sembra che fosse veramen-
te così, perchè sul modello di vita perfetta segui-
ta e consigliata dagli Apostoli, un'infinità di Ori-
ti) Hist., v, 24.
(2) I Cor., Vii, 7.
(3) / Tim., v, 11, 12.
(4) Can. iv.
(5) De haeres., LXII, 6.
(6) Adv. Jovin., I, 13.
(7) Quaestio ad Marinum, Patrol, gr., XMI, col. 1007.
1
stia ni conformarono la vita loro, come largamente
narrano le storie. Chi non sa le notizie meraviglio-
se date da Filone ebreo sulla vita dei primi Cristiani
d'Alessandria, come- riferiscono Eusebio (1), Nice-
foro (2), san Girolamo (3) ed Epifanio (4)? San Ci-
priano serbò continenza e diede tutto il suo ai po-
veri, secondo il racconto di Ponzio diacono; il me-
desimo fecero san Paolo primo eremita, sant'An-
tonio e sant'Ilarione. San Paolino, vescovo di Sola,
uscito da illustre famiglia, donò tutta la sua roba
ai poveri, e, come alleggeritosi di pesante fardello,
disse addio al paese natio e al suo parentado
per servire più perfettamente Dio; del cui esempio
si valse san Martino per abbandonar tutto e sti-
molare altri alla medesima perfezione. Sappiamo da
Giorgio (5), patriarca di Alessandria, che san Gio-
vanni Crisostomo lasciò ogni còsa e si fece mona-
co. Potidiano, gentiluomo dell'Africa, tornando dal-
ia corte imperiale, narrò a sant'Agostino che vi era
in Egitto gran numero di monasteri e di religiosi, i
quali conducevano una vita molto tranquilla e sem-
(1) Hist., ii, 16.
(2) Hist., IH, 15.
(3) De viris ili, 8 e 11.
(4) De haeres., xxix, 4 e 5.
(5) In Vita s. Jo. Chrys.

10.9 Page 99

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plice; e che a Milano, fuori di città, trovavasi un
monastero popolato di religiosi, viventi in unione
e fraternità grande, sotto l'alta direzione di san-
t'Ambrogio; narrò pure die a Treveri esisteva un
monastero di buoni religiosi, dove si erano fatti mo-
naci due cortigiani dell'imperatore, e che le loro
giovani fidanzate, udita la risoluzione degli sposi,
avevano egualmente votato a Dio la loro verginità,
ritirandosi dal mondo per vivere in religiosa pover-
tà e castità. (1). Di sant'Agostino parimente raccon-
ta Possidio che fondò un monastero (2), al che ac-
cenna pure il Santo in una lettera (3). Questi gran-
di Padri furono poi seguiti dai santi Gregorio, Gio-
vanni Damasceno, Brunone, Romualdo, Bernardo,
Domenico, Francesco, Luigi, Antonio, Vincenzo,
Tommaso, Bonaventura, i quali tutti, rinunciato
con un eterno addio al mondo e alle sue pompe, si
offrirono in perfetto olocausto al Dio vivente.
Conclusione.
Ora, conchiudiamo. Il Signore ha fatto registrare
nelle Scritture questi insegnamenti e consigli sulla
(1) Confess., vm, 6.
(2) Vita s. Aug., 5, 11.
(3) Epist. ccxi.
188
castità, povertà e obbedienza; li ha praticati e fatti
praticare nella sua Chiesa nascente; tutta la Scrit-
tura e tutta la vita del Signore fu una scuola per
la Chiesa: la Chiesa quindi doveva farne prò, adot-
tando nel suo seno la pratica di questa castità, po-
vertà e obbedienza o rinnegamento di sè; il che la
Chiesa ha fatto in ogni tempo. Nella vera Chiesa
deve rifulgere sempre la perfezione della vita cri-
stiana; non già che ognuno nella Chiesa sia tenuto
a seguirla: basta che tale perfezione si trovi in
membri e parti ragguardevoli, perchè nulla di quan-
to è scritto e consigliato, cada invano (1).
§ 2. VOCAZIONE RELIGIOSA.
Come conoscere le vere vocazioni.
Molti sono i chiamati da Dio allo stato religioso,
ma pochi sono costanti nel conservare la vocazione;
il motivo è che si comincia bene, ma poi non si cor-
risponde con fedeltà alla grazia nè si persevera nel-
l'uso dei mezzi atti a mantenere la vocazione e a
renderla buona e sicura (2). Altri invece non hanuo
(1) Controverses, I, 3, 11 (t. i, pp. 111-118).
(2) l i PETR., I, 10.
1

10.10 Page 100

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vera vocazione; ma-, entrati che siano, la loro vo-
cazione viene regolarizzata e ratificata da Dio. Così
si vedono certuni abbracciare lo stato religioso per
disgusto e tedio del mondo; e benché tali vocazioni
non sembrino buone, pure tanti, venuti così allo
stato religioso, han fatto ottima riuscita nel servi-
zio di Dio. Altri sono spinti a entrare in religione
da qualche disastro e infortunio toccato loro nel
mondo, altri da difetto di sanità o di bellezza fisica;
e benché costoro abbiano motivi punto buoni, Dio
nondimeno si vale di siffatti motivi per chiamarli.
Le vie di Dio sono incomprensibili, e imperscruta-
bili i suoi giudizi (1), e ammirabili si mostrano nella
varietà delle vocazioni e dei mezzi da Lui usati per
chiamare le sue creature al proprio servizio: voca-
zioni, degne tutte di onore e rispetto.
In tanta varietà di vocazioni e differenza di mo-
tivi, come si farà a riconoscere il buono dal cattivo
per non rimanere ingannati? La cosa è della mas-
sima importanza e insieme difficilissima; tuttavia
non mancano interamente i mezzi per riconoscere
la bontà di una vocazione. Dei tanti che potrei
allegare, ne dirò uno solo, il migliore di tutti. La
buona vocazione altro non è che una ferma e co-
stante volontà di servire Dio nel modo e nel luogo,
(1) Rom., xi, 33.
/
190
a cui la persona si sente da Dio chiamata; ecco il
miglior indizio per conoscere quando una vocazione
sia buona.
Bada però che, quando dico una ferma e costante
volontà di servir Dio, non intendo che la persona
faccia fin da principio tutto quel che deve fare nella
sua vocazione, con tanta fermezza e costanza da
non provarvi ripugnanze, ritrosie o disgusti. No,
io non dico questo; e nemmeno che tale fermezza
e costanza la faccia andar esente da colpe, nè che
si mantenga salda al punto di non vacillare mai nè
variare nel proposito fatto di usare i mezzi condu-
centi alla perfezione. No, no, non dico questo io:
ognuno va soggetto a passioni, mutamenti, vicis-
situdini: a chi oggi piace una cosa, domani piacerà
un'altra. Non da questa diversità di movimenti e
sentimenti bisogna quindi giudicare della fermezza
e costanza di una volontà nel bene una volta ab-
bracciato, ma dal mantenervisi essa risoluta nono-
stante i disgusti o raffreddamenti che provi nell'a-
more di qualche virtù, e dal non lasciare per que-
sto di usare i mezzi indicatile a fine di acquistarla.
Cosicché, per avere un segno di buona vocazione,
non fa bisogno di una costanza che sia sensibile,
ma di una cóstanza reale che alberghi nella parte
superiore dello spirito.
Dunque, per sapere se Dio voglia che uno si
191

11 Pages 101-110

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11.1 Page 101

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faccia religioso, non è necessario aspettare eli'ci gli
parli sensibilmente, o che gli mandi un Angelo dal
Cielo, a significargli la sua volontà, e nemmeno oc-
corre ricevere qualche rivelazione in proposito. Non
si richiede neppure un esame di dieci o dodici dot-
tori, per vedere se l'ispirazione sia buona o cattiva
e se convenga seguirla o no; ma basta secondare
e coltivare il primo impulso, e poi non darsi pen-
siero, se vengano disgusti e raffreddamenti; purché
si tenga sempre ferma la volontà nella ricerca di
quel bene che è stato presentato, Dio non mancherà
di far riuscire tutto a sua gloria.
Come Dio chiama allo stato religioso.
Dio ha molti mezzi per chiamare gli uomini al
suo servizio. Egli si serve ora della predicazione,
ora della lettura di buoni libri. Gli uni furono
chiamati nell'atto di udire le sante parole del Van-
gelo, come san Francesco e sant'Antonio udendo
il detto del Signore: Va', vendi tutto quel che hai
e dallo ai poveri, e poi seguimi (1); e: Chi vuol
venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la
sua croce e mi segua (2). Altri sono stati chiamati
(10 MATT., XIX, 21.
(2) MATT., XVH, 2 2 ; L u e . , i x , 23.
192
per mezzo di disgusti, disgrazie e dolori che, so-
praggiunti loro nel mondo, li hanno indispettiti
contro di quello, inducendoli ad abbandonarlo. Il
Signore si è valso spesso di un tal mezzo per chia-
mare al suo servizio persone, che non avrebbe po-
tuto prendere in altro modo. Poiché, sebbene Dio
sia onnipotente e possa tutto quel che vuole, pure
non ci vuol togliere la libertà, una volta che ce
l'ha data; e quando ci chiama a servirlo, vuole che
vi andiamo di buon grado e non per forza nè per
costringimento. I suddetti vanno a Dio, è vero,
perchè indispettiti contro il mondo che li ha stan-
cati o perchè spinti da travagli e afflizioni sofferte;
ma non è men vero che si dànno a> Dio con volontà
sincera, e molto spesso questi tali riescono bene nel
servizio di Dio e divengono grandi santi, e più gran-
di talvolta che non quelli entrati con vocazioni più
segnalate.
Un gentiluomo, bravo secondo il mondo, stando
un giorno tutto agghindato sopra un bel cavallo
adorno di magnifica bardatura, faceva di tutto per
piacere alle dame, ch'egli occhieggiava; e in quel
suo pavoneggiarsi, ecco che il destriero lo rovesciò
nel fango, donde uscì tutto inzaccherato e lordo.
Il povero gentiluomo restò così umiliato e confuso
di tale accidente, che, indignatissimo, risolse all'i-
stante di farsi religioso, dicendo: — Oh, mondo tra-
193
7. - E. CERTA, La Dita religiosa ecc.

11.2 Page 102

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ditore! tu ti sei burlato di me, ma anch'io mi bur-
lerò di te; tu mi hai giocato questo tiro, ma anch'io
te ne giocherò un altro: non avrò più nulla da fare
con te, e da questo momento risolvo di farmi reli-
gioso. — E difatti fu ricevuto in religione, dove
visse santamente; eppure la sua vocazione veniva
da un dispetto.
Yi souo anche altri, i cui motivi furono ancor
peggiori. Io so da buona fonte che un gentiluomo
dei nostri tempi, bravo di animo e di corpo, di alto
lignaggio, vedendo passare dei padri Cappucciui,
disse agli altri signori, con cui si trovava: — Mi
salta il ticchio di conoscere còme vivano questi scal-
zati e di andar da loro, con l'intenzione non di re-
starvi sempre, ma di fermarmi solo un mese o tre
settimane, per osservar meglio che cosa fanno, e
poi ridere con voi altri alle loro spalle. — Così
macchinò, così fece le trattative, così fu ricevuto.
Ma la divina Provvidenza, che si era servita di que-
sto mezzo per trarlo fuori dal mondo, Cambiò in
buona la sua cattiva intenzione, e colui che si pen-
sava di cogliere gli altri, restò colto egli stesso;
infatti era dimorato appena pochi giorni con quei
buoni religiosi, che si sentì tutto mutato. Perseverò
fedelmente nella sua vocazione e divenne un gran
servo di Dio.
Yi sono altri ancora, la cui vocazione non è per
1
sè migliore della precedente; parlo di chi si fa re-
ligioso per qualche difetto tìsico: e quel che sembra
peggio, persone simili vengono portate alla religione
dai loro padri e madri, che quando hanno figli di-
fettosi, li lasciano nel canto del fuoco e dicono:
— Questo per il mondo uon serve, bisogna mandar-
lo in convento; procurargli un benefìcio ecclesiastico,
e sarà tanto di sollievo per la casa. — E i figli si
lasciano condurre dove si vuole, nella speranza di
vivere dei beni dell'altare. Altri, carichi di figli,
dicono: — Alleggeriamo la casa, mandiamone a
farsi religiosi, affinchè stiano bene gli altri. — Ma
Dio mostra sovente in questo la grandezza della sua
clemenza e misericordia, valendosi di tali intenzioni,
in sè niente lodevoli, per fare, di persone tali, dei
grandi suoi servitori; nel che egli si rivela vera-
mente ammirabile.
Così il divino Artefice si compiace di costruire
belli edifici con legno tutto storto e apparentemente
disadatto per qualsiasi uso. Chi non se n'intende,
al vedere nella bottega di un falegname un pezzo
di legno storto, si stupirebbe, sentendo dire che que-
gli fabbricherà un bel capolavoro, e: — Se è così, gli
si risponderebbe, quanto bisognerà darvi di pialla,
perchè ne esca un'opera di tal genere! — Ebbene,
d'ordinario la divina Provvidenza fa bei capolavori
con queste storte e sinistre intenzioni, come fa en-

11.3 Page 103

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trare al suo banchetto zoppi e ciechi (1), per mo-
strarci che non è indispensabile aver due occhi o due
piedi per andare in paradiso e che vai meglio andar
in paradiso con una gamba, un occhio, un braccio
solo, che non averne due e dannarsi (2). Ora per-
sone di tal fatta, entrate a questo modo in religione,
si son viste soventi volte fare grandi frutti e per-
severare fedelmente nella loro vocazione.
Perseveranza nella vocazione.
Altri infine, certamente chiamati, non hanno
perseverato, ma, dopo essere dimorati qualche tempo
in religione, hanno abbandonato tutto. Di questo
abbiamo esempio in Giuda, del quale non si può
dubitare che fosse realmente chiamato, perchè lo
scelse e chiamò all'apostolato il Signore stesso di
sua bocca. Donde avvenne, che così ben chiamato,
non perseverò nella vocazione1? La causa fu che abusò
della sua libertà e non volle usare i mezzi datigli
da Dio a tal fine; ma invece di appigliarsi a quelli
e valersene a suo vantaggio, ne abusò e ne fe' getto
e andò perduto. È cosa certa che Dio, quando chiama
(1) Lue., xiv, 21.
(2) MATT., XVIII, 8, 9 ; L u e . , >tx, 4 2 .
196
ad uno stato, si obbliga per questo stesso con la
sua provvidenza divina a fornirgli tutti gli aiuti ne-
cessari a perfezionarsi in tale stato.
Dicendosi che il Signore si obbliga, nessuno pensi
che ve l'abbiamo obbligato noi col seguire la sua
chiamata; obbligar Dio non è possibile: ma Dio si
obbliga da sè, mosso e indotto a farlo dalle viscere
della sua infinita bontà e misericordia; talché, facen-
domi io religioso, il Signore si è obbligato a darmi
tutto il necessario per essere buon religioso, non già
per dovere, ma per sua infinita misericordia e prov-
videnza. Così, quando un gran re fa leva di soldati
per la guerra, la sua preveggenza e prudenza ri-
chiede ch'ei prepari armi per armarli; perchè, qual
criterio vi sarebbe a mandarli in battaglia senz'armi?
Se non lo facesse, incorrerebbe la taccia d'impru-
dente. Ora, la Maestà divina non manca mai di cura
nè di previdenza in questa materia; e per farcene
meglio persuasi, vi si è obbligata, sicché non bisogna
mai aver alcun dubbio che, non facendo noi bene,
la causa provenga da mancamento suo; anzi, Dio
ha tanta liberalità, che porge quei mezzi perfino
quando non li ha promessi e a chi non si è punto
obbligato, perchè non l'ha chiamato. Osserva ancora
che, quando dico che Dio si è obbligato di dare ai
chiamati i mezzi necessari per divenire perfetti nella
loro vocazione, non dico che li dia subito al mo-
1

11.4 Page 104

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mento dell'ingresso. nello stato religioso. Oli, no,
nessuno pensi che entrare in religione ed essere per-
fetto sia un punto solo; basta venirvi per attendere
alla perfezione, adoperando i mezzi a ciò confacenti.
In questo appunto si ìichiede la ferma e costante
volontà che dicevamo, cioè nell'appigliarsi a tutti i
mezzi di perfezionamento, che ognuno ha nello stato
a cui è chiamato (1).
Si chiariscono alcuni dubbi.
1. Non credere che il tuo desiderio di ritirarti dal
mondo sia contrario alla volontà di Dio, perchè è
contrario a quella di chi ha da lui il potere di co-
mandarti e il dovere di dirigerti. Se si trattasse di
coloro, ai quali Dio ha dato il potere e imposto il
dovere di dirigere l'anima tua e di comandarti nelle
cose dello spirito, certamente avresti ragione; per-
chè, obbedendo loro, tu non puoi sbagliare, benché
possano essi ingannarsi e consigliarti malamente,
massime se lo fanno con altri scopi che non siano
la tua salvezza e il tuo vantaggio spirituale. Ma
quanto a coloro che il Signore ti ha dati per la tua
direzione nelle cose domestiche e temporali, t'ingan-
( l ) E. XVII (t. vi, pp. 311-322).
198
neresti, credendo loro nelle cose, in cui non hanno
sopra di te autorità di sorta. Se in casi simili si do-
vesse dare ascolto ai genitori, cioè alla carne e al
sangue, sarebbero ben pochi quei che abbraccereb-
bero la perfezione della vita cristiana (1).
2. Credi tu che Dio conceda sempre la vocazione
religiosa secondo le condizioni naturali e le incli-
nazioni dell'animo di coloro che egli chiama? Niente
affatto: la vita religiosa non è vita naturale, ma
superiore alla natura e bisogna che sia la grazia a
dare questa vita ed a formarne l'anima. La divina
Provvidenza, è vero, fa servire talvolta la natura
alla grazia; ma questo è tutt' altro che ordinario o
frequente. Colui che gridava con sì alto lamento: Il
bene che voglio, non lo faccio, ma quel male che non
voglio, quello io fo; cioè: Nella mia carne non abita
il bene; perchè il volere l'ho dappresso, ma a far il
bene interamente non trovo la via. Infelice me! chi
mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di
Dio per Gesù Cristo; oppure: lo rendo grazie a Dio
per Gesù Cristo. Dunque io stesso con la mente
servo alla legge di Dio e con la carne alla legge del
peccato (2), — colui, dico, mostrava chiaramente
che "la sua natura non secondava guari la grazia
(1) L. DCIX (t. xiv, pp. 325-6).
(2) Rom., il, 18-20, 24, 25.
1

11.5 Page 105

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e che le sue inclinazioni non istavano guari sog-
gette alle ispirazioni. Eppure è uno dei più grandi
servitori che Dio abbia avuto in queso mondo, sic-
ché alla fine potè dire con verità: Viro non già io,
ma vive in me Cristo (1), dopoché la grazia ebbe
assoggettata la natura, e le ispirazioni ebbero sog-
giogate le inclinazioni (2).
3. Il timore di trovar superiori indiscreti e al-
tre apprensioni simili svaniranno davanti al Siguore
crocifisso, che ti stringerai al cuore. Un animo ge-
neroso della generosità del mondo acquisterà una
forza nuova (3) e diventerà generoso della genero-
sità dei Santi e degli Angeli. Vedrai allora la fri-
volezza del giudizio umano, quale si rivela nel lin-
guaggio del mondo, e te ne riderai. Ti piacerà la
parola della croce, che i pagani ebbero in conto di
follia e i Giudei di scandalo, mentre invece per noi,
cioè per quelli che sono salvati, è la somma sapienza,
forza e virtù di Dio (4) (5).
4. Sarebbe certo desiderabile che si andasse da
Dio semplicemente e puramente per il bene di es-
ci) Galat., IL, 20.
(2) L. MDCLV (t. xix, pp. 216-7).
(3) Is„ XL, 31.
(4) 7 Cor., i, 10, 23, 24.
(5) L. MDCLV (t. x i x , p. 217).
0
sere tutti suoi. Ma Dio non tira a sè con eguali
motivi tutti que'li che chiama; anzi pochi vi sono
che vadano al suo servizio proprio soltanto per es-
sere suoi e servirlo. Fra le donne, la cui conver-
sione è celebrata nel Vangelo, soltanto la Madda-
lena andò a Gesù per amore e con l'amore; l'adùl-
tera vi fu portata dalla pubblica onta, come la Sa-
maritana dall'onta privata; la Cananea vi andò per
trovare sollievo nella sua afflizione temporale. San
Paolo primo eremita, a quindici anni d'età, si ritirò
nella spelonca per evitare la persecuzioue; Sant'I-
gnazio di Loyola vi giunse attraverso la tribola-
zione; e così dicasi di tanti altri.
Non si deve pretendere che comincino tutti dalla
perfezione: poco importa il come si cominci, pur-
ché vi sia la buona risoluzione di proseguir bene e
finire. Quei che costretti entrano al convito nuziale
del Vangelo (1), non lasciarono per questo di man-
giare e bere bene. Delle disposizioni di chi entra
in religione si giudichi osservandone specialmente
la condotta successiva e la perseveranza; vi sono
anime che non vi entrerebbero, se il mondo facesse
loro buon viso e che pure si veggono ben disposta
a disprezzare sul serio la vanità del secolo (2).
(1) Lue., xnv, 16, 23.
(2) L. MCMIII (t. xx, pp. 282-3).
201

11.6 Page 106

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Corrispondenza alla vocazione.
Felici i religiosi, perchè appartengono al nume-
ro di coloro, che hanno udito la parola di Colui, il
quale solo ha potenza di penetrare i cuori (1). Egli
ha detto loro una parola in segreto, ed essi hanno
obbedito; giacché egli solo può parlare al cuore de-
gli uomini e per tal modo dar loro la grazia di fare
quanto da essi vuole. Nè si pensi alcuno che le vo-
cazioni vengano da altri che da Lui. Gli uomini
hanno un beli'eccitarci: facciano pur tutto il pos-
sibile, spieghino anche tutta la loro eloquenza e fi-
losofia per indurre un'anima a entrare in religione,
a scegliersi una forma di vita religiosa: tutta fatica
sprecala! Dio bisogna che tocchi il cuore e vi parli.
Tanti purtroppo entrano in religione spinti o for-
zati dagli uomini, e questi non sono mossi dallo
Spirito di Dio: perciò accadono sovente grossi guai,
e, se la misericordia divina non tocca quei poveri
cuori, non vengono a convertirsi nella vita religio-
sa, ma a pervertirla. E vivendo licenziosamente nella
religione, che cosa debbono aspettarsi, se non la
dannazione? Oh, sarebbe stato meglio che fossero
rimasti nel mondo per potersi ivi salvare con l'os-
servanza dei divini comandamenti!
(1) I Reg., x v i , 7 ; Fs. v ì i , 1 0 ; JEKEM., XI, 2 0 .
202
Ma tu sei venuto, perchè chiamato da Dio, che va
movendo i cuori di chi gli piace condurre dove vuole.
Altro dunque non ti resta, che di ben osservare le
tue regole, convertendoti talmente in quelle, che tu
divenga la tua vocazione personificata. Nessun altro
pensiero debbono avere i religiosi, perchè nelle loro
regole veggono la volontà di Dio, che dice e mo-
stra loro quanto hanno da fare per giungere alla
perfezione e unione con lui. E per arrivarvi fa d'uopo
che conformino la loro volontà alla sua. Quando si
vogliono unire insieme due legni, vi si applica la
squadra, poi se ne taglia il superfluo, indi si fanno
combaciare; lo stesso dicasi delle pietre, che si squa-
drano per metterle in un edificio. Ciò fatto, si dice:
— Ecco che combaciano bene. — Nostra squadra
è la volontà di Dio, a cui dobbiamo adattare la no-
stra, rinunciando ad essa e mortificandola. Questo
non è senza fatica, ma non vi sono rose senza spine:
non temiamo di pungerci per cogliere in mezzo alle
difficoltà sì belle rose, che dopo si schiuderanno,
mandando una fragranza., che ci rallegrerà il cuo-
re(l).
Dio ti regga con la sua santa mano e rassodi
ognor più il generoso e celestiale proposito che ti ha
ispirato di consacrare a Lui tutta la tua vita. È cosa
(1) S. R. xxxv (t. ix, pp. 364-5).
0

11.7 Page 107

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giusta ecl equa che coloro che vivono, non vivano per
se stessi, ma per colui che per essi morì (1). Un'a-
nima grande spinge tutti i suoi peusieri, affetti e
ideali sino all'infinito dell'eternità; ed eterna qual è,
stima troppo basso quello che non è eterno, troppo
piccolo quello che non è infinito, e veleggiando su
tutte le meschine delizie, o meglio, vili passatempi
che questa misera vita ci può presentare, tiene gli
occhi fìssi nell'immensità degli anni e dei beni
eterni (2).
§ 3. OBBIETTIVI DELLA VITA RELIGIOSA.
Spogliarsi dell'uomo
vecchio e rivestirsi del nuovo.
Il fine, per cui il Signore ha istituito la vita re-
ligiosa, è che ci uniamo più perfettamente a Dio e
stiamo crocifissi con Gesù Cristo sul monte Calvario
per vivere poi con Lui nel cielo; al quale scopo bi-
sogna spogliarsi dell'uomo vecchio e rivestirsi del
nuovo (3). Chi si fa religioso con altre intenzioni,
(1) Il Cor., v, 15.
(2) L. CMXCII (t. x v i , p. 213).
(,.) Rom., VI, 8; Il Tini., II, 11, 12.
20-4
s'inganna della grossa. Non si entra in religione per
istar bene, perchè ivi bisogna mortificarsi in tutto
quello che nel mondo poteva dilettare la natura;
bisogna ivi rinunciare al proprio giudizio, vincere
inclinazioni e passioni, stare perfettamente soggetti
ai superiori, insomma spogliarsi dell'uomo vecchio,
di se stessi, della propria carne, delle proprie abi-
tudini, già cotanto secondate nel mondo.
L'uomo vecchio è il nostro primo padre Adamo
e la nostra prima madre Eva. Da essi abbiamo rice-
vuto il peccato e tutte le nostre passioni: ira, cupidi-
gia che ci fa bramare le ricchezze e gli onori, amore
alla propria stima, suscettibilità che ci rende gelosi
della libertà e restii alla sottomissione. Ora, chi entra
nello stato religioso, deve mortificare tutto questo e
prendere abitudini affatto contrarie al mondo, per vi-
vere secondo l'uomo nuovo. Piace la libertà, e quivi
si sta soggetti alle regole, all'obbedienza, agli ordini
dei superiori. Piace nel mondo e si accarezza molto
!a stima propria, e in religione si pratica l'.umiltà,
l'esercizio della qual virtù mette presto in possesso
delle altre. Il Signore l'ha praticata in grado eminen-
te e unico, non essendovi creatura al mondo, e nem-
meno tutta la moltitudine dei Santi e degli Angeli
insieme, che possa arrivare all'umiltà del nostro Sal-
vatore e Maestro. Nella, religione si vive in perfetta
castità, contraria alla libertà della carne e del san-
205

11.8 Page 108

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gue; in perfetta povertà, contraria alle ricchezze e
ai comodi, a cui tanta importanza dà il mondo; si
mortifica il proprio giudizio, cosa difficilissima; si
sacrifica l'amore al quieto vivere, il gusto di star
con Dio nell'orazione per goderne le dolcezze.
Ancorché quest'ultimo desiderio sembri buono,
pure non è questo il fine, per cui le religioni sono
istituite: il fine è di servir Dio più perfettamente,
spogliandosi dell'uomo vecchio per vestirsi del nuo-
vo. Deporre gli abiti esterni, come si fa da chi entra
in religione, è cosa di nessun valore, se non si pren-
dono le abitudini e le costumanze della vita reli-
giosa. Per comparire davanti all'eterno Padre bi-
sogna indossare l'assisa del suo Figlio, disprezzando
tutto quello che il mondo tiene in tanta stima.
Isacco, abbracciando il figliuolo Giacobbe ch'ei cre-
deva Esaù, e sentendo la fragranza delle vesti di
quest'ultimo, come l'odore di un campo fiorito, gli
diede la benedizione della celeste eredità. Rivèstiti
dunque anche tu delle abitudini del Figliuolo di Dio,
per meritarti di ricevere la divina benedizione. For-
tunate le anime che entrano in religione con questo
fine altissimo di coglier ivi i fiori delle grazie divine
e goderne poi nel Cielo i frutti! Ma quei che fossero
entrati per altri motivi, non si perdano d'animo;
giacché si può sempre raddrizzare l'intenzione col
renderla buona o migliore, ma a patto di deporre
206
le spoglie dell'uomo vecchio e prendere le abitudini
proprie della vita religiosa (1).
Erigere in sè la dimora di Dio.
Questo del motivo per cui si entra in religione,
è un punto di capitalissima importanza. Bisogna
assolutamente che sia il Signore a edificare la città;
altrimenti, comunque la si edifichi, cadrà in rovina
(2). Mi spiegherò con una similitudine. Un architetto
che voglia costruire un palazzo fa due cose: prima,
considera se il suo edificio debba servire per un
privato, per un principe o per un re, dovendosi in
ognuno di questi casi procedere diversamente; poi
fa a suo bell'agio il conto, se i mezzi gli bastino
all'impresa: chi si volesse mettere a fabbricare un
palazzo e non avesse di che terminare il suo edificio,
diverrebbe la favola della gente, per aver comin-
ciato una cosa, da cui non poteva uscir con onore (3).
Finalmente l'architetto si decide a demolire la vec-
chia fabbrica, che sorge nel posto, dove intende
tirar su la nuova.
Tu vuoi costruire un grande edificio, vuoi cioè
(1) S. R. xxm (t. ix, pp. 202-7 passim).
(2) Ps. cxxvi, 1.
(3) Lue., xiv, 28-30.
2

11.9 Page 109

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erigere in te la dimora di Dio. Ebbene, pondera
con molta serietà se abbi animo e risolutezza ba-
stante a demolire te stesso e a crocifìggerti, o me-
glio, a lasciare che Dio ti demolisca e ti crocifigga,
per riedificarti e fare di te il tempio vivo della sua
Maestà. Voglio dire che tuo unico fine dev'essere
di unirti a Dio, come Gesù Cristo si è unito al Pa-
dre suo, il che fece morendo sulla croce; chè io
non parlo dell'unione generale clie si opera col Bat-
tesimo, in cui i Cristiani si uniscono a Dio rice-
vendo il sacramento e carattere del Cristiano e si
obbligano a osservare i comandamenti di Dio e
della Chiesa, a fare opere buone, a praticare le
virtù della fede, speranza e carità: unione suffi-
ciente per aver diritto al Paradiso. Unendosi con
tal mezzo a Dio come al loro Dio, i Cristiani non
si obbligano a fare di più, avendo raggiunto la
propria meta per la strada comune e ampia dei co-
mandamenti. Ma per te non è così: oltre a questa
obbligazione che hai comune con tutti i cristiani,
Dio con tratto speciale di benevolenza ha scelto te
perchè sii tutto suo.
Vivere unicamente a Dio.
Intendi bene che cosa voglia dir esser religióso.
Vuol dire star uniti a Dio mediante una continua
208
mortificazione di noi stessi e non vivere che per
Dio, mantenendo sempre cuore, occhi, lingua, mani,
ogni parte del nostro essere al servizio della Mae-
stà divina. A tal effetto lo stato religioso ti porge
mezzi acconci, quali sono orazione, letture, silen-
zio, ritiro del cuore in Dio solo, elevazioni inces-
santi al Signore. E poiché non vi potremo arrivare
senza la pratica ininterrotta della mortificazione di
tutte le passioni, inclinazioni, tendenze e ripugnan-
ze, siamo obbligati a vegliare del continuo sopja di
noi per farle morire. Se il granello di frumento, ca-
duto in terra, non muore, rimane infecondo; ma se
vi marcisce, produce il centuplo (1): il Signore parla
chiaro, l'ha detto con la sua santissimai bocca. Per
conseguenza, chi aspira a indossare l'abito religioso
o a fare la santa professione, pensi e ripensi se è
proprio risoluto di morire a se stesso per vivere
unicamente a Dio. Ci pensi bene, finché ne ha il
tempo; io non voglio lusingar nessuno e dico fran-
camente a chiunque desideri vivere secondo la na-
tura che se ne stia nel mondo; chi all'incontro è de-
ciso di vivere secondo la grazia, entri nello stato
religioso, che è scuola di abnegazione e mortifica-
zione e nient'altro.
Sì, bisogna fare opere degne della propria voca-
(1) JOAN., XII, 24, 25.
2

11.10 Page 110

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zione, cioè morire a sè. ili tutte le cose, tanto quelle
cattive o inutili, quanto quelle buone e conformi
al nostro gusto. Credi forse che quei buoni religiosi
del deserto, arrivati a così intima unione con Dio,
vi siamo giunti secondando le proprie inclinazioni ?
No, no! si mortificarono anche nelle cose più sante;
e benché provassero gran diletto a cantare le divine
lodi, a leggere, a pregare e a far altro, pure non
lo facevano per la soddisfazione che loro ne veniva;
anzi^ volontariamente si privavano di tali diletti
per dedicarsi ad occupazioni laboriose e dure.
È bensì vero che le anime religiose godono molte
dolcezze e gioie fra le mortificazioni e le pratiche
della loro vocazione, perchè a loro principalmente
largisce lo. Spirito Santo i suoi preziosi doni; ma
esse non debbono cercarvi altro che Dio e la mor-
tificazione dei loro gusti, delle loro inclinazioni e
passioni, perchè, cercando cose diverse, non vi tro-
verebbero mai le consolazioni da esse bramate. Se
non che, armiamoci di coraggio invitto per non
istancarci mai con noi stessi, poiché avremo sempre
da-fare e da troncare. Compito dei religiosi deve
essere di coltivare sempre il loro spirito, per isradi-
carne tutte le male erbe, che la nostra depravata na-
tura vi fa ogni giorno pullulare, sicché ci sembra di
essere, sempre da capo. Come chi lavora per altri
la terra non bisogna che si crucci di una scarsa rac-
210
colta, perchè non merita biasimo, quando ha pro-
curato di ben coltivare e seminare; così non deve
accorarsi il religioso se non vede subito i frutti
della perfezione e delle virtù, purché faccia del suo
meglio per coltivar bene il terreno del proprio cuore
e reciderne quanto vi scorga contrario alla perfe-
zione, a cui è tenuto di aspirare: nello stato di per-
fetta guarigione non saremo mai prima di entrare
in Paradiso.
Praticare fedelmente la regola.
' Morire a noi, dicevo, perchè viva in noi Dio:
non è possibile ottenere l'unione dell'anima con Dio
per altro mezzo che per via del'a mortificazione.
Parole dure queste: Bisogna morire! Ma sono se-
guite da parole assai dolci: Per essere uniti a Dio.
Tieni presente che nessun uomo di senno mette il
vino nuovo in un otre vecchio (1); il liquore del-
l'amor divino, dove regna il vecchio Adamo, nou
può entrare: necessità esige che questo venga di-
strutto. Ma come distruggerlo? Con l'esatta obbe-
dienza alle regole. Io ti assicuro da parte di Dio
che col fare esattamente quanto esse prescrivono,
arriverai senza dubbio alla meta dovuta, cioè alla
(1) MATT., TX, 17.
2

12 Pages 111-120

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12.1 Page 111

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tua unione con Dio. Nota clie io dico di « fare »,
la perfezione non si ottiene standosene con le mani
in mano: bisogna mettersi di buona voglia a vin-
cere se stesso; bisogna vivere secondo la ragione,
la regola e l'obbedienza, e non secondo le inclina-
zioni portate dal mondo. La religione tollera bensì
che vi portiamo le nostre cattive abitudini, pas-
sioni e inclinazioni, ma non che viviamo a seconda
di quelle. Ci dà le regole, perchè ai nostri cuori
facciano da strettoi, spremendone tutto quello che
è contrario a Dio. Vivi dunque risolutamente a te-
nore di esse.
Lo spirito della regola non si porta, venendo
dal mondo alla religione, ma si acquista col fedel-
mente praticare la regola stessa. La medesima cosa
io dico delle virtù proprie della tua Congregazione:
Dio infallantemente te le darà se bai risolutezza d'a-
nimo e fai il possibile per acquistarle. Buon per noi,
se un quarto d'ora prima di morire ci troveremo
adorni dell'abito di queste virtù! Tutta là nostra
vita sarà bene spesa, se l'avremo impiegata a cuci-
re ora un pezzo, ora un altro; giacché non con un
pezzo solo si fa quel santo abito, ma vi si richiede
buon numero di pezzi. Tu t'immagini forse che la
perfezione vi si debba trovare beli'e fatta, sicché
basti mettersela addosso, come un vestito qualsiasi;
110, no, non è così!
212
Non dar tregua alle passioni.
Sul principio la forza delle passioni potrebbe
trattenere taluno dal mettersi in cammino. Ma, co-
raggio! Lo stato religioso è una scuola, dove si sta
a prender lezione; il maestro non pretende sempre
che gli scolari sappianole cose a menadito: gli ba-
s a che si stia attenti e si faccia il possibile per
imparare. Facciamo dunque ciò che possiamo, e Dio
sarà contento e i nostri superiori anche. Non vedi
quei che imparano la scherma, come cadano spesso?
così pure quei che imparano a cavalcare. Ma non
si dànno tuttavia per vinti: altro è venir abbattuto
qualche volta e altro -restar vinto. Le passioni ti fa-
ranno talora resistenza, e perciò dirai: — Con que-
ste passioni io non sono fatto per la vita religiosa.
— No, non è vero; per la religione non è gran
vanto plasmare uno spirito già formato, un'anima
dolce e tranquilla per natura; ma essa fa gran caso
del ridurre a virtù anime dalle forti propensioni,
perchè tali auime, se perseverano, passano avanti
alle altre, conquistando a forza di buon volere ciò
che queste posseggono senza difficoltà.
Nessuno pretende da te che non abbia passioni:
2

12.2 Page 112

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è cosa che non istà in tuo potere, e Dio vuole che
che tu le senta Ano alla morte per tuo maggior me-
rito; neppure si pretende che siano poco forti, per-
chè questo equivarrebbe a dire che un'anima incli-
nata male è incapace di servir Dio. No, Dio non
respinge da sè una persona, se in lei non riscontra
della malizia. Uno che abbia questo o quel tempe-
ramento, che vada soggetto a questa o a quella
passione, che cosa ci può fare 1? Tutto sta dunque
negli atti che si compiono sotto un impluso dipen-
dente dalla nostra volontà; poiché il peccato è tal-
mente volontario, che dove non è consenso, non è
peccato. Poniamo che mi assalga l'ira. Io le dirò:
— Bolli, ribolli, scoppia, se vuoi; ma io non farò
nulla per secondarti, non dirò neanche una parola
per tuo incitamento. — Ecco il potere lasciatoci da
Dio; se così non fosse, con l'esigere da noi la per-
fezione egli vorrebbe l'impossibile, e sarebbe un'in-
giustizia: cosa assurda in Dio.
Mosè, quando scese dal monte, dove aveva par-
lato con Dio, vide il popolo adorare un vitèllo d'oro,
ch'ei si era fabbricato. Acceso di giusta ira nel suo
zelo per la gloria di Dio, disse rivolto ai Leviti: —
Chi sta per il Signore, impugni la spada e uccida
chiunque gli si pari davanti, senza risparmiare nè
padre, nè madre, nè fratello, nè sorella: tutti a
morte! — I Leviti diedero di piglio alla spada, e il
214
più bravo fu colui che più ne uccise (1). Così anche
noi stringiamo la spada della mortificazione per uc-
cidere e annientare le nostre passioni, e chi ne
avrà più da uccidere, sarà il più valoroso: basterà
che si cooperi alla grazia (2).
§ 4. ALCUNI BENI DELLO STATO RELIGIOSO.
Punto di partenza.
Nello stato religioso non si entra solamente per
amar Dio. Tutti i Cristiani lo debbono amare e son
tenuti a fare quello che fanno per motivo di carità,
e se non per puro amore, almeno per un amore in-
teressato; poiché chi vuol salvarsi e andar in Para-
diso, bisogna che ami Dio e il prossimo: altrimenti,
si va all'inferno. Ma siccome il trambusto del mondo
raffredda e mette a repentaglio la, carità, ecco che
si entra nello stato religioso. E perchè? forse per
amor di Dio? no, ma per amarlo meglio. Eorse per
andar salvi? no, ma per salvarsi meglio. Quindi,
non per piacere a Dio ma per piacergli meglio (3).
(1) Exod., XXXII, 26-28.
(2) E. xx (t. vi, pp. 371, 372-9).
(3) S. R. XLVIII (t. x, pp. 86-7).
25

12.3 Page 113

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Stato molto perfetto.
Numerosi cristiani protestano di voler offrire a
Dio tutto quel che hanno, tutto quel che sono, perchè
convinti che tutto gli appartiene, e preferiscono la
morte al peccato mortale. Ma d'altro canto vogliono
riserbare a sè il disporre dei loro beni, e benché ri-
soluti di vivere nell'osservanza dei comandamenti
di Dio, pure vogliono ritenersi la volontà di fare li-
beramente certe • cosette, che 11011 sono contrarie
alla carità, ma le fanno di sbieco: cosette perico-
lose, che pur non facendo perdere la carità, non la-
sciano però di spiacere a Dio. Dio è geloso del no-
stro amore; quindi va mandando le sue ispirazioni
ad anime che separa di mezzo alle altre, ed esse con
energica risoluzione consacrano cuore e affetti, corpo
e beni al suo onore e alla sua gloria, abbracciando
10 stato religioso per vivere con maggior perfezione
e con minor pericolo di perdersi o di sviarsi dal
loro santo proposito.
Questo stato è certamente il più perfetto dopo
quello di chi porta il carattere, della consacrazione
episcopale, non essendo più possibile dipartirsene.
11 martirio non è uno stato a motivo della sua brevi-
tà: devesi chiamare strada corta e rapida, piutto-
stooliò stato. Le anime dunque così generose da
1
mettersi interamente nelle mani di Dio senz'alcuna
riserva, sottoponendosi alle leggi dello stato reli-
gioso, e legandovisi così strettamente da non po-
tersene più sciogliere, fanno non solo come tutti
i fiori gialli che si volgono sempre dalla parte del
sole, ma anche come il girasole, che non si limita
a volgere verso di quello il fiore, le foglie e lo stelo,
ma per un meraviglioso segreto anche la radice di
sotterra. Così queste anime benedette si volgono
e si donano a Dio non per metà, ma tutte intiere:
gli offrono se medesime e quanto da esse dipende:
foglie di vane speranze porte loro dal mondo, flore
della purezza, frutti di opere, e per sempre.
Esse dicono al Signore, sull'esempio del grande
san Paolo: Signore, che vuoi ch'io faccia"ì (1). Detto
questo, si sottomettono alla direzione dei loro supe-
riori, in guisa da non essere mai più padrone di sè
uè della propria volontà, evitando così un peri-
colo accennato dal grande san Bernardo, il quale
assicura che chi si governa da sè, è governato da
un grande sciocco (2). Perchè vorremmo fare da noi
nelle cose spirituali, se da noi non facciamo nelle
corporali? I medici quando cadono ammalati, non
chiamano altri medici a giudicare dei rimedi con-
ti) Act., ix, 6.
(2) Epist. LXXXVII (ad Oger.), 7.
217

12.4 Page 114

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venienti! Così pure gli avvocati non difendono le
loro cause, tanto è solito l'amor proprio far velo alla
ragione.
10 trovo nella neve tre qualità che rispondono
alle condizioni delle anime scelte da Dio a essere
piix specialmente sue nello stato religioso: il can-
dore, l'obbedienza, la fecondità. Tralascio altre pro-
prietà, come sarebbe il non cader sul mare, almeno
sull'alto mare: dove potrei osservare che parimente
la santa e speciale ispirazione di darsi a Dio senza
riserva non cade sulle anime che navigano nell'alto
mare di questo misero mondo e sono elevate alle
più alte dignità. So bene che vi furono delle ecce-
zioni; ma si riducono a casi rari, rarissimi.
11 candore della neve è paragonabile al candore
di un'anima pura. Quello è un candore che supera
ogni altro; e che sia così lo vedi nel Vangelo (1),
dove si dice che, trasfigurandosi il Signore, le sue
vesti divennero Manche come la neve. La qual cosa mo-
stra chiaramente che nulla trovavasi di più bianco.
Anche il reale salmista (2), allorché deplora dinanzi
a Dio che l'anima sua sia per il peccato divenuta più
nera d'un etiope, lo prega di volerlo spruzzare del
suo issopo, che glie la renderà più bianca della neve.
(1) MATT., XVII, 1-9.
(2) Ps. L, 9.
218
Ora, le anime da Dio chiamate allo'stato religioso,
si fanno bianche come la neve, perchè per il voto di
castità rinunciano a tutti i piaceri della carne, tanto
leciti che illeciti; in premio di che ricevono i diletti
e le soddisfazioni dello spirito. Il santo profeta (1)
diceva al Signore: Una sola cosa ti ho domandata,
questa io cerco ancora, che tu m'introduca nel tuo
santo tempio, a fine di godervi del tuo gaudio.
Quasi volesse dire che nessun altro godrà le dolci
carezze nè le deliziose gioie del Signore, se non
chi rinuncierà a tutti i vani godimenti della carne
e del mondo, essendo impossibile avere gli uni e
gli altri insieme. Fortunate dunque le anime, che
rinunciano assolutamente a tutte le delizie e vo-
luttà della carne, comuni alle bestie, per godere
quelle dello spirito, che ci rendono simili agli An-
geli!
Seconda qualità della neve, l'obbedienza. Lo dice
chiaro il divino Salmista (2), affermando che essa
fa la volontà di Dio e obbedisce alla sua parola.
Vedila come cade: vien giù adagio adagio! Vedi
come rimane in terra, finché piaccia a Dio d'inviare
un raggio di sole, che la venga a sciogliere e far spa-
rire. Quant'è obbediente la neve! Così sono le anime
(1) Ps. xxvi, 4.
(2) I Cor., x, 31; Coloss., ni, 17.
2

12.5 Page 115

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consacrate al Signore: vivono docili e sottomesse
in tutto e per tutto alla prudente direzione di chi
comanda, senza lasciarsi più dominare dalla propria
volontà uè dal proprio giudizio. B come lian rinun-
ciato a qualsiasi piacere carnale, così rinunciano
interamente alle soddisfazioni che solevano pren-
dersi nel mondo col seguire l'impulso della volontà
propria in tutte le loro azioni. Ormai non le da-
ranno più ascolto, ma starai] soggette alle regole
del loro Istituto. Oh, la dolce e amorosa soggezione,
che ci rende cari, a Dio!
Terzo, la neve è feconda. I contadini e i lavoratori
del'a terra dicono che quando cade nell'inverno di-
screta quantità di neve, il raccolto sarà migliore
l'anno dopo, perchè la neve impedisce i grandi geli.
E sebbene la neve non possa per la sua freddezza
riscaldare la terra, tuttavia la feconda per la ragio-
ne anzidetta, perchè sotto la neve si conserva bene
il grano. La vocazione religiosa è una vocazione
feconda, perchè rende fertili e assai meritorie le azio-
ni più indifferenti. Bere, mangiare, dormire sono
cose per sè indifferenti e prive di merito; invece il re-
ligioso pensando a mangiare e bere per sostentare il
corpo, affinchè, unito com'è all'anima, trascorra in-
sieme questa vita secondo il volere di Dio, e pen-
sando a dormire per aver in seguito maggior vigore
nel divino servizio, obbedisce al grande Apostolo
220
che dice (1): 0 mangiate o beviate, tutto fate nel
nome di Dio. Ohi agisce in altra maniera, non vive
da cristiano, ma da bestia.
Ora, nello stato religioso tutte le azioni si com-
piono tanto più nel nome di Dio, in quanto che vi
si eseguisce ogni cosa per obbedienza. Si ha un bel
sentire appetito! Non si va a mangiare, se la cam-
pana non chiama: non si va dunque a mangiare
per soddisfare l'appetito, ma per obbedire. Pari-
mente, non si va a dormire perchè si ha sonno nè
per rinvigorire il corpo; se non è l'ora e se la cam-
pana, voce dell'obbedienza, non dà il segnale, non
ci si va. Ohe gran fortuna, poter obbedire in tutto
quello che facciamo! (2)
Lasciam dunque stare il mondo, valga esso quel
che vale. Quell'Egitto con i suoi agli, con le sue ci-
polle, con le sue carni putride ci metta sempre nau-
sea, affinchè possiamo assaporare di più la manna
deliziosa, che il Signore ci darà in mezzo al deserto,
in cui siamo entrati (3)'. Quand'ero alla corte di
Francia, la vista di quelle grandezze mondane mi
faceva apparir maggiore la grandezza delle cristiane
virtù e mi faceva maggiormente stimare il disprezzo
(1) Ps. CXLVIII, 8.
(2) S. R. XIII (t. ix, pp. 93-8).
(3) L. MMX (t. xxi, p. 57).
\\
,
221

12.6 Page 116

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ili quelle altre. Qual differenza fra quell'accolta di
ambiziosi (questo, e non altro, è una corte) e una
comunità di anime religiose, che ambiscono unica-
mente il cielo! Oh, se si sapesse dove sta il vero
bene! (1). È cosa ben differente a vedersi uno scia-
me di api che tutte cooperano a fornire di miele
un alveare, e un mucchio di vespe che si accani-
scono sopra un cadavere! (2).
I Cristiani sogliono venir rappresentati sotto il
simbolo di pesci rigenerati dall'acqua battesimale,
e tutti -andiamo per questo mare del mondo; ma vi
sono di quelli molto privilegiati. Parlo di coloro
che la Bontà divina trae fuori dal mondo, trasfor-
mandoli di pesci in uccelli e mettendoli nello stato
religioso, come dentro una gabbia. Ora gli uccelli,
sebbene scendano spesso a terra e vi si fermino,
pure si dicono uccelli del cielo; così le persone re-
ligiose, benché stiano sopra la terra, non vi ten-
gono però il cuore, perchè sì spesso lo innalzano
al Cielo e talmente hanno desideri, affetti, pensieri
rivolti a Dio, mirando solo al suo beneplacito, che
sono veri uccelli del Cielo. Quanto sono felici tali
anime! Certo, è possibile salvarsi e consegu;re la
perfez'one anche nel mondo e in qualsivoglia stato;
(1) L. MDUII (t. x i x , p. 20).
(2) L. MDLIII (t. x i x , p. 22).
22^
pure quei che vanno per questo mare, rischiano
maggiormente di perdersi per naufragio, mentre
nello stato religioso riesce più agevole procurare
la propria salvezza e raggiungere la perfezione (1).
Stabile condizione di vita.
Le persone del mondo non hanno stabilità di vi-
ta; poiché, per quanto alta sia la dignità a cui sono
innalzate, stanno sempre in procinto di cadere; ma
gli ecclesiastici e religiosi vivono in uno stato Asso,
essendo mediante i voti legati strettamente a Dio,
sicché non è più in poter loro d'indietreggiare dalla
presa risoluzione. Allorché pertanto, ispirati da Dio,
abbiamo scelto una simile condizione di vita, tenia-
movici fermi senza permettere alla nostra mente di
cambiar idea o di pensare che serviremmo meglio il
Signore e provvederemmo meglio alla nostra sal-
vezza in altra religione. Quando fossimo in quell'al-
tra, vorremmo essere in altra ancora, sicché non si
farebbe che cambiare.
Vi è della gente ben bizzarra! Molti parlano di
bizzarria, ma non tutti sanno clie cosa voglia dire
essere bizzarro: cercherò di spiegarlo e farlo capire.
Bizzarre sono certe persone che non hanno stabilità
(1) S. R. XIV (t. IX. p. 102).
223

12.7 Page 117

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nè fermezza nelle loro risoluzioni, sempre intente
a fare e disfare disegir, senza mai attuarli con la
serietà e riflessione dovuta: qumdi cambiano ad
ogni tratto e non si fermano mai a nulla. Un abito
rosso, bianco e verde, diciamo che è bizzarro; pa-
rimente di certe persone che non finiscono mai di
mutar disegni e propositi senza trovar mai dove
fermarsi, diciamo che sono bizzarre, quasi vestite
a vari colori: prima di giallo, volendo una cosa e,
poi di rosso, volendone un'altra. Oggi vogliono
una religione, domani un'altra; oggi godono di una
compagnia, domani non più, e non vogliono più
nemmen vederla nè sentirne parlare; un momento
piace loro questo, e un momento dopo lo detestano.
Abbiamo davvero tutti gran motivo di umiliarci
per questi effetti della debolezza, e leggerezza umana.
Non dico già che sia possibile ovviarvi in modo da
non avere mai tentazioni; ma d i o che dobbiamo
con la parte superiore dell'anima stringerci a Dio
e star saldi nelle nostre risoluzioni. Esaminiamo-
ci spesse volte al giorno come pratichiamo l'umiltà,
conservando la quale, conserverento altresì la voca-
zione e i nostri buoni proponimenti.
Il Signore stesso ce ne ha dato l'esempio; poiché
dal primo istante della sua concezione (1) pro-
( 1 ) Hebr., x, 5-7 ; Ps. xxxix, 9.
224
pose di riscattarci, umiliandosi fino alla morte di
croce. E quand'era in croce, gli si disse da più
parti: Se sei Figlio di Dio, salva te stesso, scendi
dalla croce (1); ma egli non volle scendere, appunto
I>erchè era Figlio di Dio, e stette fermo nella riso-
luzione di redimerci con la sua morte, perseveran-
do sino alla fine. A imitazione del Salvatore, se
siamo veri figli di Dio, noi non ci dipartiremo mai
dalle nostre risoluzioni, ma saremo perseveranti nel-
l'umiliarci e nel servirlo sino al termine della vita,
non avendo egli promesso la corona a chi comincia,
ma a chi persevera (2). Se siam risoluti davvero di
servir il Signore e di essere tutti suoi, si avrà un
bel contrariarci, avrà il mondo un bel dirci che scen-
diamo dalla croce e che saremo figli di Dio restando
nel mondo come entrando nello stato religioso: se
siamo veri figli di Dio, dureremo saldi nei nostri
propositi, perseverando sino alla morte nell'umiltà
e nel^servizio di Dio (3).
Stato religioso e martirio.
Ohe bella sorte dobbiamo stimare la nostra di
portare la, croce e di venir crocifissi col nostro dol-
c i ) MATT., XXVII, 40.
(2) Apoc., il, 10.
(3) S. R. xiv (t. ix, pp. 102-5).
225
8. - E. CERI A. Lu niia religiosa ecc.

12.8 Page 118

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ce Salvatore! I Martiri bevevano d'un flato il loro
calice, chi in un'Ora, chi in due o tre giorni, chi
in un mese; ma si può esser martiri e berlo, non
in così breve tempo, ma per tutta la vita, morti-
ficandosi del continuo, come fanno e devono fare
i religiosi e le religiose, chiamati da Dio a quello
stato, perchè portino la croce e siano con lui cro-
cifissi. Non è gran martirio non fare mai la pro-
pria volontà, piegare il giudizio, scorticar il cuore,
vuotarlo di tutti gli affetti impuri e di tutto quello
che non è Dio, non vivere conforme alle proprie
inclinazioni è tendenze, ma secondo la volontà
divina e la ragione? È un martirio molto lungo e
fastidioso, dovendo durare tutta la vita; ma per-
severandovi costanti, riceveremo alla fine una pre-
ziosa corona (1).
Per chi ben considera, questo perseverare a
far sempre la medesima vita, è un vero martirio.
Lo stato religioso vien detto anche paradiso da chi
lo sa comprendere, ma si deve pur chiamare mar-
tirio, perchè vi si martirizzano continuamente i ca-
pricci dello spirito umano e tutte le volontà proprie.
Non è un martirio andar sempre vestiti a un modo
senz'avere la libertà di abbellire o variare un po'
gli abiti, come si fa nel mondo? Non è un marti-
(1) S. R. XI (t. IX, p. 79).
226
rio mangiar sempre alla medesima ora e pressoché
le stesse vivande, come fanno i contadini, che d'or-
dinario non hanno per alimento altro che pane,
acqua e formaggio? Tuttavia non si accorciano la
vita per questo; anzi stanno meglio di quei delicati,
ai quali non si sa mai che vivanda si confaccia.
Altro martirio è far sempre le medesime pratiche (1).
Ma per me, quanto più mi addentro nella conoscen-
za del mondo, tanto più stimo felici quelli che sono
di Gesù Cristo, benché abbiano da soffrire per suo
amore (2). Su via! di mano in mano che gli anni
passano e l'eternità si avvicina, raddoppiamo la buo-
na volontà e solleviamo lo spirito a Dio, servendolo
con maggior diligenza in tutto quello che la voca-
zione esige da noi (3).
Tutti per ognuno e ognuno per tutti.
Uno dei precipui vantaggi della vita religiosa
è la santa unione prodotta dalla carità, unione tale,
che di più cuori forma un cuor solo e di più mem-
bri un sol corpo; tutti in religione diventano sif-
fattamente una cosa sola, che tutti i religiosi di
(1) S. R. LVI (t. x, pp. 228-9).
(2) I.. MCDXCVI (t. xviii, p. 333).
(3) L. DLXX (t. x i v , p. 2 4 4 ) .
2

12.9 Page 119

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un Ordine non sotto, a vedere, che un religioso solo.
Che bella unione è questa! Per essa i beni spiri-
tuali sono fusi insieme e posti in comune, come i
beui esteriori. Il religioso non ha niente di suo par-
ticolare, per il suo voto di povertà volontaria; per
la santa professione poi della santissima carità
tutte le virtù dei religiosi sono in comune, parteci-
pando tutti vicendevolmente delle rispettive opere
buone e tutti godendone il frutto, purché perseve-
rino nella carità e nell'osservanza delle regole pro-
prie dell'Istituto, a cui Dio li ha chiamati. Cosicché
colui che attende a lavori domestici o ad un'occu-
pazione qualsiasi, contempla nella persona di chi
fa orazione; e colui che riposa, partecipa al lavoro
dell'altro che è occupato per ordine del superiore (1).
Stato di privilegio e di predilezione.
La vita religiosa è un esercizio continuo di mor-
tificazione, di rinuncia, di spogliamento; vi si croci-
fìgge la carne con tutte le sue sensualità (2), la vo
lontà con tutti i suoi desideri; vi si rinuncia al mondo
e a tutte. le cose della terra per aspirare più da vi-
cino ai beni eterni e non aver altro in mira che di
(1) E. vi (t. vi, pp. 94, 95-6).
(2) Galat., v, 24.
2
piacere a Dio, senz'altra volontà che la sua e quella
dei superiori. Mi sembra perciò di udire quelli che en-
trano in religione parlar così: — È vero, mio Si-
gnore, e mio Dio, che nello stato religioso si pre-
dica la mortificazione più completa di noi stessi,
per obbedire alla santa raccomandazione fattaci da
voi: Chi vuol essere perfetto, è necessario che rinunci
a se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Quando
vogliamo entrare nello stato religioso, non ci ade-
scano con promesse di consolazioni, come fa il mondo
per attirare alcuno alla sua sequela; non ci offrono
beni della terra, nè onori, grandezze o dignità, ma u-
miliazioni, abbiezioni, mortificazioni. Ciò nonostante,
non lasceremo di schierarci sotto lo stendardo della
vostra santa protezione, sicurissimi che la vostra
Bontà , avendoci chiamati a questo genere di vita
più perfetto del comuue, più di quello cioè seguito
da chi professa di vivere cristianamente nel mondo,
ci darà forza e grazia a compiere quanto intrapren-
diamo oggi per la gloria del vostro santo nome e
per la salvezza delle anime nostre; perchè noi cre-
diamo fermamente che, secondo la parola del vo-
stro santo Apostolo (1), se morremo con voi in que-
sta vita, risusciteremo con voi nella gloria. —
Sicché tu puoi a buon diritto cantare allegra-
ti) Rotti., vi, 4, 5, 8; il Titti., il, 11.
É

12.10 Page 120

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mente il Non fecit taliter (1); il Signore non ha
usato la stessa fmisericordia con tutti, chiamando
ognuno all'odore dei suoi profumi (2) e all'univer-
sale rinuncia per suo amore: grazia insigne dav-
vero, perchè mezzo efficacissimo e ottimo a conse-
guire la salvezza. Quanto buona cosa è, dice il pro-
feta (3), che i fratelli vivano insieme uniti! Sì, cer-
tamente, perchè così a vicenda si spingono al bene.
Una delle cose più necessarie per salvarci è avere
sante compagnie in questa vita; perchè, a dir vero,
noi siamo d'ordinario quali sono coloro che amiamo
e pratichiamo (4).
Ringraziamo dunque con particolar affetto il no-
stro dolce Redentore della consacrazione che per sua
misericordia gli abbiam fatta dei nostri cuori e dei
nostri corpi mediante i voti. Quanto saremo felici,
se i nostri templi non saran violati! Vi risieda
ognora lo Spirito Santo, nè permetta che irriverenza
di sorta vi sia commessa; rimangano sempre case di
orazione e di preghiera, dove s'immolino sacrifìci di
lode, di mortificazione e d'amore (5).
( 1 ) Ps. CXLVII, 9.
(2) Cant., I, 3.
(3) Ps. cxxxu, 1.
j
(4) S. R. xxxi (t. ìx, pp. 309-311).
(5) L. CDLXXXIV (t. x i v , p. 3 6 ) .
230
Alcune considerazioni
per godere dei beni dello stato religioso.
1. Buon per noi, se avessimo tutto quello che
i nostri nomi significano! Non basta chiamarsi prete,
vescovo, religioso o religiosa; ma bisogna conside-
rare, se si meni una vita conforme al nome che si
porta, bisogna guardare nell'ufficio esercitato, nella
vocazione abbracciata, quale sia la nostra maniera
di condurci; guardare in una parola come sian te-
nute a dovere le nostre passioni e i nostri affetti,
come stia sottomesso il nostro giudizio, se le opere
nostre si accordino col nostro stato (1). Perchè tanti
escono dal mondo senza uscire con questo da se
stessi. Escono, ma per cercare i loro gusti, i loro
agi, le loro soddisfazioni, e quindi dopo tale uscita
Tivono in ansietà straordinarie, perchè l'amor pro-
prio è torbido, violento e dismodato. Guardiamoci
dall'essere di costoro! Usciamo dal mondo per ser-
vir Dio, per seguir Dio, per amar Dio (2).
2. Fa' come il Signore disse a santa Caterina
da Siena: — Tu pensa a me, e io mi prenderò pen-
ti) S. R. LII (t. x, p. 162).
(2) L. CDLXXX (t. x i v , p. 68).
2

13 Pages 121-130

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13.1 Page 121

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siero e cura di te — Pensa a ]Tacergli, e noii te-
mere: egli penserà a quello che ti sarà necessario;
ma tu procura davvero di sbandire dal cuore ogni
cosa che non sia Lui. Non facciamo come i carbonai,
i quali, benché tutti neri e lordi, non ci badano,
contenti di aver occhi e naso e figura d'uomini;
così i mondani si credono di fai e abbastanza, guar-
dandosi dai peccatacci. Alla corte del re ognuno
è sempre dietro ad acconciarsi e a guardarsi nello
speculilo per vedere se non abbia niente di mal
assettato; così per essere graditi al Signore, ci vuole
gran cura a non lasciarsi entrare nell'anima niente
che la possa macchiare e deturpare, perchè lo Sposo
celeste è così geloso del nostro cuore, da non tol-
lerare che altri lo possegga fuori di lui, il quale è
la consolazione per essenza e fuor del quale tutto
è amarezza. Serbando a Lui fedeltà, troverai che ;le
regole sono miele, zucchero le costituzioni, le morti-
ficazioni rose e l'obbedienza dolce riposo (1).
3. Fa specie il vedere dei religiosi che non istan-
no volentieri dove si trovano. Chi ha salute robu-
sta, non patisce l'aria; ma vi sono di quelli, che non
possono vivere se non cambiando clima. Quando sarà
che cercheremo Dio solo? Noi avventurati, quando
saremo giunti a tanto, perchè dappertutto avremo
(1) S. R. XLV (t. x, pp. 39-40).
.!
2
quello che andrem cercando, e cercheremo dapper-
tutto quello che avremo (1).
4. Sai che cosa è una casa religiosa? È scuola
•li diligente correzione, dove ogni anima deve ap-
prendere a lasciarsi lavorare, p'allare, levigare, af-
finchè, ben liscia e tutta uguale, possa venir con-
giunta, unita, fatta combaciare più esattamente
alla volontà di Dio. Voler essere corretto è segno
evidente di perfezione, perchè il conoscere di aver-
ne bisogno è il frutto principale dell'umiltà. La casa
religiosa è un ospedale di malati spirituali, che vo-
gliono esser guariti, e per ottenerlo si offrono pronti
a subire ferro, fuoco, ogni amaro di medicine. Tale
sii anche tu, senza far caso di quanto ti dirà in
contrario l'amor proprio; ma prendi adagio adagio,
con soavità e fervore, questa risoluzione: — O mo-
rire o guarire! ma poiché morire spiritualmente uon
voglio, voglio guarire; e per guarire, voglio subire
la cura della correzione e supplicare i medici di
non risparmiarmi nulla di quanto debbo soffrire per
aver la guarigione — (2).
5. Benché Giuda avesse abbandonato l'aposto-
lato, tuttavia l'apostolato non finì,^ma continuò a
sussistere; infatti il collegio apostolico non durò
(1) L. MDCCCXCI (t. x x , p. 2 6 5 ) .
(2) L. MDXLJX (t. x i x , p. 13).

13.2 Page 122

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t
solo finché visse il Signore che aveva chiamato e
riunito intorno a sè gli Apostoli, ma dopo la sua
morte gli Apostoli elessero un altro al posto del
traditore. Il che ci ammonisce che dobbiamo far
di tutto per ben custodire la nostra vocazione, af-
finchè, venendo noi meno, non sottentri un altro
a prendere il nostro posto. Se tu lasci la religione,
la religione non finirà per questo, poiché la Prov-
videnza invierà un altro a occupare il tuo luogo;
ma tu, lasciandola, dove andrai? Non lo so. Vi è
gran pericolo che disertando dal tuo posto in reli-
gione, tu venga a perdere conseguentemente il po-
sto che ti era preparato nel Cielo, e che al par di
Giuda te ne vada a trovare un altro nell'inferno.
Laonde conserva quello che hai (1) e non lasciartelo
portar via da altri; conserva la tua vocazione, nes-
suno te la tolga. Sii sempre vigilante ne' tuoi eser-
cizi, esamiua con accuratezza la tua maniera di vi-
vere, servi fedelmente a Dìo nella, tua vocazione,
paventando di perderla (2).
Le gioie della vita religiosa.
Io per me, quanto più veggo di questo misero
mondo, tanto più me lo sento venire in uggia. Oh,
(1) Apoc., in, i l .
(2) S. R. LVIII (t. x, pp. 261-2).
234
mi sembrano ben più fortunate le api che escono
dall'alveare solo per raccogliere il miele e vi stanno
insieme unite solo per fabbricarlo, e non hanno al-
tro pensiero, e si prendon quel pensiero solo per-
chè così è loro ordinato, e nelle proprie case atten-
dono solamente a un lavoro che manda profumo di
miele e di cera! Quanto più fortunate delle vespe
e delle mosche scapestratene che svolazzando in
lungo e in largo e volgendosi di preferenza alle cose
immonde anziché alle monde, sembrano vivere uni-
camente per importunare il resto degli animali e
dar loro noia, causando intanto a se stesse perpe-
tua inquietudine e inutile briga! Ronzano per ogni
dove, frugano, succiano, depredano, finché dura la
loro estate e il loro autunno; ma, giunto l'inverno,
si trovano senza rifugio, senza provvigione, senza
modo di vivere; invece le nostre caste api, che non
hanno occhi, non odorato, non gusto fuorché per
il bello, il saove, il dolce dei fiori ad esse confa-
centi, oltre la nobiltà della loro occupazione, ven-
gono ad avere un piacevolissimo ricovero, una prov-
vista gradita, un vivere lieto in mezzo al ben di
Dio che si son messo insieme col passato lavoro.
È la sorte di quelle anime amanti del Salvatore,
che lo seguono in fondo al deserto e vi fanno sul-
l'erba e sui fiori un banchetto più delizioso che non
facessero mai quelli che godevano le lautezze di
25

13.3 Page 123

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Assuero (1), là dove l'abbondanza soffocava la gio:a,
essendo solo un'abbondanza di cibi e di uomini.
Vivi lieto nelle tue sante occupazioni. Quando hai
nuvolo, lavora dentro il tuo cuore con la pratica
della santa umiltà; quando hai tempo bello, chiaro
e sereno, va' a fare le tue spirituali ascensioni su
per i colli del Calvario, dell'Oliveto, del Sion, del
Tabor e al monte deserto, in cui il Signore porge
il nutrimento ai cari suoi che ve l'accompagnano;
vola infine sulla vetta del monte eterno nel Cielo
e vedi le delizie immortali, ivi per te preparate.
Beati coloro, che han detto addio per pochi anni
alla falsa libertà mondana per godere in eterno
quella desiderabile schiavitù, in cui non ci viene
tolta nessuna libertà, eccetto quella che c'impedisce
di essere veramente^liberi! Dio ti faccia progredire
ognor più nell'amore della sua divina eternità, in
cui speriamo di godere l'infinità de' suoi favori in
premio di questa piccola, ma verace fedeltà, che
in cosa tanto da poco qual è la vita presente, siani
risoluti di mantenergli mediante la sua grazia (2).
(1) Esth., i, 3-8.
(2;i L. nccLxvin (t. xv, 205-7).
236
§ 5. D E I VOTI RELIGIOSI IN GENERALE.
Emissione: triplice morte.
Entrare nello stato religioso è morire: non si
può più in esso vivere a quello a cui si viveva nel
mondo. Nel mondo tu vivevi secondo la, tua volontà,
e qui ti bisogna farla morire; vivevi la vita di tutti
i tuoi sensi, e qxd i sensi debbono essere morti;
vivevi con la speranza dei beni di fortuna, cioè
ricchezze, Onori, grandige, preminenze, e qui fa
d'uopo morire a tutto questo. Nello stato religioso
non possiedi più nulla di tuo, non senti più cele-
brare le tue lodi nè far menzione di te come se tu
non fossi più al mondo. Si muore insomma alla
propria volontà, voluttà e vanità.
Morire alla propria volontà, oh, quanto è neces-
sario! è di una necessità che non si potrebbe mai
valutare abbastanza. Un giorno, il grande san Ba-
silio, considerando questo punto, chiese a se stes-
so: — Non sarebbe possibile servir Dio perfetta-
mente, facendo durissime penitenze e austerità ed
anche opere grandi per il Signore, ma conservando
la volontà propria? — Ma subito dopo ebbe l'im-
pressione che il Signor nostro e Maestro santissimo
gli rispondesse: — Io mi sono spogliato della mia
23"

13.4 Page 124

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gloria, son disceso dal Cielo, mi sono addossato tut-
te le miserie umane, finalmente sono morto e della
morte di croce. E tutto questo perchè? Per patire,
e con tal mezzo salvare gli uomini; ma forsechè
l'ho fatto di' mia elezione! No; la sola cagione per
cui ho fatto quanto ho fatto, si fu l'obbedienza
alla volontà del Padre. Anzi, sappi che, se fosse
stato volere del Padre, che io morissi d'una morte
diversa da quella di croce o che vivessi in delizie,
vi sarei stato pronto egualmente, essendo io venuto
in questo mondo per fare non la mia volontà, ma
quella del Padre che mi ha mandato (1). — Il no-
stro caro Salvatore, la cui volontà non potè mai
essere se non perfettissima, non poteva scegliere
nulla che non fosse sommamente gradito al Padre;
eppure non volle conformarsi a quella; come avre-
mo dunque noi tanto ardire da lasciar vivere la no-
stra, il cui intervento guasta d'ordinario tutte le
opere che facciamo?
Meglio varrebbe perfino lasciarci innalzare a di-
gnità contro nostra voglia (e vi sarebbe umiltà in-
comparabilmente maggiore ad accettarle), che non
respingerle per nostra determinazione, riconoscen-
docene indegni. Ne abbiamo un esempio in san
Claudio. Dopo aver edificato da canonico gli eccle-
(1) JOAN., v, 30; 6, 38; Ps. xxxix, 6; Rom., xv, 3.
238
siastici di Besan§on con l'esempio delle sue rare
virtù, fu per unanime consenso eletto Arcivescovo
di quella città; e benché la sua umiltà gli facesse
credere di esserne indegno, pure accettò, perchè il
superiore, il Papa, lo comandava e il consenso ge-
nerale del popolo gli faceva conoscere che quella
era la volontà di Dio. È orgoglio cercar le cariche
e preminenze; sarebbe invece temerità il rifiutarle,
quando ci venissero presentate da chi ha su di noi
autorità.
No, no, nessuna vera virtù senza la morte della
propria volontà. San Bernardo ci dice senz'ambagi
che a bruciare nell'inferno andrà soltanto la volon-
tà propria. Ma qui non è tutto; chi entra in religio-
ne, deve anche morire ai proprii sensi, e quindi
non più aver occhi per vedere, nè orecchie per
udire, e così via, di modo che bisognerà soppri-
merne le funzioni. Tu prima solevi portare la testa
alta e gli occhi sempre aperti per vedere ogni cosa:
ebbene, dopo, andrai con la testa bassa e guarderai
solo per necessità, non per curiosità. L'abito stesso
fa vedere che non si debbono più adoperare sensi
e potenze per cose della terra, ma che come in per-
sone morte nulla più ha da sopravvivere di quanto
vi è vissuto fino al momento di diventar religioso.
Ma perchè morire a tutto, e specialmente a se
stesso? Non per altro certamente, se non perchè
2

13.5 Page 125

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viva in te Gesù Cristo. Ma in qual forma? torse
Gesù Cristo glorificato? No, non ancora; lassù nel
Cielo egli vivrà in noi glorificato. Per adesso, de-
v'essere Gesù crocifisso: noi ci troviamo ora nel
tempo del soffrire, e non del godere. Senti come
parla di sè san Paolo: Vìvo, dice (1), non già io,
ma vive in me il mio Signore; non il mio Signore
glorificato, ma il mio Siguore crocifisso. Per altro,
è cosa che mi riempie di stupore il vedere come si
abbia animo di venire al servizio di Dio, dal mo-
mento che non si promettono ivi consolazioni nè
delizie, ma sempre travagli e sofferenze, sempre
mortificazioni e umiliazioni. Oh! innegabilmente
una virtù segreta opera in quest'affare; sì, le forti
attrattive dello Spirito Sauto producono tali effetti
per la sua maggior gloria.
Tuttavia nel Vangelo dei talenti (2) distribuiti
dal padrone ai servitori sul punto di mettersi in
viaggio, io osservo che ne diede prima uno, poi due,
poi cinque. Ricco talento è quello di vivere cristia-
namente e nell'osservanza dei comandamenti di Dio;
chi però ne ha ricevuto due, cioè chi col soprad-
detto ha ricevuto anche il talento di voler aspirare
alla perfezione della vita cristiana, è ancor più favo-
Galat., LI, 18, 20.
( 2 ) MATT., XXV, 14-23.
2
rito; ma che bella sorte per chi ha ricevuto anco-
ra in più i tre talenti, in cui stanno racchiuse tutte
le parti della perfezione cristiana! Intendo dire .i
tre principali consigli del Signore: obbedienza, ca-
stità e povertà, i tre voti effettivi che ci uniscono
a Dio! Con questi tre voti consacriamo a lui tut-
to quello che abbiamo: col voto di povertà gli fac-
ciamo dono dei nostri beni e di tui te le nostre aspi-
razioni a possederne; col voto di castità, diamo a lui
il corpo, e col voto di obbedienza l'anima e tutte le
sue facoltà (1).
Ho «letto i tre voti effettivi, cioè praticati, e non
soltanto professati ; perchè, sebbene, professati che
siano, mettano l'uomo nello stato di perfezione, tut-
tavia per metterlo nella perfezione devono essere
da lui osservati, correndo gran differenza fra lo stato
di perfezione e la perfezione. Tutti i vescovi e religio-
si sono nello stato di perfezione, eppure non tutti
sono nella perfezione, come purtroppo si vede (2).
Rinnovazione: utilità e maniera di farla.
I primi Cristiani festeggiavano solennemente,
ma spiritualmente, l'anniversario del loro battesimo,
(1) S. R. XII (t. IX, pp. 85-9).
(2) Introd. à la vie dev., ira, 11 (t. in, p. 172).

13.6 Page 126

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che era il giorno in cui erano stati consacrati a Dio.
Non facevano caso del loro giorno natalizio, perchè
quando si nasce, non si è figli della grazia, ma fi-
gli d'Adamo: distinguevano invece con festeggia-
menti il giorno in cui erano stati fatti figli di Dio
col battesimo. Così Abramo diede un solenne ban-
chetto non nel dì natalizio del suo figlio Isacco,
ma nel dì dello slattamento (1); allora il figlio co-
minciava già a dare buona speranza di sè.
È dunque opportuDissimo che i religiosi com-
memorino ogni anno con festa speciale il dì della
loro professione. La santa Chiesa celebra ogni anno
la memoria delle azioni più importanti compiute dal
Signore, dalla Madonna e dai Santi nostri patroni
e modelli: con questo ella ci mostra il suo deside-
rio che noi almeno una volta all'anno ci radunia-
mo per rinnovare i voti fatti a Dio. Giorno di
allegrezza e di consolazione è quello per i reli-
giosi, quanto più essi comprendono la lor bella
sorte di essersi consacrati a Dio in modo particolare.
La commemorazione dei nostri voti si fa soprat-
tutto per rinnovare lo spirito, rinnovando le nostre
promesse e raffermando le nostre risoluzioni. Come
un buon sonatore di liuto ha l'abitudine di tasta-
re ogni tanto tutte le corde per vedere se bisogni
(1) Gen., XXI, 8.
242
tirarle o rallentarle, perchè siano ben intonate;
così è necessario almeno una volta all'anno esami-
nare tutti gli affetti dell'anima, per accertarsi
che siano ben accordati nell'innalzare l'inno della
gloria di Dio e della nostra perfezione. A tal fine
sono ordinate le confessioni annuali, in cui si con-
stata quali siano le corde stonate, cioè gli affetti
immortificati e le risoluzioni non eseguite, e si ser-
rano le chiavette dello strumento; poi si recano tutti
insieme gli affetti nostri all'altare della Bontà divina.
Ora vediamo in che modo si debba fare questo
rinnovamento. È una cosa necessarissima, dato che
la nostra grande miseria ci cagiona continue per-
dite spirituali e troppo spesso ci distoglie dai no-
stri buoni propositi. Giova dunque esaminarsi e
studiare i mezzi per ricuperare quanto per debolez-
za od anche per negligenza abbiamo perduto. Non
isgomentiamoci però: al mondo tutto è così. Il sole
pare che abbia bisoguo di ripigliare ogni anno da
capo il suo corso, per rimediare al deterioramento
che sembrano aver patito durante l'annata certi
luoghi dall'aspetto poco buono. B la terra non dire-
sti che deperisca d'inverno e che al venire della
primavera si voglia rifare delle perdite subite nei
grandi freddi? Facciamo anche noi come il sole: ri-
torniamo sugli affetti e le passioni dell'anima per
risarcire le perdite prodotte dalla loro immortifica-

13.7 Page 127

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zione durante l'anno. Poi, al giungere della prima-
vera, che è la stagione dei rinnovamenti spirituali,
facciamoci animo a riparare il danno sofferto du-
rante i freddi delle nostre rilassatezze.
Per far bene questi rinnovamenti, prendi norma
da tre particolarità che si osservano nella Presen-
tazione di Maria al tempio. Prima di tutto, la Ma-
donna vien presentata al tempio nella sua infanzia;
in secondo luogo, durante il cammino, un po' è in
braccio al padre e alla madre, e un po' va da sè; fi-
lialmente, si offre tutta a Dio senz'aldina riserva.
Riguardo al primo punto, come potremmo noi
imitarla? come tornare indietro, sé non siamo più
in quell'età e il tempo trascorso non si può più
riavere? Eppure vi è rimedio a tutto. 11 tempo per-
duto si ricupera impiegando con fervore e diligenza
il tempo che abbiamo ancora (1). Oh, certo, è grau-
dissima la fortuna di chi si è consacrato a Dio fin
dall'adolescenza: Dio desidera questo e l'ha molto
caro (2); infatti per bocca del Profeta (3) si lamenta,
che gli uomini siano così pervertiti, che Ano dal-
l'adolescenza hanno abbandonato la sua via e preso
la strada della perdizione. I fanciulli non sono nè
(1) Cfr. Eph., v, 15, 16.
(2) Eccles., xil, 1.
(3) I.S., XLVir, 12, 15 (Gen., vi, 5 ; v m , 2 1 ) .
244
buoni nè cattivi, perchè non san nemmeno distin-
guere il bene dal male. Durante la fanciullezza si
cammina come chi, uscito di città, vada dritto per
qualche tempo, ina poi giunga dove la strada si bi-
forca ed il viandante può prendere a destra o a
sinistra, secondochè giudica, per arrivare alla meta.
Così, vuol dirti il Signore, gli uòmini durante la fan-
ciullezza han seguito a dritta via; ma alla dirama-
zione hanno preso a sinistra, abbandonando me, che
sono la sórgente d'ogni benedizione, per battere la
via della maledizione (1).
Senza dubbio la divina Bontà desidera la no-
stra età giovanile, che è più adatta per dedicarci
al suo servizio. Ma credi tu che per giovinezza s'in-
tènda sempre un'età della vita, e che la divina
Sposa voglia parlare di persona giovane d'anni,
quando nel Cantico dei Cant:ci dice che le anime
giovanili han desiderato il suo celeste Sposo e sono
andate dietro a lui, attratte dalla fragranza de' suoi
profumi? (2). No, no: parla di persone che hanno
fervore e animo giovanili* e rinnovano la loro con-
sacrazione al suo santo amore, dedicando a lui non
solo tutti gl'istanti della vita, ma anche tutte le
azioni, nessuna eccettuata. E qual è, dirai, il tempo
(1) JEREM., II, 1,3.
(2) Cant., I, 2, 3.
245

13.8 Page 128

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più opportuno per consacrarsi a Dio dopo che sia
trascorsa l'adolescenza! Qual è? eccolo, il presente,
proprio adesso (1): ora è il tempo buono; il passato
non è più nostro, il futuro non è ancora in nostro
potere: il momento attuale è dunque il migliore.
Ma come ricuperare il tempo perduto! L'ho già
detto; facendo il nostro cammino con fervore e di-
ligenza. I cervi, che corrono tanto snelli, pure, in-
calzati dal cacciatore, raddoppiano la velocità e
fuggono talmente rapidi da sembrare che volino;
così dobbiamo studiarci noi di percorrere la nostra
via: ma nella rinnovazione dei voti correre non ba-
sta, bisogna volare, e perciò chiedere col santo Pro-
feta ali di colomba (2), con cui a volo spiegato an-
diamo dritto a posarci nei crepacci del muro della
santa Gerusalemme (3), cioè a unirci al Signore cro-
cifisso sul monte Calvario mediante una perfetta
conformità della nostra vita con la sua.
Ho detto pure che la Madonna e Signora nostra
nel viaggio parte fu portata dal padre e dalla ma-
dre, parte andò da sè, aiutata tuttavia sempre da
loro. San Gioachino e sant'Anna, quando trovavano
piana la strada, posavano la Bambina in terra per
O) // Cor., VI, 2.
(2) Ps. LIV, 6.
(3) Cant., il, 14.
246
farla camminare, e allora la gloriosa Figlia aeì Cielo
alzava le sue manine per prendere la mano del
babbo e della mamma e così evitare di mettere il
piede in fallo; ma appena si giungesse a un tratto
scabroso, la prendevano tosto in braccio. Non per
alleviare se stessi la facevano di tanto in tanto cam-
minare, ma per il diletto di vederla fare i suoi pas-
setti. Ecco la mia seconda osservazione sul modo
di ripresentarci al Signore per rinnovargli l'offerta
di noi stessi mediante la rinnovazione dei voti.
Il Signore lungo il nostro pellegrinaggio in questa
misera vita ci conduce in due maniere: o per mano,
facendoci camminare con lui, o tra le braccia della
sua Provvidenza, portandoci egli stesso. Ci tiene
per mano, facendoci camminare nella pratica delle
virtù; perchè se egli non ci tenesse, nulla sarebbe
per noi dell'andare per questa strada benedetta.
Non vediamo di frequente che, ehi ne abbandona
la mano paterna, non dà un passo senza inciampare
e ruzzolare! La sua Bontà ci vuol tenere e condurre;
ma vuole inoltre che andiamo con i nostri poveri
piedi, facendo con l'aiuto della sua grazia, quanto
possiamo dal canto nostro. E la santa Chiesa, non
meno tenera e premurosa del bene de' suoi figli, ci
dice di ripetere ogni giorno una preghiera (1), in
(1) In Grat. act. post Missam.
24

13.9 Page 129

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cui si domanda a Dio che ci voglia accompagnare
nel nostro pellegrinaggio, aiutandoci con la sua
grazia preveniente e concomitante, perchè senza
l'una e senza l'altra noi non siam buoni a nulla.
Ma il Signore, dopo averci condotti per mano,
tacendo con noi opere, alle quali si richiede la no-
stra cooperazione, prende a portarci, facendo in noi
opere interamente sue, nelle quali cioè noi non ab-
biamo parte. Dico i sacramenti: che cosa è infatti
quello che facciamo noi, quando sentiamo le parole:
« Io ti assolvo da' tuoi peccati »? o quando riceviamo
la Santissima Eucaristia, che racchiude in sè tutta
la soavità del cielo e della terra? E benché sia ne-
cessario proferire le parole della consacrazione vo-
lute da Gesù Cristo, che cosa è quello rispetto al
discendere del Signore alla voce di un sacerdote,
anche cattivo e indegno, e rinchiudersi/otto le specie
per la felicità nostra? Non è un portarci in braccio
il permettere che ci uniamo a lui in queste due ma-
niere? Nel momento dunque che dirai: — Rinnovo
i voti di povertà, di castità e di obbedienza, — il
Salvatore ti condurrà per mano, perchè pronuncerai
le parole e farai la tua parte anche tu; ma quando
ti comunicherai, egli ti prenderà in braccio, facendo
in te l'opera tutta quanta.
Felici le anime, che fauno così il loro viaggio,
non lasciando le braccia della Maestà divina se non
248
per camminare e fare dal Canto loro quanto pos-
sono nella pratica delle virtù e delle opere buone,
tenendosi però sempre alla mano del Signore! chè
non dobbiamo mai crederci idonei a fare da noi al-
cunché di buono (1). La Sposa lo dichiara esplici-
tamente nella Cantica (2), quando dice al suo Diletto:
Traimi, e correremo dietro et te all'odore de' tuoi pro-
fumi. Dice Traimi, per mostrare che ella da sé non
può niente, se non è tratta e aiutata dal suo favore;
e per mostrare che a quel suo trarre vuol corri-
spondere di buon grado e senza coercizione, ag-
giunge: Correremo: per poco che tu ci stenda la
mano per trarci, noi non cesseremo di correre, fino
a che tu non ci abbia presi in braccio e uniti alla
tua Bontà.
Terzo punto, la nostra gloriosa Signora si diede
tutta a Dio senz'alcuna riserva,. Così diamoci-an-
che noi; il Salvatore non vuole che noi facciamo
quello che non può fare egli stesso, darsi cioè a noi
solo in parte. La sua bontà è tanta, che egli a noi
si vuol dare tutto; parimente vuole, ed è ben giusto,
che noi ci diamo a Lui senza restrizioni. Bisógna
lasciar tutto per avere il tutto, che è Dio. Bisogna
lasciare la casa paterna; ma è poi gran cosa? non
(1) il Cor., Ili, 5.
(21 Cimi., I, 3.
24
- -•
-
ir

13.10 Page 130

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reca talvolta maggior consolazione che pena il farlo?
Bisogna rinunciare allo stato matrimoniale; ma,
tutto considerato, che cosa è quello che si lascia?
il fastidio della famiglia, dove il più delle volte le
cose vanno a rovescio e contro il nostro volere.~Ché
altro bisogna lasciare? Le conversazioni? io sono
persuasissimo che d'ordinario vi si trova solo del
malcontento, perchè o non vi siamo onorati quanto
vorremmo o non vi riceviamo abbastanza gentilezze
0 vi si dice qualche cosa che ci dispiace; insomma,
1 piaceri che vi si provano, riescono il più sovente
amarissimi al palato.
È tutto lì dunque ciò che bisogna lasciare? Oh, no!
rimane il più difficile, cioè noi stessi, la nostra pro-
pria volontà: questa bisogna annullare del tutto e
senza riserva. Non dico il nostro amor proprio,
perchè, solo morendo noi, si potrà farlo morire: fin-
ché noi vivremo, anch'esso vivrà: basta che in noi
non regni. Della volontà propria dunque bisogna di-
sfarsi. A questo proposito ricorderò quel senatore che
ispirato da Dio ad abbandonare il mondo, risolse di
farsi monaco e di ritirarsi nel deserto: il che mandò
ad effetto. Ma il poverino volle portar seco alcuni
suoi arredi e mantenere certe sue relazioni di società.
Che gli avvenne? Il beato san Basilio, che lo amava
grandemente per la sua pietà e vita virtuosa, udito
questo, gli scrisse una bella lettera, in cui gli di-
2
ceva: — Povero te! che cosa hai fatto? Hai lasciato
la dignità di senatore e le funzioni della tua carica,
e quindi senatore non sei più; ma non sei neppure
buon monaco (1). — Quasi dicesse: Considera il
tuo nome, e troverai che significa unico, solo. Con
questa parola « solo » io non intendo già che si
debba vivere appartato e isolato in un deserto; ma
essa fa intendere che per essere buon monaco fa
d'uopo aver Dio solo per oggetto in tutto quello
che si fa: questo è esser solo.
Vuoi diventare buon religioso? Lascia non soltan-
to quello che sta fuori di tte, ma anche te stesso,
slattandoti assolutamente dalla tua volontà, che noi
amiamo cotanto, quasi fosse madre nostra. A Dio
non piacciono le nostre offerte, quando non siano ac-
compagnate da quella del nostro cuore. Figlio, dam-
mi il tuo cuore, dice questa Bontà incomparabile (2),
e dopo mi saranno gradite le tue offerte.
L'esempio di Caino è una prova della verità di
quanto diciamo (3). Il suo sacrificio non fu accetto
a Dio come quel di Abele, non solo perchè aveva
fatto male le parti, offrendo il meno e il peggio, ma
anche perchè non aveva dato il suo cuore; quindi
(1) CASS., lnstit., VII, 19.
(2) Prov., xxiN, 26.
(3) Gen., IV, 3-8.
251

14 Pages 131-140

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14.1 Page 131

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non aveva sacrificato bene, volendo Dio anzitutto
il cuore di lui. Riconobbe in seguito la cosa; ma fu
così sciagurato, che, invece di prendersela con sè
per il suo fallo e ricredersi, se la prese con il po-
vero Abele, la cui offerta era stata gradita alla
Bontà divina,' avendo egli offerto prima d'ogni altra
cosa se stesso e poi il sacrifìcio. Caino concepì sde-
gno contro il fratello per la grande invidia che gli
portava. Vedi come l'invidia si cacci dappertutto..
Dio lo rimproverò e gli disse: — Perchè turbarti?
Se hai fatto bene la tua offerta, non ne hai motivo;
se'l'offerta è buona, ma non l'hai fatta nel modo
che si conveniva, ripara al malfatto: a tutto vi è
rimedio. —
Ecco dunque in che. maniera abbiamo noi da
fare i nostri sacrifìci e le nostre offerte alla Bontà
divina: se vogliamo che Dio li gradisca, facciamogli
piena e intera oblazione di noi stessi, a imitazione
della nostra gloriosa Signora (1).
§ 6. D E L NOVIZIATO.
Ammissione al noviziato.
Per l'ammissione al noviziato io penso che non
vi siano tante difficoltà. Vi si richiedé, sì, maggior
(1) S. R. xvi (t. ix, pp. 128-138).
252
ponderazione che non nell'ammissione alla prova
antecedente; ma in questa Si è già avuto agio di
osservare indole, azioni, abitudini degli aspiranti,
sicché se ne conoscono bene le passioni. Ma tutto
questo non deve impedirne l'ammissione al noviziato
purché abbiano buona volontà di emendarsi, di stai-
sottomessi e di prendere i rimedi opportuni per gua-
rire. Anzi, benché abbiano ripugnanza ai rimedi e
difficoltà a prenderli, questo non vuol dir niente,
se non tralasciano di farne uso; perchè le medicine
sono sempre amare al gusto e non è possibile inghiot-
tirle con piacere, come si farebbe se fossero lacchez-
zi; ma con tutto ciò non lasciano di produrre il loro
effetto, e quando fan meglio, è proprio allora che
danno maggior travaglio e pena. Allo stesso modo,
ecco un giovane, una giovane che ha vive le sue
passioni: è impaziente, commette molte mancanze;
se per altro vuole la guarigione e si lascia corrèg-
gere, mortificare, apprestare i rimedi adatti, quan-
tunque a prenderli provi ripugnanza e fatica, non
si neghi l'ammissione: giacché qui non vi è sol-
tanto la volontà di guarire, ma anche di prèndere
i rimedi somministrati a tal fine, benché con isforzo
e difficoltà.
Vi saranno di quelli allevati male e malainentè
educati, di naturale rude e modi grossolani. Que-
sti indubbiamente stentano più di quelli che hanno

14.2 Page 132

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indole dolce e trattabile, e sono esposti a commet-
tere mancanze più degli altri che han ricevuto un'e-
ducazione migliore; ma nondimeno, se vogliono
guarire e si mostrano risoluti di accettare a ogni
costo i rimedi, per questi tali io darei il mio voto
nonostante le cadute: anime giovanili di tal sorta
dopo molta fatica danno frutti nello stato religioso,
divenendo grandi servi di Dio e acquistando una for-
te e solida virtù, perchè a quel che manca suppli-
sce la grazia di Dio: infatti non si può negare che
sovente dov'è men natura, vi è più grazia (1).
Che cosa bisogna dire chiaramente ai novizi.
A quei che vengono per entrare nello stato re-
ligioso, non si tendono insidie: infatti si promette
loro che godranno le ricchezze della felicità eterna,
ma a patto che rinuncino prima a quelle caduche
della terra, e si dice loro di abbandonare la casa
dei genitori e la patria in effetto e con l'affetto, per
non averne mai più altra che quella del Signore,
cioè la religione in cui entrano. Si promettono loro
le consolazioni che Dio suol dare a chi fedelmente
lo serve, consolazioni soavissime, fin da questa vita,
ma a patto che rinuncino a tutti i piaceri sensuali,
(1) E. xvm (t. vi, pp. 326-7).
24
anche leciti. Loro si assicura l'unione eterna con
Dio, ma dopo aver rinunciato interamente a se stessi,
a tutte le passioni, affezioni, tendenze, facendo un
trasmigramento assoluto; poiché diciamo loro: — Se
finora vi piacque vivere a vostro talento e far con-
to del vostro giudizio, d'ora in poi non dovrà più
essere così, ma bisognerà aver in pregio soltanto
l'obbedienza e la sottomissione, facendo tacere al
possibile le passioni, per vivere non più a seconda
di quelle, ma in modo conforme alla perfezione che
vi verrà insegnata. — Diciamo insomma che go-
dranno la felicità del Salvatore sul monte Tabor,
ma dopo essere stati con lui crocifissi sul monte Cal-
vario, mediante la continua mortificazione di sè e
l'accettazione volontaria e incondizionata delle mor-
tificazioni, che loro toccherà di sopportare.
La vita religiosa è un monte Calvario, dove fan-
no dimora gli amanti della Croce. Le api fuggono
e abborrono tutti gli odori estranei, non provenienti
cioè dai fiori, da cui raccolgono il miele; così gli
amanti della Croce indietreggiano da tutto quello
che sappia di terreno e di mondano, presentato loro
dal demonio, dal mondo e dalla carne, e non vo-
gliono sentire altra fragranza che non sia quella
germinante dalla croce, dalle spine, dai flagelli, dalla
lancia del Signore. Ecco le gioie e gli anelli che lo
Sposo celeste dà all'anima sua sposa, come gli or-
255

14.3 Page 133

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namenti più ricchi che tenga nel suo forziere. Gli
sposi del mondo presentano alle loro spose collane,
braccialetti, anelli, velluti, rasi e simili balocchi;
inoltre nel dì delle nozze danno banchetti. Il Signo-
re fa pure così; ma sai che cosa mette dinanzi iu-
vece di fagiani e pernici? Mortificazioni, umiliazio-
ni, disprezzi, dolori, pene interne, che ci fan quasi
dubitare di essere abbandonati dalla sua bontà.
Una mirabile qualità debbo ancor dire delle api:
sono talmente fedeli alla regina, che, quand'essa
muore, ne attorniano il corpo e morrebbero piutto-
stochè abbandonarlo: se il custode non andasse ad
allontanarle, non se ne staccherebbero mai. I custo-
di delle api spirituali fanno tutto il contrario: men-
tre il primo procura di rimuovere le api dal corpo
della regina, perchè non le muoiano intorno, questi
fan del loro meglio per tenere le anime presso il
corpo del loro Re morto, cioè vicino al Signore croci-
fìsso, al quale noi dobbiamo star sempre da presso
tutto il tempo della nostra vita, considerando l'a-
more che ci ha portato e che l'ha fatto morire per
noi, affinchè noi vivessimo per l'amor suo e nel
suo amore (1).
(1) -S. R. XVII (t. IX, pp. 146-8).
256
Parole a chi entra nel noviziato.
Quelli che debbono essere ammessi al noviziato,
si facciano venire avanti, e alla presenza degli al-
tri il Superiore rivolga loro alcune parole del te-
nore seguente:
— Voi avete domandato di essere accolti fra di
noi per venire a servir Dio con un solo spirito e
una sola volontà; noi, sperando dalla Bontà divina
che vi manterrete saldi nel vostro disegno, stiamo
per accogliervi oggi nel numero dei novizi, in at-
tesa di ammettervi, secondo il vostro avanzamento
nella virtù, fra i professi, quando verrà il tempo
giudicato da noi opportuno. Prima però di andare
più oltre ripensate bene all'importanza del passo che
siete in procinto di fare; sarebbe molto meglio non
venire da noi, che, venendo, dar motivo di non es-
sere poi ammessi alla professione. Ma se avete buo-
na volontà, sperate pure che Dio vi porgerà il suo
aiuto.
— Ora, entrando qua entro, sappiate che noi
vi riceviamo per insegnarvi, secondo la possibilità
nostra, con l'esempio e con là parola a crocifiggere
il corpo mediante la mortificazione dei sensi e delle
passioni, fantasie, tendenze, volontà proprie, sicché
in voi tutto stia sottomesso d'ora innanzi alla legge
di Dio-e alle regole di questo Istituto. Nel quale
25?
9. - E. CERU. La Dita religiosa ecc.

14.4 Page 134

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intendimento abbiamo affidato la cura e l'incarico
speciale di esercitarvi e d'istruirvi al maestro dei
novizi, a cui perciò sarete obbedienti ascoltandolo
con rispetto e deferenza tale da far vedere che non
per la creatura vi sottomettete alla creatura, ma
per amor del Creatore da voi riconosciuto nella crea-
tura. E qualora vi si assegnasse un altro, chiunque
si fosse, per maestro, voi dovreste obbedirgli con
tutta umiltà per lo stesso motivo, senza guardare
in faccia a chi vi dirigerà, ma guardando a Dio che
così dispone.
• — Voi entrerete dunque nella scuola della no-
stra Congregazione per impararvi a portale la croce
del Signore mediante l'abnegazione e la rinuncia
a voi stessi, l'assoggettamento delle vostre volontà,
la mortificazione dei vostri sensi. Io vi amerò come
vostro fratello, padre e servitore; tutti i nostri con-
fratelli vi terranno come fratelli loro carissimi: tut-
tavia avrete il tale per maestro, a cui obbedirete
e di cui praticherete gli avvertimenti con l'umiltà
la sincerità e la semplicità che il Signore esige da
quanti vengono a vivere in questa Congregazione.
Se pensate di essere venuti per godervi maggior
riposo che nel mondo, v'ingannereste a partito: noi
invece stiamo qui adunati per attendere con dili-
genza a sradicare dall'animo le cattive inclinazioni,
a correggere i nostri difetti, ad acquistare le virtù;
258
ma benedetta questa fatica che ci procurerà il ri-
poso eterno! (1).
Opera del noviziato.
Le anime che vengono per consacrarsi al Signore
somigliano a spighe eli grano, in quanto sono av-
volte da fantasie, immaginazioni, passioni, incli-
nazioni mondane di tante e tante specie; hanno tut-
tavia il fermo proposito di lasciarsi confricare tra
le mani dell'obbedienza e macinare nel mulino della
mortificazione, per poter divenire pane da porre
sulla mensa del Signore: a tal fine per l'appunto
si assegna loro un anno di prova. Durante questo
tempo non le s'ingannano, dicevamo, con promesse
di consolazioni; benché la più piccola consolazione
ivi gustata valga senza confronto più di tutte
quelle del mondo messe insieme; ma vengono av-
viate gradatamente alla pratica di un'obbedienza
continua, alla mortificazione della propria volontà,
al rinnegamento del proprio giudizio; si parla loro
incessantemente del mortificare tutti i sensi e le in-
clinazioni umane: infine si passa a mostrar loro
quanta frivolezza vi fosse nel figurarsi come cose
desiderabili i beni, le ricchezze e gli onori, e si pro-
t i ) L. DCCXLVII (t. xv, pp. 158-160).

14.5 Page 135

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cura di trasformarne tutti gli affetti, sicché non ne
abbiano più se non per Iddio e conformi alla sua
santa volontà. Infine durante l'anno di noviziato
si fa il possibile per prepararle bene all'ultima of-
ferta di se stesse, quando coi voti si legheranno
interamente e irrevocabilmente al servizio di Dio,
servizio ben più onorevole di tutte le dignità reali
e imperiali. Assoggettano, è vero, tutte le potenze,-
tutti gli affetti, le passioni, le inclinazioni, in una
parola tutte se stesse alla norma della perfezione
con l'esercizio continuo dell'obbedienza alle regole
del loro Istituto; ma è una soggezione dolce e gra-
dita, la quale dà maggior diletto che non ne pro-
curi ai mondani la libertà di vivere a loro talento:
libertà che, a parlar propriamente, è una tirannia,
perchè d'ordinario porta a fare cose contrarie al det-
tame della coscienza e al volere di Dio.
Queste anime dunque, preparate che siano nel
modo anzidetto, avranno già ricevuto i doni dello
Spirito Santo. Il dono della sapienza, gustando
quanto sia dolce e soave il Signore (1), e quanto
amabili siano le sue vie (2), benché dure e aspre
al senso umano (3), il dono dell' intelligenza, corn-
ei!) Pss. XXXIII, LXXXV, 5.
(2) Ps. xxiv, 10; Prov., Ili, 17.
(3) Ps. xvi, 4.
260
prendendo bene le massime della perfezione evan-
gelica: fra le ricchezze bau conosciuto il valore
della povertà, ai piaceri sensuali han preferito la
castità e purezza, e di fronte all'amor proprio e
alla propria volontà si sono appigliate all'annega-
zione di sè, sottomettendosi all'obbedienza. Il dono
del consiglio, nulla facendo a senno loro e per loro
impulso', ma chiedendo prima lume al Signore o a
chi ne tiene le voci. Il dono della fortezza. per com-
battere strenuamente i nemici della gloria di Dio
e mettere in pratica le risoluzioni prese di vincere
se medesime. Il dono della scienza, discernendo
quanto sia bello consacrarsi interamente a Dio in-
vece di restare nel mondo. Infine, il dono della pie-
e del timore, fuggendo le occasioni che nel mon-
do potevano incontrare di perdere l'amor di Dio.
Tali anime, dopo aver ottenuto tutti questi doni,
saranno anche fermamente decise di venire alla pra-
tica, rigettando qualunque altro diletto che non sia
quello di gustare le dolcezze e soavità divine e le
delizie del camminare per le vie del Signore, vie
che ci portano all'unione con lui. Esse non vor-
ranno mai più rivolgere la mente alla considerazione
delle cose terrene e caduche, ma a quella dei veri
beni eterni e alla conoscenza di Dio e di sè. Sì at-
terranno costantemente ai consigli di coloro che Id-
dio ha dato loro per guida, piegandosi con doci-
261

14.6 Page 136

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lità ai loro voleri ; saran risolute di operare da anini
forti e generose, a nuli'altro aspirando fuorché a toc-
care la cima della perfezione cristiana, senza perdersi
di coraggio nel bene, appoggiate e Adenti nella gra-
zia e protezione della Bontà divina, che, avendo co-
minciato l'opera della loro perfezione, la condurrà
a termine (1), sol che esse si mantengano sempre
fedeli a Dio.
Useranno poi diligentemente il dono della scien-
za, che consiste nel cercare i veri beni e respin-
gere i falsi, avendo mediante un tal dono saputo
discernere gli imi dagli altri. Saran costanti nel-
l'usare il dono della pietà, riguardando e onorando
Dio qual Padre, dacché egli vuol essere da noi chia-
mato con un nome così caro; quindi faranno il pos-
sibile per piacergli, vedendo nei prossimi tanti fi-
gli di Dio al par di loro e perciò tanti fratelli, e con
questo pensiero esercitando meglio ogni opera di mi-
sericordia e ogni atto di carità verso di essi. In-
fine, temeranno sempre Dio, non già con timor ser-
vile, ma con un timore che nasca dall'amore, pa-
ventando non solo di offenderlo, ma anche di non
essergli abbastanza gradite: il qual amoroso timore
servirà loro di stimolo a progredire ogni dì più
nella santa dilezione.
(1) Philipp., i, 6.
262
A queste anime fortunate, così ben disposte a
sacrificarsi totalmente e senza riserva al celeste ""
amore, che altro mancherà se non che lo Spirito
Santo dopo tanti doni discenda in forma di fuoco
sul loro sacrificio per consumarlo, o meglio, secondo
l'immagine accennata in principio, venga a cuoceie
i pani dalle medesime impastati e già pronti per
essere messi nel forno? (1). Si sa bene che per far
il pane bisogna impastare la farina intrisa nell'ac-
qua, e infine metterla a cuocere; prima della qual
cottura la pasta è cedente e flessibile, ma dopo di-
venta resistente, solida e dura (2). Questa prepara-
zione della pasta si fa durante l'anno di noviziato,
previa la confricazione delle spighe per opera della
santa obbedienza e la macinazione del grano me-
diante la duplice mortificazione del giudizio e della
volontà, i due pani che il Signore vuole dalle
anime religiose. Oltre a questo, esse han fatto il
proposito di tenere a freno l'immaginazione, che non
vada più scorrazzando fra le cose della terra, e con
ciò hanno concentrato tutti i loro affetti in un af-
fetto solo, che è per Iddio.
Siffatte disposizioni, unite ai voti che si emettono
al termine del noviziato e con cui si contrae l'oli-
ti) S. R. xvni (t. ix, pp. 152-6).
(2) Ib. p. 151.

14.7 Page 137

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bligo eli praticare per tuttavia vita le cose dette,
formano il pane santo da essere cotto, assodato,
reso inflessibile e immutabile mediante il fuoco sa-
cro dello Spirito Santo, che è l'amore delle anime
nostre. Allora la Maestà divina ne gusterà come di
vivanda deliziosa al banchetto dell'eternità e in cam-
bio satollerà quelle anime della sua divinità, l'u-
nico cibo della felicità e gioia eterna (1).
§ 7. AMMISSIONE ALLA PROFESSIONE RELIGIOSA.
Tre cose da osservare.
È atto importantissimo quello di ammettere un
novizio alla professione: a me sembra che siano in
questo da osservare tre cose.
La prima è che i novizi ammessi a professare
siano sani di corpo e di cuore (2); non abbiamo
cioè indisposizioni fisiche, le quali rendanli incapaci
di osservare la regola e inabili a fare quanto si ap-
partiene alla loro vocazione (3), e abbiano l'animo di-
sposto a vivere in docilità e sottomissione assoluta.
(1) S. R. XVIII (t. ix, p. 156).
(2) E. XVM (t. vi, p. 327).
(3) Ib. p. 3'25.
26
La seconda cosa è che abbiano buono spirito.
Non parlo qui di spiriti superiori, ordinariamente
vani, pieni di giudizio proprio e di albagia, che,
stando nel mondo, erano emporii di vanità: spiriti
che entrano nello stato religioso non per umiliarsi,
ina quasi volessero darvi lezioni di filosofia e teo-
logia, per condurre e governare le cose come piace
a loro. Da gente simile bisogna star bene in guar-
dia. Non dico senz'altro di non accettarli, qualora
si veggano disposti a ricevere correzioni e umilia-
zioni: con il tempo e la grazia di Dio potrebbero
anch'essi cambiare, come avverrà, se saranno as-
sidili a valersi dei rimedi loro apprestati per gua-
rirli. Dicendo buono spirito, io intendo parlare di
spiriti equilibrati e giudiziosi, anche mediocri, cioè
nè alti alti nè meschini meschini: spiriti di tal na-
tura fan sempre molto senza che essi nemmeno lo
sappiano. Badano a fare e attendono alla pratica
delle virtù sode; si mostrano poi trattabili, nè si
dura fatica a guarirli, perchè facilmente compren-
dono, quanto sia cosa buona il lasciarsi governare.
La terza cosa è che si sia fatto bene durante
l'anno di noviziato: che cioè il novizio abbia preso
con profitto i rimedi somministratigli, abbia attuato
a dovere i propositi fatti entrando nel noviziato di
correggere le sue male disposizioni e inclinazioni:
per questo appunto si fa fare l'anno di noviziato.
265

14.8 Page 138

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Se si vede che abbia perseverato fedelmente nella
sua risoluzione e che abbia mostrato volontà ferma
e costante a continuare, procurando di riformarsi e
formarsi secondo le regole, e che anche in questo,
cioè nella volontà di far sempre meglio, intenda
persistere, è buon segno, vi è una condizione buona
per dargli favorevole il voto. Che se, ciò nonostante,
egli cadesse ancora in mancamenti, e abbastanza
gravi, non gli si deve tuttavia negare il voto; perchè,
quantunque nell'anno di noviziato debba il novizio
lavorare alla riforma de' suoi costumi e delle sue
abitudini, questo non significa ch'ei non debba più
fare cadute, nè che al termine del noviziato debba
essere perfetto. Vedi il Collegio del Signore, i glo-
riosi Apostoli: ancorché avessero avuto la vocazione
e si fossero affaticati a riformare la loro vita, pure
quanti mancamenti commisero, non solo nel primo
anno, ma anche nel secondo e nel terzo! Tutti dice-
vano e promettevano mirabilia, financo di andare
col Signore in prigione e a morte (1); ma la notte
della Passione, quando si venne a prendere il loro
buon Maestro, tutti lo abbandonarono (2). Con que-
sto voglio dire, che le cadute non debbono esser
causa del licenziamento di un novizio, quand'egli
(1) Lue., xxu, 33.
(2) MATT., XXVI, 56.
266
ciò nonostante perseveri in una forte volontà di
rialzarsi, valendosi dei mezzi per tale scopo a lui
somministrati.
Alcuni casi particolari.
1. Un novizio è facile a turbarsi per cose da
poco ed ha sovente l'animo pieno di tristezza e d'in-
quietudine e durante quel tempo dimostra scarso
affetto alla sua vocazione; ma ogni volta, passata
la burrasca, promette mari e monti. — Un giovane
così incostante non è fatto per la vita religiosa; ma
ih tutto questo ha egli o non ha volontà di essere
guarito? Se non ne ha, bisogna licenziarlo. Si po-
trebbe osservare che non si vede se ciò provenga
da mancanza di buona volontà o dal non compren-
dere la natura della vera virtù. Ebbene, se dopo
essergli stato insegnato quel che deve fare per la
sua emendazione, egli non lo fa, ma resta incorreg-
gibile, sia licenziato; la ragione principale è che i
suoi mancamenti non derivano da difetto di discer-
nimento, nè da impossibilità di comprendere la so-
stanza della vera virtù e i mezzi da usare per emen-
darsi, ma da difetto di volontà, che non persevera
costante nella pratica di quanto si richiede per la
propria emenda. Ancorché talvolta dica che farà
meglio, poi non lo fa, ma continua sempre nella

14.9 Page 139

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medesima incostanza di volere; io quindi a costui
non darei il mio voto.
2. Yi sono certuni così sensibili, che non possono
soffrire di venir corretti senz'alterarsi, la qual cosa
li fa talora anche star male di salute. — Se così è,
aprasi a costoro la porta. Sono infermi, e non vo-
gliono sottoporsi alla cura nè ai rimedi che li po-
trebbero guarire; dunque si vede chiaro che, così
facendo, si rendono incorreggibili nè danno speranza
di guarigione. Quella suscettibilità poi tanto morale
che fìsica, è uno dei maggiori imbarazzi che s'in-
contrino nella vita religiosa; perciò si usi la mas-
sima attenzione per non ammettere chi se ne mo-
stri soverchiamente affetto: non ha volontà di gua-
rire chiunque rifiuti di ricorrere ai mezzi, che pos-
sono dargli la salute.
3. Che cosa pensare di un novizio, il quale con
parole esprimesse rincrescimento di essere entrato
nella vita religiosa? — Se il disgusto della vocazione
e il rincrescimento perdura, e si vede che questo lo
rende svogliato e negligente a formarsi secondo lo
spirito dell'Istituto, bisogna metterlo fuori. Tuttavia
si consideri, che la cosa può avvenire o per semplice
tentazione o per una prova; il che si conoscerà,
osservando il profitto ricavato da tale pensiero, di-
sgusto o rincrescimento, ogniqualvolta egli scopra
la cosa al maestro e adoperi bene i mezzi sugge-
268
ritigli; poiché Dio non permette mai niente per no-
stra prova senza volere che ne ricaviamo vantaggio,
e ciò si verifica sempre, quando prontamente si
scopre la tentazione e con semplicità si crede e si
eseguisce quanto ci vien detto: questo è segno che
la prova vien da Dio. Ma quando si vede che la
persona si regola secondo il suo giudizio ed ha una
volontà illusa e storta,, sicché persiste nel suo di-
sgusto, il caso è grave e disperato; si rimandi il no-
vizio.
4. Bisognerà ammettere un novizio che non abbia
cordialità o non si mostri eguale con tutti, ma che
riveli simpatia per uno più che per l'altro? — Sono
tutte cosette, in cui non ci vuole tanto rigore. Questa
propensione è l'ultima delle nostre rinunce; avanti
che si giunga al punto di non sentir propensione
per uno più che per l'altro, sicché ogni particolare
simpatia resti mortificata e soffocata, ci vuole del
tempo. Qui, come in tutto il rimanente, si osservi
se la persona si mostri incorreggibile.
5. Se in conformità a quello che si conosce, tutti
i consiglieri fossero contrari all'ammissione di un
novizio, e a taluno venisse in mente di dire una
cosa a lui nota e favorevole al novizio stesso, do-
vrebbe lasciare di dirla? — No; quantunque il senti-
mento di tutti gli altri sia affatto contrario al tuo,
sicché tu ti trovi solo in quell'idea, questo potrebbe

14.10 Page 140

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servire anche agli altri per raccapezzarsi sul da fare.
Lo Spirito Santo deve presiedere a tali adunanze;
nella diversità dei pareri ognuno si risolve per quello
che giudica più conforme alla gloria di Dio.
Norma fondamentale.
Concludiamo: di fronte a tutte le imperfezioni
che i novizi portano seco dal mondo, si tenga questa
norma: quando si vede che s'emendano, benché non
cessino di commettere difetti, non siano respinti,
perchè il cercare di emendarsi indica che non si
vuol restare incorreggibile (1).
§ 8. DELLE REGOLE.
La via diritta per andare a Dio.
L'osservanza delle regole è la via diritta per an-
dare a Dio. I religiosi sono fortunati in confronto
di quei che vivono nel mondo. Nel mondo a chi do-
manda la strada, uno risponde: — È a destra, —
e l'altro: — È a sinistra, — e si finisce il più delle
volte per essere ingannati; ma i religiosi han sola-
TI) E. XVII (pp. 327-336).
270
mente da lasciarsi portare. Somigliano a coloro che
vanno per mare; la nave li porta, ed eglino se ne
stan dentro senza pensiero: riposando viaggiano, nè
sentono alcun bisogno d'informarsi, se vadano bene.
Questa è cosa che spetta ai nocchieri, che, vedendo
sempre la stella polare, bussola della nave, san di
essere sulla buona rotta e dicono agli altri navi-
ganti: — Coraggio, siete ben incamminati. —
Segui senza tema cotesta bussola divina, che è
il Signore; nave sono le regole, e nocchieri i supe-
riori, che ti sogliono ripetere: — Avanti, mio caro,
nell'osservanza esatta delle regole! così approderai
felicemente a Dio, che sarà nostra guida sicura. —
Ma bada che io dico: — Avanti, nell'osservanza
esatta e fedele; — perchè, chi è trascurato nel se-
guire la sua strada, perirà, avverte Salomone (1) (2).
Spirito delle regole.
Sentiamo comunemente dire: — Il tal religioso
ha il vero spirito della sua regola. — Che cosa si-
gnifica aver lo spirito di una regola?
Torremo dal Vangelo due esempi molto adatti
per far intendere questo. Si dice ivi che san Gio-
(1) Prov., XIX, 16.
(2) E. XX (t. vi, pp. 380-1).

15 Pages 141-150

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15.1 Page 141

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vanni Battista era venuto con lo spirito e con la
virtù di Elia (1), e perciò moveva arditi e duri rim-
proveri ai peccatori, chiamandoli razza di vipere (2),
e simili espressioni. Ma qual era questa virtù di
Elia? Era la forza, che si sprigionava dal suo spi-
rito contro i peccatori per annientarli e punirli, fa-
cendo cader fuoco dal cielo a rovina e confusione
di quanti volevano resistere alla maestà del suo Si-
gnore (3); era dunque uno spirito di rigore quello
di Elia. L'altro esempio del Vangelo (4) che fa al
caso nostro, è che, volendo il Signore andare a Ge-
rusalemme, i suoi discepoli ne lo dissuadevano, per-
chè gli uni avevano piacere di andar a Cafarnao e
gli altri a Betania, e così cercavano di condurre il
Signore, dov'essi volevano andare; non sono dun-
que di oggi solamente i tentativi degl'inferiori per
tirar i superiori dove loro piace. Ma il Signore, pur
facilissimo a condiscendere, allora (son le parole del-
l'Evangelista) prese un aspetto risoluto di andare a
Gerusalemme, affinchè gli Apostoli non insistessero
più a trattenerlo dall'andarvi. E nell'andare a Ge-
rusalemme volle passare per una città della Sama-
(1) Lue., i, 17.
(2) MATT., HI, 7 ; L U E . , n i , 7.
(3) IV Reg., i.
(4) Lue., ix, 51-6.
272
ria, ma i Samaritani non glie lo permisero; onde
san Giacomo e san Giovanni montarono in collera
e furono talmente indignati contro quei cittadini
per la loro inospitalità verso il divin Maestro, che
gli dissero: Maestro, vuoi che facciamo piovere del
fuoco dal cielo, per punirli dell'oltraggio a te fatto?
Rispose il Signore: Non sapete a quale spirito ap-
parteniate. E voleva dire: — Non sapete che non
siamo più al tempo di Elia, il quale aveva spirito
di rigore? Quantunque Elia fosse un grandissimo
servo di Dio e facesse bene a fare come volete far
voi, tuttavia voi non fareste bene a imitarlo, non
essendo io venuto per punire e confondere i pec-
catori, ma per trarli dolcemente a far penitenza ed
a seguirmi (1). —
Vediamo ora che cosa sia lo spirito particolare
di una regola. Tutte le religioni hanno uno spirito
che è loro comune, e ogni religione ha uno spirito
suo particolare. Quello comune è il generale intento
di aspirare alla perfezione della carità, che è l'u-
nione dell'anima con Dio e col prossimo per amore
di Dio; il che si ottiene, riguardo a Dio, conformando
la nostra volontà alla sua, e, riguardo al prossimo,
usando la dolcezza, virtù che dipende immediatamen-
te dalla carità. Lo spirito partico'are invece sta nel
. (1) Lue., v, 3'5.

15.2 Page 142

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mezzo per conseguire questa perfezione della carità.
Naturalmente lo spirito particolare differisce as-
sai nei diversi ordini. Gli uni si uniscono a Dio e
al prossimo con la contemplazione; perciò osservano
una solitudine strettissima, comunicando il men che
possano col moudo e flnanco tra di loro, fuorché in
certi tempi; si uniscono pure al prossimo mediante
l'orazione, pregando Dio per esso. Per altri al con-
tràrio lo spirito particolare consiste bensì nell'unirsi
a Dio e al prossimo, ma con l'azione, anche solo spi-
rituale. Si uniscono a Dio, ma con il riunire a lui
il prossimo mediante lo studio, le prediche, le con-
fessioni, le esortazioni, e altre opere simili; e per
meglio attuare questa unione col prossimo, trattano
col mondo. Si uniscono anch'essi a Dio con l'ora-
zione; ma il loro fine principale è quello che ab-
biamo detto, cercar di convertire le anime e unirle
a Dio. Altri hanno uno spirito severo e rigido con
totale disprezzo del mondo e di tutte le sue vanità
e sensualità, volendo col loro esempio indurre gli
uomini a somigliante disprezzo delle cose terrene:
al che giova l'asprezza del vestire e delle loro pra-
tiche. Altri hanno altro spirito: per conoscerlo bi-
sogna vedere il fine delle varie istituzioni e i vari
mezzi per raggiungere tali fini. In tutte le religioni
vi è, dicevamo, il fine generale; ma io parlo del fine
particolare, a cui i religiosi dei diversi Istituti deb-
24
bono portare tanto affetto, che qualunque cosa sia
da essi conosciuta conforme a quel fine, l'abbraccino
di tutto cuore.
Portar amore al fine del proprio Istituto signi-
fica usare coscienziosamente i mezzi, con cui rag-
giungere tale fine, cioè l'osservanza delle regole, e
porre la massima deligenza nel fare tutto quello che
si riferisca alle medesime e serva a osservarle in
modo più perfetto: questo è avere lo spirito della
propria religione. Ma a tale esatta e fedele osser-
vanza fa d'uopo attendere con semplicità di cuore,
cioè senza voler correre troppo in là per la smania
di fare più che non sia dalle regole indicato; non
con la moltiplicità delle cose fatte si acquista la
perfezione, ma con la purità d'intenzione in farle.
Osserviamo dunque bene quale sia il fine del nostro
Istituto, quale l'intenzione del fondatore, e attenia-
moci soltanto ai mezzi che ci sono assegnati per ri-
spondere allo scopo. E nello studiare il detto fine,
non si stia alle prime intenzioni dei fondatori, come
i Gesuiti non si fermano al primitivo disegno di
sant'Ignazio: allora il Santo non pensava punto a
fare quello che fece in seguito; lo stesso dicasi di
san Frencesco, di san Domenico e degli altri ini-
ziatori di Ordini religiosi. Ma Dìo, al quale solo
spetta di adunare queste pie famiglie, le ha con-
dotte alla forma, che oggi vediamo. Non bisogna
275

15.3 Page 143

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credere che siano stati gli uomini a ideare e iniziare
un genere di vita perfetta qual è la vita religiosa:
fu Dio, e per sua ispirazione vennero compilate le
regole, che sono il mezzo con cui raggiungere il fine
comune a tutti i religiosi, cioè l'unione con Dio e
l'unione col prossimo per amore di Dio.
Ma come ogni Ordine e Istituto religioso lia il
suo fine particolare, non che particolari mezzi per
raggiungere questo fine, così tutti hanno anche un
mezzo generale al medesimo scopo, cioè i tre voti
essenziali della vita religiosa. Ognuno sa che le ric-
chezze e i beni della terra contengono possenti at-
trattive che dissipano l'anima, sia per il soverchio
affetto posto in quelli, sia per le sollecitudini richie-
ste a custodirli ed anche ad accrescerli, giacché
l'uomo non possiede mai tanto da saziare le pro-
prie brame. Il religioso taglia e tronca tutto que-
sto col voto di povertà. La medesima cosa fa della
carne e delle sue sensualità e piaceri, leciti o ille-
citi, col voto di castità, mezzo efficacissimo per
unirsi a Dio in grado molto perfetto; giacché i pia-
ceri sensuali, che affievoliscono e infraliscono gran-
demente le forze dello spirito, con tal mezzo si sa-
crificano del tutto a Dio, non uscendosi allora sol-
tanto dalla terra del mondo, ma anche dalla terra
della propria umanità: questo è rinunciare ai ter-
restri piaceri della carne. Ma ben più perfetta è la
276
nostra unione con Dio mediante il voto di obbe-
dienza, poiché rinunciamo con quello a tutta l'ani-
ma nostra, a tutte le sue potenze, a tutti i suoi vo-
leri e affetti, per sottometterci docilmente non pure
alla volontà di Dio, ma anche a quella dei nostri
superiori, la quale deve riguardarsi ognora come la
volontà di Dio stesso: ardua rinuncia, a motivo delle
tante vogliuzze germoglianti di continuo sotto l'a-
zione dell'amor proprio. Segregati così da tutto, noi
ci ritiriamo nell'intimo dei nostri cuori per unirci
più perfettamente a Dio.
Ora, per venir al particolare, prendiamo per
esempio la Congregazione della Visitazione: il fine
dell'Istituto fa vedere quale ne sia il particolare
spirito. Io ho ritenuto sempre che sia spirito di pro-
fonda umiltà con Dio e di gran dolcezza col pros-
simo: avendo minor rigore per il corpo, bisogna che
abbia tanto maggior dolcezza di cuore. I Padri an-
tichi sono d'avviso che, dove scarseggiano le mor-
tificazioni corporali, debba esser maggiore la perfe-
zione dello spirito; bisogna dunque che nelle case
della Visitazione l'umiltà con Dio e la dolcezza col
prossimo suppliscano le austerità proprie degli altri
Istituti. È vero che le austerità son buone in sè e
quali mezzi di perfezione; ma non sarebbero buone
per quelle Suore, perchè contrarie alle loro regole.
Lo spirito della dolcezza è talmente lo spirito

15.4 Page 144

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della Visitazione, che, chiunque volesse introdurvi
maggiori austerità delle attuali, distruggerebbe sen-
z'altro l'Istituto: sarebbe infatti un andar contro al
fine, per cui fu fondato, e che è di ricevere don-
zelle e donne' incapaci per le loro condizioni fisiche
di praticare austerità o non ispirate e tratte a ser-,
vir Dio unendosi a lui per la via delle austerità pro-
prie delle altre Congregazioni. Da tali Suore si po-
trebbe domandare: — E caso mai una di noi avesse
complessione robusta, non potrebbe con licenza della
superiora' praticare più austerità delle consorelle, in
modo ei e queste non se n'accorgano? — Io rispon-
derei che non vi è segreto, il quale segretamente
non passi da una ad un'altra; poi, via via si ven-
gono a creare così religioni nelle religioni e a for-
mare piccole consorterie, sicché si produce un di-
sgregamento generale. La beata Madre (1) santa
Teresa rappresenta egregiameute il male causato da
queste velleità di fare più che non imponga la re-
gola e che la-Congregazione non pratichi, massime
quando si tratti della superiora; il male allora si ag-
graverà, perchè le dipendenti, appena se ne accor-
gano, vorranno subito fare altrettanto, e tutto que-
sto sarà causa di tentazione a quelle che non po-
tessero o non volessero fare il medesimo.
(1) Lib. fundat., 18.
2
Particolarità di simil genere non siano permesse
nè tollerate in religione, eccetto casi di speciale
necessità, come quando si trattasse di gravi tenta-
zioni: allora non,vi sarebbe niente di straordinario a
domandare il permesso di far penitenze più degli
altri: ci vuole qui la stessa semplicità dei malati,
che debbono chiedere le medicine giudicate oppor-
tune a dar loro sollievo. Che se vi fosse taluno così
pieno di generosità e coraggio da voler arrivare
alla perfezione in un quarto d'ora facendo più della
comunità, io gli consiglierei di umiliarsi e di rasse-
gnarsi ad aspettare almeno tre giorni, andando di
pari passo con gli altri (1).
Trasgressioni delle regole.
Le regole per sè non obbligano sotto pena di
peccato nè mortale nè veniale, ma si danno uni-
camente perchè servano di norma nella condotta
delle persone religiose. Tuttavia chi le trasgredisse
volontariamente, a bella posta, con disprezzo o con
iscandalo dei confratelli o degli estranei, commet-
terebbe senza dubbio mancamento grave; non si po-
trebbe infatti scusare da colpa chi vilipende e di-
scredita le cose di Dio, rinnega la sua professione,
(1) E. XIII (t. vi, pp. 223-230).
279

15.5 Page 145

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scompiglia il suo Istituto e manda a male i frutti
di buon esempio che questo deve produrre a van-
taggio del prossimo: perciò un tal disprezzo volon-
tario sarebbe infine seguito da qualche grosso ca-
stigo del Oielcr, massime dalla privazione delle gra-
zie e dei doni dello Spirito Santo, generalmente sot-
tratti a chi abbandona i suoi buoni propositi e
lascia la strada, per cui Dio l'ha incamminato.
Ora, il disprezzo delle regole, come pure di tutte le
opere buone, si ravvisa nei seguenti casi.
Vi cade chiunque per disprezzo trasgredisca od
ometta di eseguire una disposizione, non solo vo-
lontariamente, ma di proposito deliberato; altra
cosa sarebbe il farlo per inavvertenza, per dimen-
ticanza o per improvviso assalto di passione: il di-
sprezzo include la volontà esplicita e risolutamente
decisa a fare quello che si fa. Quindi chi trasgre-
disce una disposizione o commette disobbedieuza
per disprezzo, non solo disobbedisce, ma vuol di-
sobbedire: non solo fa l'atto, ma lo fa "con inten-
zione. Vi sarà proibizione, per esempio, di man-
giare fuori pasto; uno mangia prugne, albicocche
o altra frutta: trasgredisce la regola e fa una
disobbedienza. Orbene, se mangia attirato dal di-
letto che pensa di godervi, disobbedisce non per di-
sobbedienza, ma per golosità; quando invece man-
gia, perchè non fa caso della regola e non vuole
280
tenerne conto nè sottomettervi si, allora disobbedisce
per 'disprezzo e disobbedienza.
Inoltre chi disobbedisce perchè adescato o sor-
preso da passione, vorrebbe poter contentare la pas-
sione senza disobbedire, e, mentre piglia gusto, per
esempio, a mangiare, si duole di farlo con disobbe-
dienza; ma a chi disobbedisce per disobbedienza e
disprezzo, non incresce, ma piace il disobbedire: di
modo che nel primo la disobbedienza segue o ac-
compagna l'azione, mentre nell'altro la precede e
ne è causa e motivo, benché c'entri la golosità. Ohi
.mangia contro il divieto, conseguentemente o simul-
taneamente commette disobbedienza, quantunque,
se la potesse, pur mangiando, evitare, non la vor-
rebbe commettere, come chi, bevendo troppo, non
vorrebbe inebriarsi, benché però bevendo s'inebrii;
ma colui che mangia per disprezzo della regola e
per disobbedienza, vuole la disobbedienza stessa,
sicché non farebbe nè vorrebbe fare l'azione, se non
vi fosse spinto dalla volontà di disobbedire. L'uno
dunque disobbedisce volendo una cosa, a cui va
unita la disobbedienza, e l'altro disobbedisce vo-
lendo la stessa cosa, perchè vi è unita la disobbe-
dienza. Uno trova la disobbedienza nella cosa vo-
luta e non ve la vorrebbe trovare; l'altro ve la
cerca, e vuole la cosa unicamente per l'intenzione
che ha di trovarvi la disobbedienza. Uno dice: —
2

15.6 Page 146

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Disobbedisco, perchè voglio mangiare quest'albi-
cocca, perchè non posso mangiare senza disobbe-
dire; — e l'altro dice: — La mangio perchè voglio
disobbedire; questo farò mangiando. — La disobbe-
dienza e il disprezzo segue il primo e muove il
secondo.
Ora, questo disobbedire formalmente, questo di-
sprezzare cose buone e sante non è mai senza pec-
cato, almeno veniale, neanche in cose di puro con-
siglio; poiché, sebbene si possa non seguire i consi-
gli di cose sante, .preferendone altre senz'ombra di
colpa, tuttavia non si può senza colpa trasandarli
per disprezzo: non ogni bene è da fare, ma ogni
bene dev'essere rispettato e stimato e a più forte
ragione riguardato senza disprezzo e vilipendio.
Vi è di più. Chi viola per disprezzo la regola, mo-
stra di ritenerla senza pregio e utilità, il che viene
da presunzione e arroganza somma; ovvero, se,, pur
ritenendola utile, ricusa di sottomettervisi, in tal
caso infrange il suo proposito con grave pregiudi-
zio del prossimo, venendo meno all'impegno preso
con la sua Congregazione e mettendo il disordine in
una casa di persone consacrate a Dio: tutte colpe
gravissime.
Affinchè vi sia modo di distinguere, quando si
violi la regola o l'obbedienza per disprezzo, ecco
qui alcuni segui:
2
1. Eurlarsi delle correzioni senz'ombra di penti-
mento.
2. Tirare avanti senza mostrare mai desiderio nè
volontà di emendarsi.
3. Sostenere che la regola o il comando è uno
sproposito.
4. Cercar di trascinare altri nella medesima vio-
lazione, liberandoli da ogni timore con dire che è
cosa da nulla, che non vi è nessun pericolo.
Questi segni però non sono sempre interamente
sicuri, provenendo talvolta da altre cagioni e non
dal disprezzo; può darsi infatti che una persona si
burli di chi la riprende, per poca stima che ne ha,
e che continui senza emenda per debolezza, e che
muova contestazioni per dispetto e collera, e che
svii gli altri per non essere sola e per avere atte-
nuanti al proprio male. Ciò nondimeno vi sono le
circostanze che aiutano a giudicare se si agisca
per disprezzo: poiché al disprezzo tiene ordinaria-
mente dietro la sfrontatezza e l'aperta licenza, e chi
l'ha in cuore, finisce sempre con portarlo sulle lab-
bra, dicendo, come nota Davide (1): Chi è che ci
comandi?
Aggiungerò una parola su d'una possibile ten-
tazione. Talvolta una persona non si crede disobbe-
(1) Ps. xi, 5.
283

15.7 Page 147

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diente e inosservante, finché disprezza soltanto una
o due regole, giudicate di poca entità e osserva tutte
le altre. Ma chi uon vede qui l'inganno? Ciò che uno
stima da poco, altri lo stimerà da molto, e vicever-
sa; cosicché in una comunità questi non terrà conto
di una regola, quegli ne disprezzerà una seconda,
quell'altro una terza, e vi regnerà il disordine. Al-
lorché lo spirito umano si lascia guidare solo dalle
sue inclinazioni e avversioni, non è una volubilità
continua e un continuo andare di colpa in colpa?
Ieri mi sentivo allegro, e il silenzio non mi andava,
e la tentazione mi suggeriva che era un ozio il mio
tacere; oggi che sono malinconico, la tentazione mi
dice che è ancor più da ozioso il far ricreazione e
conversazione. Ieri che ero in giòlito, il cantare mi
piaceva; oggi che sono in aridità,) non mi piace più.
E così di seguito.
Per conseguenza, chi vuol vivere contento e non
commetter falli, si abitui a vivere secondo ragione.,
secondo le regole e l'obbedienza, e non in balìa delle
sue inclinazioni o avversioni; stimi tutte le regole,
rispettandole e amandole, non foss'altro con la parte
superiore del suo spirito; disprezzandosene una og-
gi, domani se ne disprezzerà un'altra, e dopo doma-
ni un'altra ancora, e spezzato una volta il vincolo
del dovere, a poco a poco di tutto il fascio si fa
un grande sparpaglio e una completa dispersione.
284
Dio non permetta, che una persona religiosa
vada mai talmente fuori della strada del divino
amore da precipitare nel disprezzo delle regole per
disobbedienza, per durezza e ostinazione di giudi-
zio: e che potrebbe capitarle di peggio? qual disgra-
zia per lei maggiore di questa? Dato poi che si pro-
vino disgusti o ripugnanze per le regole, si fac-
cia come nelle altre tentazioni, si combatta cioè
questo stato d'animo con la ragione e con un buo-
no e forte proposito nella parte superiore dello spi-
rito, in attesa che Dio mandi sul nostro cammino
la sua consolazione e ci mostri, come a Giacobbe
stanco e spossato dal viaggio (1), che le regole souo
la vera scala, per cui a guisa di Angeli dobbiam
siilire a Dio con la carità e scendere in noi stessi
con l'umiltà.
Ma qualora senz'avversione ci accada di violare
I>er fragilità la regola, umiliamoci subito dinanzi al
Signore, domandiamogli perdono, rinnoviamo il pro-
Insito di osservare quella tal regola stessa, guar-
dandoci soprattutto dal cadere in iscoraggiamenti
e inquetudini, ma con novella fiducia in Dio ricor-
rendo al suo santo amore.
In confessione, le trasgressioni commesse non per
pura disobbedienza nè per disprezzo, ma per ira-
ti) Gen., xxvnr, 11, 12.

15.8 Page 148

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scuraggiue, debolezza, tentazione o negligenza si po-
tranno e dovranno dire come peccati veniali o co-
me cose in cui j»uò esserci peccato veniale; poiché,
sebbene l'obbligo della regola non importi peccato,
vi può essere tuttavia peccato a causa della negli-
genza, trascuraggine, precipitazione o altro difetto
simile. Presentandosi un bene che giovi al nostro
avanzamento, massime se si è invitati e chiamati
a farlo, è raro il caso che non vi sia peccato a tra-
lasciarlo volontariamente; invero, questa omissione
procede sempre da negligenza, da qualche affetto
sregolato o da mancanza di fervore, e se dovremo
render conto delle parole puramente oziose, quanto
più lo dovrem rendere d'aver reso ozioso e inutile
l'invito fattoci dalla regola a praticarla per nostro
bene!
Dicevo che qualche rara volta non è offesa di
Dio tralasciare volontariamente di fare un bene che
giovi al nostro profitto spirituale: infatti si tralascia
anche non volontariamente, ma per dimenticanza,
per disattenzione, per sorpresa; nei quali casi non
c'è peccato nè piccolo nè grande, a meno che la
dimenticanza riguardi oggetti così importanti, da
essere noi tenuti a usare molt'attenzione per non
incorrere in tali difetti. Uno, poniamo, rompe il
silenzio, perchè non fa attenzione che è tempo di
silenzio, e non se ne ricorda, perchè pensa ad altro
2
o perchè, preso da smania di parlare, dice qualche
cosa prima d'aver pensato a contenersi; costui cer-
tamente non pecca, perchè l'osservare il silenzio
non è cosa tanto importante che si sia obbligati di
porvi un'attenzione, la quale escluda ogni dimen-
ticanza. Al contrario, se tu dimenticassi di servire
un malato, che per manco di assistenza venisse
a trovarsi in pericolo, e ti fosse stata imposta
cotest'assistenza, per la quale si riposasse in te,
non sarebbe buona scusa il dire: — Non ci pensavo:
non me ne sono ricordato. — La cosa era tanto
seria, che bisognava starvi attento per non trasan-
darla; qui, il manco di attenzione non ammette
scusa.
Certo è che il progredire dell'amor divino renderà
le anime religiose sempre più esatte e diligenti nel-
l'osservanza delle "loro regole, benché queste non
obblighino sotto pena di peccato. Se obbligassero
sotto pena di morte, còme si osserverebbero rigo-
rosamente! Ora, l'amore è forte come la morte (1);
dunque le attrattive che ha per noi l'amore a farci
eseguire un buon proposito sono potenti come le
minacce di morte. Lo zelo, soggiunge la sacra Can-
tica, è duro e saldo come l'inferno; le anime dun-
que che han zelo, faranno, per virtù del medesimo,
(1) Cant., vili, 6.
287

15.9 Page 149

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quello che farebbero, e più ancora che non fareb-
bero, per timore dell'inferno; sicché i religiosi, for-
zati dalla soave violenza dell'amore, osserveranno,
mercè l'aiuto di Dio, le loro regole con la medesi-
ma esattezza che se vi fossero obbligate sotto pena
di dannazione eterna (1).
Anche il far progresso nella semplice osservanza
esterna delle regole ha gran valore. Dio formò pri-
ma l'esteriore dell'uomo, poi soffiò nell'interno l'a-
lito della vita, e quell'esteriore fu fatto uomo vi-
vente (2).
Insomma, le persone religiose avranno sempre a
mente quello che dice nei Proverbi Salomone (3):
Chi custodisce i comandamenti, custodisce l'anima sua,
e chi è trascurato nel seguire la sua strada, morrà.
Orbene, la tua strada è il genere di vita, in cui Dio
ti ha posto. Non dico nulla qui dell'obbligo di os-
servare i voti; è chiaro che il trasgredire formal-
mente la regola nella materia dei voti essenziali di
povertà, castità e obbedienza, costituisce peccato
mortale (4).
I religiosi e le religiose che mantengono la pro-
Ci) E. i (t. vi, pp. 5-12).
(2) L. MDCIV (t. x i x , p. 1 2 4 ) .
(3) Prov., x i x , 16.
(4) E. i (t. vi, p. 12).
288
messa fatta di osservare fedelmente le loro regole,
godono la pace dell'anima, perchè il Signore viene
ad essi e dice loro: La pace sia con voi (1), come
fece con gli Apostoli (2). Felici poi saranno al ter-
mine della vita, se potran dire con verità la parola
del Salvatore: Tutto è compiuto! (3). Cioè, ho fatto
tutto quello che dalle regole o dalle disposizioni de'
miei superiori mi era comandato (4).
Comunità osservanti e non osservanti.
Vi è al mondo consolazione paragonabile a quella
che gode un'anima religiosa, la quale abbia Dio
solo per oggetto dell'amor suo? Vi è spettacolo più
dolce del vedere un superiore, una superiora, cui
fanno corona tante anime, le quali, come rami di
un bell'olivo, fioriscono sul tronco della santa ob-
bedienza e osservanza regolare?
Geremia vide due panieri colmi di fichi. Ne gu-
stò da uno, e li trovò così fieramenti amari, che fu
costretto ad esclamare: Cattivi fichi, molto cattivi!
(1) Lue., xxiv, 36.
(2) S. R. x x x (t. ix, p. 299).
(3> JOAN., XIX, 30.
(4) S. R. x x x (t. ix, p. 2831.
289
10. - E. CERTA, LA pila religiosa ecc.

15.10 Page 150

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Ne gustò subito dell' altro paniere, e li trovò così
squisitamente dolci, che esclamò: Buoni fichi, molto
buoni! (1). È amarezza grande quella di una comu-
nità religiosa inosservante. Non vi è, dice S. Ber-
nardo (2), nessun dolore uguale al dolor dei denti;
così pure non vi è nessun male paragonabile a quello
di un monastero rilassato. Fortunati dunque i reli-
giosi, che stanno nel paniere dei fichi dolci: non vi
è dolcezza che sia paragonabile a quella di una fa-
miglia religiosa osservante (3).
§ 9. SUPERIORI E INFERIORI RELIGIOSI.
Umiltà dei superiori.
L'umiltà rifiuta le cariche, ma non si ostina nel
rifiuto; chiamata da chi ha il potere di farlo, non
ragiona più sull'indegnità sua a quel dato ufficio,
ma crede tutto, spera tutto, sopporta tutto, con l'aiuto
della carità (4), mantenendosi costantemente sem-
plice. La santa umiltà è la grande amica dell'ob-
(1) JER., XXIV, 1-3.
(2) Sermo XCIIB
(3) L. c c c x (t. XIII, p. 96).
( 4 ) I Cor., X I I I , 7 .
290
\\
bedienza: e mentre da un lato non ardisce inai pen-
sare di poter cosa alcuna, dall'altro pensa anche sem-
pre che l'obbedienza può tutto; e se la vera sem-
plicità ricusa umilmente le cariche, la vera umiltà
semplicemente le esercita (1).
Se vieni adoperato ancor giovane in uffici impor-
tanti, pigliane motivo a profondamente umiliarti,
risoluto di obbedire fedelmente alle regole e al tuo
superiore (2).
Dio chiama a servirlo le cose che non sono (3),
come le cose che sono, e si vale del nulla come del
molto per la gloria del suo nome. L'umiltà sia dun-
que la cattedra della tua superiorità, e sii gagliar-
damente umile e umilmente gagliardo in Colui, che
toccò il colmo della sua possanza nell'umiltà della
Croce. Chi viene chiamato al governo di una casa
religiosa, riceve un ufficio grande e di grande im-
portanza; ma Dio allunga il suo braccio onnipotente
alla misura dell'opera da lui affidata. Tieni gli oc-
chi su questo grande Salvatore che ti libererà dal-
Yabbattimento di spirito e dalle procelle (4) (5).
(1) L. MCCXXIIII (t. XVII, pp. 259-260).
( 2 ) L. MCCXXVI (t. XVII, p. 2 6 4 ) .
(3) I Cor., i, 28.
( 4 ) Ps. LIIV, 9 .
(5) L. MDCCCXVII (t. xx, pp. 124-5).

16 Pages 151-160

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16.1 Page 151

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Fiducia del superiore in Dio.
Tu devi credere che, essendoti stata imposta
la tua carica per volontà di coloro ai quali sei te-
nuto di obbedire, Dio si metterà alla tua destra (1)
e la porterà con te, anzi porterà te e quella in-
sieme (2).
Quale consolazione per te il pensare che Dio
stesso ti ha fatto superiore, essendo tu divenuto
tale per le vie ordinarie! Quindi la sua Provvidenza
è, per sua disposizione, obbligata a condurti per
mano, affinchè tu faccia bene la parte, a cui ti chia-
ma. Va' fiducioso dietro la scorta di questo buon
Dio e credendo a occhi chiusi in quella regola ge-
nerale, che Dio, quando ha principiato in noi la buo-
na opera, la perfezionerà (3) con la sua sapienza,
purché noi siamo verso di lui fedeli ed umili.
— Ma ne' suoi servitori si ricerca chi sia fe-
dele (4).
"'
— E io ti dico che tu sarai fedele, se sarai
umile.
— Ma sarò io umile?
(1) Cfr. Ps. xv, 8.
(2) L. MCXIX (t. XVII, p. 68).
(3) Philipp., i, 6.
(4) I Cor., iv, 2.
2
— Sì, se lo vuoi.
— Ma io lo voglio.
— Dunque lo sei.
— Ma io sento purtroppo di non esserlo.
— Tanto meglio: questo ti serve per essere umile
davvero.
Insomma, non tante sottigliezze: va' avanti spe-
ditamente: e poiché Dio ti ha commesso il carico
delle sue anime, tu commetti a lui il carico della
tua, affinchè egli porti tutto: dico, te e la tua carica.
Dio ha il cuore grande, e nel suo cuore vuole far
posto anche al tuo. Eiposa in lui; cadendo poi in
colpe o difetti, non ti sbigottire, ma, dopo esserti
umiliato davanti a Dio, ricordati che la potenza
divina si manifesta più gloriosamente nella nostra
debolezza (1). In una parola, sia la tua un'umiltà
animosa e gagliarda, mercè la fiducia che devi ri-
porre nella bontà di Colui, che ti ha investito della
carica.
E per tagliar corto con le tante repliche, solite a
farsi in tali occasioni dalla prudenza umana sotto
nome di umiltà, rammenta che il Signore non vuole
da noi che gli domandiamo il nostro pane annuo
nè mensile nè settimanale, ma quotidiano. Cerca di
far bene oggi, senza pensare al domani; poi domani
(1) U Cor., xii, 9.
293

16.2 Page 152

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procura di fare lo stesso, e non darti pensiero di
quello che farai durante tutto il tempo della tua
carica, ma va' sostenendo giorno per giorno il tuo
ufficio senza spingere tant'oltre le tue preoccupa-
zioni, poiché il tuo Padre celeste, che ha cura di
guidarti oggi, lo farà anche domani e doman l'al-
tro, secondochè tu, conoscendo la tua debolezza, spe-
rerai soltanto nella sua provvidenza (1).
Orsù, tieni alti gli occhi in Dio: raddoppia il
coraggio colla santissima umiltà, rinvigoriscilo cou
la dolcezza, confermalo con l'eguaglianza di spirito:
rendi l'animo tuo abitualmente padrone delle tue
inclinazioni e tendenze, non permettendo alle ap-
prensioni di sorprenderti il cuore: un giorno ti darà
la cognizione di quello che avrai da fare il giorno
dopo (2). Se hai di già superato passi difficili, si
fu per la grazia di Dio; la stessa grazia ti assisterà
in tutte le occasioni avvenire, liberandoti succes-
sivamente da altre difficoltà e mali passi, quand'an-
che Egli dovesse inviarti un Angelo che ti porti nei
punti più scabrosi (3).
Rivolgi gli occhi alle tue infermità e deficienze,
ma per umiliarti, e non per ismarrirti d'animo. Vedi
(1) L. MDCLXXXIX (t. x i x , pp. 300-301D.
(2) Cfr. Ps. XVIII, 3.
(3) MATT., IV, 6 ; L u e . , i v , 10, 11.
294
spesso alla tua destra Dio e i due Angeli da lui a
te deputati, uno per la tua persona e l'altro per
la direzione della tua comunità. Di' sovente a cote-
sti due Angeli: — Angeli santi, come dobbiamo fa-
re? — Supplicali a procurarti sempre la conoscenza
del volere divino, oggetto della loro contemplazione,
e le ispirazioni che la Madonna tien pronte per te
nel suo amore. Osservando le molteplici imperfezio-
ni che in te vivono e in tutti coloro che il Signore
e la Madonna ti hanno affidati, mantienti in un
timor santo di offendere Dio, senza farne giammai
le meraviglie: non vi è da stupire, che ogni fiore
voglia la sua cura speciale in un giardino (1).
Getta, gettala tua ansietà sulle divine spalle del
Signore e Salvatore (2), che ti porterà e ti darà
forza (3). S'ei ti chiama (ed è vero che ti chiama)
a servirlo in un dato modo che sia di suo gradimen-
to, quantunque non di tuo gusto, non perderti di
coraggio, anzi abbine più che non se il tuo gusto an-
dasse d'accordo col suo gradimento; quando in un
affare entra meno del nostro, le cose vanno meglio.
Non permettere al tuo spirito di guardare a sè e di
rimirare le sue forze e inclinazioni: fissa gli occhi
(1) L. MCXXVII (t. XVII, pp. 80-81).
(2) Ps. LIV, 2 3 ; I PETR., v, 7.
(3) Cfr. Os., xi, 3.
2

16.3 Page 153

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nel beneplacito di Dio e nella sua provvidenza. Non
è tempo di mettersi a discorrere, quando bisogna
correre; non è tempo eli ragionare delle difficoltà,
quando bisogna risolverle. Cingi di fortezza i tuoi
fianchi (1) e riempi il cuore di coraggio, e poi di':
Riuscirò a fare, non io, ma la grazia di Dio con
me (2) (3). Coraggio grande abbi, e non solamente
grande, ma di buona lena e di lunga durata, e, per
averlo, chiedilo spesso a Colui che solo te lo può
dare: Egli te lo darà, se con semplicità di cuore tu
corrisponderai alla sua grazia (4).
I superiori nel governo delle anime.
Ai bambini si suol dare solo latte per nutrimen-
to; poi, quando crescono e mettono i denti, si dà
loro pane e burro: burro solo, no, ma si aspetta che
possano mangiar pane per mettervelo sopra. I supe-
riori e quanti sono preposti al governo delle ani-
me, debbono avere dolcezza e pazienza col prossimo,
guidando, elevando e trattando ciascuno con gran
(1) Prov., xxxi, 17.
(2) I Cor., xv, 10.
(3) L. MCXXII (t. xvii, pp. 72-73).
(4) L. Mccxxiii (t. xvn, p. 261).
26
carità in modo conforme alla sua capacità spirituale,
per guadagnare tutti al Signore e farli crescere nelle
vere e solide virtù. Diano latte a chi ancora è de-
bole e tenero nella vita spirituale; col crescere poi
delle forze ci vuole pane, cioè incoraggiamento a
progredire nella perfezione dell'amor divino e nella
pratica delle virtù sode, stimolando più con l'esem-
pio che con le parole (1).
Quanti han governo di anime, non faranno mai
nulla che valga, se non avviano i loro discepoli alla
scuola del Signore, se non li tuffano in questo mare
di scienza, se non li spingono e portano a cercare
il nostro caro Salvatore per essere da lui istruiti.
Questo voleva dire il grande Apostolo, quando scri-
veva a quei di Corinto: — Figliuolini miei, che io
ho generati a Gesù Cristo fra tante pene, fatiche
e travagli e per i quali ho sofferto tanti dolori e
spasimi, vi assicuro che non vi lio ammaestrati per
trarvi a me, ma per attirarvi al mio Signore Gesù
Cristo (2). —
Coloro che han governo di anime, se con le loro
belle parole cercano di tirare a sè discepoli e dipen-
denti, somigliano a quei pagani, eretici e altre ca-
naglie del medesimo genere che cicalano e dalle
(1) S. R. x i v (t. i x , p. 103).
(2) / Cor., IV, 9-16; cfr. Gal., iv, 19.
297

16.4 Page 154

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loro cattedre si affannano a imbastire ragionamenti
belli, sottili e stupendamente esposti, per condurre
le anime non a Gesù Cristo, ma a se stessi. Le at-
tirano a sè con il loro dire studiato, servendosi a
tal uopo della parlantina che hanno, e seducendo
gli spiriti deboli. Invece i servi di Dio, insegnando
a quei che essi dirigono, si prefiggono solamente di
portarli a Dio e con le parole e con le opere. In
questo stiano ben attenti tutti i superiori; perchè
non otterranno mai niente di buono, se non indiriz-
zeranno i loro discepoli al Signore, affinchè impa-
rino .dà lui medesimo a conoscerlo e a fare quanto
devono per il suo amore e servizio (1).
San'Giovanni Crisostomo, commentando una pa-
rola dell'Epistola di san Paolo agli Ebrei (2), os-
serva come il grande Apostolo con quei di Corinto
fosse quale una nutrice con i suoi piccini, cibandoli
di alimenti semplici, dolci e adatti ai bimbi; invece,
quando scriveva agli Ebrei, lo facesse con tanta
profondità dì dottrina ed elevatezza di stile, che
nulla più. Se vuoi vedere san Paolo fra i Corinti,
guarda una nutrice che abbia cinque o sei piccoli
intorno. Vedi l'abilità di quella donna: sa dare a
ognuno quello che fa per lui, e trattarlo secondo la
(1) S. R. xxxvmi (t. ix, pp. 103-4).
(2) Hebr., v, 11, alla parola imbecilles.
298
sua capacità: à quello di uno, due, tre anni, porge
il latte, parla scherzando e balbettando, e non in-
segna ancora a dir padre e madre, perchè, così pic-
colo, non sarebbe capaci', di proferire quei nomi, ma
fa dire papà e mamma. Agli altri di quattro o cin-
que anni insegna già a parlar meglio e a mangiare
cibi più ordinari; ai grandicelli apprende la civiltà
e la modestia.
. Orbene, scrive quel santo Padre (1), allorché il
grande Apostolo scrive: — Io sono con voi come la
nutrice, — che cosa vuol significare se non che egli
fa con i suoi discepoli, come fa la balia con i suoi
bambini? È necessario con le anime essere molto
ingegnosi per condurle tutte in modo conveniente,
secondo la loro capacità e portata. Si richiede gran
discernimento nel porgere loro il pascolo della pa-
rola di Dio a tempo opportuno, quando siauo di-
sposte a riceverla: discernimento, anche nel porgere
a ciascuna quello che le bisogna e nel modo più ac-
concio (2).
Una buona regola generale è questa, che, quanto
più sia possibile, si agisca su gli spiriti come fanno
gli Angeli, con impulsi soavi e senza violenza (3).
( 1 ) CHRYS., In I Thess.
(2) S. R. xxxvm (t. ix, pp. 405-6).
(3) L. ccxxxiv (t. XII, p. 361).

16.5 Page 155

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Superiori e inferiori nelle correzioni.
dell'ammonire si usi amore e dolcezza: gli av-
vertimenti fanno così miglior effetto; operando di-
versamente, si potrebbero sconcertare i cuori de-
boli (1).
Per fare la correzione si cerchi e si aspetti il
momento opportuno: farla subito è alquanto perico-
loso. Ma poi facciamo con semplicità il dover nostro
secondo Dio, e senza scrupoli. Quand'anche la per-
sona dopo l'avviso datole si affligga e si turbi, la
causa non sei tu, ma la sua immortifìcazione. E se
essa commette lì per lì qualche mancamento, questo
farà sì che ne eviti molti altri, i quali avrebbe com-
messi, perseverando nel suo difetto. Il superiore non
tralasci di correggere i suoi dipendenti, perchè vede
in loro della ritrosia a ricevere la correzione; forse,
finché vivremo, noi ne avremo sempre, essendo cosa
del tutto contraria alla natura dell'uomo l'amare di
venir umiliato e corretto; basterà non secondare tale
ripugnanza con la volontà, la quale bisogna che ami
l'umiliazione (2).
Sarà lecito ai religiosi dirsi fra loro, che in date
( 1 ) L . DCCCLXXXIII ( t . XVI, p. 2 1 ) .
(2) E. XII (t. VI, p. 2131).
circostanze sono stati mortificati dal superiore? Ri-
spondo che vi sono tre maniere di dirlo. La prima è
quando un religioso dicesse: — Caro mio, il supe-
riore mi ha or ora mortificato per bene! — ma ne
fosse tutto lieto per essere stato degno di tale mor-
tificazione e per avergli il superiore procurato quel
po' di guadagno spirituale con dire a lui il fatto
suo senza tanti riguardi; e così mettesse a parte
della sua gioia il confratello, affinchè lo aiutasse a
benedirne Dio. La seconda maniera è dirlo per pro-
prio sollievo; trovando gravosa la mortificazione o
correzione, il ripreso va ad alleviarsene con il con-
fratello, che comprendendolo gli torrà uha parte del
peso: e questo modo non è tanto passabile come il
primo, perchè si commette imperfezione con il menar
lamento. Ma la terza maniera sarebbe addirittura
cattiva, ed è il parlare della cosa in tono di mor-
morazione e di stizza, e allo scopo di far vedere che
il superiore aveva torto.
Riguardo alla prima maniera, benché il parlar
così non sia male, sarebbe tuttavia molto meglio
non dir nulla, ma rallegrarsi seco stesso con Dio.
La seconda è da evitarsi, perchè con i lamenti si
perde il merito della mortificazione. Sai che cosa
conviene fare quando si è ripresi e mortificati? pi-
gliarsi la mortificazione come un bel pomo e nascon-
301

16.6 Page 156

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: " ,r>- - -
-,
» ••
derlo in seno, baciandolo e carezzandolo con la mag-
gior tenerezza possibile (1).
Del riferire al confratello parole
sfavorevoli dette dal superiore, e viceversa.
L'andar a dire ad un confratello che il superiore
ha detto così e così sul conto suo, è colpa più
grave che non si pensi. I religiosi dovrebbero amare
sì gelosamente la pace e la tranquillità reciproca,
da non fare nè dire mai nulla che potesse recar
dispiacere; ora, non vi è cosa che possa affliggere
tanto una persona, quanto il credere che il pro-
prio superiore sia malcontento di lei. Chi pertanto
farà lo sproposito di andar a riferire una paroletta
sfuggita di bocca al superiore, paroletta che rappor-
tata sembrerà una cosa grossa e terrà in pena e
angoscia l'anima del confratello? Chi agisse così of-
fenderebbe davvero la carità! In nome di Dio, non si
faccia mai questo. Io non vorrei nemmeno che si di-
cesse al superiore il nome del confratello che parlasse
contro di lui; gli direi bensì che la tal cosa da lui fat-
ta viene disapprovata, ma non gli direi punto chi sia
che muove quel biasimo. Senza il fervore e la pu-
rezza della carità non si avrà mai perfezione (2).
(1) E. xi (t. vi, 194).
(2) E. xvi (t. vi, pp. 305, 306-7).
302
Del voler essere amato dal superiore.
Non si dia alle carezze del superiore un'impor-
tanza tale, che, qualora egli non ci parli secondo
il nostro gusto, ne tiriamo subito la conclusione che
non siamo da lui amati. Ci sia tanto cara l'umiltà
e la mortificazione da non cadere in malinconia per
lievi sospetti, forse infondati, di non essere ben
voluti come ci farebbe desiderare il nostro amor
proprio. — Ma ho commesso una mancanza verso
il superiore, dirà taluno, e quindi sto in apprensione
ch'egli sia corrucciato con me; insomma, egli non
mi ' avrà più nel buon concetto di prima. — Eh,
tutto cotesto affanno viene per ordine di un certo
Iladre spirituale, chiamato amor proprio, che salta
su a dire: — Come? farla così grossa? che dirà,
che penserà il superiore? Oh, non c'è nulla di buono
da sperare sul conto mio! Sono un pover'uomo! non
riuscirò mai a far nulla che contenti il superiore!
— e lamentazioni somiglianti. Non si dice già: —
Purtroppo, ho offeso Dio! bisogna che mi rivolga
alla sua bontà e speri da lui la forza; — ma si dice;
— Lo so che Dio è buono e che non farà caso del-
la' mia infedeltà, perchè conosce troppo bene la
nostra debolezza; ma il superiore!... — Ed eccoci
da capo con i piagnistei.
Procura, sì, di compiacere a' tuoi superiori, e fa

16.7 Page 157

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del tuo meglio per non disgustarli; ma contentar
tutti non è in poter nostro. Quindi, se per tua de-
bolezza ti avviene di scontentarli qualche volta, ri-
corri tosto alla dottrina da me sì spesso predicata
e che vorrei scolpita nel tuo cuore. Umiltà subito di-
nanzi a Dio, riconoscendo la tua fragilità e debo-
lezza, e poi ripara il fallo, se è cosa che ne valga
la pena, con un atto di umiltà vera verso la per-
sona da te disgustata; dopo, non turbarti mai: il
nostro vero padre spirituale, che è l'amor di Dio,
ce lo vieta, insegnandoci a rientrare, dopo l'atto
di umiltà, in noi stessi per assaporare la ben au-
gurata umiliazione che ci viene dal nostro fallo e la
gradita riprensione che il superiore ce ne farà.
Due amori, due giudizi, due volontà sono in noi:
nessun conto si faccia di quel che ci suggeriscono
l'amor proprio, il proprio giudizio, la propria vo-
lontà: regni sul nostro amor proprio l'amor di Dio
e sul nostro giudizio il giudizio dei superiori; nè
contentiamoci di sottomettere la nostra volontà, fa-
cendo quanto si vuole da noi, ma anche il nostro
giudizio, col credere che non vi siano motivi per non
ritenere giusto e ragionevole il volere dei superiori,
e rintuzzando tutti gli argomenti che il giudizio nò-
stro vorrebbe addurre per dimostrarci che la cosa
comandata sarebbe fatta meglio, se si facesse in
modo diverso dal prescritto. Esponiamo una volta
4
tanto le nostre ragioni, se ci sembrano buone; ma
poi acquietamoci senza repliche a quello che ci si
dice, facendo così morire il nostro giudizio, che noi
siam portati a stimare savio e prudente più d'ogni
altro (1).
Il superiore è per i suoi.
S'incontrano talvolta superiori così proclivi a vo-
ler contentare le persone secolari sotto pretesto di
recar loro giovamento, che dimenticano la cara dei
propri sudditi ovvero non hanno tempo abbastanza
per disbrigare gli affari di casa. I superiori siano
molto affabili con i secolari per far loro del bene
e ad essi dedichino pure una parte del proprio tempo;
ma quanto? Un dodicesimo, impiegando le altre un-
dici parti in casa per la cura della famiglia. Le api
escono bensì dall'alveare, ma solo per necessità o
per utilità e poco stanno a tornare; la regina spe-
cialmente non esce se non rare volte, come quan-
do si sciama, e allora se ne va tutta attorniata dal
suo piccolo popolo. La casa religiosa è un mistico
alveare, pieno di api celesti, le quali vi sono adu-
nate per fabbricare il miele delle celesti virtù; quin-
di il superiore, che sta là nel mezzo come il re,
procuri di tenersi vicine le sue api per insegnar
(1) E. xiv (t. vi, pp. 260-3).
305

16.8 Page 158

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loro il modo di farne acquisto e di conservarle.
Non tralasci, no, d'intrattenersi con le persone se-
colari, quando il bisogno o la carità lo voglia; ma
fuori di questi casi tagli corto. Dico fuori di questi
due casi; perchè si danno persone di riguardo, che
non bisognerebbe scontentare. Ma i religiosi e le
religiose non perdano mai tempo con secolari sotto
pretesto di guadagnare amici alla loro Congrega-
zione.Oh, non è questo che occorra! Standosene
dentro a far bene l'ufficio loro, non dubitino, il Si-
gnore procurerà alla loro Congregazione gli amici
necessari (1).
Le particolarità nei superiori.
Si presenta ora una questioue, se cioè nel ve-
stire e nel vitto convenga usare qualche piccola par-
ticolarità ai superiori più che al resto dei confra-
telli. La questione per me è presto risolta: io dico
di no assolutamente, in qualsiasi cosa non neces-
saria, ma tutto con loro sia come con ognuno degli
altri. Il superiore, sebbene devasi riguardare dap-
pertutto come persona a cui bisogna portare gran-
dissimo rispetto, pure non si mostri singolare in
nulla o sia singolare il meno possibile. Evitiamo
quindi studiosamente ogni cosa, che ci faccia ap-
(1) E. xvi (t. vi, pp. 300-301).
306
parire da più degli altri : dico in maniera fuori del-
l'ordinario e che dia nell'occhio. Il superiore si ri-
conosca e distingua dalle sue* virtù, non da queste
singolarità punto necessarie (1)
I difetti dei superiori.
Che fare, quando nei superiori si vedesse imperfe-
zione come negli altri? non sarebbe cosa da rimaner
sorpresi? Perchè, può pensare taluno, superiori im-
perfetti non si mettono. Purtroppo, se si volessero
mettere soltanto superiori perfetti, converrebbe pre-
gar Dio che ci mandasse dei Santi o degli Angeli,
perchè uomini tali non si troverebbero. Quel che
si ricerca è che nou siano di cattivo esempio; ma
che non abbiano imperfezioni, non si pretende,
purché abbiano le condizioni d'animo necessarie:
se ne potrebbero trovare anche di più perfetti, ma
non per questo sarebbero abbastanza capaci di far
da superiori. Il Signore non ci ha insegnato egli
stesso a passarvi sopra nell'elezione da lui fatta di
san Pietro a superiore di tutti gli Apostoli? Ognuno
sa la colpa commessa da questo Apostolo nella Pas-
sione e Morte del Maestro, allorché, trattenutosi
a parlare con una fantesca, rinnegò così malamente
(1) E. xvi (t. vi, pp. 302-3).

16.9 Page 159

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il suo carissimo Signore, che tanto bene gli aveva
fatto: prima fece l'ardito e poi prese la fuga. Ma
uon basta: anche già confermato in grazia per la di-
scesa dello Spirito Santo, commise tuttavia un fallo
giudicato di tale importanza, che san Paolo, scri-
vendo ai Galàti (1), disse loro di avergli resistito
ili faccia, perchè meritevole di riprensione. Nè sola-
mente san Pietro, ma anche san Paolo e san Barnaba
mancarono: poiché nell'andar a predicare il Vangelo
ebbero una questioncella fra loro, volendo menar
seco il cugino Giovanni Marco, mentre san Paolo
era di parere contrario e non lo voleva in loro com-
pagnia; sicché, ricusando il primo di cedere alla
volontà di san Paolo, si separarono e andarono a
predicare l'Apostolo in un paese e san Barnaba
col cugino (2) in un altro. Il Signore tuttavia trasse
del bene da quel dissenso; poiché invece di predi-
care solamente in una parte della terra, essi get-
tarono il seme del Vangelo in luoghi diversi.
Finché stiamo in questo mondo, non pensiamoci
di poter vivere senza commettere imperfezioni; siamo
noi superiori o inferiori, la cosa è impossibile, es-
sendo tutti uomini, bisognosi perciò di ritenere cer-
tissima verità questa, per non isbigottirci al vedere
(1) Galat., il, 11.
(2) Act., xv, 37-41.
che andiam soggetti a imperfezioni. Il Signore ci
ha comandato di ripetere ogni giorno quelle parole
del Padrè nostro: Rimetti a noi i nostri debiti come
noi li rimettiamo ai nostri debitori, nè questo co-
mando ammette eccezioni, avendo noi tutti bisogno
di fare la stessa preghiera. Non è logico dire: — Il
tale è superiore; dunque non è impaziente e non
ha imperfezioni. — Tu ti stupisci, quando vai dal
superiore ed egli ti dice qualche parola meno dolce
del solito, perchè forse è in pensieri ed ha la testa
agli affari; allora il tuo amor proprio si risente,
mentre dovresti riflettere che Dio ha permesso nel
superiore quel fare asciutto appunto per mortificarti
l'amor proprio, che si aspettava da lui dimostra-
zioni d'affetto con l'ascoltare amorevolmente quello
che tu volevi dirgli. — Ma in fin dei conti di-
spiace trovar mortificazioni, dove non si cercano! —
Ebbene, si venga via pregando per il superiore e
ringraziando Dio di quella salutare contrarietà. In-
somma, ricordiamo le parole del grande apostolo
san Paolo: La carità non pensa male (1); e vuol
dire che la carità, vedendo il male, si volta dal-
l'altra parte senza pensarvi su nè fermarsi a con-
siderarlo (2).
(1) I Cor., XIII, 5.
(2) E. XVI (t. VI, pp. 295-70.
309

16.10 Page 160

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I sudditi adunque non si stupiscano al vedere
che il superiore commetta imperfezioni: san Pietro,
quantunque Pastore della santa Chiesa e superiore
universale di tutti i Cristiani, cadde in un manca-
mento, e mancamento tale da meritare rimprovero,
dice san Pàolo. Neppure il superiore si mostri sbi-
gottito, perchè si veggono i suoi mancamenti, ma
imiti l'umiltà e la dolcezza, con cui san Pietro ac-
cettò la correzione fattagli da san Paolo, benché
ne fosse il superiore. Non saprebbesi che cosa am-
mirare di più, se la forza coraggiosa di san Paolo
a riprendere san Pietro o l'umiltà di san Pietro a
ricevere la riprensione fattagli, e in cosa, nella
quale ei pensava di far bene e aveva ottima inten-
zione (1).
Le qualità personali dei superiori.
Quando ci si cambia il superiore con un altro
meno capace, non è possibile impedire che si af-
facci alla nostra mente il pensiero di questa infe-
riorità; ma fermarvici sopra non dobbiamo in modo
alcuno. Se Balaam fu ammaestrato bene da un'a-
sina (2), a più forte ragione dovremo noi credere
(1) Ib., p. 299.
' (2) Num., xxu, 28-30.
310
che Dio, avendoci dato questo superiore, farà in
maniera che ci diriga secondo la sua volontà, se
non proprio secondo la nostra. Il Signore ha pro-
messo che il vero obbediente non si perderà giam-
mai: no, questo non avverrà di chiunque segua
indistintamente le direttive dei superiori da Dio
per lui stabiliti. Quand'anche i superiori fossero
ignoranti e dirigessero gl'inferiori secondo la loro
ignoranza, gl'inferiori, sottomettendosi in tutto
quello che non fosse manifestamente peccato, nè
contrario ai comandamenti di Dio e della sua santa
Chiesa, io ti posso assicurare che non potrebbero
mai errare. Il vero obbediente, dice la Scrit-
tura Santa (1), conterà le sue vittorie; vale dire,
uscirà vittorioso da tutte le difficoltà, ne le quali
per obbedienza si verrà a trovare, e si caverà fuori
con onore dai sentieri, in cui si sarà per obbe-
dienza incamminato, siano quanto si voglia peri-
colosi. Bella maniera di obbedire, se si volesse ob-
bedir solo a superiori di nostro gradimento! Se
oggi che hai un superiore molto stimato e per la
sua persona e per le sue virtù, gli obbedisci vo-
lentieri, e domani che ne avrai un altro di minor
riputazione, non gli obbedirai volentieri come al
primo, prestandogli bensì eguale obbedienza, ma
(1) Prov., XXI, 28.

17 Pages 161-170

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17.1 Page 161

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non facendo gran caso di quello che ti dice e non
eseguendolo con tanta soddisfazione, eh, cbi non
vede che tu obbedivi all'altro per simpatia e non
puramente per Iddio! Se così non fosse, avresti pia-
cere e stima di ciò che ti dice questo nè più nè
meno che di ciò che ti diceva quello.
Io sono solito ripetere con frequenza una cosa,
che si fa sempre bene a dire, perchè si ha sempre bi-
sógno di osservarla, ed è che tutte le nostre azioni si
devono compiere nel modo voluto dalla nostra parte
superiore, e non mai a seconda dei nostri sensi e delle
nostre inclinazioni. Sicuramente io proverei soddi-
sfazione maggiore, nella parte inferiore dell'anima,
a fare quel che mi comauda un superiore, verso il
quale nutro simpatia, che non a fare quello che
mi dice l'altro, verso il quale non ho simpatia di
sorta; ma, purché io ubbidisca egualmente nella
mia parte superiore, basta; anzi la mia obbedienza
vale di più, quando provo minor gusto a farla,
giacché così mostriamo di obbedire per Iddio e non
per gusto nostro. Al mondo non vi è cosa tanto
comune quanto questa maniera di obbedire a chi
piace; l'altra maniera vi è rarissima e la si pra-
tica solamente nello stato religioso.
Ma non sarà proprio lecito disapprovare quello
che il nuovo superiore fa, ùè dire o pensare, perchè
mai questo dia disposizioni che l'altro non dava!
2
No, mai: bisogna approvare tutto quello che i su-
periori dicono o fanno, permettono o proibiscono,
purché non siano cose evidentemente contrarie ai
comandamenti di Dio: chè allora non si dovrebbe
nè ubbidire nè approvare. Ma, fuori di lì, gl'in-
feriori credano e facciano confessare sempre al
proprio giudizio che i superiori agiscono benissimo
e che han buone ragioni di agire così; altrimenti
si verrebbe a costituir superiore se stesso e a far
inferiore il superiore, sottoponendo al nostro esame
il suo procedere. Si pieghino dunque le spalle sotto
il giogo della santa obbedienza, credendo che i
due superiori avevano entrambi il loro bravo perchè
di dare l'ordine dato, benché quello di uno sia con-
trario a quello dell'altro (1).
Alcune norme pratiche per i superiori.
1. Il superiore non si scoraggi menomamente al
vedere qualche mormorazioncella o qualche critica
sul conto suo. Io ti assicuro che il mestiere del
criticare è molto facile, e quello del far meglio è
difficile; non ci vuol gran capacità per iscorgere
difetti e manchevolezze nella persona e nell'opera
di chi governa. E quando ci si fanno critiche o si
(1) E. xi (t. vi, pp. 190-2).
315

17.2 Page 162

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vuol fare qualche osservazione sulla nostra con-
dotta, ascoltiamo ogni cosa con dolcezza e poi met-
tiamoci davanti a Dio e prendiamo consiglio dai no-
stri aiutanti o collaboratori; quindi si faccia quello
che si giudica opportuno, santamente fiduciosi che
la divina Provvidenza volgerà tutto a sua gloria.
2. Non esser corrivo a promettere, ma nelle cose
di conseguenza piglia tempo a risolvere; questo serve
a far andar bene i nostri affari e ad alimentare
l'umiltà. San Bernardo, scrivendo a un mio prede-
cessore, Arduo io, Vescovo di Ginevra (1), gli dice:
« Fa' tutto prendendo consiglio »; ma da pochi, sog-
giungo io, i quali siano persone calme, savie e vir-
tuose.
3. In far questo procedi con tanta tranquillità,
che i tuoi inferiori non ne prendano occasione a per-
dere il rispetto dovuto alla tua carica, nè a pensare
che tu abbia bisogno di loro per governare; ma fa'
lor conoscere in bel modo e senza dirlo, ,che agisci
così per norma di modestia e umiltà e a tenore
delle costituzioni; bisogna fare il possibile, perchè
negli inferiori il rispetto verso di noi non diminui-
sca l'amore, nè l'amore il rispetto.
4. L'essere sindacato un po' duramente da qual-
che brava persona estranea non ti sgomenti, ma
(1) Ep. XXVII.
tira avanti in pace o facendo a suo modo, qualora
non vi siano inconvenienti a contentarla, o facendo
in modo diverso, qualora la maggior gloria di Dio
lo richiegga: in tal caso cercherai con tutta destrezza
di tirarla dalla tua, sicché trovi ben fatto quello
clie fai.
5. Se un confratello non ti trattasse col dovuto
rispetto, faglielo dire da chi giudicherai meglio, non
•lai tua parte, ma da parte sua. A ogni modo, per-
chè la tua dolcezza non sembri timidità nè tu venga
trattato da timido, vedendo taluno che professasse
di non portarti rispetto, dovresti con diligenza e in
disparte osservargli tu stesso che egli ha obbligo di
onorare in te l'ufficio e di cooperare con gli altri a
sostenere il prestigio della carica, la quale serve a
stringere in un sol corpo e in un solo spirito tutta
la famiglia religiosa (1).
6. Sia pure un confratello di cattivo carattere
finché si voglia: ma quando nell'essenziale della sua
condotta agisce per impulso della grazia e non della
natura, secondando la grazia e non la natura, me-
rita di venir trattato con amore e rispetto, quale
tempio dello Spirito Santo. Egli è lupo per natura,
ma agnello per grazia. Io pavento moltissimo la pru-
denza naturale nel giudicar le cose della grazia; la
(1) L. MDLIÌX (t. xix, pp. 34-6).

17.3 Page 163

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prudenza del serpente, se non si diluisce nella sem-
plicità della colomba dello Spirito Santo, è veleno*
siss;ma (1).
7. Reggi bene la bilancia fra i tuoi dipendenti,
affinchè i dóni naturali non ti facciano distribuire
ingiustamente affetti e riguardi. Quante persone si
trovano, che, sgraziate all'esterno, sono graditissime
agli occhi di Dio! L'avvenenza, il bel garbo, il par-
lare aggraziato hanno spesso forti attrattive per
quelli che vivono ancora secondo le proprie incli-
nazioni; ma la carità guarda alla vera virtù e alla
bellezza del cuore, effondendosi su tutti senza par-
zialità (2).
8. Il superiore faccia regnare tra i suoi l'affe-
zione scambievole, schietta, spirituale; la perfetta
vita comune, così amabile e così poco amata anche
in case religiose ammirate dal mondo; la santa sem-
plicità, la dolcezza di cuore e l'amore della propria
abbiezione. Tutto questo si procuri con diligenza e
fermezza, non con ansietà e a sbalzi (3).
9. Io so di scienza certa che bisogna dissimulare
molto e passar sopra a tutte le offese che si può; e so
che grazie a questo metodo si conserva la pace e si
(1) L. MDCLXXII (t. x i x , p. 265).
(2) L. MCCXXIII (t. xvii, pp. 260-1).
(3) L. CMLXXXIX (t. x v i , p. 2 0 8 ) .
finisce con guadagnar i cuori dei più sconsiderati (1).
10. Appartiene all'ufficio di chi è superiore il ve-
dere con calma i difetti della propria casa e il pren-
dere in pace tutto quello che vi succeda (2).
11. Ancorché secondo il mondo tocchi agl'infe-
riori guadagnarsi la benevolenza dei superiori, tut-
tavia secondo Dio e gli Apostoli spetta ai superiori
cattivarsi gl'inferiori; così fa il nostro Redentore,
così fecero gli Apostoli, e così han fatto, fanno e
faranno sempre tutti i prelati zelanti nell'amore del
Maèstro (3).
12. Se io tornassi a nascere con i sentimenti che
ho adesso, non credo che tutta la prudenza della
carne e dei figli di questo secolo varrebbe a scuo-
tere la mia certezza, che tale prudenza sia una pura
chimera e pretta scempiaggine (4).
§ 10. AMORE AL PROPRIO ISTITUTO
E ALLA PROPRIA OASA.
Ogni religioso parlerà sempre con molta umiltà
della sua Congregazione, anteponendo tutte le altre
(1) L. MDCCXXXVIII (t.'xix, p. 406).
(2) L. MMLXXX1V (t. XXI, p. 167).
(.3) L. DCXXVI (t. x i v , p. 360).
(4) L. MDCXLII (t. x i x , p. 188).
317

17.4 Page 164

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nell'onore e nella stima, preferendola però a tutte
nell'amore e, all'occasione, dimostrando volentieri la
propria contentezza di vivere nella vocazione sua.
Così le mogli debbono preferire il loro marito a qual-
siasi altro uomo, non in onore e stima, sibbene in
affetto; così ognuno preferisce il suo paese agli altri,
in amore e non in stima, e ogni nocchiero ama il
vascello su cui naviga, più di tutti gli altri, benché
più ricchi e meglio equipaggiati. Confessiamo fran-
camente che le altre Congregazioui sono migliori,
più ricche, più eccellenti, ma non già per noi f>iù
amàbili nè più desiderabili, avendo voluto il Signore
che qui fosse la nostra patria, qui la nostra barca,
qui il nostro cuore. Così quel tale, interrogato qual
fosse per il bambino il posto più gradito e l'ali-
mento migliore, rispose: — Il seno e il latte di sua
madre. — Invero, quantunque vi siano seni migliori
e migliori latti, per lui non ve n'è alcun altro nè
più adatto uè più caro (1).
Tutte le altre forme di vivere in Dio siano dun-
que per te oggetto di stima e di ouore, e considera
la tua Congregazione in mezzo alle altre come la
viola mammola tra i fiori, bassa, piccola, dal colore
meno vistoso: ma a te basti che Dio l'abbia suscitata
(l) E. i (t. vi, pp. 17-8).
318
per il suo servizio e perchè esali un po' di fragran-
za nella Chiesa (1).
Non va. bene poi essere tanto affezionato al pro-
prio Ordine, da non aver più occhi per^vedervi cose
evidenti. L'amore mondano è Cieco, e se tale non
fosse, non amerebbe il mondo, che non ha niente
di bello nè di buono; ma l'amore celeste non è cieco,
avendo, come dice la Cantica 12), lampade e fiamme
luminose, la cui luce dà lo spirito di discernimento,
per distinguere il bene dal male. Le api amano i
loro alveari, ma non lasciano per questo di osser-
vare minutamente quello che vi è dentro, e di net-
tarli e pulirli. Non esiste sotto la cappa del cielo
costanza tale che non pieghi (3), nè cosa tanto pura
che non le si attacchi polvere. Chi è che abbia di-
ritto di adirarsi con chi gli dica che si lavi, dopoché
sia stato qualche tempo senza farlo! E perchè non
potrà dirsi a una casa religiosa che riveda l'osser-
vanza, se da molti anni non ha fatto più questa
revisione? Un'abitazione non si lascia a lungo senza
farvi riparazioni esterne; perchè non si farebbe lo
stesso per l'interno?
Non si devono certo dire senza utilità nè propa-
n i L. MTV (t. xvi, p. 234-,).
12) Cant., vili, 6.
(3) Eccles., il, 11.

17.5 Page 165

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lare i mancamenti che si veggono nelle case di un
Istituto; ma il non volerli riconoscere nè confessare
a chi possa applicarvi i rimedi, è passione, è amore
disordinato. La Sposa nella Cantica confessa senza
timore le sue imperfezioni, dicendo: Io son bruna,
ancorché bella. Non badate che io sia bruna, perchè il
sole mi ha scolorita (1). Si può dire forse altrettanto
della tua casa: è bella, sì, ma il sole, cioè il tempo,
ne ha alterato il colore. Perchè dunque non procu-
rerai di restituirle l'antico lustro, affinchè il suo
Sposo possa dire: Sei tutta bella (2)?
Quando in una casa i difetti sono momentanei
e passeggeri, è bene dissimulare; ma quando fos-
sero stabili e permanenti, bisogna cacciameli, fa-
cendo anche grande strepito, ove occorra. Eccessivo
fu l'amore di Davide, allorché non volle che si uc-
cidesse Assalonne, benché empio e ribelle (3). Se
vuoi bene alla tua casa, dimostralo col procurarne
la nettezza, la salubrità, l'osservanza, (4).
(1) Cant., I, 4, 5.
(2) lb., iv, 7.
(3) 11 Reg., xviLI, 5 sgg.
(4) L. (CLXVIIID (t. xxi, pp. 66-8).
» 20
CAPO TERZO.
Dei tre voti religiosi in particolare.
Chi va per una strada, giunto a piè d'un mon-
te, si ferma e si alleggerisce gli abiti. Se gli si do-
manda il perchè, risponde che lo fa per salire più
speditamente. Così le persone che entrano nello
stato religioso per ascendere il monte della perfe-
zione, si levano di dosso gli abiti mondani, cioè le
cattive abitudini, la volontà propria e gli affetti
che possono allontanarle da Dio. Esse hanno per
iscopo di unirsi più agevolmente alla Bontà divina
e salire più spedite alla perfezione del suo amore,
che è un monte diffìcile quanto mai; è infatti il
monte Calvario, monte di croci e afflizioni, ma
pure monte soave, dolce, delizioso per le anime
generose e forti. Non si promettono piaceri e diletti
a chi entra nelle case religiose; anzi, gli si dice
che bisogna portare la croce e lasciarsi crocifiggere
con Gesù Cristo, abbracciando mortificazioni d'ogni
genere per suo amore. Non si promettono onori e
grandezze, ma si dice che bisogna umiliarsi, vive-
321
11. - E. CERTA, La Dita religiosa ecc.

17.6 Page 166

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re in povertà e rinunciare interamente alla volontà
propria per passare i giorni nell'obbedienza e in
una soggezione assoluta (1).
In questa vita di totale sacrifìcio ci precedettero
gli Apostoli. Essi anzitutto sottomisero pienamente
giudizio e volontà con la professione dell'obbedienza.
Sacrificarono poi la loro immaginazione con la pover-
tà. Il mondo è solito farci immaginare che ricchezze,
onori, comodità siano beni desiderabili; ma gli Apo-
stoli vi rinunciarono per sempre, tenendo in conto di
tesoro preziosissimo la povertà. Sacrificarono infine
tutti i loro affetti, non volendone mai più avere altri
all'infuori dell'amor celeste, e sacrificarono quindi
anche l'inclinazione che potevano sentire ai piaceri
sensuali e caduchi, mediante la professione della
perpetua castità. Queste tre virtù vennero in tanta
estimazione e furono tanto pregiate, come le tre
più importanti per l'acquisto della perfezione, che i
primi Cristiani, imitando gli Apostoli (2), anch'essi
le professarono. Ma, affievolitosi il primo fervore,
solamente persone particolari abbracciarono questa
forma di perfezione evangelica; e poiché riesce
difficile al sommo il dedicarvisi stando nel mondo,
ecco che chi vuol accingersi alla generosa impresa,
(1) S. R. xiv (t. IK, p. 106).
(2) EUSEB., Hist., il, 17; HIERON., De script, eccles., Philo.
322
se ne vien via andandosi a chiudere nelle case re-
ligiose (1).
§ 1. DELLA POVERTÀ.
Della povertà io non oso tanto parlare (2), per-
chè non ho visto mai molto da vicino questa virtù;
ma, avendone sentito dire tanto bene dal Signore,
con il quale nacque, visse, fu crocifissa e risuscitò,
io la amo e la onoro senza fine (3).
Esempi di Gesù, Maria e Giuseppe.
La povertà volontaria, della quale fauno profes-
sione i religiosi, è una povertà che si fa amare fa-
cilmente, perchè non impedisce loro di ricevere nè
di prendere le cose necessarie, ma li priva soltanto
delle superflue; invece la povertà del Signore, della
Madonna e di san Giuseppe non fu così. Quantunque
la loro povertà fosse volontaria, perchè da essi ca-
ramente amata, pure non lasciava di essere umiliante,
reietta, spregiata, bisognosa all'estremo. Tutti cono-
scevano san Giuseppe per un povero legnaiuolo (4).,
(1) S. R. xviii (t. vii, pp. 152-3).
(2) L. MDXCIII (t. x i x , p. 106).
(3) L. MDXCI (t. x i x , p. 102.
(4) MATT., XIII, 5 5 ; MARC., VI, 3.

17.7 Page 167

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incapace di far sì che non mancassero molte cose
necessarie, benché si affaticasse con incomparabile
affetto per il mantenimento di tutta la sua fami-
glinola (1).
Con il voto di povertà si rinuncia, dicevamo,
a quello che è inutile e si sta paghi del necessario
per mantenere la vita, mediante la santa sobrietà
che recide il superfluo e si contenta del bisogne-
vole; non si viene però con questo a soffrire penu-
ria; anzi, se vi è luogo dove non manchi l'occor-
rente per la conservazione di questa povera vita,
è appunto lo stato religioso, in cui il necessario si
distribuisce con maggior cura che non altrove.
Comuuque sia, quand'anche noi avessimo lasciato
grandi ricchezze per andar a soffrire nella vita reli-
giosa tutte le privazioni e tutti i disagi, che la po-
vertà porta seco, quanto poca cosa sarebbe al con-
fronto di quello che il Signore ha lasciato per noi !
Egli, non potendo esser povero nel Cielo, dove non c'è
e non può esserci privazione di sorta, si è umanato ed
è venuto in questo mondo a sopportare la povertà più
dura nelle cose anche più indispensabili ai bisogni
della vita, per arricchire noi e darci prove del suo
amore (2).
(1) E. xix (t. vi, pp. 568-9).
(2) S. R. vi (t. ix, p. 42).
324
I disagi della povertà.
Qualcuno potrebbe dire: — Per esser povero in
ispirito, basta lasciar il mondo e farsi religiosi. —
Sì, con questa rinuncia si è già in qualche maniera
poveri; ma non la intende così il Signore. Di ciò
appunto si lamenta sant'Agostino (1). Eh, no! dice,
farsi religioso non è tutto; lasciare tutto per avere
tutto a volontà, farsi povero entrando in religione
e pretendere che non ci manchi nulla, fare voto di
povertà e rifiutare di provarne gl'incomodi capeg-
gio ancora, cercar in religione quello che non pote-
vamo trovare nel mondo, esigere a dispetto del voto
migliori agi e comodità che non avessimo prima di
farci poveri, oh, che razza di povertà frolla, assurda,
riprovevole! Purtroppo, ed è un gran guaio, i più
difficili a contentare nelle comunità religiose sono
proprio quelli che meno possedevano prima di en-
trarvi.
Oh, non è questa davvero la povertà insegna-
taci dal nostro Signore e Maestro! non così egli è
i suoi Santi l'hanno praticata! Gesù è morto ignu-
do e i suoi Santi l'han seguito nella stessa pover-
tà, lasciando ogni cosa e affrontando coraggiosi
tutti i disagi che la povertà porta seco. Vedi, per
(l) Epist. ccxi, 5.

17.8 Page 168

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esempio, il santo abate Serapione, di cui si parla nel-
la Vita dei Padri (1). Egli abbandonò tutto, ridu-
cendosi a una spogliazione completa. Se gli si fosse
domandato chi mai l'avesse ridotto in tale stato,
avrebbe risposto: — La cara povertà, alla quale è
promesso il Regno de' Cieli. Essa è che mi ha me-
nato qui a patire in questo modo (2). — Una volta,
trovato da un amico per istrada in condizioni pie-
tose e richiesto chi l'avesse così malconcio: — Que-
sto libro — rispose, mostrandogli il libro dei Van-
geli che teneva in mano. Io per me t'assicuro che
a farci prendere la risoluzione di ano spogliamento
assoluto nulla è così efficace come il considerare la
nudità del Salvatore crocifìsso (3).
Sarebbe veramente bella voler e(sser povero per
amor del Signore, ma a patto di non soffrire inco-
modi e avere a nostra disposizione tutto l'occorrente
pei nostri bisogni e insieme anche la possibilità di
acquistare stima e onore nel mondo! Sarebbe senza
dubbio una gran bella povertà questa; ma il guaio
si è che il Signore e la Madonna praticarono una
povertà d'altro genere: una povertà reietta, disprez-
zata, vilipesa, incomoda. Benché discendente di Da-
ti) In lib. I, Vita S. Joan. Eleem., 22.
(2) S.R. LI (t. x, pp. 145-6).
(3) S. E. vi (t ix, p. 42.
36
vide e di Salomone secondo la carne, Gesù è non-
dimeno ignominiosamente ributtato nella città di Da-
vide e giace nella più squallida miseria dentro una
greppia, e la Madre non trova una persona che gli
dia un po' d'alloggio. Bisogna stare con lui, biso-
gna imitarlo e, come fece già santa Paola, prefe-
rire la stalla di Betlemme a tutte le ricchezze di
Roma (1).
Quali sentimenti non c'infonde nell'animo il con-
templare la nascita di Gesù! Ma soprattutto il mi-
rarlo nella sua povera mangiatoia fa amare la ri-
nuncia intera ai beni, alle pompe, agli spassi del
mondo. Io non so, ma per me non havvi mistero
che unisca tanto soavemente il tenero all'austero, l'a-
more al rigore, il dolce all'aspro. Non si vide mai
un nascimento più povero nè più felice, mai una
maternità così sprovvista e così contenta. Certo, Co-
lei che ha dato alla luce il Figlio di Dio non sente
il bisogno di mendicare dal mondo esterne conso-
lazioni. Santa Paola, dicevo, amò meglio anch'essa
vivere in povero ostello a Betlemme anziché star-
sene ricca dama a Roma, sembrandole giorno e not-
te di udire dalla sua dimora i vagiti del Salvatore
nella mangiatoia o, come si esprimeva san France-
sco, del caro «Bambino di Betlemme », che la sti-
(1) ' L. MMXCI (t. x x i , p. 1 7 7 ) .
327

17.9 Page 169

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molasse al disprezzo delle grandige e affezioni mon-
dane e la chiamasse all'amore santissimo dell'umi-
liazione (1).
Troppo, troppo delicati siamo noi a chiamare po-
vertà uno stato, nel quale non si patisce nè fame
nè freddo nè ignominie, ma soltanto qualche inco-
moduccio in cose da noi vagheggiate. Quando si
pensa sul serio all'eternità, si fa ben poco caso di
quanto ci succede in questi tre o quattro istanti di
vita mortale (2).
Le dispense e le particolarità.
In certe particolarità, che per sè sarebbero con-
tro il voto, si allega il permesso e la licenza del
superiore. Son già brutte parole queste di permesso
e di licenza, dove ha da regnare lo spirito di per-
fezione: sarebbe meglio vivere a tenore delle leggi
e disposizioni senza ricorrere a esenzioni, licenze,
permessi. Mosè aveva accordato un permesso e una
licenza riguardo all'integrità del matrimonio (3); ma
il Signore, riformando questo santo sacramento e
ritornandolo alla sua purezza, dichiarò (4) che Mosè
(1) L. MDCCCXIV (t. XX, p. 212).
(2)| L. DLXII (t. XIV, p. 233).
(3) Deut., xxiv, 1.
(4) MATT., XIX, 7-9.
328
aveva fatto agli Ebrei quella concessione per torza
e costretto dalla durezza del loro cuore. Ben sovente
i superiori piegano quello che non possono spezzare
e permettono quello che non possono impedire; e i
permessi hanno poi questo di scaltro e malizioso,
che, quando siano durati un po' di tempo, se ne
fanno un titolo e all'opposto delle cose invecchianti
pigliano vigore e sembra che perdano insensibilmen-
te la loro bruttezza e deformità. I permessi entrano
per grazia nelle case religiose; ma, una volta che
vi abbiano preso piede, vogliono rimanervi per forza,
nè più se ne vanno se non per via di rigore.
• Oltre a questo, io osservo che non vi sono cose
tanto somiglianti fra loro come due gocce d'acqua;
eppure una può essere di rosa e l'altra di cicuta:
quella è medicinale e questa uccide. Vi sono per-
messi che in qualche modo possono essere buoni;
ma i permessi di tener denaro non sono tali, per-
chè in fin dei conti ciò costituisce proprietà, sia
quanto si voglia velata e mascherata: è l'idolo che
Rachele teneva nascosto sotto la veste (1). Si dice
che il superiore permette, che vi è il suo benepla-
cito: ecco Rachele che parla. Ma intanto quel de-
naro è di un religioso e non di un altro: ecco l'i-
dolo della proprietà. Se non è proprietà, come si
spiega che uno ha più comodi del bisogno e l'ai-
t i ) Gen., XXXI, 3 4 .
3

17.10 Page 170

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tro ha più bisogni senza comodi? Come va che, pur
essendo i religiosi tutti fratelli, non son poi fratelli
anche questi comodi? Uno soffre e l'altro no; uno
ha fame, dirò su per giù con san Paolo (1), e l'al-
tro è nell'abbondanza: non è una comunità del Si-
gnore cotesta. Chiama la cosa come vuoi, ma è pura
e semplice proprietà; dove non c'è proprietà, non
c'è mio e tuo, le due parole che hanno rovinato il
mondo (2). Il religioso che ha un soldo, non vale
un soldo, dicevano gli antichi (3).
Conviene risalire alla sorgente della tua religio-
ne e bervi l'acqua della retta osservanza. Troverai
colà un'acqua che fa dimenticare l'affetto che tu a-
vessi per certe piccole particolarità contrarie al voto.
Rimira la pietra donde fosti distaccato (4): non vi
scorgerai una pagliuzza di proprietà (5).
Bisogna combattere
i difetti contrari alla povertà.
Donde credi tu che derivino i rilassamenti e di-
sordini di certe case religiose? Sempre dalla man-
ti) l Cor., XI, 21; Philipp., IV, 12.
(2) S. Giov. CRIS., Or. in S. Philog., 1.
(3) L. CLXVIII (t. XII, pp. 144-5).
(4) ls., 41, 1.
(5) L. (CLXVIII), (t. x x i , p. 71).
330
canza di umiltà. E perchè credi che venga a man-
care l'umiltà? Perchè le due malaugurate parole mio
e tuo non ne sono sbandite. Non appena si comin-
cia a trasandare la vita comune e la povertà, en-
trano subito la presunzione e la superbia, non es-
sendovi cosa che gonfi più delle ricchezze con il dire
« mio » e « tuo », La santa povertà giova moltissimo
ad alimentare e conservare l'umiltà; nulla infattici
umilia e ci abbassa quanto l'esser poveri, sicché l'u-
miltà è al sicuro sotto l'usbergo della povertà e della
vita comune.
Ecco perchè tutti i Padri antichi e i fondatori
di religioni hanno sempre cercato di stabilire la co-
munanza dei beni nelle Congregazioni e Case. Il
grande sant'Agostino la vuole fedelmente osservata;
quindi fa divieto assoluto di ritenere per sè qual-
siasi cosa, anche piccola quanto si voglia, nem-
meno uno spillo, ma esige che tutto sia in comune,
sicché le parole « mio » e « tuo » vadano assoluta-
mente in bando (1); prescrive quindi che vi sia
eguaglianza in tutto, per quanto la necessità lo pos-
sa permettere: nelle religioni^ dove le cose non siano
tutte in comune, vengono subito fuori le parzialità
e le particolarità. Infine, mancando la povertà, vie-
ne conseguentemente a mancare l'umiltà, perchè le
(1) Cfr. Enarr. in Ps. CXXXII; Epist. CCXI.

18 Pages 171-180

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18.1 Page 171

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due virtù hanno un intimo nesso fra loro e una
aiuta molto la conservazione e l'incremento dell'al-
tra, come ho detto sopra. Se nel mondo non si tro-
va quasi nessuno che voglia esser povero, questo
avviene perchè vi sono tanto pochi che siano umili.
Il grande san Francesco amava singolarmente
la virtù della povertà, molto più che uno sposo
non ami la sua sposa, più che non amasse Ales-
sandro le sue ricchezze. Felici dunque le anime, alle
quali il Signore ha usato un tratto di tanta mise-
ricordia, chiamandole ad una religione, in cui la
vita comune sia scrupolosamente osservata, perchè
è certo che troveranno ivi più mezzi e facilità mag-
giore per l'acquisto della santissima umiltà; avendo
poi l'umiltà, avranno per conseguenza la povertà
di spirito, alla quale è strettamente connessa la feli-
cità eterna, secondochè promette loro il nostro Si-
gnore e Maestro con quelle parole: Beati i poveri
in spirito, perchè di essi è il Regno dei cieli (1).
I difetti contro la povertà, essendo contrari alla
perfezione religiosa, si devono correggere, benché
piccoli; anzi, a parer mio, appunto perchè piccoli
e finché piccoli: se si aspetta che crescano, il ri-
mediarvi non sarà cosa tanto facile. È agevole pres-
so la sorgente volgere altrove i fiumi, perchè là
(1) S. R. xxv (t. IX, pp. 228-9).
2
sono ancora deboli; ma più innanzi si fanno indo-
miti. Prendetemi, dice la Cantica (1), le volpi men-
tre sono piccole, perchè disertano le vigne; sono pic-
cole ora, non lasciatele crescere, e allora non sol-
tanto sarà difficile prenderle, ina quando le vorrete
prendere avranno già devastato tutto. I figli d'I-
sraele dicono in un Salmo (2): La figlia di Babilo-
nia è infelice; beato colui che ghermirà e sfracellerà
i tuoi pargoli sulla selce. L'inosservanza nelle reli-
gioni è davvero figlia di Babilonia, cioè di confu-
sione; fortunati coloro che ne soffocano subito i
principii o, per dir meglio, li sbattono e schiac-
ciano contro la pietra dell'osservanza. L'aspide del
rilassamento e dell'irregolarità nella casa non è
ancora uscito dal guscio; ma si stia bene all'erta,
perchè quei difetti ne sono le uova, che, covate in
seno, si schiuderanno un giorno a rovina e perdizione
comune, senza che nemmeno ci si pensi.
Ma se tali difetti, a giudizio di certuni, sono pic-
coli, non è scusabilissimo il non correggerli? Quale
miseria, diceva san Giovanni Crisostomo parlando
delle vergini stolte (3), qual miseria vedere uno
stuolo di vergini, dopo aver combattuto e vinto il
(1) Cant., il, 15.
(2) Ps. cxxxvi, 8, 9.
(3) In Matt., H o m . LXXVIII (al. LXXIX).
333

18.2 Page 172

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nemico più gagliardo di tutti, che è il fuoco della
carne, lasciarsi vincere da un nemico meschino, da
mammona, dio delle ricchezze! Ogni sorta di proprie-
tà nello stato religioso si riduce a iniqua mammona
(1). « Ecco perchè, diceva egli, queste povere ver-
gini sono chiamate stolte: han soggiogato il più for-
te e si arrendono al più debole ». Una casa religiosa
spicca in tutto il resto e regge al confronto di
qualsiasi altra; e non sarà grave disdoro permet-
tere che la sua gloria venga offuscata da simili
imperfezioncelle? È segno di grandissima imperfe-
zione nel leone e nell'elefante, dopoché abbiano
vinto tigri, tori e rinoceronti, spaventarsi, atterrirsi,
tremare, il primo davanti a un pulcino e l'altro
davanti a un topo, la cui semplice vista faccia loro
perdere il coraggio: questo è certamente un grave
scorno per la loro bravura.
Dopo il fin qui detto lascia che io ti manifesti
tutto il mio pensiero intorno a questi difetti. Souo
piccoli, in verità, se si confrontano con altri mag-
giori, perchè sono soltanto principii, ed ogni princi-
pio, nel male come nel bene, è sempre piccolo; ma
se li consideri invece rispetto alla vera e intera
perfezione religiosa, alla quale devi aspirare, sono
certamente gravissimi e pericolosissimi. È piccolo
(1) L u e . , XVII, 9.
334
\\
male, di grazia, quello che intacca e vizia nel cor-
po della religione una parte così nobile come il
voto di povertà? Si può essere buon religioso sen-
z'andare al coro, senza portare questo o quell'abi-
to, senza fare questa o quell'astinenza; ma senza
la povertà e la vita comune è impossibile. Il vermic-
ciuolo che rose la zucca di Giona (1) sembrava pic-
colo, ma era così deleterio che la pianta si seccò.
Parimente i difetti contro la povertà sembreranno
esigui in una casa religiosa; ma la loro cattiva na-
tura è tanta che manda in rovina il voto.
Io trovo poi che nella casa questo male, sia pur
piccolo quanto si voglia, è molto grave ancora per
il fatto che vi è lasciato sussistere, vi sta dentro
in pace, vi dimora come inquilino ordinario; questo
è quando le particolarità anzidette vi sono ormai
diventate di casa. Le mosche, morendo, corrompo-
no la soavità del balsamo (2). Se passassero solamen-
te sul balsamo e vi succhiassero trasvolando, non lo
corromperebbero; ma restandovi morte e quasi se-
polte, lo corrompono. Mi auguro che i mancamenti
e difetti della tua casa siano semplici mosche; il
male però deriverà dal loro fermarsi dentro l'un-
guento. Un male, anche piccolissimo, facilmente
(1) JON., iv, 6-8. Cfr. apud LXX.
(2) Eccles., x, 1.

18.3 Page 173

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cresce, quando è carezzato e ritenuto; nessun nemi-
co è piccolo, dicono i belligeranti, allorché viene
trascurato (1). Io per me ti esorto a giudicare beu
grande questo male, perchè ti priva di un gran bene;
credilo una massima imperfezione, essendoti di osta-
colo per giungere a perfezione maggiore. Ricor-
da il proverbio già citato: Monachus non valet obo-
lum, si possidet obolum. Un poco di lievito è sufficien-
te ad alterare tutta la massa della pasta, dice san
Paolo (2). Altro non restava da lavarsi agli Apostoli
fuorché i piedi; eppure il Signore pronunciò che con-
veniva o lavarli o non avere parte con lui (3).
Ai veri poveri Dio provvede.
Dio vuole che si abbia fiducia in lui, ognuno
secondo la propria vocazione. Da un laico che vi-
ve nel mondo, non si richiede che si affidi alla Prov-
videnza di Dio come dobbiamo fare noi altri ec-
clesiastici; perchè a noi è proibito di tesoreggiare e
trafficare, ma questo non è proibito ai mondani.
Nè i sacerdoti secolari sono obbligati di sperare in
questa medesima, Provvidenza alla maniera dei re-
di L. CLXVIRA (t. XII, pp. 139-143)'.
(2) I Cor., v, 6; Galat., v, 9.
(3) L . (CLXVIIII) ( t . x x i , p. 75).
336
ligiosi; perchè i religiosi vi devono sperare tanto, da
non darsi individualmente alcun pensiero dei mezzi
di sussistenza. Ora, fra i religiosi, quelli di san
Francesco primeggiano riguardo al punto del con-
fidare nella Provvidenza divina, nulla possedendo
nè in particolare nè in comune, sicché praticano
alla lettera la parola del Salmista (1): Getta nel seno
del Signore la tua ansietà, ed egli ti sostenterà. Tut-
ti debbono rimettere ogni lor pensiero a Dio, il qua-
le tutti mantiene; ma non tutti nella stessa misura.
Gli uni si affidano a lui, attendendo al lavoro e
all'attività, che Dio ha loro assegnato e con cui Dio
li'mantiene; altri, in modo più completo, si studia-
no di fare questo senza frapporvi occupazione al-
cuna. Essi, non seminano nè mietono, e il Padre ce-
leste li sostiene (2). Orbene la tua condizione di re-
ligioso ti obbliga a metterti nelle mani della Prov-
videnza divina, senza cercar amminicoli in mezzi
particolari.
Davide ammira che Dio doni il cibo ai pulcini
dei corvi (3), ed è infatti cosa degna di ammirazio-
ne. Non nutrisce anche gli altri animali? Sì, ma non
nello stesso modo nè così direttamente, perchè gli
(1) Ps. LIV, 23.
(2) MATT., VI, 26.
(3) Ps. CXLXVI, 9.

18.4 Page 174

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altri souo aiutati dai loro padri e madri e si aiuta-
no anche da sè; ma perchè la naturale condizione di
quei pulcini porta che siano abbandonati da padri
e madri e d'altra parte non possono fare da sè, il
Signore li alimenta in modo quasi miracoloso. Così
pure Egli nutrisce i suoi divoti servitori, che per la
condizione del proprio stato han contratto l'obbligo
speciale della vita comune e della povertà, senza
ricorso ad alcun mezzo incompatibile con la loro
professione. I Conventuali credettero di non poter
vivere nella stretta povertà imposta dalla regola
primitiva; i Cappuccini han fatto veder loro chiara-
mente il contrario. San Pietro, finché ebbe fiducia
in Colui che lo chiamava, andò avanti sicuro; ma
quando cominciò a dubitare e a perdere la fiducia,
si sentì andare a fondo. Facciamo il nostro dovere,
ognuno secondo la sua condizione e professione, e
Dio non ci verrà meno. Durante il tempo che
i figli d'Israele stavano nell'Egitto, Egli li nutriva
con il cibo somministrato loro dagli Egiziani; ma
quando furon per il deserto, diede loro la manna,
alimento comune a tutti e proprio di nessuno, il che,
se non erro, ci rappresenta una specie di vita co-
mune. I religiosi sono usciti dall'Egitto del mondo
e si trovano nel deserto della religione: non cerchi-
no dunque più i mezzi mondani, ma sperino ferma-
mente in Dio, che li nutrirà senza dubbio, quand'an-
che dovesse far piovere la manna (1). Osserva Esaù:
per un po' d'appetito venutogli correndo dietro alle
fiere, si. credette vicino a morir di fame, e sotto quel
pretesto vendette, il suo diritto di primogenitura.
Non credere a me, credi al Signore: lasciando certe
piccole particolarità, non morirai; ti parrà di mori-
re, ma questo non sarà: in cambio di uno, Dio ti
darà cento in questo mondo e la vita eterna nell'altro
(2). O Gesù c'inganna o t'inganni tu (3).
§ 2. DELLA CASTITÀ.
Il nostro corpo non è più nostro, come l'avorio
del trono di Salomone (4) non era più degli elefan-
ti, che l'avevano portato nella loro bocca. Il gran
Re Gesù l'ha scelto per il suo seggio: chi lo por-
terà altrove? (5).
Prima e dopo il voto.
Il desiderio di fare a Dio voto di castità non
deve formarsi nell'anima prima che se ne sia conside-
(1) L. CLXVIII (t. x i i , pp. 146-8).
(2) MATT., x i x , 2 9 ; MARC., X, 29, 30.
(3) L. (CLXVIII) (t. xx), pp. 69-70).
(4) III Reg., x, 18.
( 5 ) L. c c c x x v m (t. XIII, p. 141).
339

18.5 Page 175

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rata a lungo l'importanza; bisogna poi prepararvisi
bene con l'orazione, riflettendo sui punti seguenti.
1. Considera quanto gradita a Dio e agli Angeli
sia la virtù della santa castità. Dio ha voluto che
fosse eternamente osservata nel Cielo, dove non è
più nulla di carnale (1). Non sarà una bella sorte
per te il cominciare in questo mondo la vita che con-
tinuerai eternamente nell'altro! Benedici dunque
Dio, che ti ha mandato cotesta santa ispirazione.
2. Considera quanto sia nobile questa virtù. Man-
tiene essa le anime nostre candide come gigli, pu-
re come il sole; consacra i nostri corpi e ci mette
in grado di essere tutti di Dio, cuore, corpo, mente,
sensi. Non è una grande soddisfazione il poter dire
al Signore: — Il mio cuore e la mia carne esultano
di gioia nella tua Bontà (2), per amore della quale
io abbandono ogni amore e per il cui piacere rinun-
cio a tutti gli altri piaceri —! Che fortuna non aver
riserbato per il corpo delizie mondane, a fine di
dare più completamente a Dio il cuore!
3. Considera che la Santa Vergine fu la prima
a far voto di verginità a Dio, e dopo di lei lo fe-
cero vergini senza numero, uomini e donne. Ma
(1) MATT., XXII, 30.
(2) Ps. LXXXIIII, 3.
340
quale ardore, quale amore, quali trasporti in quei
voti di verginità e di castità! È cosa ineffàbile. Umi-
liati profondamente dinanzi all'esercito celeste dei
vergini, con umile preghiera supplicali a riceverti
nella loro compagnia, non pretendendo già di egua-
gliarli nella purezza, ma per ottenere almeno di
esser riconosciuto quale lor servo indegno nell'imita-
zione più perfetta che ti sarà possibile. Supplicali
di offrire te e il tuo voto a Gesù Cristo, Be dei ver-
gini, e di rendergli accetta la tua castità con il merito
della loro. Soprattutto raccomanda la tua intenzione
alla Madonna e poi all'Angelo Custode, affinchè
d'ora innanzi si compiacciano di preservarti con
cura speciale il cuore e il corpo da ogni immondez-
za contraria al tuo voto. E nella santa Messa, quan-
do il sacerdote innalzerà l'Ostia divina, offrirai con
lui a Dio Padre il prezioso corpo del suo diletto
Piglio Gesù e insieme il corpo tuo, che farai voto
di conservare casto tutti i giorni della tua vita.
Fatto il voto, bisognerà che tu non permetta, mai
ad alcun affetto sensuale di solleticarti il cuore, ma
porterai al tuo corpo un grande rispetto, conside-
randolo non più come corpo tuo, ma come cosa sa-
cra e santissima reliquia. E come non si ardisce più
toccare nè adoprare in usi profani un calice, dopo-
ché il Vescovo l'ha consacrato, così, avendo lo Spi-
rito Santo per mezzo di questo voto consacrato il

18.6 Page 176

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tuo cuore e il tuo corpo, devi trattare l'uno e l'al-
tro con grande riverenza (1).
La castità si ottiene con la
preghiera e si conserva con l'umiltà.
La castità è un dono di Dio, che non si acqui-
sta a forza di braccia, nè si conserva con l'arte e
con l'ingegno: i doni di Dio non si strappano dalle
sue mani per forza nè con la violenza, ma son dati
gratuitamente (2) e secondo le disposizioni del cuo-
re. Come fare dunque per procacciarsi dalle mani
di Dio questo dono, non potendo alcuno essere ca-
sto, se Dio non glie ne fa la grazia? (3). Bisogna
pregare, cioè domandarlo in spirito di profonda
umiltà: mediante la preghiera tu l'avrai e lo con-
serverai. So bene che il digiuno, il cilicio e la sobrie-
tà (la quale non consiste solamente nel vincere la go-
la, ma anche nel privarsi di cibi squisiti e .troppo suc-
culenti, contentandosi del necessario e facendo uso
di alimenti semplici e ordinari) sono mezzi buoni
per conservare la castità infusa nell'anima; tuttavia
non basterebbero se non fossero accompagnati da
(1) L. CDLIV (t. xiv, pp. 18-20).
(2|ì MATT., X, 8.
(3) Sap., vili, 21..
342
umile preghiera: l'umiltà è la condizione, a cui Dio
subordina tutti i suoi doni (1).
Perchè appunto l'umiltà è custode della castità,
noi leggiamo nei Cantici (2) che quell'anima bella
viene chiamata giglio delle Dalli (3). Tutti coloro che
vogliono vivere castamente, ritengano che essere
casti senza essere umili non si può, ma che fa d'uo-
po chiudere la purezza nella custodia preziosa del-
l'umiltà: altrimenti accadrebbe loro come alle ver-
gini stolte, che furono escluse dal convito nuziale
dello Sposò. Lo Sposo celeste, perchè si prenda par-
te alla sua festa di nozze, vuole che si sia umili; dice
infatti: Quando sarai invitato a nozze, va' a metterti
nell'ultimo luogo (4). Mai nessuno indubbiamente
sarà ammesso al banchetto celeste e alla festa nuzia-
le preparata per i vergini nella celeste abitazione, se
non vi sarà accompagnato dalla virtù dell'umiltà (5).
L'umiltà è compagna della verginità, e compagna
così inseparabile, che la verginità non farà mai
lunga dimora nell'anima, la quale non abbia l'u-
miltà (6).
<1)S. R. XLIX (t. x, p. 108).
(2) Cam., ii, 1.
(3) L. c c x x v m i bis (t. XIII, p. 392 d).
(4) Lue., xiv, 8, 10.
(5) E. xix (t. vi, p. 362).
( 6 ) S. R. XLVI (t. x, p. 53).

18.7 Page 177

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Il pudore, guardiano della castità.
Il pudore, possiamo dire con Tertulliano (1), è
il sagrestano della castitì. Come il sagrestano d'una
ehiesa procura di chiudere bene le porte, affinchè
nessuno entri a spogliare gli altari, e ogni giorno
vi osserva per vedere se non siasi portato via nul-
la, cosi il pudore sta sempre in guardia per isco-
prire se si muovano assalti alla castità o se si ma-
nifesti qualche pericolo, tanto ne è geloso; e appe-
na scorge un punto nero, foss'anche soltanto l'om-
bra del male, sùbito se ne risente e si allarma (2).
Pensieri contro la castità.
Le immaginazioni e i pensieri strani o terribili
che vengono ad assalirti, non ti turbino affatto. Fin
dal mattino con un breve e semplice atto di ripro-
vazione detesta ogni pensiero contrario all'amore
celeste, dicendo, per esempio: Fin d'ora ripudio tutti
i pensieri che non sono per voi, mio Dio; li detesto,
li respingo per sempre. — Poi, nel momento del-
l'assalto, basterà che tu dica di tratto in tratto:
— Signore, voi lo sapete, io li ho rigettati. —
(1) De cultu feminarum, II, 1.
(2) S. R. XLVI (t. x , p. 52).
344
Talvolta bacerai il crocifìsso, o farai altro segno
che ti confermi nella tua disapprovazione. E non ti
attristare, non torturarti; son cose che non solamen-
te non ti separano dal Signore, ma ti danno occa-
sione di unirti sempre più alla sua misericordia (1).
Ai pensieri cattivi che ti vengono all'improvvi-
so, non rispondere nemmeno una parola; soltanto,
dirai in cuor tuo al Signore: — Signore, voi sapete
che io vi onoro; son tutto vostro! — Indi passa ol-
tre senza star a discutere con la tentazione (2).
E attento ai poeti! Volesse il Cielo, che tanti
poeti cristiani, i quali hanno mostrato sì bell'inge-
gno, avessero mostrato anche buon criterio nella
scelta dei loro argomenti! La corruzione dei costu-
mi non sarebbe tanto grande. È straordinara la for-
za che hanno di penetrare i cuori e dominare la me-
moria le parole strette nelle leggi del verso (3).
Le amicizie.
Tieni ben a mente l'avviso di san Giacomo (4):
L'amicizia del mondo è nemica di Dio. Non accogliere
in te nè fomentare amicizie mondane, sotto qualsia-
(1) L. MCCXXV (t. XVII, p. 263).
(2) L. CDXC (t. xiv, pp. 85-6).
(3) L. MXXX (t. x v i , p. 287).
(4) JAC., IV, 4.
345

18.8 Page 178

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si pretesto: è un punto di grande importanza. Sco-
prirai le amicizie di tal fatta dalle loro foglie, dai
loro fiori e dai loro frutti: frutti, foglie, fiori che
non valgono niente. Le foglie sono parole agghin-
date, manierate, senza sugo, leziose; sono lodi alle
tue belle doti naturali e civili, e simili vanità. Alla
larga! l'ombra di coteste foglie è malefica. I frutti
sono distrazioni del cuore, oscuramenti di spirito,
disgusti dell'anima, dissipazione delle facoltà inte-
riori. Dio ti guardi da cotali incontri!
Pigliate, dice nella Cantica (1), le piccole vol-
pi, perchè danno il guanto alle vigne. Certe smance-
rie sono volpicelle, che quasi non si vedono: perchè
piccole, possono tenersi nascoste: s'insinuano inav-
vertite attraverso la siepe delle nostre risoluzioni;
ma non lasciano di produrre grandi guasti, per un
tantino di passaggio che loro si apra. Il vero carat-
tere di queste volpicelle è mostrarsi esitanti a dire e
fare quel che dicono, e volere che nessuno sappia;
cercano le tenebre, fuggono la luce: chiedono segre-
tezza e silenzio fuor dell'ordinario. Tutte le amicizie
così fatte sono mondane e dispiacciono a Dio.
Ed ecco le mosche, che guastano la soavità dell'un-
guento (2), perchè morte dentro di esso. La vera
(1) Cant., II, 15.
(2) Kccles., x, 1.
amicizia fondata sulla carità è schietta, franca, aper-
ta, senza pretese, senz'artifizio, tutta semplicità,
punto gelosa, punto affettata. Oh, morta mosca,
che giova a te lo stare nell'unguento, che giova al-
l'unguento darti ricetto? Se tu fossi viva, mangere-
sti unguento e l'unguento ti profumerebbe e ne
porteresti attorno il profumo: ma così morta, gua-
sti l'unguento. Oh, morta ape, che fai qui nel miele?
Se tu fossi viva, faresti miele e il miele ti nutrireb-
be; ma così morta, guasti il miele.
Taglia, tronca coteste amicizie, non perder tem-
po a scioglierle; ci vogliono forbici e coltello. Non
si può fare altrimenti: i nodi sono sottili, intricati,
attorti: se ti mettessi a disfarli, maggiormente li im-
bragheresti: hai le unghie troppo corte per ficcar-
le in coteste annodature. Solamente il filo del col-
tello può reciderle. Tanto, i cordoncini non valgon
nulla: non è il caso di risparmiarli. Non son io che
lo dico, lo dice Dio.
Vedi la Santa Vergine: si turbò alla vista di un
Angelo in forma d'uomo dinanzi a lei, perchè egli
la lodava ed essa era sola. Salvatore dell'anima
mia! temere un Angelo in forma umana! In certi
casi bisogna temere un uomo anche sotto la forma
d'angelo, perchè ben più grave è il pericolo (1).
(1) L. DIV (t. xiv, pp. 107-8).
?

18.9 Page 179

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§ A. D E L L ' O B B E D I E N Z A .
Libertà e obbedienza.
La libertà è il più ricco tesoro che l'uomo pos-
segga, perchè è la vita del nostro cuore; essa quin-
di costituisce il dono più prezioso che noi possiamo
fare. Perciò è l'ultima cosa a lasciarsi, la cosa a
cui maggiormente ci costa di rinunciare. Sta così
in alto, che il demonio non può toccarla: egli s'ag-
gira, s'arrabatta, fa la ronda intorno, ma forzarla
non può. Dio stesso che ce l'ha data, non la vuole
per forza, e quando ce la chiede, vuole che glie
la diamo a viso aperto e di buon grado. Egli non
ha mai costretto nessuno a servirlo, nè mai lo farà.
Ci stimola bensì, picchiando alle nostre coscienze, ci
si mette attorno al cuore, insiste perchè ci conver-
tiamo e ci diamo interamente a lui; ma prenderci
per forza, mai. Potrebbe farlo, è vero, con la sua
onnipotenza, ma non vuole (1).
San Pietro ci dice di purificare le anime nostre
con l'obbedienza (2). Per questo l'obbedienza deve
procedere non da sola necessità, ma da schietta vo-
lontà e desiderio di piacere a Dio. Il volere del su-
periore, in qualunque maniera veniamo a conoscerlo,
(1) S. R. xxxin (t. ix, p. 335).
(2) I PETR., I, 22.
34
dev'essere per noi legge. Nell'obbedienza tutte le
considerazioni si riducono a una sola: alla sempli-
cità, che piega dolcemente il cuore ai comandi e fa
stimare gran fortuna l'obbedire anche in cose ripu-
gnanti, anzi più in queste che in altre. Tu non de-
siderare se non ciò che vuole Dio. Ea' quanto dice
chi ti governa, sempre che tu non vi scorga pec-
cato: volere quel che vuole il superiore è volere
quel che vuole Dio. Qui sta la vera obbedienza e
contentezza (1).
Allorché dopo molte preghiere e riflessioni in-
dossasti l'abito religioso, ti decidesti a entrare nella
scuola dell'obbedienza e della rinuncia alla tua vo-
lontà, giudicando esser meglio questo che non vi-
vere in balìa del tuo proprio giudizio e di te -stesso.
Non lasciarti dunque scuotere, ma sfattene dove il
Signore ti ha posto (2). Fortunate le anime che vi-
vono unicamente della volontà di Dio (3).
Obbedienza apparente e obbedienza reale.
Vi sono diverse maniere d'intendere l'obbedien-
za, le quali però si possono tutte ridurre a due.
La prima è in senso speculativo, come la prendono
( 1 ) L . MMLXVI (t. XXI, p. 1 4 8 ) .
( 2 ) L. MCCCLXXX (t. XVIII, p . 1 3 ] ) .
( 3 ) L . MLXXVI (t. x v i , p . 3 6 4 ) .
349

18.10 Page 180

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i teologi, quando mostrano e spiegano l'eccellenza
di questa virtù. Così molti ne fanno grande stima
e leggono con vivo piacere quello che se ne scrive.
— Oh, felici gli obbedienti! — esclamano costoro.
Ti sanno anche parlare dei cinque gradi di obbe-
dienza; ma poi non fan nulla più dei teologi, che
ne ragionano tanto bene. Ora il parlarne non è
tutto: bisogna venire alla seconda maniera d'inten-
dere questa virtù, che è di mettersi a praticarla in
tutte le occasioni, piccole e grandi. Si trovano pur
anche di quelli che vogliono bensì obbedire, ma a
patto che non si comandino loro cose difficili. Altri
ancora vogliono obbedire, ma purché non se ne con-
trarino i capricci. Taluno è disposto a sottomet-
tersi a questo e non a quell'altro. Ben poco si richie-
de per mettere alla prova la virtù di queste persone,
le quali obbediscono in ciò che vogliono esse, e non
in ciò che vuole Dio. Ora, un'obbedienza di tal
sorta al Signore non piace: bisogna obbedire indi-
stintamente in cose grandi e piccole, in cose facili
e difficili, e stare saldamente attaccati (alla croce,
su cui l'obbedienza ci ha posti, senz'accettare nè
mettere condizioni per farcene tirar giù, qualunque
parvenza di bene vi sia. Perciò, se ti venissero ispi-
razioni o eccitamenti a fare cose che ti distolgano
dall'obbedienza, scacciali con risolutezza e non li
secondare punto.
350
Quindi i coniugati devono stare sulla croce del-
l'obbedienza, che è il matrimonio. Questa per essi
è la croce migliore e la più pratica, perchè è quella
che dà loro quasi continuamente da fare e loro porge
occasioni più frequenti che verun'altra di soffrire.
Non bisogna dunque che abbiano desiderio di scen-
dere da questa croce sotto qualsiasi pretesto; ma
poiché Dio ve li ha posti, vi hanno da rimanere.
Il prelato'e chi ha cura d'anime non deve de-
siderare di essere staccato da questa croce pep la
ressa delle brighe e distrazioni che v'incontra; ma
deve fare il dover suo nel proprio ufficio e pren-
dersi cura delle anime affidategli da Dio, istruendo
gli uni e consolando gli altri, ora parlando e ora
tacendo, dedicando il suo tempo all'azione e, quan-
do viene il momento, all'orazione. È la croce sulla
quale Dio l'ha messo; vi deve dunque stare fermo
senza dar retta a quanto potrebbe invitarlo a scen-
derne.
Così il religioso resti costantemente e fedelmente
inchiodato alla croce della sua vocazione, senza
giammai dare adito al menomo pensiero, che possa
fargli abbandonare o mutare il proposito dì servir
Dio in quella forma di vita, e senza nemmeno dare
ascolto a quanto lo trascinasse ad operare contro
l'obbedienza. Nè mi si dica: — Oh! se ne avessi la
libertà, farei adesso tante ore di orazione e forse vi

19 Pages 181-190

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19.1 Page 181

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riceverei tante consolazioni da esserne estasiato. Pre-
gando, tanto farei da arrivar quasi a strappare il
cuore di Dio e metterlo nel mio; ovvero mi leverei
tant'aito da porre la mano nel costato del Sal-
vatore e rubargli il cuore. Se io andassi ora a pre-
gare, lo farei con tanto fervore, che mi solleverei
due o tre cubiti da terra. — Ecco qui delle cose che
hanno apparenza di virtù; ma certo, ogniqualvolta
si oppongano all'obbedienza, bisogna respingerle,
non bisogna accogliere tali movimenti e ispirazioni.
Obbedisci, e basta: Dio non ti chiede altro (1).
Non guardare poi a chi obbedisci, ma per chi.
Il tuo voto è fatto a Dio, benché riguardi un uomo
(2). Non guardare nemmeno alla natura delle cose
che fai, ma all'onore che hanno, benché tanto me-
schine, di essere volute dalla volontà di Dio, ordi-
nate dalla sua provvidenza, disposte dalla sua sa-
pienza. In una parola, essendo gradite a Dio e ri-
conosciute da te per tali, a chi debbono essere sgra-
dite? Procura dunque di purificare ogni dì più il
cuore. Questa purità consiste nel valutare tutte le
cose, pesandole sulla bilancia del santuario, la quale
non è altro che la volontà di Dio (3).
(1) S. R. LXV (t„ pp. ,387-8).
(2) L. ccLxxxran (t. XIII, p. 52).
(3) L. CCLXXXIX (t. XIII, p. 53).
352
Quando sarà dunque che non vorremo niente,
ma lasceremo a chi spetta, il pensiero di volere
per noi quanto ci faccia d'uopo? Purtroppo non vi
è che fare: la propria volontà, tuttoché imbrigliata
dall'obbedienza, non può essere trattenuta che non
ricalcitri e non faccia capricci: bisogna sopportare
questa debolezza. Ci vuole del tempo prima che sia-
mo interamente spogli di noi stessi e del preteso
diritto a giudicare che cosa sia meglio e a deside-
rarlo. Io guardo con commozione il Bambino di Be-
tlemme, che sapeva tanto, che poteva tanto, eppure
senza dir parola si lasciava maneggiare e fasciare
e legare e avvolgere, come altri volesse! (1).
Obbedire senza sofisticare.
Vi sono anime così sottili, che trovano un mon-
do di osservazioni, di epicheie, di repliche, da fare
su tutte le obbedienze loro imposte; è segno che
non si ama l'ordine ricevuto, quando Vi si fanno
su tanti discorsi. Valga l'esempio di Eva, che mos-
se tante difficoltà sulla proibizione fatta dal Signore
di non mangiare il frutto dell'albero della cono-
scenza del bene e del male (2). Dio aveva creato
(1) L. MCDXCir ( t . XVIII, p. 321).
(2) S. R. LXIV (t. x , p. 3 5 7 ) .
355
12. - E. CERIA, La aita religiosa ecc.

19.2 Page 182

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l'uomo e la donna nella giustizia originale, che li
abbelliva al sommo e li colmava talmente di grazia,
• che in loro non era peccato, nè per conseguenza ri-
bellione della carne allo spirito. Non sentivano ri-
pugnanza nè avversione al bene, non appetito nè
inclinazione al male: calmi e tranquilli, godevano
una dolcezza e soavità incomparabile, vivendo nella
massima purezza e innocenza, non in una purezza
« innocenza solamente naturale, ma rivestita della
grazia. Tali Dio li collocò nel paradiso terrestre,
facendo loro un sol comando, un sol divieto: non
mangiassero quel frutto; mangiandone sarebbero
morti.
Ora Satana, lo spirito maligno che per una di-
sobbedienza procedente da amor proprio e da sti-
ma di sè, era precipitato dal Cielo, considerando
la bellezza della natura umana, divisò di farla de-
cadere dalla giustizia originale, che rendevala così
bella e cara; e poiché l'amor proprio e la stima
di sè aveva cagionato la sua disobbedienza e quindi
la sua perdizione, così mosse l'identica tentazione
ai nostri progenitori, per vedere se mediante le sue
arti tale amor proprio e vana stima di sè attecchis-
sero in loro come già in lui. Eccolo dunque pren-
dere a questo fine corpo di serpente, attorcigliarsi
a un albero e, rivolgendosi ad Eva perchè più de-
bole, mettersi a discorrere così : — Perchè Dio, che
354
vi ha posti in questo luogo, vi ha proibito di man-
giare d'ogni frutto che vi è?
— Non ce li ha proibiti tutti — rispose, certo
sbigottita e tremante, Eva, — ma ci ha proibito
solo di toccare e mangiare questo. —
La tentazione era grave, perchè tentazione di di-
sobbedienza. Ma vedi la malizia e l'astuzia del bu-
giardo spirito infernale? — Perchè, dice, vi ha
proibito di mangiare d'ogni frutto? — Vedi come
esagera la proibizione divina? Dio non aveva proi-
bito di mangiare d'ogni frutto, ma uno solo ne ave-
va proibito; parlava così ad Eva con l'intendimen-
to di farle odiare il comando del Signore: giacché
il primo passo alla disobbedienza è avere in uggia
la cosa comandata, tentazione gravissima contro
l'obbedienza. Lucifero nella sua caduta, prima di
disobbedire, concepì disgusto del comando: ecco
perchè, conoscendo la forza di questa tentazione,
sebbene sapesse che Dio non aveva proibito ai no-
stri progenitori di mangiare d'ogni frutto, pure
non si peritò di parlare così per far loro venire
in odio quell'ordine.
Nota poi quanto si rafforzi con la risposta di
Eva. — Noi, dice, mangiamo bensì d'ogni frutto;
ma riguardo a quello della conoscenza del bene e
del male, Dio ci ha proibito di mangiarne e di toc-
carlo. Tu mi domandi il perche? Per non morire. —

19.3 Page 183

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Vedi la grossa menzogna della donna. Dio ave-
va proibito, sì, di mangiare del frutto di quell'albe-
ro; ma quanto al toccarlo o guardarlo, non aveva
detto nulla: era una bugia che faceva il paio con
l'altra dello spirito maligno, quando chiese perchè
Dio avesse proibito loro di mangiare d'ogni frutto.
Lì appunto mirava anzitutto la sua tentazione, a
far dare tale risposta, perchè con tessa la donna
esprimeva disgusto e avversione, quasi dicesse: —
Non ci ha proibito soltanto di mangiarne, ma anche
di toccarlo è perciò di guardarlo: proibizione ben
strana e dura! — Ecco dunque il primo passo a
disobbedire: sentir disgusto e odio dell'obbedien-
za (1).
Nella tentazione il secondo passo alla disobbe-
dienza è il disprezzo non solo del comando, ma
anche di chi comanda. Ora la tentazione, quando
arriva a far odiare chi comanda, è pericolosa e pes-
sima, specialmente se si comincia a dire che chi
comanda non fa bene a dare quell'ordine e che
è una cosa spropositata, e si proferiscono parole
sprezzanti intorno alla cosa comandata o consiglia-
ta, per antipatia contro chi comanda.
So bene che possono venire ripugnanze e avver-
sioni non solo per i comandi, ma anche per coloro
(1)1 S. R. LIII (t. x, pp. 171-3).
356
che comandano; ma altra cosa è il dire cose o rat-
tenere pensieri, suggeriti da tali sentimenti: questo
non si deve fare mai. Eppure qui mira lo spirito
maligno; con tale intento chiese a Eva in tono quasi
sprezzante per l'ordine del Signore: — Perchè Dio
vi ha ingiunto questo? — E voleva dire: — Che
ragione c'era di mettervi in questo paradiso, per
poi proibirvi di mangiare d'ogni frutto che vi si
trova? — Ma egli diceva una solenne menzogna,
perchè Dio non aveva fatto simile divieto, e se
l'avesse fatto, sarebbe stato ben duro a sopportar-
si, perchè, mettere un uomo e una donna in un
bel giardino pieuo di frutti e far loro universale
divieto di toccarne alcuno, sarebbe stato un ordine
assai difficile in pratica. Quindi non ingiunse una
cosa simile; ma il maligno spirito lo disse per di-
sprezzo di Dio e per farlo disprezzare da Eva. Co-
stei passò poi anch'essa a disprezzare Colui che
aveva fatto il divieto, rispondendo come rispose
al tentatore: — Noi non mangiamo di questo frut-
to per tema che, secondo la parola del Signore,
non abbiamo a morire. — Queste parole suonano
disprezzo di Dio. Fu un dire: — Egli ci ha minac-
ciati di morte, se ne mangiamo; ma che ragione vi
era di farci questa minaccia? Eppure ha detto pro-
prio così: Affinchè non moriate. — Non vedi come
queste parole sappiano di disprezzo? Dio non ave-
35?

19.4 Page 184

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va solamente raccomandato loro che non mangias-
sero di quel frutto per non correr pericolo di mori-
re, ma aveva dichiarato espressamente, che, se ne
avessero mangiato, sarebbero morti. Ecco dunque
il secondo passo verso la disobbedienza (1).
Obbedienza di Gesù e di Maria.
Il nostro divin Salvatore e la sua benedetta Ma-
dre amarono tanto l'obbedienza, che preferirono la
morte, e morte di croce, anziché lasciar di obbedire.
Il Signore morì in croce per obbedire; e la Madon-
na, quali atti sublimi non fece nell'ora stessa che
moriva il suo Piglio, cuore del suo cuore? Nessuna
resistenza oppose alla volontà del Padre celeste,
ma stette immobile e costante ai piedi della croce,
pienamente sottomessa al divino beneplacito.
Del Signore noi dobbiamo dire con san Paolo
(2): Si è fatto obbediente fino alla morte, e morte
di croce. Nulla egli fece mai in tutta la sua vita
che non fosse per obbedienza, secondochè di sua
bocca ci rivelò dicendo (3): lo non sono venuto
per fare la mia volontà, ma quella di Colui che mi
(1) S. R. LUI (t. x, pp. 174-6).
(2) Philipp., il, 8.
(3) JOAH., vi, 38.
358
ha mandato. Egli guardava dunque sempre e in
tutto alla volontà del Padre celeste, per eseguirla,
nè solo per un tempo, ma fino alla morte.
Quanto poi alla Madonna, osserva tutto il cor-
so della sua vita, e non troverai altro che obbe-
dienza. Ebbe tanto a cuore questa virtù, che, pur
avendo fatto voto di verginità, si piegò all'ordine
di prender marito. Indi perseverò sempre nell'obbe-
dienza. Così andò al tempio per obbedire alla leg-
ge della purificazione, quantunque nè essa nè il
Figlio vi fossero tenuti: trattavasi di obbedienza
puramente volontaria, e benché volontaria e non
necessaria, restava però sempre obbedienza. Amò
siffattamente questa virtù, che non ne raccomandò
nessun'altra agli , uomini. Nel Vangelo troviamo
che una volta sola parlò agli uomini, e fu alle noz-
ze di Cana in Galilea quando disse: Fate quello che
vi dirà il mio Figlio (1). Vi predicò dunque l'obbe-
dienza.
L'esempio datoci dal Signore e dalla Madonna
intorno alla santa obbedienza, come dovrebbe sti-
molarci a osservare con sommissione assoluta e
senz'alcuna riserva tutti i comandi che ci vengono
fatti! nè solo questo, ma indurci a praticare inoltre i
consigli, che ci rendono più accetti alla Bontà di-
(1) JOAN., II, 5.

19.5 Page 185

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vina! È poi una gran cosa il vedere obbedienti
noi, nati solo per servire, quando il Re supremo,
a cui tutte le creature devono star soggette (1),
si volle assoggettare all'obbedienza? Facciamo dun-
que tesoro dell'esempio lasciatoci dal Salvatore e
dalla gloriosa Vergine, imparando bene a sottomet-
terci docili, maneggevoli, facili a essere volti in
tatti i sensi dalla santa obbedienza, e questo non
per un tempo nè per certi atti speciali, ma per
sempre e in tutta- la nostra vita (2).
Obbedienza del religioso.
Il religioso senza obbedienza è un religioso senza
virtù, perchè è l'obbedienza che principalmente fa
il religioso, essendo questa la virtù propria e carat-
teristica della vita religiosa. Abbi pur anche brama
di soffrire il martirio per amore di Dio; se non hai
l'obbedienza, questo non vai nulla. Leggiamo nella
vita di san Pacomio, che un suo religioso, dopo a-
ver perseverato da novizio in un'umiltà e sottomis-
sione esemplare, si presentò al Santo e gli disse
nel trasporto del suo fervore che sentiva un desi-
derio vivissimo del martirio e che non sarebbe mai
(1) Ps. cxvm, 91.
(2) S. R, XXVIII (t. IX, pp. 257-9).
3
stato contento, finché non avesse otteuuto quella
grazia; lo supplicava perciò di pregar Dio che glie
la concedesse. Il santo Padre cercò di moderare
quel fervore; ma quanto più egli diceva, tanto più
l'altro s'infiammava nella sua istanza. Osserva-
vagli il Santo: — Figlio mio, vai più vivere in ob-
bedienza, morendo ogni giorno con una mortifica-
zione continua di sè che non martoriarci l'immagina-
zione. Muore martire chi si mortifica; è maggior mar-
tirio il perseverare tutta la vita nell'obbedienza, che
non il morire in un attimo sotto la spada. Vivi in
pace, figlio mio, calma il tuo spirito, distoglilo da
cotesto desiderio. — Ma il religioso, asserendo che
il suo desiderio proveniva dallo Spirito Santo, non
che smorzare il suo ardore, continuò a insistere
presso il Padre, affinchè pregasse per l'appagamento
della sua brama. Non andò guari che giunsero no-
tizie per lui consolanti: un Saracino, capo di ladroni,
era venuto sul monte, che sorgeva nelle vicinanze
del monastero. Allora san Pacomio lo chiamò e gli
disse: — Orsù, figlio mio, ecco l'ora tanto sospirata;
va' nel nome Dio a far legna sul monte. — Il reli-
gioso, fuori di sè dalla gioia, se ne andò cantando
inni e salmi in lode di Dio e ringraziandolo dell'o-
nore che erasi degnato di fargli col mandare quel-
l'occasione di morir per suo amore; insomma, tutto
egli avrebbe potuto pensare, fuorché di fare quello
361

19.6 Page 186

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che fece. Ecco dunque che i briganti, vistolo venire,
gli piombarono addosso e presero a malmenarlo e
minacciarlo. Per un po' di tempo si diportò da
bravo. Alla fine: — Sei morto! gli dissero. — Non
chieggo di meglio, rispose, che di morire per il mio
Dio; — e altre risposte somiglianti. I Saracini lo
condussero dov'era il loro idolo per farglielo ado-
rare. Visto ch'ei ricusava costantemente, si misero in
atto di ucciderlo. Ahimè! il povero religioso, così
valoroso nella sua immaginazione, vedendosi la
spada alla gola: — Ah! di grazia, esclamò, non uc-
cidetemi, farò tutto quello che vorrete; abbiate
pietà di me! io sono ancora giovane; che peccato
troncarmi la vita così! — Finì con adorare l'idolo;
dopo di che quei malvagi lo bastonarono ben bene
e lo lasciarono ritornare al monastero. Giunse più
morto che vivo: tant'era pallido ed esterrefatto.
San Pacomio, che eragli andato incontro, gli disse:
— Ebbene, figlio mio, come va'? che cosa hai, che
sei così distrutto? — Allora il povero religioso,
pieno di vergogna e di confusione, perchè aveva
dell'orgoglio, non potendo -sopportare di vedersi
caduto in sì grave fallo, buttossi a terra e confessò
la colpa. Il Padre corse subito al rimedio: invitò i
fratelli a pregare per lui e gli fece chiedere per-
dono a Dio; indi, rincoratolo, gli diede salutari av-
vertimenti, dicendo: — Figlio mio, ricordati che l'a-
362
vere modesti desidèri di vivere secondo lo spirito
della comunità e il contentarsi di esser fedeli alle
regole, senza voler intraprendere nè bramare niente
ivi non contenuto, vai più che non tutti i disegni
di fantastiche prodezze, i quali servono solo a gon-
fiarci il cuore d'orgoglio e a farci disprezzare gli
altri, quasi che noi fossimo da più di loro. Oh, che
buona cosa è vivere all'ombra dell'obbedienza, an-
ziché scostarci da essa per correre dietro a quello
che sembra a noi perfetto! Se tu, com'io ti andava •
dicendo, ti fossi contentato di vivere mortificandoti,
allorché volevi addirittura la morte, non saresti così
miseramente caduto. Ma, coraggio! d'ora in poi ri-
cordati di vivere sottomesso, e io t'assicuro che Id-
dio ti ha perdonato. — Il religioso obbedì al con-
siglio del Santo, governandosi con molta umiltà fino
al termine della vita (i).
Volontà e giudizio nell'obbedire.
L'obbedienza dovuta ai superiori, che Dio ha po-
sti sopra di noi per governarci, si deve prestare
con la piena sottomissione dell'intelletto e della vo-
lontà. L'obbedienza dell'intelletto si pratica allorché,
comandati, accettiamo e approviamo il comando,
(1) E. xi (t. vi, pp. 182-5).

19.7 Page 187

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non solo con la volontà, ma anche con l'intelletto,
facendo stima della cosa comandata e giudicandola
migliore d'ogni altra che ci si potesse comandare
in quella circostanza. Quando si è arrivati a tanto,
l'obbedire piace a segno, che provasi un desiderio
non mai sazio di venir comandati, affinchè tutto
quello che si fa, sia fatto per obbedienza; e qui
sta l'obbedienza dei perfetti, puro dono di Dio o
frutto di lunga fatica mediante una serie di atti ri-
• petuti con frequenza e eon energici sforzi in modo
da acquistarvi l'abitudine. La nostra naturale in-
clinazione ci porta sempre al desiderio di coman-
dare e c'ispira ripugnanza all'obbedire; eppure è
cosa certa che noi a obbedire abbiam grande atti-
tudine, mentre forse non siamo fatti per comandare.
Condizione fondamentale per ben obbedire è
aver cara la cosa comandata e piegarvi dolcemente
la volontà, amando di venir comandati; non è mezzo
pe? farci veri obbedienti il non avere chi ci coman-
di, come non è mezzo per acquistare la dolcezza il
vivere soli in un eremo. Cassiano confessa di sè,
che, stando nel deserto, andava tavolta in collera e
che, presa la penna per scrivere, se questa non ren-
deva bene, la buttava, sicché, dice, non giova esser
soli, perchè portiamo dentro di noi l'iracondia (1),
(1> E. x (t. vi, pp. 157-8).
4
Poi bisogna far morire il giudizio proprio. A tal
fine non lasciamogli fare tanti discorsi nelle circo-
stanze, in cui vorrebbe padroneggiare, ma facciamo-
gli intendere che è servo. Quindi, allorché ti vien
voglia di giudicare, se una cosa sia comandata bene
o no, tronca il discorso al tuo giudizio; e quando
ti si dice di fare una data cosa in un dato modo,
non ti fermare a discutere o a sindacare se non sa-
rebbe stato meglio far diversamente, ma rispondi
al tuo giudizio che la cosa non potrebbe mai farsi
meglio che nel modo a te ingiunto. Sta' però at-
tento che anche nel fare la cosa comandata il giu-
dizio proprio sovente non obbedisce, cioè hon si sot-
tomette, perchè non approva il comando: questa è
la causa ordinaria della ripugnanza che sentiamo
a fare quello che si vuole da noi. Intelletto e giu-
dizio mostrano in tal caso alla volontà che quello
non è da farsi o che ci vogliono mezzi diversi da-
gli indicati, sicché la volontà non si sottomette, fa-
cendo essa più conto delle ragioni allegate dal
giudizio proprio che non di altre; ognuno infatti
crede che il proprio giudizio sia il migliore.
Noi abbiamo un notevolissimo esempio contem-
poraneo di mortificazione del proprio giudizio. Parlo
di un gran dottore, assai rinomato. Il Papa giudicò
che un libro da lui pubblicato conteneva proposi-
zioni erronee e ne scrisse all'autore, affinchè le sop-
365

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primesse. Il dottore al ricevere quell'ordine assog-
gettò in modo così assoluto il suo giudizio, che non
pensò nemmeno a dare chiarimenti per sua giusti-
ficazione, credette anzi di aver torto e di essersi
lasciato ingannare dal giudizio proprio; onde, sa-
lito in pulpito, diede senz'altro lettura del docu-
mento pontificio e poi pigliò il libro, lo fece in
pezzi e disse chiaro e netto che il giudizio del Papa
in quella faccenda era ottimo, che egli ne approva-
va con tutto l'animo la censura e correzione paterna,
come giustissima e untissima, che avrebbe meritato
maggior rigore; e che si stupiva grandemente come
mai fosse stato così cieco da prendere abbaglio in
cosa sì manifestamente cattiva (1). Egli non aveva
nessun obbligo di far questo, perchè il Papa non
glie lo comandava, ma voleva soltanto ch'ei to-
gliesse dal libro qualche cosa sembratagli non
buona; giacché bisogna notare che non trattavasi
di eresia nè di errore tanto manifesto che non vi
( 1) Secondo gli editori delle Opere Complete, questo « gran
dottore » sarebbe Mons. Pietro De Villards, arcivescovo di
Vienne, menzionato nella Prefazione del Teotimo. Il Papa è
Clemente Vili ; il libro censurato Remonstrances, Advertisse-
ments et Exhortations sur les principales choses qui sont a
rejormer, establir et observer aux Heures Canoniales etc.
(JAQUES ROBSSIN, LYON, 1608).
366
fosse luogo a difesa. Egli dunque in tale circo-
stanza diede prova di gran virtù e di una morti-
ficazione straordinaria del proprio giudizio.
La mortificazione dei sensi è abbastanza frequen-
te, perchè vi coopera la volontà propria e sarebbe
vergogna in quello mostrarsi riottoso all'obbedien-
za: altrimenti, che cosa si direbbe di noi? Ma chi
mortifichi davvero il proprio giudizio si trova ben
di rado. Farci confessare che la cosa comandata è
buona, averla cara e stimarla per noi la migliore e
la più utile di tutte, oh! è difficile perchè il giudizio
s'inalbera. Molti infatti dicono: — Farò la cosa co-
mandata; ma véggo chiaramente che sarebbe meglio
fare in altro modo. — Ahimè! che dici? se alimenti
così il tuo giudizio, evidentemente ne andrai ebbro;
non c'è differenza fra chi è inebriato e chi è pieno
del giudizio proprio. Un giorno Davide (1), essendo
in mezzo alla campagna coi soldati stracchi e sfi-
niti dalla fame, nè trovando più vettovaglie, mandò
dal marito di Abigail in cerca di viveri. Disgrazia-
tamente il pover'uomo era ubbriaco e, messosi a
parlare da ubbriaco, disse che Davide, dopo aver
divorato le sue rapine, mandava a rovinare anche
lui come gli altri, e che egli non avrebbe dato loro
niente/ Davide, saputolo: — Viva Dio! esclamò. Me
(1) I Reg., XXV, 4-25.

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la pagherà l'ingrato. Io a lui ho fatto il beneficio di
salvarne il gregge, impedendo che gli si arrecasse
danno. — Abigail, conosciuta l'intenzione di Davi-
de, si presentò a lui il giorno dopo con doni a fi-
ne di placarlo-, parlandogli in questi termini: — Si-
re, che vorreste fare a un folle? Ieri mio marito era
ubbriaco e parlò in malo modo, ma parlava da ub-
briaco e da pazzo. Sire, mitigate il vostro sdegno,
non vogliate colpirlo, perchè sentireste il rammarico
d'aver fatto pesare la vostra mano sopra un folle.
— L'ebbro e il giudizio proprio meritano le stesse
scuse, perchè l'uno vai l'altro in fatto di ragionevo-
lezza. Si ponga dunque il massimo impegno a non
lasciargli fare tanti discorsi, perchè non c'inebrii
delle sue ragioni, massime in materia di obbedien-
za (1).
Obbedienza pronta.
L'obbedienza bisogna che sia pronta. La pron-
tezza nelPobbedire è stata raccomandata sempre ai
religiosi come elemento essenziale, perchè si obbe-
disca a dovere e si osservi fedelmente il voto fatto
a Dio. Questa prontezza fu il segno di cui si servì
Eliezer (2) per conoscere la fanciulla da Dio desti-
ci) E. xi (t. vi, pp. 196-200).
(2) Gen., xxiv, 14-20.
368
nata in isposa al figlio del suo padrone. Disse dun-
que fra sè: — Quella, a cui domanderò da bere e
che mi dirà: " Non solo ne darò a te, ma attingerò
anche per i tuoi cammelli „ sarà colei che ricono-
scerò qual degna sposa per il figlio del mio pa-
drone. — E mentre era in questi peusieri, scorse
da lungi Rebecca. Eliezer, quando la vide cavar
acqua dal pozzo per le sue pecore, le rivolse la do-
manda, a cui la donzella rispose coin'ei desiderava:
— Sì, non solo per te, ma anche per i tuoi cam-
melli. — Nota com'essa fu pronta e gentile; non
iscansò la fatica, ma si mostrò molto generosa,
perchè non era poca l'acqua necessaria ad abbeve-
rare i cammelli di Eliezer. Le obbedienze fatte con
mala grazia non tornano gradite. Certuni obbedi-
scono, è vero, ma con tanta pigrizia e con cera sì
brutta, che diminuiscono molto il merito della vir-
tù. La carità e l'obbedienza vanno così unite, che
non si possouo separare: l'amore ci fa pronti a ob-
bedire. Per difficile che sia la cosa comandata, chi
possiede l'obbedienza amorosa, amorosamente la
eseguisce; la ragione è che, essendo l'obbedienza
parte principale dell'umiltà ed essendo l'umiltà a-
mantissima della sottomissione, l'obbediente ama
per conseguenza di essere comandato, e non appe-
na scorge da lontano un comando, di qualunque
natura possa apparirgli, o di suo gradimento o
369

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no, tosto l'abbraccia e l'accarezza, portandogli te-
nero affetto.
Nella vita di san Pacomio si legge un bell'esem-
pio di'questa prontezza nell' obbedire. Fra i suoi
religiosi eravene uno chiamato Giona, uomo di
gran virtù e santità, che aveva l'incarico dell'orto,
dove sorgeva un fico stracarico di bei frutti. Questa
pianta era una tentazione per i religiosi giovani;
tutte le volte che passavano di là davano sempre
un'occhiata ai fichi. San Pacomio l'aveva notato
e passeggiando un giorno nell'orto, alzò gli occhi
all'albero e vide là sopra il diavolo che guardava i
fichi dall'alto, mentre i religiosi li guardavano dal
basso. Il gran Santo, desideroso di avviare i suoi
non meno a una perfetta mortificazione dei sensi
che alla mortificazione interiore delle passioni e
inclinazioni, chiamò Giona e gli diede ordine che
il giorno dopo assolutamente tagliasse l'albero. Al
che il povero Giona replicò: — Oh, Padre, ci vuo-
le ancora un po' di paziènza con quei giovani; bi-
sogna bene ricrearli un tantino; non è per me che
io lo voglio conservare.— Rispose il Padre con gran
dolcezza:—Bémbè, fratello, tu non hai voluto ob-
bedire con semplicità e prontezza; ma vuoi scom-
mettere che l'albero sarà più obbediente di te? —
E così fu; il dì appresso lo trovarono secco, nè por-
tò più frutti. Il povero Giona diceva il vero, che
370
non voleva conservare per sè il fico; difatti in set-
tantacinque anni dacché era religioso e faceva l'or-
tolano, egli non aveva mai assaggiato un frutto
dell'orto, mentre ne largheggiava coi fratelli. Tut-
tavia quella volta imparò, quanto sia commendevole
la prontezza nell'obbedire (1).
Quando nacque Gesù, gli Angeli ne diedero
l'annuncio, ed i pastori e i Re Magi andarono ad
adorarlo. Clie giubilo, che consolazione spirituale
per la Madonna e san Giuseppe in quei momenti! Ma
sta' attento, qui non è tutto. Di lì a poco l'Angelo
del Signore disse in sogno a san Giuseppe: — Pren-
di il Bambino e sua madre, e fuggi in Egitto (2),
perchè Erode vuol farlo morire. — Che acerbo do-
lore dovette questo cagionare alla Madonna e a san
Giuseppe! L'Angelo trattò san Giuseppe proprio
da religioso. Prendi il Bambino, disse, e sua Madre,
e fuggi in Egitto, e rimani colà fino a che non te lo
dirò io. — Che è ciò? avrebbe potuto rispondere
il povero san Giuseppe. Tu mi dici di andare; non
basterà partire domani mattina? dove vuoi ch'io
vada di notte? Non ho nulla di pronto per il viag-
gio; come vuoi che io porti il Bambino? avrò io la
forza di portarlo continuamente in braccio per sì
(1) E. xi (t. VI, pp. 177-9).
(2) MATT., II, 13.
3

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lungo cammino*? Vorresti ebe lo portasse alternati-
vamente anche la Madre? Ma non vedi che è una
giovinetta ancora tanto delicata? Poi non ho ca-
vallo nè denaro per il viaggio. E non sai che gli
Egiziani sono nemici degli Israeliti? chi ci riceverà?
— E altre scuse somiglianti, che noi avremmo di
certo addotte all'Angelo, se fossimo stati al posto
di san Giuseppe. Ma egli non disse verbo per esimer-
si dall' obbedire: anzi partì all'istante e fece tutto
quello che l'Angelo gli aveva comandato. Non dila-
zioni, non indugi, quando si tratta di fare l'obbe-
dienza! (1).
Il Signore, volendo cavalcar un'asina per en-
trare in Gerusalemme, disse a due Apostoli: An-
date nel passe che vi sta dirimpetto, entrate nella tal
casa, sciogliete l'asina e l'asinino, e conducetemeli
qui, e se vi si dirà qualche cosa, dite che il Signore ne
ha bisogno (2). E i due partirono sull'istante. Come
vedi, erano buoni religiosi, perchè obbedirono pron-
tamente senza replica. I religiosi dei tempi nostri
sarebbero stati più prudenti, perchè avrebbero per
lo meno risposto: — Maestro, se facciamo una cosa
simile, che si dirà? Si troverà che è una cosa mal
fatta, ne andrà della tua riputazione. — Ma quei
(1) E. ni (t. vi, p. ,39).
(2) MATT., XXI, 1. 3.
3
bravi uomini andarono senza fiatare, e trovarono
altre brave persone che appena udito: Il Signore
ne ha bisogno, non replicarono parola (1).
Il Signore stesso per tutto il tempo della sua
vita diede esempi continui di questa prontezza
nell'obbedire; non si può immaginare condiscenden-
za più pronta della sua all'altrui volere. Dal suo
esempio impariamo a essere prontissimi nell'obbedi-
re. A un cuore che ama, non basta fare quello che
gli si comauda o di che gli si mostra desiderio, ma
lo fa per di più con prontezza; non vede il momento
di eseguire l'ordine ricevuto, affinchè gli si coman-
di qualche cosa d'altro. Davide espresse un sem-
plice augurio di poter bere acqua della cisterna di
Betlemme (2), che tosto tre cavalieri partirono, at-
traversarono a spron battuto il campo nemico e
andarono a pigliargliela. Ebbero davvero una pron-
tezza straordinaria a secondare il desiderio del
re. Così vediamo aver fatto molti Santi per secon-
dare quelle che loro sembravano le intenzioni del
Ite dei re, nostro Signore. Che pensi tu del co-
mando che il Signore diede a santa Caterina da
Siena, di succhiare o leccare la marcia che colava
dall'ulcere della povera donna da lei servita? e del
(1) S. R. v (t. IX, pp. 34-5).
( 2 ) Il Reg., XXIII, 15. 16.

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comando dato a san Luigi di Francia che mangiasse
coi lebbrosi gli avanzi della loro minestra per inco-
raggiar quelli a mangiare? Non erano certo obbliga-
ti a tanto; ma sapendo che al Signore piaceva che
amassero l'umiliazione e persuasi di dargli gusto
a secondarne, le intenzioni, facevano col più ardente
amore tali cose ripugnantissime ai loro sensi (1).
Obbedienza cieca.
I Padri hanno raccomandato l'obbedienza cieca.
Quest'obbedienza ha tre qualità o condizioni: non
guarda a chi comanda, non guarda alle cose co-
mandate, non guarda ai mezzi necessari per ese-
guire il comando.
Premetto che l'obbedienza cieca si assoggetta
amorosamente a fare con semplicità le cose coman-
date, purché chi comanda abbia il potere di coman-
dare, e il comando porti all'unione dell'anima con
Dio: dal quale scopo non prescinde mài in nulla il
vero obbediente. Molti han preso grave abbaglio
su questo punto, dandosi a credere che tale condi-
zione dell'obbedienza stesse nel fare sconsiderata-
mente checché ci venisse comandato, fosse pure
contro i comandamenti di Dio e della santa Chiesa:
(1) E. xi (t. vi, p. 179).
374
errore grossolano, follia da non si pensare nell'ac-
cecamento, di cui parliamo. In tutto quello che con-
cerne i comandamenti di Dio, come i superiori non
hanno mai il potere di comandare niente in con-
trario, così gl'inferiori non hanno mai il dovere di
obbedire fino a tal punto: anzi, obbedendo, pecche-
rebbero.
Anzitutto l'obbedienza cieca obbedisce indistinta-
mente a tutti i superiori. I Padri antichi biasima-
vano forte coloro che si rifiutavano di sottostare
all'obbedienza di chi fosse meno qualificato di essi,
e a questi tali domandavano: — Voi altri, quando
obbedite ai superiori, perchè lo fate? Per amor di
Dio? No. O che non tiene questo superiore in mez-
zo a noi lo stesso luogo di Dio che teneva quell'al-
tro? Certo, ei fa le veci di Dio; Dio comanda per
bocca sua e ci comunica mediante gli ordini di lui
i propri voleri, come già per mezzo del suo predeces-
sore. Dunque voi obbedite ai superiori per sim-
patia e per motivi personali. Così non fate nulla più
dei mondani, che agiscono in egual maniera, e delle
persone amate che non salo eseguiscono i comandi,
ma stimerebbero mal soddisfatto il loro amore, se
non ne secondassero anche i desideri e i gusti, come
fa il vero obbediente con i superiori, quasi fosse
in loro luogo Dio stesso. — Così dicevano i Padri
antichi. I pagani, per cattivi che fossero, ci han-
3

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no dato esempio in questo. Il diavolo parlava loro
in idoli di vario genere: eran statue d'uomini, di
topi, cani, leoni, serpenti e simili: e quella povera
gente prestava fede a tutti senz' alcuna differenza,
obbedendo alla statua di un cane come a quella
di un uomo, alla figura di un topo come a quella di
un leone. Perchè questo? perchè nella diversità dei
simulacri vedevano i loro dèi.
San Paolo ci comanda di obbedire ai nostri su-
periori, dicendo (1): Obbedite tèi vostri superiori —
ancorché fossero indiscreti, aggiunge san Pietro (2).
Di questo ci ha lasciato san Paolo un esempio (3).
Condotto un giorno dinanzi al pontefice, ebbe per
ordine di lui uno schiaffo. Il grande Apostolo, al
vedersi schiaffeggiare senza motivo, con la sua au-
torità apostolica lo maledisse,, dicendo: Percuota te
Iddio, muraglia imbiancata! Ma poi, saputo che co-
lui era il sommo sacerdote, ritirò le sue parole e
ne espresse rincrescimento con dire: — Io non sa-
pevo che egli fosse il principe dei sacerdoti; noi se-
guaci di Gesù Cristo abbiamo imparato che bisogna
onorare tutti quelli che hanno qualche autorità su
di noi. — Il Signore, la Madonna, san Giuseppe
(1) Hebr., xin, 17.
(2) I PETR., II, 10.
(3) Act., XXIII, 1-5.
376
ci hanno insegnato molto bene questa maniera di
obbedire, quando fecero il viaggio da Nazaret a
Betlemme (1). Avendo Cesare fatto un editto, per-
chè tutti i suoi sudditi si recassero nel luogo di
origine per esservi censiti, vi andarono anch'essi
amorosamente per ottemperare a quell'ordine, ben-
ché Cesare fosse pagano e idolatra. Con questo il
Signore volle mostrare che non bisogna mai guar-
dar alla faccia di chi comanda, se ha il potere di
comandare.
Veniamo ora alla seconda proprietà dell'obbe-
dienza cieca: obbedire senza badare all'intenzione e
al fine, per cui il comando è dato, ma contentarsi di
sapere che il comando c'è e non perdersi ad alma-
naccare se sia dato bene o male, se vi fosse o no
ragione di darlo. Abramo si meritò gran lode per
questa obbedienza. Dio lo chiama e gli dice: Esci
dalla tua terra e dalla tua casa e vattene verso la
regione che io ti mostrerò (2). Abramo se ne va
senza replica. Avrebbe potuto dire: — Ma, Signo-
re, tu mi dici di uscire dalla mia città; dimmi al-
meno da che parte. — Non proferì parola, ma an-
dò ove lo spirito lo portava, non badando punto se
andasse bene o male, nè pensando al perchè di
(1) Lue., n, 1-5.
(2) Gen., XII, 1.
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quell'ordine e all'intenzione di Dio in darglielo con
termini sì concisi che non gl'indicava neppure per
quale strada voleva ch'ei si avviasse. Il vero obbe-
diente non si mette a ragionar tanto, ma si accin-
ge senz'altro all'opera curandosi di una cosa sola:
di obbedire.
Sembra che il Signore medesimo ci abbia volu-
to mostrare, quanto gli fosse gradita questa ma-
niera di obbedire, allorché apparve a san Paolo per
convertirlo; poiché, chiamatolo per nome, lo fece
cadere a terra e lo accecò. Vedi? Vuol farlo suo
discepolo, e lo fa cadere, umiliandolo e sottomet-
tendolo a sè; poi lo accieca e gli comanda di rè-
carsi in città, da Anania e di fare ciò che questi
gli ordinerà (1). Ma perchè il Signore medesimo
non gli disse quello che doveva fare, senza .man-
darlo altrove, egli che pure si era degnato di parlare
a lui per convertirlo? San Paolo ubbidì appuntino.
Al Signore non sarebbe costato niente dire senz'al-
tro quello che gli fece dire da Anania: ma volle
con questo esempio farci conoscere, quanto gli piac-
cia l'obbedieza cieca; sembra infatti che abbia acce-
cato san Paolo proprio per renderlo vero obbediente.
Nel dare la vista al cieco nato, il Signore fece del
fango e glie lo mise sopra gli occhi, ingiungendogli
(L) Act., ix, 4-8.
378
-
- -v. • -v
di andare a lavarsi nella piscina di Siloe (1). Il po-
vero cieco, meravigliandosi del mezzo usato dal Si-
gnore per guarirlo, avrebbe potuto dirgli: — Signo-
re, che cosa fai? se io non fossi già cieco, basterebbe
questo a farmi perdere la vista. — No, non fece tante
osservazioni, ma obbedì con la massima semplicità.
C-osi il vero obbediente crede con semplicità di po-
ter fare tutto quello che gli si può comandare, per-
chè ritiene che ogni comando gli venga da Dio o
gli sia dato per sua ispirazione: cose non impossi-
bili, data la potenza di Colui che comanda.
' Naaman di Siria (2) non si comportò a questo
modo in cosa che credette dovergli tornar nociva.
Avendo la lebbra, si recò da Eliseo per essere gua-
rito, giacché tutti i rimedi usati per ricuperare la
primiera salute non gli avevano fatto nulla. Saputo
adunque che Eliseo operava grandi mèraviglie, andò
da lui, e, arrivato, gli spedì uno del seguito a suppli-
carlo della guarigione. Eliseo, senza nemmeno uscire
di camera, gli mandò a dire per mezzo del servo che
andasse a lavarsi sette volte nel Giordano e sarebbe
guarito. A tale risposta Naaman, stizzito, disse: —
Non vi sono nel nostro paese acque buone come
quelle che scorrono nel Giordano? — E non volle
(1) JOAN., ix, 6, 7.
(2) IV Reg., v, 9-14.
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saperne. Ma i suoi gli osservarono ohe doveva fare
la cosa prescritta dal Profeta, giacché era tanto
facile. Si arrese alle loro parole e lavatosi sette vol-
te, rimase guarito. Vedi com'ei si mettesse a rischio
di non riavere la salute con il suo voler fare tante
osservazioni sulla cosa comandata? (1).
Non tanti discorsi, non tante considerazioni. Ti
porterò ancora tre esempi per mostrarti il pericolo
del voler fare l'accorto nelle cose comandate da Dio
o dai superiori. Due sono cavati dalla Sacra Scrit-
tura e l'altro dalla vita di san Pacomio.
Il primo è l'esempio di Adamo. Avuto da Dio
il comando di non mangiare il frutto proibito sotto
pena di perdere la vita, venne fuori il serpente a
consigliare d'infrangere il divieto. Eva gli diede
ascolto, poi si tirò dietro anche il marito. Orbene,
discorrendo della proibizione loro fatta, essi dissero:
— Ma che! Dio ci ha minacciato la morte, ma non
morremo per questo. Non ci ha mica creati per farci
morire. — Così ne mangiarono, e morirono di morte
spirituale.
Il secondo esempio è di alcuni discepoli del Si-
gnore, i quali, sentendolo dire che avrebbe dato
loro la sua carne e il suo sangue in cibo e in bevanda,
vollero fare gli accorti e i prudenti, chiedendo come
(1) E. XI (t. VI pp. 170-6).
380
mai si sarebbe potuto mangiare la carne e bere il
sangue di un uomo. Ma poiché essi pretesero di
farvi su i loro ragionamenti, il nostro divin Maestro
li mandò via dalla sua scuola (1).
Ecco il terzo esempio cavato dalla vita di san
Pacomio. Essendo un giorno uscito dal monastero
per affari dell'Ordine, in cui vivevano tremila
monaci, raccomandò ai fratelli che avessero cura di
alcuni giovani religiosi venuti a lui per una parti-
colare ispirazione. Per la rinomanza in che era salita
dappertutto la santità di quei padri, teneri giovinetti
accorrevano al Santo e lo pregavano di ammetterli
a condurre lo stesso tenore di vita. Egli, che li rico-
nosceva mandati da Dio, li accettava e ne aveva
cura speciale; quindi è che sul partire raecomandò
caldamente di tenerli allegri e dar loro da mangiare
verdura cotta. Erano le grandi delicatezze che si
usavano con quegli adolescenti! Se non che, partito
il Padre santo, i religiosi anziani, pretendendola a
più austeri, non vollero continuar a mangiare erbe
cotte, ma si limitarono alle erade. Allora quei che
davano da mangiare ai giovani, pensarono che fosse
uno spreco il far cuocere soltanto per essi. Al ritorno
di san Pacomio, questi scapparono fuori tutti a guisa
di api, correndogli incontro, e chi gli baciava la
(1) JOAN.. VI, 61-7.(
3

20.6 Page 196

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mano, chi la veste, cóme a caro padre. Infine uno
di quei religiosetti uscì a dirgli: — Padre, quanto
sospiravo il vostro ritorno! dopo la vostra partenza
non abbiamo più avuto erbe cotte. — Ciò udendo, il
Padre restò molto turbato e fatto chiamare il cuoco,
gli chiese, perchè non avesse fatto cuocere della
verdura. L'altro rispose che, mangiandone solo quei
giovani, aveva creduto fosse fatica sprecata; che
però egli non era stato in ozio, ma aveva fatto
stuoie. Della cosa il santo fece in presenza di tutti
una solenne riprensione; poi gli ordinò di gettare
nel fuoco tutte quelle stuoie, dicendo che bisognava
bruciare ciò che era stato fatto fuori dell'obbedienza.
— Sapeva ben io, conchiuse, ciò che occorreva per
questi giovinetti, i quali non sono da trattarsi come
i vecchi; eppure voi altri avete voluto contro l'obbe-
dienza fare i savi. — Ecco dunque che coloro, i
quali dimenticano ordini e comandi in grazia delle
loro interpretazioni e prudenze sulle cose coman-
date, rischiano di far mala fine; tutto il lavoro com-
piuto secondo la volontà propria o il discernimento
umano merita soltanto di andare sul fuoco (1).
Ultima proprietà dell'obbedinza cieca è non istar
tanto a investigare, con quale mezzo potrà eseguire
il comando. Sa che la via da battere è tracciata
(1) S. R. u v (t. x, pp. 193-5).
382
dalla regola e dalla volontà dei superiori; per questa
via s'incammina con semplicità di cuore, senza
sofisticare, se sia meglio far così o cosà; purché
obbedisca, tutto il resto le è indifferente, persuasa
che tanto basta per incontrare il gradimento di Dio,
per amor del quale fa puramente e semplicemente
la sua strada (1).
Obbedienza perseverante.
L'obbedienza dev'essere perseverante. Ce lo inse-
gna particolarmente il Signore, secondochè lo di-
chiara san Paolo (2): Egli è stato obbediente sino
alla morte; e insistendo sull'idea di tale obbedienza,
aggiunge: e sino alla morte di croce. Le parole sino
alla morte obbligano a presupporre che egli fu
obbediente per tutto il tempo della sua vita, duran-
te la quale realmente si videro in lui soltanto atti
di obbedienza ai parenti e ad altri, anche empi
e scellerati: e come con questa virtù incominciò, così
con la stessa finì il corso della sua vita mortale.
Il buon religioso Giona, di cui ho già parlato,
ci porge due esempi sull'argomento della perseve-
ranza; perchè, sebbene abbia mancato di prontezza
(1) E. xi (t. vi, pp. 176-7).
(2) Philipp... il, 8.
3

20.7 Page 197

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nell'obbedire a quel comando di san Pacomio, pure
fù uomo di gran perfezione. Egli dalla sua entrata
in religione sino alla morte continuò nell'ufficio di
ortolano, senza cambiare mai occupazione per lo
spazio di settantacinque anni che visse nel mona-
stero. L'altra cosa in cui perseverò tutta la vita,
fu il lavoro delle stuoie, fatte di giunchi intreccia-
ti Con foglie di palme, sicché morì mentre stava
in ciò occupato. È grandissima virtù il persevera-
re tanto a lungo in occupazione di tal genere; che
il fare allegramente una cosa comandata volta per
volta, sia pare quante volte si voglia, non costa
niente; ma quando ti si dice: — Parai sempre que-
sta cosa e per tutto il tempo della tua vita, — lì
c'è virtù, lì sta il difficile. Eppure è questa perse-
veranza che ottiene la corona (1) (2).
Sì, questa qualità dell'obbedienza è la più diffi-
cile di tutte. Il motivo si è la leggerezza è inco-
stanza della mente umana. Se volessimo secondare
tutti i moti dell'animo o se ci fosse possibile farlo
senza scandalo o disonore, non si vedrebbero che
cambiamenti: prima si vorrebbe essere in una con-
dizione e di lì a poco se ne cercherebbe un'altra,
tanto è bizzarra la volubilità umana; pure bisogna
(1) MATT., x, 22; xxiv, 13.
(2[) E. xi (t. vi, pp. 181-2).
384
tenerla a segno col freno delle nostre prime riso-
luzioni, per potere così mantenerci sempre uguali
in mezzo alle tante disuguaglianze di sentimenti e
di vicende.
Per meglio affezionarci all'obbedienza, gioverà,
quando saremo tentati, considerarne il pregio, la
bellezza e il merito, cioè l'utilità, e così animarci
a tirare innanzi. Questo, s'intende, per chi non sia
ancora ben fondato in tale virtù; poiché, quando
fosse questione soltanto di ripugnanza o disgusto
per la cosa comandata, si faccia un atto d'amore,
e quindi mano all'opera. Financo il Signore nella
Passione sentì un fortissimo tedio e un'avversione
mortale a soffrire la morte: l'ha detto egli medesi-
mo: tuttavia con la parte superiore del suo spirito
egli stava rassegnato alla volontà del Padre: tutto
il resto veniva da un moto della natura.
Il punto più difficile nella perseveranza, è nelle
cose interne: chè per le materiali ed esterne la diffi-
coltà non è tanto grave. Questo proviene dalla fa-
tica che si richiede per sottomettere l'intelletto,
l'ultimo baluardo da occupare: eppure è assoluta-
mente indispensabile assoggettare il nostro pensie-
ro, sicché, venendoci assegnati certi esercizi o cer-
te pratiche di virtù, vi perseveriamo con docilità
di spirito. Io non dico che sia venir meno alla per-
severanza il fare piccole interruzioni, purché non
385
13. - E. CERTA, La vita religiosa ecc.

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si smetta interamente; come.non è mancare all'ob-
bedienza il non adempiere qualche condizione, es-
sendo noi obbligati alla sostanza delle virtù e non
alle loro condizioni. Benché si obbedisca contro vo-
glia e quasi forzati dall'obbligo del proprio stato,
non cessa per questo la nostra obbedienza di es-
sere buona, in virtù dell'antecedente risoluzione da
noi presa. Peraltro, l'obbedienza racchiude un va-
lore e merito stragrande, allorché sia praticata con
le condizioni già dette: una cosa, per piccola che
sia, quando si. fa con tale obbedienza, viene ad
avere sommo pregio (1).
L'obbedienza è per le nostre azioni come il sale,
che le rende gustose e saporite e la cui mancanza
impedisce che il Signore le trovi buone, e gradite
alla sua bontà. Un'azione, anche per sé indifferente
e priva di merito, se si fa per obbedienza, diventa
buona e meritoria. I mondani purtroppo fanno le
cose a capriccio e fantasia, anche quando pregano.
Non così i religiosi, che fanno tutto per obbedien-
za. Perchè credi tu che il Signore nell'antica Leg-
ge ordinasse agli Israeliti di non offrirgli sacrifìci
senza mettervi sale! (2). Per mostrarci che tutti i
nostri sacrifici egli voleva accompagnati da gran
(1) E. x (t. vi, 159-161).
(2) Levit., il, 13.
386
senno e grande ponderatezza. Così fanno i religio-
si, allorché, immolandosi al Signore, rinunciano alla
propria libertà: non credendosi abbastanza giudi-
ziosi da poter guidare se medesimi, si affidano al-
l'obbedienza, per istar sempre docilmente soggetti
alla volontà di Dio e dei superiori. Gran saviezza
non credersi tanto savi che basti per governarsi da
sé! So bene che, se ci lasciassimo condurre dalla
ragione, questa ci porterebbe molto avanti; ma il
peccato ci ha talmente guaste e sconcertate le po-
tenze interne, che la parte inferiore dell'anima ha
d'.ordinario maggior potere per trascinarci al male
che non abbia la parte superiore per volgerci al be-
ne. Ecco la somma utilità di obbligarci a cercare
i beni eterni, legandoci col voto di obbedire alla
volontà di Dio, significataci nei suoi comandamenti
e consigli, nelle nostre regole e nelle disposizioni
dei superiori (1).
Oltre al fin qui detto, il vero obbediente gode in
fondo all'anima una tranquillità perenne e quella
pace santissima del Signore, la quale sorpassa ogni
intendimento (2); nè dovrà rendere conto delle sue
azioni, perchè fatte in obbedienza alle regole e ai
superiori. Qual sorte più vantaggiosa e più deside-
(1) S. R. xxvri (t. ix, pp. 245-7).
(2) Philipp., iv, 7.
3

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rabile di questa? Il véro obbediente conduce la vita
dolce e tranquilla del bambino, che, in braccio
alla sua cara madre, non si preoccupa di qualsiasi
accidente possibile: lo porti la madre sul braccio
destro o sul sinistro, a lui non cale. Così il vero
obbediente, gli si comandi una cosa o l'altra, non
se ne dà pensiero: purché gli comandino ed egli
stia fra le braccia dell'obbedienza, voglio dire nella
pratica di questa virtù, è contento. Ora, ad un re-
ligioso di tal fatta io posso assicurare da parte di
Dio il paradiso ' per la vita eterna; ma anche nel
corso della sua vita mortale ei godrà vera pace,
non se ne può menomamente dubitare (1).
Ancora una parola intorno ai religiosi anziani.
A chi sia già vissuto lungo tempo in religione e
vi abbia reso grandi servigi, sarà lecito allentare
un po' nella pratica dell'obbedienza, almeno in cose
di poco rilievo? Oh, davvero sarebbe questo un fa-
re come il pilota che, dopo lunghi e gravi travagli
per salvare la nave dai pericoli della tempesta, rag-
giunto il porto, volesse farla ivi naufragare, anne-
gando anche se stesso. Ohi non giudicherebbe co-
stui un gran pazzo? Se aveva quell'intenzione, non
valeva la pena faticar tanto per condurre la nave
fino al porto. Non s'ha da dire che tocchi solo ai
(1) E. xi (t. vi, pp. 186-7).
388
novizi essere osservanti. Benché si veggano in tut-
te le religioni i novizi molto diligenti e mortificati,
questo non significa ch'essi vi siano tenuti più dei
professi: anzi, non vi hanno ancora obbligo e per-
severano nell'obbedienza per ottenere la grazia del-
la professioue; invece i professi vi sono obbligati in
forza dei voti; non basta averli fatti per esser re-
ligiosi, ma bisogna anche osservarli. I religiosi che
pensassero di potersi alcun po' rilassare dopo la pro-
fessione, fossero già anche vissuti lungo tempo nel-
lo stato religioso, s'ingannerebbero a partito. Il Si-
gnore si mostrò più arrendevole in morte che nel-
la sua infanzia a lasciarsi maneggiare e piegare (1);
infatti, quand'era in grembo alla sua gloriosa ma-
dre, moveva braccia e gambe, cercando di cammi-
nare, mentre sulla croce non mosse né braccia né
gambe, ma vi morì immobile per obbedienza (2).
Un gran servo di Dio chiese già a un buon reli-
gioso come desiderasse di essere per tutta la vita.
Questi gli rispose che desiderava conservarsi sem-
pre come un novizio: quindi sempre così piccolo,
sottomesso, mortificato; sempre così corretto, ripre-
so, umiliato. Felice lui! E felice anche te, se la du-
rassi a questo modo per tutta quanta la vita! (3).
(1) E. xi (t. vi, p. 193).
(2) Ib. (p. 181, z).
(3) S. R. XLVIII (t. x, p. 88).
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20.10 Page 200

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§ 4. EFFETTO DEI TRE VOTI:
DISTACCO UNIVERSALE.
Il « mio » e il « tuo ».
Le affezioncelle al « mio » e al « tuo » sono re-
sidui del mondo, nel quale non c'è altro che abbia
tanto pregio, essendo ivi il colmo della felicità avere
•molte cose proprie, di cui poter dire: — Questo
è mio! — Ora, il motivo dell'affetto a quello che
è nostro sta nel fare gran conto di noi stessi;
noi infatti .ci crediamo così eccellenti, da stimare
maggiormente un oggetto sol perchè ci appartie-
ne: e, viceversa, il poco conto che facciamo degli
altri, ci rende uggioso quello che è stato usato da
loro. Ma se fossimo umili e distaccati da noi fino
a tenerci per un nulla davanti a Dio, non farem-
mo veruu conto di quello che fosse nostro e ci sti-
meremmo onoratissimi di aver per nostro uso quello
che è servito ad altri. Però qui come in tutte le
cose si distingua sempre fra inclinazione e affezio-
ne; poiché, quando vi sono inclinazioni e non affe-
zioni, non occorre darsene pensiero, non dipenden-
do da noi il non avere cattive inclinazioni, bensì il
non avere cattive affezioni. Se dunque avviene che,
dovendosi scambiare checchessia con un confra-
tello, la parte inferiore si turbi alquanto, non vi
è peccato, purché con la ragione si accetti di buon
grado il cambio. Cotesti movimenti derivano dal
non aver messo tutti i proprii voleri in comune,
secondocliè deve fare eh' entra in religione; poiché
ogni religioso dovrebbe lasciare la propria volontà
fuori della porta per ritenere solamente quella di
Dio. Ecco il segreto per non aver fastidi nè inquie-
tudini ; dove regna l'indifferenza ben intesa, non
alberga dispiacere o tristezza.
•Né sarebbe sufficiente volere soltanto in gene-
rale lo spropri amento, senza scendere al particolare.
Nulla di più facile che dire così all' ngrosso: — Ri-
nuncio a me stesso, lascio la mia volontà. — Il
difficile sta nel venire alla pratica. Passa quindi
al minuto, portando le tue considerazioni ai casi
tuoi, e rinuncia in modo concreto ora a questa, ora
a quella volontà propria, finché non te ne sia spo-
gliato del tutto. Al quale spogliamento isi arriva per
tre gradi: il primo è amare lo spogliamento mer-
cè la considerazione della sua bellezza; il secondo
è risolvere di praticarlo, cosa che deriva natural-
mente da quell'affetto, essendo malagevole risol-
versi a un bene non amato; il terzo è praticare,
e qui s'incontra la difficoltà maggiore.
390
39

21 Pages 201-210

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21.1 Page 201

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Spogliamenti di vario genere.
I beni, di cui spogliarci, si dividono in tre ca-
tegorie: beni esterni, beni del corpo, beni dell'ani-
ina. Beni esterni sono tutte le cose lasciate fuori
della religione: case, poderi, parenti, amici, e si-
mili. Ce ne dispogliamo facendone rinuncia nelle
mani del Signore e poi conformando ai suoi voleri
i nostri sentimenti verso di quelli; giacché non
si ha da rimanere privi di affezioni nè averle egua-
li indifferentemente per tutti, ma si deve amare
ognuno secondo la sua qualità: la carità gradua
gli affetti. In secondo luogo vengono i beni del
corpo: bellezza, sanità e simili, a cui bisogna pur
rinunciare, senz'andar più tanto a guardare nello
specchio se si è belli, nè preoccuparsi dell'essere
sani più che dell'essere ammalati, almeno nella par-
te superiore; chè la natura si risente sempre e tal-
volta insorge, massime quando non si è ancora
abbastanza perfetti. Si stia dunque del pari con-
tenti e nella malattia e nella sanità e si prendano
medicine e vivande così come capita: intendo sem-
pre con la ragione, perchè delle inclinazioni io non
mi curo. Finalmente, i beni del cuore sono le con-
solazioni e dolcezze della vita spirituale, e questi
sono beni eccellenti. Ma perchè dunque, mi dir?»
bisognerà spogliarcene1? Che vuoi? bisogna fari
3
bisogna metterli nelle mani del Signore, affinchè
ne disponga conforme al suo beneplacito, mostran-
doci noi prouti a servirlo con o senza di quelli.
Vi è poi un'altra specie di beni nè intern' nè
esterni, 11011 del corpo nè del cuore: i beni imma-
ginari, che dipendono dall'opinione altrui e si chia-
mauo onore, stima, riputazione. Fa d'uopo spogliar-
sene del tutto; unico onore sia quel della Congre-
gazione, che consiste nel cercare in ogni cosa la
gloria di Dio: unica stima o riputazione sia quella
della comunità, che consiste nel dare buona edifi-
cazione in tutto.
. Gli spogliamenti e le rinunce che ho detto, si
facciano non per disprezzo, ma per abnegazione,
per solo e puro amor di Dio.
L'affetto alle persone.
Nota bene 'qui che la contentezza provata nel-
l'incontro di persone care e le testimonianze di af-
fetto rese loro nel vederle non sono cose contrarie
a questa virtù dello spogliamento, purché lì per lì
non si ecceda e in loro assenza il nostro cuore non
corra loro dietro. Come mai potrebbe il cuore rima-
nere insensibile dinanzi a' suoi oggetti1? Sarebbe
come dire a chi s'imbattesse in un leone o in un
393

21.2 Page 202

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orso: — Non aver paura! — È cosa che non dipende
da noi. Parimente nell'incontrar persone amate è
impossibile non provare sentimenti di gioia e di con-
tento: and'è clie questo non si oppone alla virtù.
Dico inoltre che se io per un fine utile e della glo-
ria di Dio aspetto con desiderio una persona e
quésta è impedita di venire e io ne provo rincre-
scimento e mi do anche premura di rimuovere l'o-
stacolo, allora non faccio nulla contro la virtù dello
spogliamento, semprechè io non mi spinga fino
all'inquietudine.
Di qui tu vedi che la virtù non è poi tanto ter-
rìbile, come s'immagina. È questo l'errore di tanti,
che nella fantasia si creano chimere, figurandosi
che la strada del Cielo sia oltremondo difficile; ma
sbagliano grandementè. Davide diceva al Signore
(1) che la sua legge era dolcissima, e quanto più
i cattivi la gridavano dura e ardua, tanto più il
buon Re ripeteva che era più dolce del miele (2).
Lo stesso dobbiamo dire noi della nostra vocazione,
stimandola non solo buona e bella, ma anche dolce,
soave e amàbile: così facendo, metteremo grande
affetto a'osservarne tutti i doveri.
(1) Ps. cxvm, 4, 96, 167.
(2) Pss., XVIIII, 11; cxvui, 103.
394
L'affetto alle imperfezioni.
Per altro, non si arriverebbe mai alla perfe-
zione, Anche si portasse affetto a una imperfe-
zione qualsiasi, fosse pure piccolissima, fosse anche
il carezzare un pensiero inutile. Non potresti cre-
dere quanto male derivi da questo all'anima. Dopo-
ché tu avrai dato alla tua mente la libertà di pen-
sare a una cosa inutile, essa penserà dopo a cose
nocive. Duuque taglia corto, appena veduto il male,
per piccolo che s;a. Dobbiamo inoltre esaminarci
seriamente, se davvero non abbiamo anche noi,
come forse ci sembra, qualche debole, a cui siamo
affezionati; vedi, per esempio, se, quando ti lodano,
tu non getti là qualche parola che rincalzi la lode;
vedi se non vai a caccia di lodi, usando espressioni
velate e dicendo, poniamo, che non hai più la me-
moria o la mente pronta come una volta per par-
lar bene: eh! chi non sa che in tal caso ti aspetti
di sentirti dire che tu parli sempre benissimo? Cerca
dunque in fondo alla coscienza e osserva bene, se
mai vi scorgessi un po' d'affetto alla vanità. Se hai
attaccamento a qualche cosa, lo potrai anche facil-
mente scoprire nei contrattempi, per cui ti sia tolto
di fare quanto avevi divisato: se non vi hai attac-
camento, te ne starai in pace sia non facendo che
facendo; invece, se ti turbi, è segno che vi eri at-
39

21.3 Page 203

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taccato. Ora i nostri affetti, che debbono esser tutti
rivolti ad amar Dio, sono così preziosi, che bisogna
guardarsi bene dal collocarli in oggetti inutili:
tanto più elie una colpa anche piccola, ma commessa
con affetto, -è contraria alla perfezione più di cento
altre commesse all'improvviso e senza esservi affe-
zionati.
L'affetto alle creature.
Come si debbono amare le creature1? Vi sono
amori che seihbrano buoni e perfetti agli occhi
degli uomini, m a d i e davanti a Dio appariranno me-
schini e di nessun pregio, perchè non fondati sulla
vera carità, che è Dio, bensì soltanto in certe rela-
zioni e inclinazioni naturali e su motivi puramente
umani. Ve ne sono altri invece che sembrano me-
schini e senza contenuto agli occhi del mondo, ma
che si troveranno sodi e nobilissimi davanti a Dio,
perchè tutti in Dio e per Iddio, senza mescolanza
d'interesse proprio. Ora gli atti di carità che si
fanno con chi amiamo a questo modo, sono di gran
lunga più perfetti, come quelli che mirano unicamen-
te a Dio; ma i servigi e gli aiuti prestati a chi amiamo
per simpatia, valgono assai meno per la soddisfazio-
ne goduta in prestarli, operandosi ivi più per tale
impulso che per amor di Dio. Vi è pure un'altra
396
ragione, che rende quei primi amori men pregevoli
dei secondi, ed è che non durano; infatti, data la
debolezza del movente, si van raffreddando e inari-
dendo, il che non avviene per quelli fondati in Dio,
perchè hanno salda e costante, la loro causa.
A questo proposito, santa Caterina da Siena fa
un bel paragone (1). Se, dice, prendi un bicchiere
e lo riempi a una fontana e vi bevi senza rimuo-
verlo, potrai bere finché vorrai, chè il bicchiere
non si vuoterà; ma se lo tiri via, bevuto che abbi,
il bicchiere sarà vuoto. Così è delle amicizie: non
rimosse dalla loro sorgente, non si disseccano mai.
Le gentilezze e le significazioni d'amicìzia, da noi
usate di contraggenio con persone antipatiche, sono
migliori e più accette a Dio che non quelle ispirate
da simpatia. Nè si chiami questo doppiezza o simu-
lazione; perchè, sebbene io provi un sentimento con-
trario, pure l'ho soltanto nella parte inferiore e fac-
cio quegli atti con la ragione, che è la parte prin-
cipale dell'anima. Cosicché quando coloro ai quali
rivolgo quelle amorevolezze, venissero a sapere che
le fo a motivo di tale avversione, non se ne dovreb-
bero offendere, ma apprezzarle e gradirle più che
non se derivassero da simpatia. Le avversioni sono
cose naturali e per sè non sono cattive, quando non
(1) Dial., 64.
39

21.4 Page 204

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le secondiamo; d'altra parte, sono un mezzo per pra-
ticare tante belle virtù. Nostro Signore stesso è più
contento quando si va a baciargli i piedi con forte
ripugnanza, che non se vi si andasse con grande
soavità. Fortunati quindi coloro clie non hanno
simpatia per nulla, perchè sono sicuri che l'amore
da essi portato è eccellente, fondandosi tutto in Dio.
Spesso ci crediamo di amare una persona per
Iddio, mentre l'amiamo per noi: si adduce quel prete-
sto, si dice di amarla per tal motivo, ma in realtà
la si ama per la soddisfazione che se ne riceve. Il
vederti d'attorno un'anima piena di santo affetto,
docilissima a' tuoi consigli, costante e tranquilla in
battere la via da te indicata non ti dà più gusto
che nel vederne un'altra agitata, impicciata e fiac-
ca nel fare il bene, sicché bisogna ripeterle cento
volte le cose? Non dunque per Iddio ami quell'ani-
ma, giacché auche questa seconda è di Dio come
l'altra e la dovresti amare di più, essendoci con lei
più da fare per Iddio. A chi poi ha più di Dio, cioè
più di virtù, che è una partecipazione delle quali-
tà divine, dobbiamo naturalmente portare maggior
affetto: quindi, per esempio, se trovi anime più per-
fette che quella del tuo superiore, la devi maggior-
mente amare per questo motivo; tuttavia i nostri
superiori si debbono amare di più per un altro ri-
spetto, perchè cioè sono i nostri padri e direttori.
39
Conpiacimento del bene spirituale altrui.
Mi fu già chiesto se fra religiosi bisogna restar
contenti che uno pratichi la virtù a spese di un
altro. Io dico in genere che dobbiamo amare il be-
ne nel nostro prossimo come in noi stessi, massime
in religione, dove tutto ha da essere assolutamen-
te in comune; onde non c'è da rimanere scontenti,
qualora taluno pratichi certe virtù a spese nostre.
Io, per esempio, mi trovo presso la porta con uno
più giovane di me e mi tiro indietro per dargli la
precedenza: mentre io pratico quest'atto di umiltà,
quegli deve con dolcezza praticare la semplicità e
poi cercare in altra occasione di prevenirmi. Così,
se io gli porgo la sedia o gli cedo il mio posto, sia
egli contento che io mi faccia questo picrolo gua-
dagno e per tal modo ne sarà partecipe anch'esso,
quasi dicendo: — Giacche non ho potuto fare io co-
testo atto di virtù, sono lietissimo che l'abbia fatto
il mio confratello. — E non solo non è da restare
malcontenti, ma conviene essere disposti a contri-
buirvi quanto si può, a costo anche di qualunque
costo: purché Dio venga glorificato, non curiamoci
da chi: di guisa che, se, presentandosi l'occasione di
un'opera virtuosa, il Signore domandasse a noi da
chi ci piacerebbe che fosse fatta, noi gli dovremmo
rispondere: — Signore, da chi la potrà fare a mag-

21.5 Page 205

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gior gloria vostra. — Se per altro non si desse que-
sta libertà di scelta, desideriamo di farla noi, per-
chè la prima carità comincia da se stesso: dove al
contrario noi non potessimo fare, rallegriamoci, go-
diamo, siam contentissimi che facciano altri, e così
avremo davvero messo tutte le cose in comune (1).
Lo stesso dicasi riguardo alle cose temporali: ci ba-
sti che la casa sia in buon ordine, senza curarci
che questo avvenga per opera nostra o per opera
altrui. Il sorgere di sentimentucci contrari dà in-
dizio che vi è ancora del mio e del tuo (2).
Niente domandare e niente rifiutare.
Io parlavo un giorno con un'ottima religiosa, la
quale mi chiedeva se, desiderando di comunicarsi
più spesso della comunità, faceva bene a chiederne
licenza alla superiora. Le risposi che io, se fossi reli-
gioso, farei così: non chiederei di comunicarmi più
spesso della comunità, come non chiederei di portare
il cilicio nè di fare speciali digiuni o discipline o
altro, ma vorrei stare in tutto e per tutto con la
(1) Act., Il, 44; IV, 32.
(2) E. vili (t. vi, pp. 120-9).
400
comunità. Se fossi robusto, non mangerei quattro
volte al giorno; ma se mi facessero mangiare quat-
tro volte, lo farei senza dir nulla. Se fossi debole
e mi facessero mangiare soltanto una volta al gior-
no, mangerei soltanto una volta, senza pensare a
debolezza o non debolezza. Io voglio poche cose;
e quel che voglio, lo voglio molto poco: non ho
quasi desideri, ma se dovessi rinascere, non ne
avrei nessuno.
Dico dunque che niente bisogna domandare e
niente rifiutare, ma abbandonarsi nelle braccia della,
Provvidenza divina senza perdersi in altri desideri
che non siano quelli di volere ciò che Dio vuole da
noi. San Paolo praticò egregiamente questo abban-
dono nell'istante medesimo della sua conversione,
quando al Signore che avevalo accecato, disse subito
subito: Signore, che cosa vuoi che iofaccia? (1). E da
quel momento perseverò sempre nella pratica di una
assoluta dipendenza dalle disposizioni di Dio. Qui
sta tutta la nostra perfezione: il medesimo san Paolo,
scrivendo a un discepolo, gli dice fra l'altro (1) di
non lasciarsi ingombrar il cuore da desideri, tanta
era la conoscenza ch'egli aveva di questo difetto.
Ma non bisognerà desiderare le virtù? e poi non
(1) Act., ix, 6.
(2) Il Tim., II, 22.

21.6 Page 206

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ha detto il Signore: Domandate e vi sarà dato? (1).
Quand'io dico di nulla domandare e nulla desidera-
re, intendo parlare delle cose terrene; che, quanto
alle virtù, possiamo domandare: anzi, domandando
l'amor di Dio, vi comprendiamo anche le virtù, per-
chè quello tutte le contiene.
Ma, riguardo alle occupazioni esteriori, non si
potrebbero desiderare uffici bassi, perchè più peno-
si, più laboriosi, più umili dinanzi a Dio? Veramente
Davide diceva (3) che preferiva starsene abietto nella
casa del Signore, anziché esser grande in mezzo ai
peccatori; e altróve (4) -.Buona cosa è, Signore, che tu mi
abbia umiliato, affinchè io impari le tue giustificazioni.
Pure, cotesto des'derio è molto sospetto; potrebbe
essere un pensamento umano. Come sai tu se, dopo
aver desiderato uffici bassi, avrai poi la forza di
amare le abiezioni che li accompagnano? Vi ti po-
tranno assalire ripugnanze e amarezze molte. E se
ora ti senti la forza di soffrire mortificazioni e umilia-
zioni, chi ti assicura che l'avrai sempre? La con-
clusione è che il desiderio di uffici, bassi o alti che
siano, si deve ritenere per tentazione. È sempre me-
glio non desiderarne alcuno, ma star pronti ad ac-
(1) P s . LXXXXII, U .
(2) Ps. cxvm, 71.
(3) MATT., VII, 7 ; L u e . , x i , 9 .
cettare quelli che ci verranno dall'obbedienza impo-
sti; fossero essi onorifici o vili, io li riceverei umil-
mente senza dir parola, a meno che ne venissi in-
terrogato, nel qual caso risponderei con semplicità
il vero, secondo il mio modo di vedere.
Questa santa indifferenza si può praticare anche
nelle malattie. Un perfetto modello io ne riscontro
nel Vangelo, dove si parla della suocera di san Pie-
tro (1). La buona donna, giacendo a letto con un
febbrone, praticò parecchie virtù; ma quella che io
più ammiro è il suo abbandonarsi alla provvidenza di
Dio e alla cura dei superiori, standosene là con la
sua febbre, tutta tranquilla, pacifica, senza inquie-
tarsi e senza inquietare. Eppure sanno tutti, quanto
sogliano essere agitati i febbricitanti, sicché non pos-
sono prender riposo e patiscono molti altri disturbi.
Ora quel mettersi della nostra inferma nelle mani dei
superiori le impedisce di turbarsi e impensierirsi per
la sua sauità e guarigione, ma le fa sopportare ras-
segnata il suo male con tutta dolcezza e pazienza.
Quant'era fortunata quella buona donna! Meritava
proprio che si avesse cura di lei, come fecero appun-
to gli Apostoli; i quali provvidero alla sua guarigio-
ne senz'esserne sollecitati, ma per carità e per com-
passione delle sue sofferenze. Buon per i religiosi
(1) MATT., VIII, 14, 1 5 ; L u e . , iv, 38, 39.
403

21.7 Page 207

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e le religiose che praticheranno questo grande e pie-
no abbandono di sè nelle mani dei superiori, i quali
per motivo di carità li assisteranno, provvedendo
premurosamente ai loro bisogni, perchè la carità è
più forte e più pressante della natura.
La cara inferma sapeva bene che il Signore tro-
vavasi a Cafarnao e clie guariva inalati; tuttavia non
si affannava nè davasi pena per mandargli a dire
quello elie soffriva. Ma il più mirabile si è che lo vede
in casa sua, lo guarda, ne è guardata, e non gli
fa motto per impietosirlo, nè pensa a toccarlo per
essere così guarita. L'inquietudine dello spirito, a
cui nelle sofferenze e malattie vanno soggette non
solo le persone del mondo, ma molto spesso anche
i religiosi, ha origine dall'amor proprio e da egoi-
smo sregolato. La nostra febbricitante non bada al
suo male, non si sdilinquisce a raccontarlo, ma sof-
fre senza curarsi che la compiangano nè che si pensi
a guarirla, contentandosi che lo sappiano Dio e i pro-
prii superiori. Vede in casa sua il Signore, Medico
dei medici, ma non lo considera come tale, tanto poco
si dà pensiero della guarigione; lo considera in-
vece come suo Dio, al quale essa appartiene e da sana
e da inferma, egualmente contenta nella malattia e
nella pienezza della salute. Oh, quanti sarebbero ri-
corsi a ingegnose espressioni per ottenere di essere
dal Signore guariti, dicendo di chiedere la salute per
404
servirlo meglio e per impedire che mancasse qual-
che cosa alla sua gloria! Ma la buona donna non
pensava menomamente a questo, mostrando, col non
chiedere la guarigione, quanto fosse rassegnata. Per
altro non voglio dire che non sia lecito chiederla al
Signore, come a colui che ce la può dare, previa sem-
pre la condizione che tale sia la sua volontà; poiché
noi dobbiamo dire sempre: Fiat voluntas tua.
Nè basta sopportare con rassegnazione malattie
e sofferenze, perchè Dio lo vuole: bisogna sopportar-
le anche com'Egli vuole, quando vuole, tutto il tem-
po che vuole, senza preferire o escludere qualsiasi
malattia o sofferenza, per abietta o vergognosa che
ci sembri; una malattia o sofferenza, se è scompa-
gnata da umiliazione, troppo spesso ci gonfia invece
di umiliarci. Ma quando si patisce un male volgare
o quando anche la volgarità, l'ignobilità, l'abiettez-
za formano il uostro male, allora che bell'occasione di
esercitare la pazienza, l'umiltà, la modestia, la dol-
cezza di spirito e di cuore! Imitiamo dunque l'atten-
zione di quella buona donna a tener il cuore nella
dolcezza, traendo al par di lei profitto dalle nostre
malattie; poiché appena il Signore le scacciò la feb-
bre, essa si levò e lo servì a tavola. Nel che diede
prova certamente di gran virtù e mostrò il bene rica-
vato dalla malattia; infatti, subitochè ne fu libera,
volle far uso della sanità in servizio del Signore, met-
m

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tendosi all'opera nell'istante medesimo che si rieb-
be. Non fece, no, come quelle persone del mondo che
dopo un'indisposizione di pochi giorni hanno biso-
gno di settimane e mesi per ristab lirsi.
Il Signore in croce fa vedere benissimo la neces-
sità di mortificare le nostre delicatezze; poiché, pur
sentendo molta sete, non chiese da bere, ma palesò
semplicemente il suo bisogno con dire: Ho sete. Indi
fece un atto di profondissima sottomissione; giacché,
portagli sulla punta di una lancia una spugna in-
trisa di aceto per dissetarlo, egli la succhiò con le
sue labbra benedette (1). Cosa singolare! non igno-
rava il Signore che quella bevanda gli accresceva il
soffrire; tuttavia la prese con la massima semplicità,
senza dar segno che gli dispiacesse o che non l'a-
vesse trovata buona. Volle così insegnarci con qua-
le docilità dobbiamo prendere le medicine e le vi-
vande, che ci vengono presentate nelle nostre in-
fermità, cioè senza dar segni di noia e fastidio,
quand'anche dubitassimo che ce ne derivasse un
aumento del male. Purtroppo noi ad ogni incomo-
duccio facciamo tutto all'opposto del nostro dolce
Maestro, non finendo mai di rammaricarci e non
trovando mai gente abbastanza con cui piatire e ri-
fare il racconto minuzioso dei nostri dolori. A sen-
(U> JOAN., XIX, 28-30.
406
tir noi, il nostro male, qualunque esso sia, non ha
l'eguale, .e quelli sofferti dagli altri sono un nulla
al paragone; ci mostriamo infastiditi e impazienti
da non si dire; non troviamo niente che vada e
non siamo mai contenti. Insomma, è una pietà il
vedere quanto siam lungi dall'imitare la pazienza
del Salvatore, che dimentico dei proprii dolori e
incurante di farli rilevare agli uomini, era pago
che ne tenesse conto il suo Padre, per obbedir al
quale li soffriva, e che placassero il suo sdegno con-
tro l'umanità, per la cui salvezza egli pativa.
Ed ora, se tu mi chiedessi una massima da scol-
pirti di più nella mente per metterla poi in pratica,
io non farei che ìipeterti le due parole già dette e
ridette: niente desiderare, niente rifiutare. Con que-
ste due parole io dico tutto, perchè contengono un
insegnamento, che porta alla pratica della perfetta
indifferenza. Vedi il bambinello Gesù dentro la man-
giatoia; accetta povertà, nudità, compagnia d'ani-
mali, ingiurie del tempo, freddo, tutto quanto il
suo Padre permette che gli capiti. Non è scritto
ch'ei sollecitasse con le mani il latte della madre,
ma in tutto si rimetteva alla cura e preveggenza di
lei; nemmeno respingeva i piccoli ristori da essa pro-
curatigli. Accettava i servigi di San Giuseppe, le
adorazioni dei Re e dei Pastori, tutto con la me-
desima indifferenza. Parimente anche noi nulla de-

21.9 Page 209

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sideriamo, nulla rifiutiamo, ma prendiamoci sempre
nello stesso modo tutto quello che per divina per-
missione ci avviene. Dio ce ne faccia la grazia (1).
(1) E. XXI (t. VI, pp. 383-9).
408
C A P O Q U A R T O - Dell'orazione.
L'orazione è il gran mezzo per conseguire la
perfezione: san Bernardo (1), dopo averne indicati
altri, dice che questo li sorpassa tutti. Ora, in che
modo si conoscerà, se si progredisce nell'orazione
e quindi nella perfezione? Per conoscere la qualità
della nostra orazione e il progresso che vi faccia-
mo, guardiamo se, uscendone, abbiamo, ad esempio
del Signore sul Tabor, il volto luminoso come il
sole e le vesti bianche come la neve (2); voglio dire,
se il nostro volto risplende di carità e il nostro
corpo di castità. La carità è la purezza dell'anima,
perchè non tollera nei nostri cuori verun affetto
impuro o contrario a Colui che ama (carità e amo-
re sono tutt'uno), e la castità è la carità del cor-
po, perchè ne respinge ogni sorta d'impurità. Se,
uscendo dall'orazione, hai la fronte corrugata e
(1) Epist. cci (ad Balb.), 3.
(2) MATT., XVII, 1, 2.
9

21.10 Page 210

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malinconica, è segno evidente che non hai fatto
l'orazione in debito modo (1).
§ 1*. D E I METODI NELL'ORAZIONE.
Molti s'ingannano assai, dandosi a credere che
per far bene orazione si richiedano tante cose,
tanti metodi. Quindi vediamo certuni affannarsi
nella ricerca di tutti i mezzi possibili a fine di
trovare un'arte che sembra loro indispensabile a
conoscersi per far bene l'orazione; costoro non fl-
uiscono mai di sottilizzare e sofisticare intorno al-
l'orazione propria, per arrivar a scoprire la ma-
niera di farla coni'essi desiderano. Vi sono perfino
di quelli, i quali credono .che non bisogni tossire
nè muoversi, affinchè lo Spirito Santo non si ri-
tiri: follìa somma! quasi che lo Spirito di Dio fos-
se così esigente da star tanto sul metodo o sul-
l'atteggiamento di chi fa l'orazione. Io non dico
di escludere i metodi, che vengono tracciati, ma
dico di non attaccarvisi nè d'infatuarsene a se-
gno da mettere in essi tutta la fiducia, come fanno,
ad esempio, coloro, i quali, purché mandino sempre
le considerazioni avanti agli affetti, poi stimano
che vada tutto bene. È ottima cosa fare conside-
(1) S. R. ìv (t. ix, p. 28).
razioni, ma non il rendersi talmente schiavo di
un metodo o di un altro, da supporre che tutto di-
penda dalle industrie nostre.
Una cosa sola è essenziale per fare bene ora-
zione, avere fra le braccia il Signore, come l'ebbe
il santo vecchio Simeone il giorno che Gesù ven-
ne presentato al tempio: quando vi è qùesto, l'ora-
zione è sempre fatta bene, qualunque sia la ma-
niera tenuta per riuscirvi. Non occorre altra abi-
lità speciale: viceversa, senza questa condizione le
nostre orazioni non varranno mai niente nè po-
tranno mai essere accette a Dio; il divin Maestro
medesimo l'ha detto: Nessuno va al Padre, se non
per me (1). L'orazione è un'elevazione della mente
a Dio, la quale elevazione non possiamo fare da
noi. Quando invece si ha il Salvatore fra le brac-
cia, tutto riesce facile. Vedi quel sant'uomo di Si-
meone, come prega bene, quando ha in braccio il
Signore. Adesso, dic'egli, lascia, o Signore, che se
ne vada in pace il tuo servo, perchè ha veduto il
suo Salvatore e suo Dio. Sarebbe una pessima
azione il voler escludere dalla nostra orazione il
Signore e crederci di farla bene senza la sua assi-
stenza, mentre è cosa indubitabile che noi non
possiamo essere graditi all'eterno Padre, se non
(1) JOAN., XIV, 6.

22 Pages 211-220

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22.1 Page 211

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in quanto egli ci rimira attraverso il suo Figliuolo,
nostro Salvatore (1). Come quando si guarda at-
traverso uu vetro rosso o violetto, tutto quello
che si vede, appare ai nostri occhi del medesimo
colore, così l'eterno Padre, guardando noi attra-
verso la bellezza e la bontà del benedettissimo suo
Figliuolo ci trova belli e buoni, quali egli ci desi-
dera: ma senza di questo noi siamo la bruttezza
e mostruosità in persona.
Ho detto che l'orazione è elevazione della mente
a Dio. Neil'andar a Dio noi incontriamo anche An-
geli e Santi lungo il cammino; tuttavia uon a loro
eleviamo la mente, nè a loro indirizziamo le orazioni:
soltanto li preghiamo di uuire le loro orazioni alle
nostre, affinchè per questa unione le nostre siano
meglio accette alla Bontà divina, che le gradisce
sempre, quando conduciamo con noi il suo caro
Beniamino, come fecero i figli di Giacobbe, allorché
si recarono dal fratello Giuseppe nell'Egitto (2).
Se non lo coudurremo con noi, ci toccherà la stessa
punizione, di cui Giuseppe minacciò i fratelli: disse
che non avrebbero più veduto la sua faccia nè avreb-
bero ottenuto nulla da lui venendo senza il fratellino.
Nostro caro fratellino è il benedetto Bambinello,
( 1 ) Cfr. Ps. LXXXI1I, 1 0 ; Rom., VILI, 2 9 .
( 2 ) Gen., XLIIÌI, 15.
412
che la Madonna portò al tempio e che rimise ella
stessa o per mezzo di san Giuseppe al buon vecchio
Simeone. Felici coloro che vanno al tempio dispo-
sti a ricevere la grazia di ottenere dalla divina Ma-
dre o dal suo caro Sposo il nostro Signore e Maestro:
avendo lui fra le braccia, nulla più ci resta a desi-
derare e possiam ripetere anche noi il divin cantico:
Lascia adesso, o Signore, che se ne vada in pace il tuo
servo, poiché la mia anima è pienamente soddisfatta,
possedendo quello che di più desiderabile esista
nel Cielo e sopra la terra (1).
. Ma vediamo le condizioni che si richiedono per
ottener il favore di j>reudere il Salvatore in braccio,
ricevendolo dalle mani di Maria, come san Simeone.
La Chiesa ci fa cantare che san Simeone era giu-
sto e timorato (2). In più luoghi della sacra Scrit-
tura la parola timorato esprime il rispetto verso
Dio e verso le cose appartenenti al suo servizio.
Egli era dunque pieno di rispetto per le cose sa-
cre; poi, aspettava la rendenzione d'Israele ed era in
lui lo Spirito Santo. Ecco quattro condizioni per far
bene orazione: è necessario averle per poter tenere il
Signore in braccio, nel che consiste la vera orazione.
Primieramente, Simeone era giusto. Che signifi-
(1) Ps. LXXII, 25.
(2) Antiph. l a in Laud. Purif. (Lue., il, 25).
3

22.2 Page 212

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ca questo, se uou che egli aveva conformato la sua
volontà a quella di Dio? Essere giusto vai quanto
-essere secondo il cuore di Dio e vivere secondo il
suo beneplacito. La nostra incapacità a fare la san-
tissima orazione è proporzionata al difetto di unio-
ne è conformità della volontà nostra con quella di
Dio. Mi spiegherò meglio. Io domando a una per-
sóna, dove vada; risponderà: —Vado a far orazione.
— Bene, Dio vi accompagni fino alla meta desi-
derata e cercata; ma, ditemi, di grazia, che cosa vi
andate a fare!'—Vado a domandare a Dio conso-
lazioni. — Ho capito: non volete dunque conforma-
re la vostra volontà a quella di Dio, il quale vuole
che abbiate aridità e sterilità? cotesto non è esser
giusto. — Io domanderò a Dio che mi liberi da
tante distrazioni, le quali mi assalgono e mi mole-
stano. — Ma così non vedete che non arriverete mai
a unire e conformare la vostra volontà alla volontà
di Dio? egli vuole che andiate all'orazione risoluto
• di soffrire la molestia di continue distrazioni, ari-
dità e noie, e siate contento così, come se aveste
molte consolazioni e molta pace. — La tua orazio-
ne non sarà certamente meno gradita a Dio, nè
meno utile a te benché fatta con maggiori dif-
ficoltà. Sol che noi conformiamo la nostra volontà
a quella di Dio in ogni sorta di casi, tanto nell'ora-
zione che nelle altre circostanze della vita, faremo
sempre le nostre orazioni' e tutto il resto con utilità
nostra e con gradimento di Dio.
La seconda condizione per fare l'orazione bene
è aspettare, come faceva il buon san Simeone, la
rendenzione d'Israele, cioè vivere aspirando alla
nostra perfezione. Buon per coloro che non si stanca-
no mai di aspirarvi! Dico questo per quei tali, che
desiderosi di perfezionarsi con l'acquisto delle virtù,
vorrebbero averle tutte di botto, quasi che la perfe-
zione stesse unicamente nel desiderarla. Sarebbe
certo una gran fortuna poter essere umili non ap-
pena vi fosse il desiderio di esserlo, senza bisogno
d'altro; ovvero se un Angelo riempisse un bel giorno
la sagrestia di virtù e della perfezione stessa, cosicché
ci bastasse entrarvi è indossarle, come si farebbe di
un abito: sarebbe veramente un bel piacere. Ma,
data l'impossibilità della cosa, andiamo all'acquisto
della perfezione per le vie ordinarie, con tranquil-
lità di cuore, facendo di tutto per procacciarci le
virtù mediante la diligenza nel praticarle, ognuno
secondo il nostro stato e la nostra vocazione, e
quanto al raggiungere più presto o più tardi la
meta sospirata, rimettiamoci alla divina Provviden-
za, la quale penserà a consolarci, come fece con
Simeone, venuto che sia il tempo da lei stabilito (1).
(1) I PETR., v, 7, 10.

22.3 Page 213

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E quand'anche la cosa non debba avverarsi che in
punto di morte, ci basti questo; facciamo solo e
sempre, per quanto sta in noi ed è in poter nostro,
tutta la parte che ci spetta. Avremo sempre abba-
tanza presto quello che desideriamo, se l'avremo
quando piacerà a Dio di darcelo.
La terza condizione è che bisogna, al pari di
san Simeone, essere timorati, cioè pieni di rispetto
verso la presenza di Dio Del tempo della santa ora-
zione. Con qual rispetto non si dovrà stare allorché
si parla con la Maestà divina, alla cui presenza
tremano gli Angeli, benché così puri! — Ma io non
riesco a provare in me quel sentimento della divina
presenza, che riempie l'anima di profonda umiltà;
non ho quella riverenza sensibile, che mi sommer-
ga'in un dolce e piacevole annientamento al cospet-
to di Dio. — Ob, io non parlo di questa riverenza,
ma di quella che risiede nella parte più alta dello
spirito e lo tiene giù in umiltà dinanzi, a Dio me-
diante il riconoscimento della sua infinita grandez-
za e della profonda piccolezza e indegnità nostra.
Oh, com'era bello vedere il rispetto, con cui il santo
vecchio Simeone teneva ira le braccia il divino
Infante, conoscendone l'altissima dignità!
In quarto luogo, lo Spirito Santo era in san Si-
meone e in lui faceva dimora; per la qual cosa ap-
punto meritò di vedere il Signore e di stringerlo
416
fra le sue braccia. È dunque necessario che facciamo
luogo in noi allo Spirito Santo, se vogliamo che la
Madonna o san Giuseppe ci dia da tenere e da por-
tare in braccio il divin Salvatore delle anime no-
stre, che è tutto il nostro bene, non potendo noi
aver adito al Padre di lui senza la sua mediazione
e il suo favore (1). E in qual maniera far luogo in
noi allo Spirito Santo? Lo spirito del Signore è
stato diffuso per tutta la terra (2); ma però si dice
altrove che non abita in cuore ipocrita e doppio (3).
Cosa notevole! il divino Spirito per abitare in noi
fa una riserva sola, esclude cioè il caso della falsità
e simulazione. Quindi ci vuole semplicità e schiet-
tezza, se si desidera che egli venga in noi, e dopo
di lui il Signore. Lo Spirito Santo ci si presenta
quale precursore del Salvator nostro Gesù Cristo:
come ab eterno egli procede da lui in quanto Dio,
così il Signore sembra ricambiarlo procedendone
in quanto uomo.
Una cosa sola pertanto ci rimane da dire: aven-
do in noi fino da questa vita caduca e mortale lo
Spirito Santo, stando con gran rispetto e riveren-
za davanti alla Maestà divina, aspirando con tutta
(1) Rom., V, 2; Ephes., IL, 18; NI, 12.
(2) Sap., i, 7.
(3) Ibid., 4, 5.
41?
14. - E. CERTA, La Dita religiosa ecc.

22.4 Page 214

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sommissione al conseguimento della nostra perfe-
zione e facendo il possibile per conformare la no-
stra volontà alla volontà di Dio, avremo la bella
sorte di portare fra le nostre braccia il Salvatore
e mediante questa grazia otterremo la beatitudine
eterna (I).
§ 2. NELL'ORAZIONE BISOGNA PROCEDERE
SENZJL INQUIETUDINE.
Alcuni nell'orazione provano una certa inquie-
tudine congiunta con un vivo affanno per trovare
qualche argomento che valga a fermare e appagare
lo spirito; ora, questo affanno basta da solo a im-
pedire che si trovi quello che si cerca. In tale stato
d'animo avviene che passiamo cento volte la mano
e gli occhi sopra un oggetto senza avvedercene: chi
cerca con troppo ardore, non trova.
Da quest'affannarsi vano e inutile non può de-
rivare altro che stanchezza di mente, donde poi nel-
l'anima freddo e gelo. Gioverà quindi grande-
mente il reagirvi contro: 1!affanno è uno dei più
grandi traditori che la divozione e la vera virtù
incontrino. Fa sembiante d'infervorarci al bene, ma
in realtà ci raffredda; se ci fa correre, ha per iscopo
di farci inciampare. Laonde stiamone in guardia in
(1) S. R. XXVIII (t. IX, pp. 259-2650.
ogni occorrenza, ma specialmente nell'orazione.
Per animarti a questo, rammenta che le grazie
e i beni dell'orazione non sono acque della terra,
ma del Cielo, e che perciò tutti i nostri sforzi non
ce li faranno mai avere, quantunque sia verissimo
che bisogna disporvisi con diligenza grande, ma
sempre umile e tranquilla. Tieni il cuore aperto
verso il Cielo in attesa della santa rugiada. Nè di-
menticare giammai di portarti all'orazione con que-
sto pensiero in mente, che per due fini principali
nell'orazione noi ci avviciniamo a Dio e ci poniamo
alla sua presenza.
Il primo fine, è di rendere a Dio l'onore e l'o-
maggio dovuto; la qual cosa può farsi senza che nè
egli parli a noi nè noi parliamo a lui; poiché questo
dovere si compie col riconoscere che egli è nostro
Dio e che noi siamo sue povere creature (1), e con
lo starcene dinanzi a lui prostrati in ispirilo, at-
tendendone gli ordini. Quanti personaggi di corte
vanno più e più volte alla presenza del re, non per
parlargli nè per udirlo, ma semplicemente per es-
-ere da lui veduti e per attestargli con tale assi-
duità la servitù loro? (2). Si può stare alla presenza
di Dio anche senza guardare direttamente a lui e
( 1 ) Ps. XCIIv, 7.
(2) L. CDXLI ( t . XII, p p . 385-60.
419

22.5 Page 215

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senza parlargli, ma semplicemente rimanendo al
posto dov'ei ci ha messi, come statue nelle loro nic-
chie; a questo semplice rimaner là si aggiunga un
qualche sentimento circa l'essere noi di Dio e l'es-
sere Dio il nostro Tutto, e avremo di che render gra-
zie alla sua bontà. Se una statua, posta nella sua
nicchia dentro una sala, potesse parlare e le si do-
mandasse: — Perchè stai costì? — risponderebbe,
perchè ve l'ha collocata lo scultore, suo signore.
— Perchè non ti muovi?
. — Perchè egli vuole che me ne stia immobile.
— Che ti serve cotesto? che vantaggio ti viene
dallo startene così?
— Non vi sto per fare il comodo mio, ma per
servire e obbedire alla volontà del mio signore.
— Ma tu non lo vedi.
— No, ma egli vede me e gode che io me ne
stia dov'ei mi ha posta.
— Ma non ti piacerebbe poterti muovere per
andare più vicino a lui?
— No, senza suo ordine.
— Tu dunque non hai desideri?
— Non ne ho, perchè rimango qui dove il mio
signore mi ha messa, e il suo gusto forma tutta la
mia contentezza. —
Ohe buona orazione e che buon modo di stare
alla presenza di Dio è il conformarsi alla sua vo-
420
lontà e al suo beneplacito! Io eredo che la Madda-
lena fosse una statua nella sua nicchia, quando
senza parlare, senza muoversi, fors'anclie senza
guardarlo, ascoltava quello che il Signore diceva,
seduta a' suoi piedi. Egli parlava, ed essa taceva;
egli sospendeva di parlare, ed essa cessava di ascol-
tare, pur continuando a rimanere là. Un bambino
in grembo alla madre addormentata sta. in un posto
molto bello e desiderabilissimo, benché egli non dica
una parola a lei, nè essa a lui. Per me, ritengo che
l'esercizio della presenza di Dio si fa anche dor-
mendo, perchè noi ci addormentiamo sotto il suo
sguardo, per suo consentimento e volere, ed egli ci
mette là nel letto come statue dentro la nicchia; e
allo svegliarci lo troviamo là accanto, senza che nè
egli siasi mosso nè ci siam mossi noi: ce ne siamo
dunque rimasti alla sua presenza, ma a occhi chiu-
si (1). Questo fine di mettersi alla presenza di Dio
soltanto per attestare la nostra ferma volontà di
servirlo, è nobilssimo, santissimo, purissimo, e
perciò di altissima perfezione.
Il secondo fine, per cui ci presentiamo al cospetto
di Dio, è per parlargli e per sentire che cosa ci
dice con le sue ispirazioni e con i suoi movimenti
interiori; il che d'ordinario si fa con soavissimo
(1) L. DCCCXXXIX (t. xv, pp. 321-2).

22.6 Page 216

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diletto, perchè è un gran bene il parlare a un tan-
to Signore e perchè egli nel rispondere versa bal-
sami e unguenti preziosi che riempion l'anima di
soavità.
Ora, uno di questi due benefìci non manca giam-
mai nell'orazione. Se possiamo parlare al Signore,
parliamogli, lodando, pregando, ascoltando. Se non
possiamo parlare, perchè siam fiochi, restiamo tut-
tavia al nostro posto in atto di ossequio: egli verrà
da noi, gradirà la nostra pazienza, si compiacerà
del nostro silenzio. Altra volta con nostra grande
sorpresa ci piglierà per mano, converserà con noi,
farà in nostra campagnia tanti giri per i viali del
suo giardino che è l'orazione; quand'anche non fa-
cesse mai questo, contentiamoci della nostra parte
che è di stare al suo seguito, e della grazia grande
e dell'onore ancor più grande da lui accordatoci di
sopportarci alla sua presenza. In questo modo non
ci affanneremo per parlargli, sapendo che anche
l'altra maniera di stare vicino a lui non ci è meno
utile, anzi può esserci molto più utile ancora, ben-
ché non tanto conforme al nostro gusto.
Accostandoti dunque al Signore, parlagli, se
puoi; se non puoi, stattene ivi, facendoti vedere
senza preoccuparti d'altro (1).
(1) L. CDXLI (t. XIM, pp. 386-7).
422
§ 3. D E L L A MEDITAZIONI-:.
Quattro sono le operazioni dell'intelletto: pen-
sare, studiare, meditare, contemplare.
Vi è semplice pensiero, quando si trascorre con
la mente da una cosa all'altra senza un fine deter-
minato, come fanno le mosche, le quali si van po-
sando di flore in flore senza badarl a trarne alcun
succo, ma unicamente perchè vi s'imbattono. Così,
quando il nostro intelletto vaga di pensiero in pen-
siero, benché questi pensieri siano di Dio, se non
hanno un fine, lungi dall'essere buoni, sono inutili
e nocivi e imbarazzano grandemente nell'orazione.
Un'altra operazione del nostro intelletto è lo
studio. La si compie allorché consideriamo le cose
soltanto per saperle, per capirle bene, per poterne
ben parlare, senza verun altro scopo che di arric-
chirci la memoria; nel che rassomigliamo ai cala-
broni, i quali si posano sulle rose non per altro
fine che per satollarsi e riempire lo stomaco.
Veniamo alla meditazione. Per intendere che
cosa sia meditare, considera le parole che disse il
re Ezechia, quando gli fu pronunziata la sentenza
di morte, revocata in seguito per il suo pentimento:
— Io striderò, disse, come un tenero rondinino, me-
diterò come colomba (1) nel più vivo del mio dolore.
(1) Is., xxxvin, 14.
3
/

22.7 Page 217

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— B voleva dire: — Quando il rondinino è solo
soletto, perchè la madre si è allontanata, stride, pi-
gola, non sentendo più la madre vicina a sè e non
vedendo ancora nulla. Così io, perduta la madre
mia che è la . grazia, nè scorgendo persona che mi
venga in aiuto, griderò. — Ma poi soggiunge: —
Mediterò come colomba. — Tutti gli uccelli sogliono
aprire il becco, allorché cantano o garriscono,
tranne la colomba, che fa un leggero canto o ge-
mito, rattenendo il respiro nella gola, di modo che
dal rimescolìo del flato che essa sospinge in su e
in giù, viene fuori quel suo tubare. Parimente si
medita, quando si ferma l'intelletto sopra un mi-
stero, da cui si vogliono ricavare buoni sentimenti:
senza questa intenzione; non vi sarebbe più medi-
tazione, ma studio. La meditazione dunque si fa
per muovere gli affetti, massime l'amore; sicché la
meditazione è madre dell'amor di Dio, del qual
amore divino è figlia la contemplazione.
Ma fra meditazióne e contemplazione corre que-
sta differenza, che nella prima si fa una domanda;
poiché dopo aver meditata la bontà del Signore, il
suo amore infinito, la sua onnipotenza, noi òi fac-
ciamo a chiedere e a pregare che ci dia le cose da
noi desiderate. Ora, vi sono tre specie di domande,
molto diverse per il modo di farle: la prima si fa per
giustizia, la seconda per autorità, la terza per gra-
zia. La domanda fatta per giustizia non si può
chiamar preghiera, sebbene noi adoperiamo questa
parola; poiché con essa si chiede cosa a noi dovuta.
Neppure quella fatta per autori là si può chiamar
preghiera; ond'è che, sentendo una persona auto-
revole usare con noi questo vocabolo, subito le di-
ciamo: — Ella comandi — ovvero: — Le sue pre-
ghiere sono per me un comando. — Vera preghiera
è quella fatta per grazia, allorché domandiamo cosa
non dovutaci e la domandiamo a chi sta molto più
in alto di noi, come a Dio.
La quarta operazione dell'intelletto è contem-
plare. Consiste nel compiacersi del bene di Colui
che abbiamo conosciuto nella meditazione e che
mediante questa conoscenza abbiamo amato. Tale
compiacimento formerà la nostra felicità lassù nel
Cielo (1).
Biguardo alla meditazione, non affliggerti, se
talvolta, e anche molto spesso, non vi trovi conso-
lazione; persevera con dolcezza, umiltà, pazienza,
non violentando per questo lo spirito. Allorché ti
senti la mente stanca, adopera il libro: leggi un
tantino e poi medita, indi rileggi un altro po' e
torna a meditare, fino a che sia terminata la tua
mezz'ora. La Madre Teresa fece così sul principio
(1) S. R. VII (t. ix, pp. 47-9).
425

22.8 Page 218

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e dice che si trovò molto bene (1). Ti aggiungerò
che anch'io ne ho fatto con vantaggio l'esperienza-
Tieni per norma che la grazia della meditazione
non si può ottenere con isforzi di mente, ma esige
una dolce e fervorosa perseveranza, piena di umil-
tà (2),
Una cosa che giova molto è il scegliere per
argomento i misteri della Vita, Passione e Morte
di Gesù Cristo: avviene ben di rado che non si
cavi frutto dalla considerazione di quello che il
Signore ha fatto. Egli è il Maestro supremo, in-
viato al mondo dall'eterno Padre per insegnarci
quello che noi dobbiamo fare; e quindi, oltre al-
l'obbligo nostro di formarci sopra questo divino
Modello, dobbiamo anche mettere gran cura a con-
siderarne le azioni per imitarle: una delle migliori
intenzioni possibili iu tutte le nostre azioni è farle,
perchè il Signore le ha fatte, cioè voler praticare
le virtù perchè le ha praticate è come le ha prati-
cate il nostro Padre. A tal fine è necessario ponde-
rarle, osservarle, considerarle diligentemente nel-
l'orazione: il figlio che ama teneramente il padre,
si dà grande premura per conformarsi a' suoi gu-
sti e per imitarlo in tutte le sue azioni.
(1) Vita, ix. • .
( 2 ) L . CCXLI (t. XII, p. 3 9 1 ) .
426
Vi sono anime incapaci di fissare e occupare la
mente- sopra determinati misteri, sentendosi attrat-
te a certa semplicità dolce dolce, che le arresta
tranquille dinanzi a Dio, senz'altra considerazione
che il pensiero di trovarsi alla sua presenza e di
stare davanti al loro sommo bene. Coteste anime
possono durarla così con utilità, e va bene; ma, ge-
neralmente parlando, i principianti devono comin-
ciare dal metodo più sicuro e più efficace per la
riforma della vita e il mutamento dei costami, qual
è quello detto di sopra, che si aggira intorno ai
misteri della Vita e Morte del Signore: lì si cam-
mina sul sodo.
Prendiamo poi le nostre risoluzioni nel fervore
dell'orazione, quando il Sole di giustizia (1) c'illu-
mina e c'ispira. Con questo non voglio dire che
dobbiamo avere grandi sentimenti e consolazioni:
se Dio ce li dà, profittiamone e corrispondiamo al
suo amore; se non ce li dà, non manchiamo di
fedeltà; ma, seguendo la ragione e la volontà di-
vina, formiamo i nostri propositi nella parte su-
periore dell'anima nostra, senza mai omettere di
attuarli per eventuali aridezze, ripugnanze o contra-
rietà (2).
(1) MALAC., irv, 2.
(2) E. vili (t. vi, pp. 349-350).
7

22.9 Page 219

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§ 4. CAUSA FINALE DELL'ORAZIONE.
Tutte le cose sono create per l'orazione: allorché
Dio creò l'Angelo e l'uomo, lo fece perchè lo lo-
dassero eternamente lassù nel Cielo, sebbene que-
sta sia l'ultima cosa che faremo, se ultimo si può
chiamare quello che è eterno. A miglior intelligen-
za di questo punto, diremo che noi, volendo fare
alcunché, guardiamo sempre al fine primario del-
l'opera. Per esempio, se edificassimo una chiesa e
ci si domandasse perchè la facciamo fare, noi ri-
sponderemmo che è perchè vi si vada a cantare le
lodi di Dio; però questa sarà l'ultima cosa a farsi.
Entrando nella stanza di un principe, vedrai
un'uccelliera popolata di svariati uccellini, che vi
stanno chiusi in una gabbia da' bei colori e dalla bel-
la formasse tu domandassi per qual line ve li abbia-
no serrati là entro, ti si direbbe che per rallegrare il
padrone. Se andrai a osservare in altra parte, ve-
drai sparvieri, falconi e simili uccelli dà preda, in-
cappellati; quelli debbono servire a prendere per-
nici e altri volatili per la mensa del principe. Ma
Dio che non si ciba di carne, non tiene uccelli da
preda: ha soltanto uccellini chiusi nell'uccelliera
per suo diletto. Questi uccellini raffigurano i reli-
giosi e le religiose, che si sono volontariamente
chiusi nelle loro case per cantar le lodi del loro
428
Dio: hanno quindi per esercizio principale l'orazio-
ne, obbedendo a quella parola del Signore nel Van-
gelo (1): — Incessantemente pregate. —
Gli antichi Cristiani, formati dall'Evangelista
san Marco (2), erano così assidui all'orazione, che
per questo motivo vari Padri li soprannominarono
supplicanti e altri li chiamarono medici, perchè me-
diante l'orazione trovavano rimedio a tutti i loro
mali.
L'orazione, secondo la maggior parte dei Padri,
è un'elevazione della mente alle cose celesti, altri
la dicono una domanda; ma le due Opinioni non
sono contrarie, perchè, elevando la mente a Dio,
noi possiamo domandargli quello che ci sembra ne-
cessario.
La domanda principale da farsi a Dio è l'unione
delle nostre volontà alla sua: qui sta la causa finale
dell'orazione, in non voler che Dio. In questo si rac-
chiude tutta la perfezione, come disse frate Egidio,
compagno di san Francesco. Un personaggio gli
aveva chiesto come fare per divenire prestamente
perfetto. Rispose: — Da' l'unica all'unico. — Cioè:
Tu hai un'anima sola e vi è un solo Dio; tu da' a
lui l'anima tua ed egli darà a te se stesso. Causa
(1) L u e . , XVIII, 1.
(2) E U S E B . , Hist., LI, 16, 17.
9

22.10 Page 220

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finale dell'orazione non dev'essere dunque di cer-
care tenerezze e consolazioni: Dio talora le concede,
ma non istà in quelle l'unione dell'anima con lui,
bensì nel fare della tua volontà una cosa .sola con
la volontà di-Dio.
§ 5. CAUSA EFFICIENTE DELL'ORAZIONE.
Chi può e deve pregare? La questione sarebbe
risolta presto, se dicessimo che tutti gli uomini pos-
sono pregare e che tutti lo debbono fare; ma per
maggior soddisfazione dell'anima nostra tratteremo
più distesamente la materia.
Anzitutto teniamo presente che Dio non può pre-
gare, perchè pregare è domandare per grazia e quindi
suppone in noi la coscienza d'aver bisogno di qual-
che cosa; quello che si possiede già, non si suole do-
mandare. Ora Dio non può domandare niente per
grazia, ma tutto per autorità; inoltre egli non può
aver bisogno di cosa alcuna, giacché possiede tutto.
È dunque evidente che Dio non può uè deve pre-
gare.
Parecchi Padri antichi, fra cui san Gregorio
Nazianzeno (1), insegnano che neppure il nostro Si-
gnore Gesù Cristo può pregare (in quanto Dio, la
(1) Orat. xxx, 14.
3
cosa è chiara, essendo un medesimo Dio col Padre),
Fondano essi la loro opinione sulle parole che il di-
vin Salvatore disse a' suoi discepoli (1): Io vado al
Padre, ma non vi dico che pregherò io il Padre per
voi. Osservano: Se egli non dice che va a pregare,
perchè lo diremo noi altri? Yi sono invece dei Pa-
dri i quali ritengono che il Signore preghi, perchè
il suo Discepolo prediletto, parlando del Maestro,
ha scritto che noi abbiamo un Avvocato presso del
Padre (2). Pure, gli uni e gli altri non si contrad-
dicono, come potrebbe sembrare dalla diversità delle
opinioni: certo è che il nostro Signore Gesù Cristo
non' deve pregare, ma può domandare per giusti-
zia al Padre quello che vuole. Così vediamo che
fanno gli avvocati, i quali non costumano chiedere
per grazia, ma in nome della giustizia, le cose a
cui pensano di aver diritto. Il Salvatore domanda
non senza buoni titoli, perchè, quando vuol ottene-
re qualche cosa, mostra al Padre le sue piaghe. È
verissimo pertanto che il Signore, sebbene doman-
di per giustizia quello che vuole, non lascia tutta-
via, in quanto uomo, di umiliarsi davanti al Padre,
parlandogli con somma riverenza^ facendo atti di
più profonda umiltà che giammai creatura abbia sa-
(1) JOAN., XVI, 16, 26.
(2) I JOAN., II, 1.
431

23 Pages 221-230

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23.1 Page 221

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puto o potuto fare: quindi la sua domanda può es-
sere chiamata preghiera.
Troviamo in qualche luogo della Scrittura che lo
Spirito Santo ha pregato e che fa orazione (1). Non
si deve già intendere che egli abbia pregato, per-
chè non può, essendo uguale al Padre e al Figlio;
ma si vuol dire che egli ha ispirato all'uomo di fare
quella tal preghiera.
Pregano gli Angeli, come ci dimostra in più
luoghi la Sacra Scrittura (2). Ma riguardo agli uo-
mini che stanno nel Cielo, non abbiamo tante te-
stimonianze, perchè prima della Morte, Risurrezio-
ne e Ascensione del Signore non vi erano uomini
in Paradiso, ma si trovavano tutti nel seno d'Abra-
mo. È per altro cosa chiarissima che i Santi e gli
uomini in Paradiso pregano, se pregano gli Angeli,
ai quali fanno compagnia.
Vediamo ora se tutti gli uomini possano prega-
ré. Io dico di sì e che nessuno può dispensarsi dal
farlo, nemmeno gli eretici. Vi fu anche un pagano,
il quale fece un'orazione così eccellente da merita-
re che venisse presentata al trono di Dio (3), e Dio
gli concesse la grazia di trovare il mezzo per istruir-
ci!) Rom., vili, 26, 27.
(2) Tob., XII, 12; Apoc., vili, 3, 4.
(3) Act., x. 4, 30, 31.
432
si nella fede, sicché poi divenne un gran Santo fra
i Cristiani. I peccatori certamente hanno molta dif-
ficoltà a fare orazione. Somigliano a uccelletti che,
una volta messe le penne, volano da sè con le loro
ali; ma. se vanno a posarsi sul vischio preparato ap-
posta per prenderli, chi non vede che quell'umor
resinoso ne impanierà le ali e non potranno più vo-
lare? Così accade ai peccatori che vogliono invi-
schiarsi nei vizi: s'impigliano talmente nel peccato,
che non possono più spiccar il volo verso il Cielo
per mezzo dell'orazione. Per altro, essendo capaci
della grazia, possono pregare. Soltanto il diavolo
non può farlo, perchè egli solo non è suscettibile
di amore.
§ 6. CONDIZIONI DELL'ORAZIONE.
Dopo la causa finale ed efficiente, verrebbe ora
la causa materiale dell'orazione; ma quest'ultima
denominazione sarebbe impropria: diremo dunque
dell'orazione in sè, cominciando dal dichiarare quali
siano le condizioni che si richiedono per farla be-
ne. Grli antichi, trattando questa materia, ne arre-
cano molte: chi ne annovera quindici, chi otto. Ma
questo numero è soverchio; io mi restringo a par-
lare di tre solamente. La prima, esser piccoli nel-
l'umiltà; la seconda, essere grandi nella speranza;
3

23.2 Page 222

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la terza, essere innestati su Gesù crocifisso.
La prima condizione è umiliarci profondamente,
riconoscendo la nostra miseria. L'arciere, prima di
scoccare la freccia, tira giù la corda dell' arco e tan-
to più giù la tira, quanto più alto vuol arrivare.
Così dobbiamo far uoi, quando vogliamo che la no-
stra preghiera vada fino al Cielo; dobbiamo spro-
fondarci nella conoscenza del nostro nulla. È que-
sto il consiglio di Davide che dice (1): — Quando
vorrai fare orazione, sprofóndati talmente nell'abisso
del tuo nulla, che ti sia possibile lanciare senza dif-
ficoltà la tua preghiera, sicché a guisa di dardo
giunga fino al Cielo. —
I grandi signori, per far salire l'acqua sull'alto
dei loro castelli, prendono la sorgente in luogo mol-
to elevato, poi la conducono per entro a tubi, facen-
dola prima discendere e poi salire. Domanda loro
in che modo l'abbiano fatta salire: ti risponderanno
che l'acqua sale mercè questa discesa. Ecco quello
che si fa nell'orazione: a chi domandasse come sal-
ga al Cielo, si risponderebbe che vi sale per la di-
scesa dell'umiltà. La Sposa della Cantica (2) fa me-
ravigliare gli Angeli, che si domandano: Chi è costei
che viene dal deserto e ascende quasi colonna di fu-
(1) Ps. cxxix, 1, 2; cfr. Eccli., xxxv, 21.
(2) Cant, HI, 6; vili, 5.
434
mo odorose, composto di mirra e d'incenso e d'ogni
polvere di profumiere e che è appoggiata sopra il suo
Diletto? L'umiltà comincia in un deserto, benché
alla fine produca abbondanza di frutti; l'anima umi-
le si pensa di essere un deserto, in cui non alber-
ghino uccelli e nemmeno bestie selvagge, nè cresca-
no alberi fruttiferi.
Seconda condizione per fare bene l'orazione: la
speranza. La Sposa, venendo dal deserto, ascende
quasi colonna di fumo odoroso, composto di mirra.
Questa rappresenta la speranza, perchè la mirra,
sebbene esali una soave fragranza, pure al gusto
è amara; così la speranza è soave, inquantochè ci
promette di godere un giorno quello chè deside-
riamo, ma è amara perchè non abbiamo il godimento
di quello che amiamo. L'incenso simboleggia ancor
meglio la speranza, perchè, posto sul fuoco, manda
sempre ij suo fumo in alto; così la speranza dev'es-
sere posta sulla carità, altrimenti non sarebbe più
speranza, ma presunzione. La speranza vola a guisa
di saetta fino alla porta del Cielo, ma non vi può
entrare, essendo virtù esclusivamente della terra;
se vogliamo che la nostra orazione penetri il Cielo,
fa d'uopo che aguzziamo la freccia alla cote del-
l'amore.
Terza condizione. Gli angeli dicono che la Sposa
è appoggiata sopra del suo Diletto: ecco l'ulti"
3

23.3 Page 223

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ma coudizione, essere innestati su Gesù crocifìsso,
Avendo una volta lo Sposo lodato la Sposa con dire
clie somigliava a un giglio in mezzo alle spine, ella
di rimando rispose: — Il mio Diletto somiglia a un
melo tra le piante selvatiche. Quest'albero è carico di
foglie, fiori e frutti; alla sua ombra io mi assiderò
e ne riceverò i frutti che mi cadranno in grembo
e li mangerò e masticandoli ne gusterò il sapore col
mio palato, a cui li troverò dolci e soavi (1). — Ma
dov'è piantato quest'albero? in quale verziere lo
troveremo? È piantato sul monte Calvario: all'ombra
di esso bisogna stare. Qual è il suo fogliame?
La speranza che noi abbiamo della nostra salvezza
per i meriti della Morte del Salvatore. E i fiori?
Le preghiere da lui innalzate per noi al Padre (2).
Finalmente i frutti sono i meriti della sua Passione
e Morte.
Stiamcene dunque appiè della Croce, nè dipar-
tiamoci da essa prima che siamo tutti intrisi del
sangue che ne stilla. Santa Caterina da Siena
andò una volta in estasi, mentre meditava la Pas-
sione e Morte del Signore, parendole di essere im-
mersa dentro un bagno formato del suo prezioso
sangue, e, ritornata in sè, vide la propria veste
(1) Cant., il, 2, 3.
(2) Cfr. Hebr., v, 7.
436
tutta rossa di quel sangue, senza che però le altre
ne vedessero nulla. Così non si deve andare all'o-
razione senza esserne irrorati; almeno bisogna spruz-
zarsene fin dal mattino nella prima preghiera. San
Paolo, scrivendo ai suoi cari figliuoli (1), raccoman-
dava loro che si rivestissero del Signore, cioè del
suo sangue. Ma che cosa vuol dire essere rivestiti
del suo sangue? Il tale è vestito di porpora, si dice,
e la porpora è un mollusco. L'abito .è fatto di lana,
ma è tinto nel sangue del mollusco. Parimente noi,
ancorché vestiti di lana, x>ur facendo cioè opere buo-
ne, finché queste sono cosa nostra, non han pregio
nè valore, ma si devono imporporare nel sangue
del nostro Maestro, il cui merito le rende accette
alla Maestà divina.
Allorché Giacobbe volle ottenere la benedizione
da suo padre Isacco, la madre gli fece cuocere un
capretto alla cacciatora, secondo il gusto del vec-
chio; ma oltre a questo fece mettere al figlio guanti
di pelo, perchè il primogenito Esaù, al quale spetta-
va la benedizione, era peloso. Gli fece ancora indos-
sare un vestito fragrante, destinato al figlio maggio-
re della famiglia, e lo condusse così dal marito, che
era cieco. Alla sua domanda della benedizione,
Isacco prese a tastargli le mani, poi esclamò forte:
( 1 ) Rom., XIII, 14.
3

23.4 Page 224

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— La voce che odo, è quella di mio figlio Giacobbe,
ma le mani che toccò, sono di Esaù,. — E, odorata
la fragranza delle vesti di lui, disse: — La fragranza
che ho sentita, mi ha recato tanta soavità alle nari,
che dò la mia benedizione al figlio (1). — Anche
noi, allorché preso questo Agnello senza macchia (2)
e presentatolo all'eterno Padre, come oggetto di suo
gradimento, gli domanderemo la sua benedizione,
egli ci dirà, se saremo rivestiti del sangue di G-esù
Cristo: — La voce che odo è di Giacobbe, ma le
mani (cioè le nostre opere cattive) sono di Esaù;
tuttavia, per la soavità che provo odorando le sue
vesti, gli dò la mia benedizione. —
§ 7. L'ORAZIONE DEI PECCATORI.
Pine dell'orazione è, dicevamo, la nostra unione
con Dio; tutti poi gli uomini, che sono incamminati
per la via della salute, possono e debbono pregare:
ma ci rimane un dubbio. Se i peccatori possono
essere esauditi, come va che il cieco nato, di cui si
parla nel Vangelo (3) e a cui Nostro Signore diede
(1) Gen., XXVII, 9-23.
(2) I PETR., I, 19.
(3) JOAN., IX, 31.
3
la vista, disse a coloro che lo interrogavano: Dio
non ode i peccatori? Lasciamolo dire: egli parlava
ancora da cieco.
Vi sono tre sorta di peccatori: peccatori impe-
nitenti, peccatori pentiti e peccatori giustificati.
Orbene è dottrina sicura che i peccatori impenitenti
non sono esauditi, perchè vogliono imputridire nei
loro peccati; quindi le loro orazioni sono in abbo-
minazione presso Dio. Egli medesimo lo fece inten-
dere a coloro che gli dicevano: Abbiamo digiunato
e afflitte le anime nostre, e non vi hai badato. Rispose:
— Digiuni, penitenze, feste mi sono in abbomina-
zio'ne, perchè in tutte coteste opere avete le mani
imbrattate di sangue (1). — La preghiera di tali
peccatori non potrebbe essere buona, perchè niuno
può dire: Gesù, se non per Ispirito Santo (2), e niuno
può chiamar Padre Iddio, se non è stato da lui
adottato in figlio (3). Il peccatore ostinato non po-
trebbe pronunciare il nome augusto del Signore,
perchè non ha dentro di sè lo Spirito Santo, il quale
non abita in un cuore macchiato di colpa (4). E
poi niuno va al Padre, se non per la virtù del nome
(1) ls., LVIII, 3-5; i, 13-15; LIX, 3.
(21) / Cor., XII, 3.
(3) Rom., vili, 15; Galat., iv, 5, 6.
(4) Sap., i, 4, 5.
439

23.5 Page 225

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di suo Figlio, come ha detto egli stesso (1), e qualun-
que cosa si domanderà al Padre nel nome suo, sarà
ottenuta. Dunque le preghiere del peccatore impe-
nitente non sono accette a Dio.
Quanto al peccatore pentito, gli si farebbe uu
torto a chiamarlo peccatore, non essendo più tale
dal momento che ha detestato il peccato; sebbene lo
Spirito Santo non sia ancora nel suo cuore con la
residenza, vi è nondimeno con l'assistenza. Chi cre-
di che sia stato a dargli il pentimento d'aver offeso
Dio, se non lo Spirito Santo, giacché a noi non
sarebbe possibile formare un buon pensiero per la
nostra salute, se egli non ce lo desse? (2). Ma quel
meschino non ha fatto niente dal canto suo? Oh,
sì! ascolta le parole di Davide: — Signore, tu hai
rivolto a me lo sguardo, allorché io giaceva nel
brago del mio peccato; tu mi hai aperto il cuore,
e io non l'ho chiuso; tu mi hai tratto, e io mi
sono arreso; tu mi hai spinto, e io non ho indietreg-
giato (3). — Le prove abbondano per dimostrare
che le preghiere dei pecccatori penitenti sono ac-
cette alla Maestà divina; ma io mi limiterò a citarti
l'esempio del pubblicano, che, asceso peccatore al
(DJOAN., xiv, 6, 13; XVI, 23.
(2) II Cor., Ili, 5.
(3) Pss. CL, 18, 20, 21; era, 3, 4; / s . . 4, 5.
tempio, ne uscì giustificato per effetto dell'umile
sua preghiera (1).
§ 8. MATERIA DELL'ORAZIONE.
Materia dell'orazione è domandare a Dio tutto
quello che è bene; ma vi sono due sorta di beni:
beni spirituali e beni corporali o temporali. I beni
spirituali si dividono in due categorie: gli uni ci son
necessari per salvarci, e questi si domandano a Dio
semplicemente e incondizionatamente, poiché egli ce
li vuol dare; gli altri, quantunque spirituali, si devo-
no domandare sotto le stesse condizioni che i corpo-
rali, cioè se è volontà di Dio e se è di sua mag-
gior gloria; sotto le quali condizioni si può doman-
dare qualunque cosa. Beni spirituali necessari per
salvarci sono la fede, la speranza, la carità e le
altre virtù che a queste ci conducono. Gli altri
beni spirituali sono estasi, ratti, dolcezze, consola-
zioni: cose tutte da domandarsi condizionatamen-
te, perchè nient'affatto necessarie alla nostra sal-
vezza.
Certuni suppongono che se sapessero di più,
sarebbero assai più capaci di amar Dio; ma non è
(1) Lue., xvin, 10-14.
441

23.6 Page 226

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così. Frate Egidio, andato a trovare san Bonaven-
tura, gli disse: — Voi fortunato, padre mio, clie
siete tanto istruito! così potete amar Dio molto più
di noi altri ignoranti. — Allora- san Bonaventura
gli rispose che la scienza non lo aiutava ad amar
Dio e che una semplice donnicciuola poteva amarlo
più di tutti quanti i dotti del mondo.
Ma chi non vede l'inganno di coloro, che sono
sempre attorno al padre spirituale per lamentarsi
di non aver tenerezze e consolazioni nelle loro pre-
ghiere? — Non vedete, io direi loro, che, se ne ave-
ste, non potreste evitare la vanagloria, nè impedire
al vostro amor proprio di compiacersene, cosicché
badereste più ai doni che al Donatore? Dio perciò
vi usa una grande misericordia, non concedendo-
vene; non vi perdete per questo di coraggio, perchè
la perfezione non istà nell'aver gusti e tenerezze, ma
nell'avere la nostra volontà unita alla volontà di
Dio. —
Tobia, già vecchio, volendo assestar gli affari,
ordinò a suo figlio di recarsi a Bages per riscuotervi
una somma a lui dovuta; a tal fine gli diede un chiro-
grafo, per il quale non potevasi rifiutargli il suo de-
naro (1). Facciamo così anche noi, quando vorremo
domandare all'eterno Padre il suo Paradiso, l'aumen-
ti) Toh., IV, 21, 22; v, 3, 4.
442
to della nostra fede, il suo amore: cose tutte che egli
vuol darci, sol che gli presentiamo il chirografo da
parte del suo Figliuolo, le domandiamo cioè sempre
nel nome e per i meriti del Signore.
Questo buon Maestro ci ha insegnato benissimo
l'ordine da tenere nelle nostre domande, volendo che
dicessimo nel Pater: Sanctificetur nomen tuum, ad-
veniat regnum tuum, fiat voluntas tua. Domandiamo
dunque prima, che sia santificato il suo nome, cioè
che egli sia riconosciuto e adorato da tutti gli uomini;
quindi gli chiediamo la cosa più necessaria per noi,
cioè che venga il suo regno, cioè che noi possiamo
essere abitatori del Cielo; infine, che sia fatta la sua
volontà. Dopo queste tre domande si continua: Dac-
ci oggi il nostro pane quotidiano: dove sotto il nome
di pane si comprendono tutti i beni temporali. Nel
chiedere siffatti beni noi dobbiamo essere molto par-
chi; anzi dovremmo, chiedendoli, temere grande-
mente, perchè non sappiamo se il Signore non ce
li accorderà mosso da sdegno contro di noi (1).
Quindi è che coloro, i quali pregano con perfezione,
domandano pochissimo tali beni, ma stanilo dinanzi
a Dio come figli dinanzi al padre, rimettendosi fi-
duciosamente a lui in tutto.
(1) S. AUG., Ser. cccuiv, 7.
3

23.7 Page 227

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§ 9. FORMA DELL'ORAZIONE.
I Padri antichi distinguono tre specie di orazio-
ne: orazione vitale, orazione mentale, orazione vo-
cale. Non parleremo ora della mentale, dovendone
parlare qui appresso, ma solo della vitale e della
vocale.
Tutte le azioni di coloro che vivono nel timore
di Dio, sono preghiere continue: questo è che si
chiama orazione vitale. Far limosina, visitàre infer-
mi, praticare opere buone d'ogni sorta è fare ora-
zione: le buone opere domandano di per sè a Dio
una ricompensa.
L'orazione vocale non si riduce a borbottare pa-
role fra le labbra senza l'attenzione del cuore; poiché
per parlare bisogna prima concepire dentro quello
che si vuol dire. Vi é la parola interiore e la pa-
rola vocale: questa fa udire quello che l'interiore
ha in antecedenza pronunciato. Pregare è parlare con
Dio; ora, parlare con Dio senza star attento a lui e
a quello che gli si dice, è cosa che sicuramente gli
dispiace molto. Raccontano di un sant'uomo che
inseguò ad un pappagallo V Ave Maria. L'uccello un
giorno prese il volo e uno sparviere piombò su di
lui; ma, avendo l'assalito preso a ripetere l'Ave Ma-
ria, l'assalitore lo lasciò andare. Non è da credere
che il Signore esaudisse la preghiera del pappagallo,
444
no: tuttavia egli permise la cosa per mostrare quan-
to quest'orazione torni a lui gradita. Le preghiere
fatte come quella del pappagallo sono in abbomina-
zione a Dio (1), che guarda più al cuore (2) di chi
prega che non alle parole che dice.
Le preghiere vocali si dividono in tre gruppi : co-
mandate, raccomandate, libere. Le comandate sono
il Pater e il Credo, da recitarsi ogni giorno, com'è
chiaro da quelle parole che il Signore ci fa dire:
Dacci oggi il nostro pane quotidiano; bisogna dun-
que domandarlo tutti i giorni. A chi mi dicesse: —
Oggi non ho pregato, — gli risponderei che ha fatto
come le bestie. Le altre preghiere comandate sono
quelle dell'Ufficio per eccles'astici o religiosi; omet-
tendone parti notevoli, si pecca. Soltanto raccoman-
date sono i Pater o i Rosari, ordinati per l'acquisto
delle indulgenze; tralasciandole, non si pecca; ma
la Chiesa, nostra buona Madre, per far ve.iere il
suo desiderio che si dicano, largisce indulgenze a chi
le recita. Preghiere, libere sono tutte le altre, che
si fanno oltre le anzidette.
Benché le preghiere fatte volontariamente siano
ottime, le raccomandate però sono molto migl ori,
percuè vi si unisce la virtù della docilità. Gli è come
(1) Is., i, 13.
(2) Prov., XXIV, 12.

23.8 Page 228

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se dicessimo: — Tu desideri, mia cara Madre Chiesa,
eh" io faccia questo; non me lo comandi, ma sono be-
assimo dì farlo per accontentarti. — Ecco che vi en-
tra già un po' d'obbedienza. Ma le preghiere coman-
date contengono un pregio superiore, perchè accom-
pagnate dall'obbedienza ed anche da maggior carità.
Di queste preghiere poi le une sono comuni, le
altre particolari. Comuni sono le Messe, gli Uffici
e quelle fatte in tempo di calamità. Oh, con quanta
riverenza non dovremmo intervenirvi, e più prepa-
rati. che non per le preghiere particolari! poiché
in queste trattiamo con Dio dei nostri affari o, se
preghiamo per la Chiesa, lo facciamo per carità; ma
nelle preghiere comuni si prega per tutti in generale.
Racconta sant'Agostino (1), che essendo ancora pa-
gano, entrò in una chiesa, dove sant'Ambrogio fa-
ceva cantare l'Ufficio alternatamente, come di poi
passò in uso, e che ne fu talmente rapito ed esta-
siato da parergli di trovarsi in Paradiso. Più d'uno
assicura d'aver veduto movente scendere gli Angeli
a schiere a schiere per assistere agli Uffici divini.
Con quale attenzione dunque dovremo assistervi noi,,
se vi sono presenti gli Angeli, i quali ripetono lassù
nella Chiesa trionfante quello che noi veniamo di-
cendo quaggiù nella militante!
(1) Confess., IX, 6: x, 33.
6
Penseremo forse che, se avessimo veduto una
volta gli Angeli ai nostri Uffici, vi andremmo con
maggior attenzione e riverenza. Oh, no, sarebbe
tutto lo stesso! quand'anche fossimo stati rapiti con
san Paolo fino al terzo cielo (1), ancorché fossimo
stati trent'anni in Paradiso, se la fede non ci aiu-
tasse, tutto questo servirebbe a nulla. Una cosa, a
cui ho pensato spesso, è che san Pietro, san Gia-
como e san Giovanni, dopo aver veduto il Signore
nella sua Trasfigurazione, lo abbandonarono egual-
mente nel tempo della sua Passione e Morte.
Specialmente coloro che cantano gli Uffici non
dovrebbero mai intervenirvi senza fare atti di con-
trizione e senza domandare l'assistenza dello Spirito
Santo prima di darvi principio. Che bella sorte
non è mai questa di cominciar a fare quaggiù quello
che si farà eternamente lassù nel cielo!
Ancora un'osservazione che riguarda l'orazione
tanto vocale quanto mentale. In due modi noi an-
diamo a Dio per pregarlo, tutt' e due raccoman-
dati dal Signore e comandati dalla santa Madre
Chiesa: ora preghiamo Dio immediatamente, ora lo
preghiamo mediatamente, come quando si dicono
le antifone della Madonna, la Salve Regina e altre
preghiere simili. Quando lo preghiamo immédiata-
(1) 11 Cor., XII, 2.
44

23.9 Page 229

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mente, pratichiamo la confidenza filiale fondata
sulla fede, speranza e carità; quando lo preghiamo
mediatamente e per la mediazione di altri, prati-
chiamo la santa umiltà, derivata dalla conoscenza
di noi stessi. Andando immediatamente a Dio, ne
proclamiamo la bontà e misericordia, in cui ripo-
niamo tutta la nostra fiducia: ma, pregandolo me-
diatamente e implorando l'assistenza della Madonna,
dei Santi e degli Spiriti beati, si fa per essere me-
glio accetti alla Maestà divina, di cui per tal mo-
do si esalta la grandezza e onnipotenza e si attesta
il rispetto a lei dovuto.
§ 10. RIVERENZA ESTERIORE NELL'ORAZIONE.
Desidero aggiungere ancora una parola sulla
riverenza esteriore che si deve osservare nel far
orazione. La santa Madre Chiesa determina le po-
sizioni da tenersi nella recita dell'Ufficio: essa ora
ci vuole in piedi, ora seduti, ora in ginocchio, ora
scoperti, ora coperti; ma tutti questi atteggiamenti
sono tante preghiere. Tutte le cerimonie della Chie-
sa sono piene di altissimi misteri; le anime divote,
umili, semplici ne ricevono vivissima consolazione,
vedendole.
Nelle preghiere liturgiche si tenga la posizione
prescritta dalle rubriche; ma nelle orazioni partico-
448
lari quale sarà la riverenza da. usare? Stiamo anche
allora dinanzi a Dio come nelle preghiere comuni,
benché nelle comuni si richieda una special dili-
genza per l'edificazione del prossimo; la riverenza
esterna aiuta grandemente l'interna. Abbiamo esem-
pi che ci mostrano il dovere di serbare grande rive-
renza esterna nel fare l'orazione, anche se partico-
lare. Ascolta san Paolo (1): Io piego le mie ginoc-
chia dinanzi al Padre del Signor nostro Gesù Cri-
sto. E non vedi come il Salvatore stesso, pregan-
do il Padre, si prostri al suolo1? (2).
Ancora un esempio. Il grande san Paolo eremi-
ta -visse molte decine d'anni nel deserto, quando
sant'Antonio, recatosi a visitarlo, lo trovò in ora-
zione. Finito che ebbe di pregare, gli parlò; indi
si ritrasse. Ma, tornatovi una seconda volta, lo vide
nella posizione di prima, con il capo levato e gli
occhi fissi al cielo, giunte le mani e immobile sulle
ginocchia. Sant'Antonio, dopo lungo aspettare, co-
mincia a meravigliarsi di non udirlo sospirare se-
condo il consueto: alza gli occhi, lo guarda in faccia,
s'accorge che è morto: il suo corpo, che aveva pre-
gato tanto in vita, sembrava che pregasse ancora
dopo morto.
(1). Eph., HI, 14.
(2) MATT., XXVI, 39; MARC., XIIV, 35.
449
15. - E. C E K I A , T.b vita religiosa ecc.

23.10 Page 230

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Bisogna che tutto l'uomo preghi. Davide dice
che tutta la sua faccia pregava (1); che i suoi oc-
chi erano cosi intenti a mirar Dio, da averne la vista
indebolita (2); che la sua bocca stava aperta quasi
di uccellino,- il quale aspetti la madre clie venga
a sfamarlo. Per altro, in ogni caso, la posizione
migliore è quella che ci concilia di più il raccogli-
mento. Finanche lo star coricato è posizione buona,
sembra anzi di per sè atto di preghiera; infatti il
santo Giobbe, giacente sul letamaio, fa una preghie-
ra così bella da meritare che Dio la esaudisca (3) (4).
§ 11. ANGORA UNA PAROLA SULL'UFFICIO DIVINO.
Per dire bene il divino Ufficio bisogna prima di
tutto prepararvisi, domandando al nostro cuore, sul-
l'esempio di san Bernardo, che cosa si accinga a
fare. Nè solamente in questa circostanza, ma anche
disponendoci a qualunque altra cosa, dobbiamo fare
il medesimo, per portare ogni volta le disposizioni
d'animo che vi si convengono: così alla ricreazione
si va con cuore amorosamente lieto; all'Ufficio con
(1) Ps. xxvi, '8.
(2) Pss. LXVIII, 4; LXXXVIÌI, 10; cfr.. Is., xxxvira, 14.
(3) Job., XLII, 9, 10.
(4) S. R. x (t. ix, pp. 47-67).
cuore seriamente amoroso. Nel dire poi, Deus in
adiutorium menni intenda, s'immagini che il Signore
ci dica a sua volta; — E tu fa' attenzione a me. —
Ohi intende le cose che dice nell'Ufficio, faccia
buon uso di questa sua capacità secondo il benepla-
cito di Dio, che glie l'ha data per tenervelo più
raccolto mediante i buoui sentimenti che ne potrà
ricavare; chi invece non intende, stia semplicemente
attento a Dio o durante le pause faccia atti d'amore
di Dio.,
Si consideri ancora che noi, benché con diverso
1 lignaggio, facciamo l'ufficio degli Angeli e che stia-
mo dinanzi al medesimo Dio, in cospetto del quale
gli Angeli tremano. Conte chi parlasse a un re,
starebbe attentissimo a non commettere sconvenien
ze e se, nonostante le sue precauzioni, gli accadesse
di commetterne, arrossirebbe subito; così noi nel dire
l'Ufficio stiamo bene in guardia, per non fare man-
camenti.
Si richiede pure attenzione per proferire bene le
parole e dire tutto nel modo prescritto. Avvenendoci
poi di commettere difetti, umiliamoci senza tur-
barci: non vi è niente di strano in questo, giacché
ne commettiamo tanti in altre cose. Ma se per av-
ventura i difetti fossero molti e la faccenda du-
rasse a lungo, allora vi sarebbe da supporre che
non abbiamo coucepito un vero dispiacere del primo
451

24 Pages 231-240

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24.1 Page 231

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mancamento; ecco la negligenza che ci dovrebbe
grandemete confondere, a motivo del rispetto dovuto
a Dio presente ed agli Angeli suoi. Di regola ge-
nerale, allorché si ricade con frequenza nella me-
desima colpa, è segno che manca la buona volontà
di emendarsene; che se poi si tratta di cosa, del-
la quale siamo stati più volte avvertiti, allora vi è
motivo di pensare che non si faccia caso dell'av-
vertimento (1).
Nel dire l'Ufficio sarà meglio avere semplice-
mente il pensiero rivolto a Dio oppure tener dietro
al senso delle parole che si pronunciano? lo per
me preferisco che si ponga mente al significato di
quello che si dice, perchè iu questo modo si as-
seconda meglio l'intenzione di chi, ispirato da Dio,
ha composto i salmi (2).
Non ripetere l'Ufficio, perchè sei stato distrat-
to uel dirlo, qualora questo non sia stato fatto
volontariamente; anzi, quand'anche tu arrivassi al-
la fine di un salmo senz'essere ben sicuro di averlo
detto, perchè l'hai recitato distrattamente senza
pensarvi, va' pure avanti lo stesso umiliandoti di-
nanzi a Dio. Non si deve credere sempre di aver
usato negligenza, quando la distrazione sia durata
(1) E . XVIII (t. v i , pp. I3'45-6).
(2) E. App. C. (t. vi, p. 442).
452
a lungo; può darsi perfino che ci duri per tutto il
tempo dell'Ufficio, senza che noi vi abbiamo colpa;
uè, per cattiva che la distrazione sia stata, ci dob-
biamo scoraggiare, ma basterà volta a volta sotto
gli occhi di Dio respingerla. Io vorrei che nessuno
mai si "turbasse per cattivi sentimenti che gli venis-
sero, ma che si fosse coraggiosi e fermi a non con-
sentirvi, correndo gran differenza fra sentire e con-
sentire (2).
§ l'i. ORAZIONE MENTALE.
Facendomi a parlare dell'orazione mentale, ti
mostrerò, mediante il confronto col tempio di Salo-
mone, che nell'anima vi sono quattro ordiui. Nei
tempio vi ei a prima un portico destinato ai Gentili,
affinchè nessuuo potesse esimersi dall'obbligo di ado-
rare; perciò alla Maestà divina piaceva di più quel
tempio, non essedovi nazione, la quale non potes-
se ivi renderle omaggio. Il secondo ordine era de-
stinato ai Giudei, uomini e donne; benché con
l'andar del tempo se ne facesse poi la separazione
per evitare gl'inconvenienti che da quella mesco-
lanza potevano derivare. Poi, salendo sempre, vi era
un terzo spazio per i sacerdoti; infine il comparti-
( I ) E. XVIIII (t. vi, p. 3 4 7 ) .
3

24.2 Page 232

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mento destinato ai Cherubini e al loro Signore, dove
custodivasi l'Arca dell'Alleanza e dove Dio manife-
stava i suoi voleri: si chiamava il Sanata Sanctorum.
Nelle nostre anime vi è un primo ordine, che è
la conoscenza attinta per .mezzo dei sensi: con gli
occhi, ad esempio, conosciamo che un dato ogget-
to è verde, rosso o giallo. Poi viene un piano già
un po' più alto, che è la conoscenza acquistata me-
diante la riflessione; uno, per esempio, che sia stato
trattato male in un luogo, cercherà, riflettendo, in
che modo non farvi più ritorno. Il terzo piano è la
conoscenza avuta per via della fede. Il quarto com-
partimento, il Sancia Sanctorum, è il vertice dell'ani-
ma, denominato spirito; se questa sommità si tiene
costantemente rivolta a, D.io, basta, allora non ab-
biamo motivo di turbarci.
Le navi in mare portano tutte un ago, la cui pun-
ta calamitata guarda sempre la stella polare; ben-
ché il vascello navighi verso mezzodì, l'ago non mu-
ta la sua direzione verso il suo polo nord. Così sem-
bra talvolta che l'anima se ne vada tutta a sud, tan-
to è agitata da distrazioni; ma invece la punta dello
spirito guarda sempre al suo Dio, che forma il suo
polo nord. Le persone anche più provette patiscono
certe volte così forti tentazioni, anche di fede, da
parer loro che tutta l'anima vi consenta, tanto è lo
sconvolgimento; soltanto quella punta resiste. Eb-
454
bene, quella è la parte del nostro essere che fa l'ora-
zione mentale; quand'anche tutte le altre facoltà e
potenze siano piene di distrazioni, lo spirito, che
ne è la punta, fa l'orazione.
L'orazione mentale ha quattro parti: meditazione,
contemplazione, slanci e semplice presenza di Dio.
La prima si fa così: si prende un mistero, per
esempio, il Signore crocifisso e, presentatolo alla
mente, vi consideriamo le virtù: l'amore al Padre,
il quale amore gli ha fatto soffrire la morte, e morte
di croce, piuttosto che dispiacergli, o, per dir me-
glio, a fine di compiacerlo; la grande dolcezza,
umiltà e pazienza, con cui sopportò tante ingiurie;
infine la grande carità verso i suoi crocifissori,
pregando per essi fra i più acerbi spasimi. Fatte
così queste considerazioni, ci sentiamo tocchi da ar-
dente desiderio d'imitarlo nelle sue virtù; indi pas-
siamo a pregai-e il Padre, che ci renda confo» mi
al Figliuol suo (1).
Meditare è fare come hi api, quando raccolgono
il miele. Volano esse di fiore in fiore, traendone un
po' di succo, che portano agli alveari. Così noi
andiamo peccliiando una dopo l'altra le virtù del
Signore, per trarne brama d'imitazione; poscia le
abbracciamo tutte con un solo sguardo mediante la
(1) Rom., vili, 29.

24.3 Page 233

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contemplazione. Dio nella creazione meditò; poiché,
dopo aver creato il cielo, disse che era ben fatto;
parimente fece dopo la creazione della terra, degli
animali, dell'uomo. Trovò ogni cosa ben fatta, os-
servandole partitamente; ma vedendo tutto l'insie-
me del creato, disse che stava assai bene (1).
La Sposa dei Cantici (2), dopo aver lodato il suo
Diletto per la beltà degli occhi, delle labbra, di
tutte le membra successivamente, conchiude così:
— Com'è bello il mio Diletto! quanto mi piace!
mi è carissimo. — Ecco la contemplazione: consi-
derando mistero per mistero e vedendo quanto Dio è
buono, si diventa come i canapi dei nostri battelli:
a forza di remare i canapi si scaldano talmente, che
se non s'inumidiscono, s'infuocano; la nostr'anima
però, scaldandosi nell'amare Colui che ha ricono-
sciuto tanto amabile, continua a mirarlo, perchè si
compiace sempre più di vederlo tanto bello e tanto
buono.
Lo Sposo dei Cantici (3) dice: — Venite, miei
dilettissimi; io ho raccolto la mia mirra, ho man-
giato il mio pane e il mio favo col suo miele, ho be-
vuto il mio vino col mio latte. Venite, miei dilet-
ti) Gen., i, 10-25, 31.
(2) Cant., v, 9-16.
(3) Cant., v, 1 (iuxta LXX et Patres).
6
fissimi e mangiate, inebriatevi, o carissimi. — Que-
ste parole ci rappresentano i grandi misteri del
Salvatore. Io ho raccolto la mia mirra, ho mangiato
il mio pane; ciò fu nella Passione e Morte. Ho
mangiato il mio miele col mio favo; questo avven-
ne, allorché riunì l'anima sua al corpo. Infine lo
Sposo aggiunge: il mio vino col mio latte; il vino
rappresenta la gioia della sua Risurrezione, il lat-
te la dolcezza della sua conversazione. Li ha be-
vuti insieme, perchè rimase sulla terra quaranta
giorni dopo la Risurrezione, visitando i discepoli,
facendo loro toccar con mano le sue piaghe e man-
giando con essi. Ora, quando dice: Mangiate, miei
dilettissimi, vuol dire «meditate»; infatti per ren-
dere il cibo trangugiarle, bisogna primieramente
masticarlo e tritarlo, voltandolo e rivoltandolo in
bocca. Così dobbiamo fare con i misteri del Signo-
re: mastichiamoli e rivolgiamoli più volte nella
mente, prima di scaldare la volontà e passare alla
contemplazione. Lo Sposo conchiude: Inebriatevi,
o miei carissimi; e che vuol dire? Non si mastica
il vino, ma non si fa che mandarlo giù; il che ci
raffigura la contemplazione, in cui più non si ma-
stica, ma solo s'inghiotte. Hai meditato abbastanza
che io sono buono, sembra dire lo Sposo divino
alla sua Diletta; ora guardami e deliziati a vedere
che sono tale.
457

24.4 Page 234

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San Francesco passò una notte a ripetere: —
Voi siete il mio tutto. — Proferiva quelle parole
in istato di contemplazione, quasi volesse dire: —
Vi ho considerato parte per parte, o mio Signore,
ed Ito trovato" che siete amabilissimo; oravi rimiro
e vedo che siete il mio tutto. — San Brunone si
limitava a dire: — Oh, bontà! — E sant'Agostino
(1): — Oh, bellezza antica e nuova! — Antica,
perchè eterna: nuova, perchè apportatrice di soa-
vità novella al cuore. Erano parole di contempla-
zione..
-La terza parte dell'orazione mentale si fa per
via di slanci. Nessuno se ne può esimere, perchè è
cosa che si fa andando e venendo e disbrigando
le proprie faccende.
Tu mi dici che non hai tempo di fare lunga
orazione; ma chi ti parla di questo? Baccoman-
dati a Dio fin dal mattino, protesta di non volerlo
offendere; poi vattene per le tue faccende, risoluto
di continuar a fare frequenti elevazioni della men-
te a Dio, anche quando ti troverai in compagnia
d'altri. Olii t'impedisce di parlargli dal fondo del
cuore? che le tue parole siano mentali o vocali,
non importa nulla. Di' poche parole, ma ferventi.
La giaculatoria ripetuta da San Francesco era ec-
(1,1 Coni., x, 27;
458
celiente, benché in lui fosse effetto di contempla-
zione, perchè aveva una continuità simile al corso
perenne di un fiume. È vero il dire a Dio: — Voi
siete il mio tutto, — e voler altra cosa fuori di
lui, non andrebbe bene, dovendo le parole rispon-
dere ai sentimenti del cuore; ma il dire a Dio: —
Vi amo, — pur senza che si abbia un vivo senti-
mento d'amore, è cosa da non tralasciarsi mai, per-
chè volontà e gran desiderio di amarlo noi l'ab-
biamo.
Un buon mezzo per abituarsi a questi slanci è
prendere il Pater, scegliendo di seguito una frase
al giorno. Oggi, per esempio, hai preso: Pater no-
hter, qui es in caelis; dirai dunque la prima volta:
— Padre mio, che siete ne' Cieli: — un quarto
d'ora- dopo: — Se voi siete il mio Padre, quando
sarò io davvero vostro figliuolo? — Così andrai
continuando di quarto d'ora in quarto d'ora la tua
orazione. I Santi Padri che vivevano nel deserto,
quegli antichi e veri religiosi, erano così assidui
in tali orazioni e slanci del cuore, che, come rac-
conta san Girolamo (1), quando si andava a visi-
tarli, si seutiva uno a dire: — Mio Dio, voi siete
tutto il mio desiderio; — e un altro a esclamare:
— Quando sarò tutto vostro, mio Dio? — e un ter-
(1) Ep. cvm (ad Eust.), 14, 18.
9

24.5 Page 235

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zo a ripetere: Deus, in adiutorium meurn intende.
Dalla diversità delle loro voci si raccoglieva un'ar-
monia graditissima. Tu mi dirai: — Se le parole
si proferiscono oralmeute, perchè chiamar questa
orazione mentale? — Perchè la si fa pure con la
mente e viene prima dal cuore.
Lo Sposo dei Cantici dice (1) che la sua Diletta
gli ha rapito il cuore con uno de' suoi occhi e con
uno dei capelli che le pendono sul collo: parole che
formano, per dir così, un turcasso, pieno di gusto-
sissime e dolcissime interpretazioni; eccone una
assai graziosa. Quando marito e moglie hanno
affari domestici che li costringono a separarsi, av-
venendo per caso che s'incontrino, si guardano un
po' di passaggio, ma con un occhio solo, perchè
passandosi di fianco, non si può farlo agevolmente
con tutt'e due. Così .lo Sposo vuol dire: — Benché
la mia Diletta sia molto occupata, tuttavia non
lascia di guardarmi con un occhio, dichiarandomi
con tale sguardo che è tutta mia. Mi ha poi ra-
pito il cuore con uno dei capelli che le pendono
sul collo, cioè con un pensiero che le scende dalla
parte del cuore. —
Della quarta parte dell'orazione mentale non di-
remo niente. Felici noi, se arriveremo al Cielo! Si
(1) Cant., iv, 9 (iuxta LXX).
6
mediterà ivi guardando e considerando minuta-
mente tutte le opere di Dio e tutte si troveranno
ben fatte;, si contemplerà ivi, vedendole tutte nel
loro insieme, come tutte vadano bene, e si faranno
eternamente elevazioni a Dio (I).
§ 13. PENSIERI SULL'ORAZIONE.
1. Ti parrà talvolta di non far niente nell'ora-
zione, perchè non sai far altro che presentare e ri-
presentare a Dio il tuo nulla e la tua miseria. Ep-
pure l'arringa più bella che c'indirizzino i men-
dicanti sta nell'esporre alla nostra vista le loro
piaghe e necessità. Talora non fai nemmeno questo
ma te ne rimani là come una statua? Ebbene,
questo non è poco. Nei palagi dei principi e dei
re si erigono statue, che servano unicamente a ri-
creare la vista; sii dunque contento di servire a
questo dinanzi a Dio: egli, quando sarà di suo gra-
dimento, animerà la statua.
2. Gli alberi fruttificano soltanto grazie alla
presenza del sole, gli uni più presto e gli altri più
tardi, gli uni ogni anno e gli altri di tre in tre anni
e non sempre nello stesso modo. Il poter stare alla
(1) S. R. x (t. IX, pp. 67-721).

24.6 Page 236

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presenza di Dio è per noi un gran bene; contentia-
moci che questa ci faccia portare il nostro frutto
0 prima o poi, o tutti i giorni o di quando in quando
secondo il beneplacito di D'o, a cui è nostro dovere
di pjenamentè conformarci (1).
3. È una dolcezza incomparabile il pensare all'o-
nore grande che un cuore ha di parlare da solo à
solo con il suo Dio, all'Essere supremo, immenso,
influito. Quello che il cuore dice a Dio, nessun
altro da prima Iosa, fuorché Dio, e poi chi ne ha
da Dio notizia. Meraviglioso segreto! Io credo che
intendano questo i Dottori, quando dicono che per
fare orazione giova pensare, non esservi al mondo
altri che Dio; infatti è un pensiero che concentra
assai le potenze dell'anima, sicché la loro attività
ne riesce più intensa (2).
4. Non c'è inai compagnia, non c'è mai impaccio
che t'impedisca di parlare spesso col Signore, con
1 suoi Angeli e Santi, nè di aggirarti sovente per
le vie del la sua celeste Gerusalemme, né di ascol-
tare le parole interiori di Gesù Cristo e del tuo
Angelo Custode, nè di fare la comunione spiri-
tuale (3).
(1) L. CCLXXVII (t. XIII, pp. 19-20).
( 2 ) L . CDVIIII ( t . x m , p . 3 1 1 ) .
( 3 ) L . CDXIV ( t . XIII, p. 3 2 1 ) .
462
5. Sta' tranquillo nell'orazione: quando le di-
strazioni ti assalgono, allontanale bel bello, se
puoi; altrimenti, procura di conservare tutto il rac-
coglimento possibile, lasciando che le mosche t'im-
portunino finché vogliono, mentre tu parli col tuo
Re. Egli no a bada a queste cose. Scaccia le mosche
con garbo e con calma, non mai con un'agitazione
e impazienza, che, ti tolga il raccoglimento (1).
6. A noi piacciono sempre tanto la dolcezza, la
soavità, la deliziosa consolazione; ma è più frut-
tuosa l'asprezza, dell'aridità. Benché san Pietro
preferisse il monte Tabor e fuggisse il monte Cal-
vario, quest'ultimo però è sempre più utile di
quello; il sangue versato sopra dell'uno è più de-
siderabile che non lo splendore irradiato sopra del-
l'altro. Il Signore allora ci tratta da bravi; adattia-
moci un po' anche a questo. Val meglio mangiare
pane senza zucchero, che zucchero senza pane (2).
7. Non è necessario perdersi a cercare la causa
delle nostre aridità, perchè difficilmente la indovi-
neremmo. Basterà che ci umiliamo profondamente,
rassegnandoci a "questa tribolazione, sia che il Si-
gnore ce l'abbia mandata per castigarci di qual-
che nostro difetto, sia che l'abbia permessa per
(1) L. cccxx (t. xmi, p. 123).
( 2 ) L . DLXIV ( t . x i v , p . 2 3 6 ) ,
6

24.7 Page 237

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provarci e renderci più esclusivamente suoi (1).
8. Il santo dono dell'orazione sta preparato
nella mano destra del Salvatore, per quando tu
sarai vuoto di te, cioè dell'amore al tuo corpo e
alla tua volontà; in altri termini, quando tu sarai
veramente umile, egli lo verserà nel tuo cuore,
Intanto abbi pazienza, fa' i passi corti, fino a che
non abbi gambe per correre, o meglio, ali per vo-
lare. Rimani volentieri ancora per qualche tempo
piccola ninfa; diverrai ben presto una bella ape.
Umiliati amorosamente dinanzi a Dio e agli uomini:
Dio parla a chi tiene le orecchie basse (2). Insom-
ma, Dio riempirà del suo balsamo il tao vaso,
quando lo vedrà vuoto (3) dei profumi di questo
mondo; non appena tu sarai umile, egli ti esalterà (4).
9. La presenza della sacra Umanità di Gresil
Cristo riempie di soavità tutta una casa religiosa;
per anime che abbiano spirito di fede, è una con-
solazione grande l'aver vicino questo tesoro di vi-
ta (5).
10. Per coloro che si dedicano alla santissima
»
(1) L. MLXVII (t. xvii, p. 348).
(2) Cfr.Ps. XLIV, 10.
(3) Cfr. IV Reg., iv, ,3-5.
(4) L. MDCC (t. xix, p. 332[i.
(5) L. MXLIX (t. x v i , p. 313).
6
orazione, il SignoYe è una fontana, a cui mediante
l'orazione si attinge acqua di lavacro, di refrigerio,
•di fertilità, di soavità. Lo sa Iddio, che cosa sono
le case religiose, dove si trascura questo santo
esercizio; Dio sa quale obbedienza, quale povertà,
quale castità vi si osservi sotto gli sguardi della
sua divina Provvidenza, e se allora le comunità
religiose non siano piuttosto agglomeramenti di car-
cerati che riunioni di veri amanti di Gesù Cristo (1).
(1) L. CMLXXXIX (t. xvra, p. 207).

24.8 Page 238

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CAPO QUINTO.
Dei Sacramenti della Penitenza
e dell'Eucaristia.
-I Sacramenti sono canali, per cui, diciamo così,
Dio discende a noi, come per l'orazione noi ascen-
diamo a lui, altro non essendo l'orazione che un'ele-
vazione della mente a Dio. Gli effetti dei Sacra-
menti sono diversi, benché tutti abbiano un mede-
simo fine comune, che è di unirci a Dio. 11 Batte-
simo ci unisce a Dio, come figli al padre; la Cre-
sima ci unisce a lui, come soldati al capitano,
dandoci la forza per combattere e vincere i nostri
nemici in tutte le tentazioni; la Penitenza ci unisce
a Dio, come amici che si sono riconciliati; l'Euca-
ristia, come il cibo allo stomaco; l'Estrema Unzio-
ne, come figli che vengono da lontano e già tengo-
no un piede sulla soglia della casa paterna, per
unirsi al padre, alla madre, a tutta la famiglia.
Ecco pertanto che i Sacramenti producono effetti
diversi, ma tutti contribuiscono all'unione dell'ani-
466
ma nostra Con Dio. Noi parleremo ora di due soli:
della Penitenza e dell'Eucaristia.
§ 1. D E L L A P E N I T E N Z A
E DELL'EUCARISTIA IN GENERALE.
La preparazióne.
È necessarissimo anzitutto sapere, perchè noi,
ricevendo sì spesso questi due Sacramenti, non ri-
ceviamo insieme le grazie^ che sogliono portare alle
anime ben disposte, essendoché tali grazie vanno
annesse ai Sacramenti. Lo dirò in una parola: per
difetto di preparazione. Onde bisogna conoscere la
maniera di ben prepararci a ricevere questi due
Sacramenti, non che tutti gli. altri. Ora la prima
preparazione è la purità d'intenzione, la seconda
l'attenzione, la terza l'umiltà.
La purità d'intenzione è cosa essenzialissima
non solo nel ricevere i Sacramenti, ma anche in
tutto quello che facciamo. Ora, l'intenzione è pura,
quando riceviamo i Sacramenti o facciamo qualsiasi
altra cosa col fine di unirci a Dio e renderci a lui
più accetti, senza che vi si mescoli alcun proprio
interesse, come sarebbe il desiderare di godervi
speciali consolazioni. In questo caso, se, mancando
le consolazioni, tu ti lasci prendere da inquietudine,
6

24.9 Page 239

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obi non vede ebe la tua intenzione non era pura,
e ebe cercavi non l'unione Con Dio, ma le sue
consolazioni?
Seconda preparazione, l'attenzione. Certo noi
dovremmo accostarci ai Sacramenti con molta at-
tenzione, riflettendo bene sia alla grandezza dell'at-
to, sia alle condizioni per ciascun Sacramento ri-
chieste. Per esempio, andando alla Confessione, si
deve portarvi un cuore amorosamente addolorato e
alla santa Comunione un cuore ardentemente amo-
roso. Non dico già che per tutta quest'attenzione
sia indispensabile non avere distrazioni, non essen-
do in poter nostro ciò; ma intendo dire che biso-
gna usare la massima diligenza per non fermarvi si
volontariamente.
Terza preparazione, l'umiltà. È una virtù di
somma necessità per ricevere l'abbondanza delle
grazie, che scorrono per i canali dei Sacramenti: le
acque scendono naturalmente più rapide e con più
impeto, quando i canali siano posti in luoghi incli-
nati e quindi volti in giù.
Ma, oltre a queste tre preparazioni, io te ne
voglio accennare un'altra che è la principale, cioè
l'abbandono completo di noi stessi nelle mani di
Dio, sottoponendo senza riserva al suo potere ogni
nostra volontà e affetto. Dico senza riserva, per-
chè la nostra miseria è tanta che noi ci riserbiamo
6
sempre qualche cosa. Le persone più spirituali si
ritengono d'ordinario la volontà di avere preferi-
bilmente certe virtù; perciò quando vanno alla Co-
munione, dicono, per esempio: — Signore, io mi
abbandono interamente nelle vostre mani; ma com-
piacetevi di darmi la prudenza, affinchè io sappia
vivere dignitosamente; — ma la semplicità non la
domandano. — Mio Dio, eccomi qui assolutamente
sottomesso alla vostra divina volontà; ma datemi
molto coraggio per fare opere grandi a vostro ser-
vizio; — ma di dolcezza per vivere in pace col
prossimo, non si fa parola. Un terzo dirà; — Da-
temi l'umiltà che giova tanto per dare buon esem-
pio; — ma di umiltà del cuore, che ci fa amare la
nostra umiliazione, non vi è nessun bisogno, a
quanto pare. — Mio Dio, poiché sono tutto vostro,
fate che io abbia sempre consolazioni nell'orazione.
— Già, proprio questo ci vuole per essere uniti a
Dio, che è l'oggetto delle nostre aspirazioni! e co-
storo non chiedono mai tribolazioni o mortificazio-
ni. Oh, davvero, non è mezzo atto a produrre que-
sta unione il riserbarsi tutte queste volontà, per
quanto bella abbiano l'apparenza; il Signore, vo-
lendosi dare tutto a tutti, vuole da noi in cambio
che ci diamo interamente a lui, affinchè l'unione
della nostr'anima con la sua Maestà divina sia più
perfetta e noi possiamo ripetere con verità le pa-

24.10 Page 240

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role di quel perfetis.simo fra i Cristiani: Non nono
più io che vivo, ma vive in me Gesù Cristo (1).
La seconda parte poi di questa preparazione con-
siste nel vuotare il nostro cuore di tutto, affinchè
il Signore lo riempia di sè. La causa, per cui non
riceviamo la grazia della santificazione (e una Co-
munione sola ben fatta è atta a renderci santi e
perfetti), deriva unicamente da questo, che non la-
sciamo regnare in noi il Signore, come la sua bontà
lo desidera. Viene in noi questo Diletto delle anime
nostre, ma trova i nostri cuori tutti pieni di desi-
deri, affetti, velleità: non è questo ch'egli cerca; la
sua volontà è di trovare cuori vuoti, per farsene
padrone e arbitro. Per mostrare quanto lo brami,
dice alla sacra Sposa (2) di porlo come sigillo sul
suo cuore, affinchè nulla vi possa entrare senza il
permesso e il beneplacito suo. Io penso che il centro
del tuo cuore sia vuoto; altrimenti sarebbe infedeltà
troppo grande la tua: voglio dire che noi abbiamo
scacciato e detestato non solamente il peccato mor-
tale, ma ogni sorta di affetto malvagio; pure, ahimè
tutti i segreti nascondigli dei nostri cuori sono in-
gombri di tante cose indegne di comparire alla pre-
senza del Re supremo, e queste gli legano, per dir
(1) Galat., il, 20.
(2) Cant., vili, 6.
470
così, le mani, impedendogli di compartirci i beni e
le grazie, che la sua bontà ci vorrebbe largire, se ci
trovasse preparati a riceverli. Facciamo dunque dal
canto nostro quanto sta in nostro potere per prepa-
rarci bene a ricevere questo Pane soprassostanzia-
le (1), abbandonandoci totalmente alla divina Prov-
videnza, non solo riguardo ai beni temporali, ma
in special modo riguardo a quelli spirituali; il che
otterremo con lo sfogare alla presenza della Bontà
divina tutti i nostri affetti, desideri, sentimenti, ri-
soluti di stare a lei interamente soggetti. Allora
stiamo pur certi che il Signore manterrà dal canto
su'o la promessa fattaci di trasformarci in Lui, sol-
levando la bassezza nostra fino a unirla con la gran-
dezza sua.
I fini.
Chi si comunica, può avere fini diversi: come
di chiedere a Dio la liberazione da qualche tenta-
zione o afflizione, tanto per noi che per i nostri cari,
o di chiedere qualche virtù, sempre a condizione
che questa serva a unirci più perfettamente con
Dio, la qual cosa per altro non si verifica spesso;
poiché in tempo di afflizione si è d'ordinario più
uniti a Dio, essendo allora facile ricordarsi di Lui
( 1 ) MATT., VI, 11.

25 Pages 241-250

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25.1 Page 241

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con maggior frequeuza. Per quello poi che concerne
le virtù, a volte è più opportuno e più utile a noi
il non possederne l'abito, purché nondimeno ne pra-
tichiamo all'occasione gli atti; la difficoltà da noi
sperimentata nell'esercizio di una virtù, ci serve per
umiliarci, e l'umiltà ha sempre maggior valore di
tutto il resto.
Finalmente, in tutte le preghiere e domande ri-
volte a Dio non pensare solo a te, ma procura di
dir sempre noi, come ci ha insegnato il Signore
nell'Orazione domenicale, dove non entra nè mio
nè io. Avrai, si capisce bene, l'intenzione di pre-
gare Dio, che conceda la virtù o la grazia-, doman-
data per te, a quanti versano nella stessa necessità,
e sempre avrai per iscopo di unirti maggiormente
a Dio; con altro intendimento nulla dobbiamo mai
chiedere nè desiderare per noi o per il prossimo,
essendo quello il fine per cui i Sacramenti furono
istituiti. Conformiamoci dunque a tale disegno del
Signore, ricevendoli con il medesimo intento. »
Nè pensiamo che comunicandoci o pregando per
gli altri, veniamo noi a perdere qualche cosa, a
meno che offrissimo a Dio Comunione e preghiera
in espiazione dei loro peccati, perchè allora non
soddisferemmo per i nostri. Pur tuttavia il merito
della Comunione e della preghiera resterebbe a noi,
non essendoci possibile meritare la grazia gli uni
472
per gli altri: il Signore solo ha potuto far questo.
La preghiera fatta da noi per il prossimo accresce
il nostro merito, ottenendoci in ricompensa grazia
in questa vita e gloria nell'altra. Che se taluno non
pensasse a soddisfare per i suoi peccati, il solo pen-
siero di fare tutto quello che fa per puro amor di
Dio, basterebbe a tal effetto; poiché è dottrina si-
cura che con un atto fervente di carità o con un
atto di contrizione perfetta, soddisferebbe appieno
per tutti i suoi peccati.
I frutti.
Come si potrebbe fare per conoscere il profitto
che si ricava dal ricevere i Sacramenti! Tu lo co-
noscerai dal tuo progresso nelle virtù proprie di
ogni Sacramento: come per esempio, se dalla Con-
fessione porti con te l'amore alla tua abiezione e
all'umiltà, che sono le virtù a quella riferentisi; e
poi dal grado di umiltà si scorge il nostro avanza-
mento. Si legge che chi si umilierà, sarà esaltato
(1); essere esaltato è venir avanzato. Così, se per
mezzo della santissima- Comunione diventi molto
dolce (che è la virtù di questo Sacramento, tutto
dolcezza, tutto soavità, tutto miele), ne ricavi ap-
punto il frutto suo proprio, e quindi vai avanti; ma
(1) MATT., XXIII, 1 2 ; L u e . , xnv, 11; x v m , 14.
473

25.2 Page 242

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se invece non diventi più umile nè più dolce, tu
meriti che ti si tolga il pane, perchè vuoi mangiarlo
seuza lavorare (1) (2).
§ 2. DELLA CONFESSIONE.
Si va a confessarsi per unirsi a Dio. Le anime
religiose hanno un vantaggio ben grande al con-
fronto dei mondani, perchè vivono fuori dei peri-
coli delle gravi separazioni da Dio, dal quale sola-
mente il peccato mortale ci disunisce. Il peccato
veniale introduce appena una lieve distanza fra Dio
e noi; col Sacramento della Penitenza rimettiamo
l'anima nostra nello stato di prima (3).
Esame ordinario e annuale.
Non essere così scrupoloso da voler confessare
tante imperfezioncelle; non vi è obbligo nemmeno
di confessare i peccati veniali, se non si vuole. Con-
fessandosene però, si abbia volontà risoluta di emen-
darsi; altrimenti, sarebbe una cosa mal fatta con-
fessarsene. Così ancora non fa bisogno di torturarsi
(1) 11 Thess., HI, 10.
(2) E. xvmi (t. vi, pp. 337-344).
(,3) E. xv (t. vi, p. 281).
474
il cervello, quando non si ricordano mancanze da
confessare: non è possibile che un'anima, avvezza a
esaminarsi con frequenza, non si fìssi bene in mente
le colpe rilevanti, per ricordarsene a suo tempo.
Di tanti difettucci puoi parlare col Signore ogni
volta che li scorgi: un sentimento di umiltà, un so-
spiro del cuore basta per così poco (1).
No, non turbarti, se non avverti tutte le tue
piccole cadute per confessartene; come spesso cadi
senza che te ne accorga, così senza che te ne accorga
ti rialzi. Non si dice nella Scrittura (2), che il giusto
si vede o si sente cadere sette volte al giorno, ma
che sette volte cade; parimente egli si rialza ogni
volta senz'avvedersi del suo rialzarsi. Non darti dun-
que pensiero di questo, ma va' a dire umilmente e
schiettamente quello che avvertirai; il resto che non
avrai avvertito, rimettilo alla dolce misericordia di
Colui che pone la mano sotto coloro, i quali cadono
senza malizia, affinchè non si facciano male (3), e li
rialza così presto e così soavemente, che non si ac-
corgono nè di essere caduti, avendoli la mano di Dio
sorretti nel cadere, nè di essere stati rialzati, aven-
doli quella stessa mano tirati su tanto in fretta,-che
(1) E. XVHI (t. vi, pp. 344-50.
(2) Prov., xxiv, 16.
(3) Ps. xxxvi, 24.
47

25.3 Page 243

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non vi fecero nemmeno caso (1). Dunque non met-
terti in angustie, perchè nella ricerca delle tue colpe
non hai la memoria tanto pronta; quello che dispiace
a Dio non è il difetto di memoria, ma il difetto di
volontà (2). .
Sono buone le confessioni annuali, perchè ci ri-
chiamano alla considerazione della nostra miseria,
ci fanno constatare il nostro progresso o regresso,
ci fan ravvivare i nostri buoni propositi; ma bisogna
farle senza inquietudini e senza scrupoli, non tanto
per essere assolti, quanto per ricevere incoraggia-
mento, nè vi si richiede un esame minuzioso, ma
basta esaminarsi per sommi capi (3).
Comincia quest'esame dal primo comandamento,
nel quale troverai la santa Messa, l'Ufficio divino,
le orazioni; quindi passa al secondo, in cui troverai
i voti, e così di mano in mano. Per ogni comanda-
mento fa' due gruppi: uno delle colpe più rilevanti,
delle quali conviene dire approssimativamente il nu-
mero; l'altro delle colpe più piccole, che basterà dire
compendiosamente, senza bisogno di scendere a
verun particolare (4).
La revisione annuale delle anime nostre si fa
(1) L. MCCCLXXXII (t. XVIII, p. 136).
( 2 ) L . MCDXLIX ( t . XVIII, p . 2 5 1 ) .
(3) L. CCCLXI (t. XIII, p. 2 1 6 ) .
(4J L. cccxcm (t. xiw, p. 278).
476
anche per supplire con la confessione d'allora ai
difetti delle confessioni ordinarie, oltreché, come
dicevamo, per eccitarsi alla pratica di uua più pro-
fonda, umiltà e per rinnovare i buoni proponimenti
da applicarsi quali rimedi a inclinazioni, abitudini
e-altre sorgenti di colpe, a cui ci troveremo più
proclivi. Sarebbe più opportuno, è vero, fare questa
rassegna con chi avesse già ricevuto la tua confes-
sione generale, affinchè così dal confronto della vita
precedente con la seguente si potessero prendere
meglio le risoluzioni necessarie; questo insomma sa-
rebbe più desiderabile. Ma qualora non ve ne fosse
là comodità, va' pure da qualche altro confessore,
il più discreto e savio che troverai.
In questo esame, più che il numero e le circo-
stanze delle cadute, cerca quanta sia la tua incli-
nazione e facilità al male. Per esempio, non devi
ricercare quante volte sei caduto in peccati d'ira,
perchè forse vi avresti troppo da fare; 'ma vedrai
semplicemente «e vai soggetto a questo disordine;
se, quando ti capita, la duri in collera lungo tem-
po; se lo fai con forte rancore e violenza; infine
quali sono le occasioni che vi ti provocano più di
frequente: se il giuoco, l'alterigia, l'orgoglio, la
malinconia o la caparbietà. Così in brev'ora avrai
terminato il tuo esame, senza mettere la memoria
alla tortura nè perdere la quiete.

25.4 Page 244

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Qualche caduta mortale, purché non siavi stata
l'intenzione di adagiarsi nella colpa nè si sia avuto
un assopimento nel male, non impedisce che si sia
progredito nella divozione, la quale, benché, peccan-
do mortalmente, si perda, nondimeno si ricupera al
primo vero pentimento del peccato, massime quan-.
do, come ho detto, non si sia rimasto a lungo som-
merso in quello stato infelice. Di modo che queste
annuali revisioni tornano salutarissime agli spiriti
ancora un po' deboli; perchè, quando i primi propo-
nimenti non li abbiano raffermati del tutto, i se-
condi e i terzi varranno a consolidarli sempre più,
finché, a forza di risolvere, essi rimarranno intera-
mente risoluti. Ma, bando agli scoraggiamenti; piut-
tosto con santa umiltà si consideri la propria debo-
lezza, la si accusi, se ne domandi perdono e s'in-
vochi l'aiuto del Cielo (1).
Norme per l'accusa.
Le nostre colpe, finché stanno nelle nostre ani-
me, sono spine; venendone fuori per via dell'accusa
volontaria, si convertono in rose odorose; poiché,
come la nostra malizia ce le tira in cuore, così la
(1) L . CMXXX (t. xvi, pp. 96-8).
47
bontà dello Spirito Santo è quella che ce le spinge
fuori (1).
Nella confessione si possono commettere quattro
gravi difetti. Il primo è quando ci si va più per di-
scolparci che per piacere a Dio, sicché si rimane
soddisfatti, quando siansi dette bene le proprie ra-
gioni, mescolandovi i mancamenti altrui per meglio
spiegare i nostri! Così avviene che si pecchi non
di rado in confessione. Il secondo è quando al con-
fessore si vanno a fare bei di scorsi, infiorati di belle
parole, e gli si racconta qualche grosso caso per
acquistarne la stima e farsi credere persona illumi-
nata, dandosi l'aria di esagerare le colpe; in que- ,
sta maniera, d'una mancanza rilevante s'arriva a
fare una cosetta da nulla, che non permette al con-
fessore di conoscere lo stato dell'anima. Il terzo
difetto è procedervi con tanta sottigliezza e con tale
parlar coperto, che invece di accusa si fa una scusa
mediante Vina minuziosa analisi, per tema che si
veda tutta l'entità del mancamento: cosa pericolosis-
sima, per chi facesse questo volontariamente, li
quarto è di coloro che provano soddisfazione a in-
grandire la propria colpa: pessima usanza anche
questa. Io vorrei che si procedesse con semplicità
e franchezza, puramente in vista di Dio; con sili-
c i ) L . CCCXIIII (T. XIII, p . 1 0 4 ) .
479

25.5 Page 245

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cera detestazione delle proprie colpe e con ferma
volontà di emendarsi.
Bisogna distinguere nell'accusa le piccole disob-
bedienze dalle più notevoli, le cose di precetto da
quelle di consiglio; perchè le confessioni debbono
essere così nette e integre che nulla più. Si dicano
le cose come stanno e tali quali sono. Se l'obbedien-
za, nella quale hai mancato, è rilevante, di' senz'al-
tro qual è, e fa' il medesimo per gli altri manca-
menti. Per mancamenti da poco basta dire d'aver
mancato due o tre volte a un'obbedienza leggera e
poco importante: questo lascia il confessore tran-
quillo.
Ma è necessario considerare il motivo e le cir-
costanze che accompagnano le nostre colpe e accu-
sarsene francamente; poiché, siccome le regole non
obbligano sotto pena di peccato, non sono esse la
causa del peccato, ma questa causa sta nei moventi
della nostra volontà. Per esempio: la campana, ti
chiama a qualche pratica di pietà e tù per pigri-
zia o per altro riprovevole motivo non ci vai: è pec-
cato veniale. Ma chi non vede che il peccato non
deriva dalle regole, sì dal movente, cioè dalla pi-
grizia, per cui disobbedisci? Dunque parla franco,
di' moventi e colpe, specificando queste, allorché
sono uu po' gravi e di qualche conseguenza.
Si confessi quello che si fa specialmente quan-
480
/
do si è risentiti; così pure vi può essere peccato a
dir parole inconsiderate. Tuttavia non bisogna met-
tersi iu angustie; noi non abbiamo una perfezione
che sia sceyra d'amor proprio, e questo ci fa sem-
pre commettere qua o colà dei falli. Se in uno scatto
di risentimento, io getto via la penna, non sono
obbligato di confessarmene; se però tali impeti
sono frequenti, li dirò nella revisione generale della
coscienza per averne consiglio. Uno, per esempio,
che abbia avuto ordine di spegnere i lumi la sera,
se ne dimentica talvolta per inavvertenza e contro
la sua volontà: non ha peccato. Ma se fa di mala
voglia questa obbedienza, pecca e se ne deve cou-
fessare. La differenza fra peccati veniali e imper-
fezioni è che l'imperfezione viene all'improvviso e
per inavvertenza, mentre al peccato concorre la
nostra volontà.
Per confessarsi così, bisogna saper distinguere
nell'esame il peccato veniale dalle imperfezioni; ma
su duecento persone se ne troveranno due che lo sap-
piano fare, a meno che non si tratti di cose grosse.
Io, per esempio, vengo a dirti che un tale ti salu-
ta, che si raccomanda alle tue preghiere, che mi ha
parlato di te con stima, e non è vero niente: ecco
un peccato veniale volontario, volontarissimo; inve-
ce racconto un fatto e nel discorso mi scivolano pa-
role non del tutto conformi a verità, del che mi
481
16. - E. CKRIA. La vii a religiosa ecc.

25.6 Page 246

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accorgo solo dopo averlo detto: ecco un'imperfezio-
ne che non ho obbligo di confessare, a meno che
non avessi altro da dire. A Parigi, dopo aver con-
fessato molto .attentamente due o tre volte una per-
sona assai illuminata, infine le dissi che non la pote-
vo assolvere, perchè le cose accusate erano soltan-
to imperfezioncelle e non peccati e le suggerii di
dire un peccato che avesse commesso altre volte.
La penitente rimase molto stupita per averle io det-
to che non trovava peccato veniale, e mi ringraziò
vivamente d'averle dato questo lume, assicurandomi
che essa non aveva mai pensato a simile distinzio-
ne; donde 'tu vedi che la cosa è diffìcile, se un'a-
nima santa e illuminata come quella versava tut-
tavia in tale ignoranza (1).
Ma insomma, quando si sono avuti movimenti
di collera o di altra tentazione, ce ne dobbiamo
confessare o no! Io dico di parlarne, ma non per
modo di confessione, bensì per averne istruzione sul
modo di regolarsi. Intendo sempre, qualora non vi
vegga chiaro d'avervi dato qualche po' di consenso.
Se tu andassi a dire: — Mi accuso di aver avuto
per due o tre giorni forti movimenti di collera ma
non vi ho acconsentito, — diresti le tue virtù in-
vece di dire i tuoi difetti. Ma ti viene il dubbio
(1) E. xv (t. vi, pp. 281-4).
482
d'aver mancato un po'? Guarda attentamente, se
il dubbio sia fondato. Forse in quei due giorni
hai usato un po' di negligenza nell'allontanare
quel risentimento; se è così, di' con tutta semplicità
che per un quarto d'ora sei stato negligente ad
allontanare un moto d'ira senz'aggiungere che la
tentazione è durata due giorni, a meno che tu
non lo voglia dire per avere dal confessore qualche
buon consiglio: iu tal caso sarebbe ottimo il dirlo.
Senza di questo, lo si direbbe solamente per pro-
pria soddisfazione. Sebbene perciò il non farne cen-
no ti dispiaccia un tantino, sopporta cotesta pena
come qualsiasi altra, a cui non potessi trovar ri-
medio (1).
Torniamo sul punto dello scusarsi. Certuni fanno
insieme e disfanno la confessione. Vanno a confes-
sarsi dei loro difetti ma in modo che si accusano
e si scusano, dicendo molte parole per far vede-
re che, se han commesso la colpa confessata, hanno
avuto ragione di commetterla. Ne solamente si
scusano accusandosi, ma accusano anche gli altri. —
Sono andato in collera, ho fatto il tal mancamento,
ma ne avevo ben donde: m'avevano latto o detto
la tal cosa, fu per la tale occasione. — Non vedi che
nel confessare la tua colpa la nèghi? Di' piuttosto:
(1) E. v (t. vi, p. 85).
3

25.7 Page 247

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— Ho commesso il tale e il tal altro mancamento
per malizia, per impazienza e cattivo naturale, per
effetto delle mie passioni e inclinazioni mal mortifi-
cate. — Un altro dirà: — Ho sparlato del prossimo,
ma in cose palesi e note, nè fui solo a dire o a ve-
dere. — Ecco qui che neghiamo di essere colpevoli
del fallo che accusiamo.
Non bisogna fare così, ma confessare chiaro e
netto, attribuendo a noi la colpa e ritenendoci vera-
mente colpevoli, senza preoccuparci di quello che
se ne dirà o se ne penserà. — Eccomi quale sono, —
dobbiamo dire (1).
Nella confessione ci vuole semplicità. Non dire
inai: — Se mi confesso della tal cosa, che dirà il
mio confessore o che penserà di me? — No, no! pensi
egli e dica quello che vuole; quand'ei mi abbia dato
l'assoluzione ed io abbia fatto il mio dovere, mi
basta. (2)
Per la semplicità cristiana il punto primo e
principale è questa franchezza nell'accusa dei pecca-
ti, fatta senz'alcun riguardo all'orecchio del confes-
sóre, il quale è là per udire peccati e non vir-
tù, e peccati di qualsiasi genere. Coraggio dunque,
umiltà e disprezzo di te stesso nel discoprire la
(1) S. R. xxxix (t. IX, pp. 427-81).
(2) E. xiv (t. vi, p. 259).
484
tua miseria a colui, del quale Dio si vuol servire
come d'intermediario per guarirti. (1)
lo vorrei che in confessione si ponesse gran cura
a essere veritieri, semplici e caritatevoli (veritiero
e semplice sono una medesima cosa); dire chiaro
chiaro le proprie-colpe, senza orpello, senz'artifì-
cio, stando bene attenti che parliamo a Dio, al
quale niente è celato; esser molto caritatevoli, non
tirando mai in mezzo il prossimo. Per esempio, do-
vendoti confessare d'aver mormorato dentro di te
o con i confratelli, perchè il superiore ti ha parla-
to troppo brusco, non andar a dire che hai mormo-
rato della correzione troppo brusca del superiore,
ma di' semplicemente che hai mormorato contro il
superiore. Insomma, di' soltanto il male commesso,
non la causa nè quello che vi ti ha spinto; non
iscoprire mai nè direttamente nè indirettamente il
male degli altri, mentre accusi il tuo: non dare mai
motivo al confessore di sospettare chi sia che abbia
contribuito al tuo peccato. Non portare nemmeno
accuse inutili. Avrai avuto pensieri d'imperfezione
sul conto del prossimo, pensieri di vanità o anche
peggiori; avrai avuto distrazioni nelle preghiere:
se: vi ti sei fermato deliberatamente, dillo schietto
e netto, non limitandoti a dire che non hai fatto ab-
(1) L. CCLXXIII (t. xiii, pp. 7-8).

25.8 Page 248

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bastanza per stare raccolto durante il tempo dall'o-
razione; ma se sei stato negligente a scacciare una
distrazione, dillo, cbè le accuse generiche non ser-
vono a nulla in confessione (1).
È poi indispensabile specificare qualche cosa, al-
lorché altrimenti non si troverebbe materia di asso-
luzione. Allora si confessi qualche peccato speciale.
Il dire che ci accusiamo d'aver avuto moti d'ira, di
dispetto e simili, non serve; ira, dispetto sono passio-
ni, e i loro fnovimenti non sono peccati, non istando
in poter nostro d'impedirli. Perchè sia peccato, l'ira
dev'essere disordinata o deve portarci ad atti di-
sordinati. Bisogna dunque specificare qualche cosa
che sia peccato (2).
Contrizione e ringraziamento.
1. Per l'atto di contrizione, si abbia un sincero
dispiacere del male commesso e una ferma risoluzio-
ne di non commetterlo più; a tal effetto si dica molto
divotamente dinanzi a Dio il Confiteor, che è la
confessione generale dei Cristiani. Si vada in questo
senza tante sottigliezze, nè sforziamoci di piangere
e di sentire il nostro pentimento; basterà che la con-
ti) E. xv (t. vi, pp. 277-8).
(2) Ib. (p. 276).
6
trizione sia radicata in fondo al cuore e nel propo-
sito di emendarsi. Che se poi l'emenda non succe-
de sempre, non ismettiamo di sempre lavorarvi at-
torno: qui sta la nostra vera occupazione (1). Nè
per fare l'atto di contrizione si richiede gran tem.
po; dico anzi che per farlo bene non ci vuole qua-
si tempo, altro non bisognandovi che prostrarci da-
vanti a Dio in ispirito di umiltà e di pentimento
per averlo offeso (2).
2. Dopo la confessione non è il tempo di esami-
narci per vedere se siasi detto bene tutto quel che
si è commesso; ma allora è tempo di star bene rac-
colti vicino al Signore, con il quale ci siamo ricon-
ciliati, e di ringraziarlo de' suoi benefici, non essen-
dovi alcuna necessità d'indagare che cosa potremmo
aver dimenticato: diciamo invece con tutta sempli-
cità quello che ci viene in mente, e dopo non
pensiamoci più (3).
Del cambiar confessore.
Il cambiare continuamente confessore è una co-
sa contraria al sentimento di tutti i servi di Dio,
(1) E. xv (t. vi, p. 283().
(2) E. xvm (t. vi, p. 345).
(3) E. xw (t. VII, p. 259).
48

25.9 Page 249

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non clie all'esperienza e alla ragione. Non si deve
cambiar confessore, quando se n'è trovato uno buo-
no, a meno che non vi sia qualche motivo seno.
Da un lato è un grande inconveniente il legarsi
tanto a uu confessore, che, accadendo di non po-
térlo avere, si provi inquietudine o turbamento;
poiché questo è un attaccarsi allo strumento del no-
stro bene e non all'operatore di questo bene, che
é Dio, e quindi si perde la vera libertà. Ma, d'altra
parte, l'andar cambiando senza motivo è uno svi-
gorirsi, dal che deriva che la complessione del no-
stro spirito non venga mai riconosciuta dal nostro
medico spirituale; e come ci potrà allora dirigere?
Attienti dunque al tuo confessore; quando poi bi-
sognasse cambiarlo, fallo senza che lo spirito abbia
a risentirne (1).
§ 3. DELLA COMUNIONE.
Frequenza.
Io penso che la Comunione sia il mezzo per
giungere alla perfezione; ma bisogna riceverla con
il desiderio e lo sforzo di levar via dal cuore tutto
(1) L. CCXLIII (t. XII, p. 397).
4
quello che dispiace a Colui, che noi vogliamo acco-
gliervi (1).
Quanto, più spesso il tuo cuore riceverà il suo
Salvatore, tanto più perfettamente si convertirà a
Lui. L'esperienza mi ha fatto toccar con mano, in
venticinque anni di ministero a prò delle anime,
l'onnipotente virtù di questo sacramento divino per
fortificare i cuori nel bene, preservarli dal male,
consolarli, insomma per divinizzarli in questo mon-
do, purché la frequenza sia accompagnata da fede,
purità, divozione conveniente (2).
Non lasciare la santissima Comunione per pic-
coli mancamenti, che non provengono tanto da
cattiva volontà quanto da sorpresa e debolezza,
ma ricevila anzi come rimedio contro di quelli (3).
Non lasciarla nemmeno per causa delle tue distra-
zioni, freddezze, aridità, quando tutto questo pro-
viene dai sensi e dalla parte del tuo cuore che non
è interamente a tua disposizione; perchè a racco-
gliere il tuo spirito nulla varrà meglio del suo Iie,
nulla lo scalderà quanto il suo sole, nulla lo potrà
soavemente confortare come il suo balsamo (4).
(1) L. cd (T. XIII, P . 291).
(2) L. CMVI (t. xvi, pp. 57-8).
(3) L. DCLVIII (t. xv, p. 12).
(40 L. MCCCLXXXII (t. x v n i , 135-6).
489

25.10 Page 250

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Alla Comunione puoi accostarti anche con un
peccato veniale. I peccati veniali si cancellano con
un inchino a Dio, col prendere l'acqua benedetta,
col dire umilmente un mea culpa. Se la benedizio-
ne dei Vescovi cancella i peccati veniali, questo
si deve all'umiltà e all'atto di sottomissione di co-
loro che la domandano. Umiliamoci davanti a Dio,
ed Egli ci perdonerà; risolviamo di confessarci alla
prima occasione, e andiamo al Signore. Se per altro
lo scrupolo è forte e il mancamento grave, astienti
pure dolcemente dalla Comunione per rispetto alla
grandezza e purezza di Dio. Questa è cosa lode-
vole al certo; ma la confidenza filiale piace molto
più a Dio. Si fa una gran perdita lasciando la
Comunione (1).
Non esiste nè in Cielo ne in terra un cibo più
solido della santa Comunione (2). Lascia filosofare
gli altri sulle ragioni che hai di comunicarti. Se vuoi
renderne conto a qualcuno, gli potrai dire che hai
bisogno di mangiare sovente questo cibo divino,
perchè sei molto debole e senza tale ristoro il tuo
spirito facilmente perderebbe ogni vigore (3).
(1) E. xv (t. vi, pp. 284-5).
(2) L. DXXXI (t. x i v , p. 161).
(3) L. DCLXXXIV (t. xv, p. 51)
490
Buona digestione spirituale.
Scalda molto lo stomaco del santo amore di
Gesù Cristo crocifisso, per poter digerire bene spi-
ritualmente questa vivanda. Ma Come intendi tu
il digerire spiritualmente Gesù Cristo? Quelli che
digeriscono bene fisicamente, si sentono rinvigorire
tutto il corpo per la distribuzione generale che si
fa del cibo a tutte le loro membra. Così quelli che
fan buona digestione spirituale, sentono che Gesù
Cristo, loro alimento, si effonde e comunica a tutte
le parti della loro anima e del loro corpo. Infatti
hanno Gesù Cristo nel cervello, nel cuore, nel pet-
to, negli occhi, nelle mani, nella lingua, nelle orec-
chie, nei piedi. Ma che cosa fa ivi dappertutto
questo Salvatore? Ripara, purifica, mortifica, vivi-
fica tutto. Ama nel cuore, intende nel cervello,
anima nel petto, vede negli occhi, parla nella lin-
gua, e così via: Egli fa tutto in tutto, sicché allora
viviamo non già noi, ma vive in noi Gesù Cristo
(1). Oh, quando, quando sarà questo? Frattanto io
ti addito il termine, a cui mirare, benché bisogni
contentarsi di arrivarvi a poco a poco. Teniamoci
umili, comunichiamoci senza timore: un po' alla
volta il nostro stomaco interiore si assuefarà a
(1) Galat., il, 20.
4

26 Pages 251-260

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26.1 Page 251

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questo cibo e imparerà a digerirlo bene. È cosa
di grande importanza il pigliare costantemente una
sola vivanda, clie s;a buona: lo stomaco allora fa
molto meglio l'ufficio suo. Desideriamo il Salvatóre
e nient'altroi.fatemo, spero, buona digestione (1).
Disposizioni.
Va' alla Comunione con tutta umiltà per corri-
spondere a Gesù, il quale per unirsi a noi si è an-
nientato e amorosamente abbassato sino a farsi no-
stro cibo, cibo di noi che siamo il pasto dei vermi.
Chi si comunica secondo lo spirito di Gesù, annienta
se stesso e dice al Signore: — Masticatemi, dige-
ritemi, annientatemi, convertitemi in voi. — Io non
trovo al mondo cosa alcuna che noi facciamo no-
stra più del cibo, da noi annientato per la nostra
conservazione; ora, il Signore è disceso fino a tale
eccesso d'amore da farsi cibo per noi. E noi, che
cosa non dobbiamo fare, perchè Egli ci possegga,
ci maneggi, ci mastichi, c'iughiotta e ci riughiotta,
disponga insomma di noi a suo talento? (2).
Persevera nella frequente Comunione: non po-
tresti fare alcun'altra cosa che valga tanto a ras-
(1) L. CDXXX (t. xiir, 357-8).
(2) L. MDXXIX (t. XVIII, p. 4 0 ® .
492
sodarti nella virtù (1). Il Signore, dopo aver detto
che nessuno era maggiore di san Giovanni Bat-
tista, soggiunse: Ma il più piccolo nel regno di
Dio, cioè nella Chiesa, è maggiore di lui (2). È
vero; il più piccolo dei Cristiani, comunicandosi,
supera in dignità san Giovanni. Che vuol dire
dunque che siamo così piccoli in santità? (3). Pur-
troppo io mi stupisco di essere ancora sì pieno di
me dopo essermi tante volte comunicato! Oh, caro
Gesù, fate una cosa sola con noi, affinchè noi dap-
pertutto non abbiamo altro respiro nè altro pal-
pito che per voi. Voi siete così sovente in me;
perchè io sono così di rado in voi? Voi entrate in
me; perchè io sono tanto fuori di voi? Voi state
nelle mie viscere; perchè non sono io nelle vostre
a cercare e a trovare quel grande amore, che ine-
bria i cuori? (4). Oh Salvatore del nostro cuore,
poiché ormai ci presenteremo tutti i giorni alla
vostra mensa per cibarci non solo del vostro pane,
ma di voi medesimo, nostro pane vivo e soprasso-
stanziale (5), fateci fare tutti j giorni buona e per-
ei) L. Dcxxxvra (t. xiv, p. 377).
(2) Lue., VII, 28.
(3) L. DCXCVIII (t. xv, p. 75).
(4) L. DCXCIIX (t. xv, p. 76).
( 5 ) JOAN., VI, 5 1 ; MATT., VI, 11.
493

26.2 Page 252

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fetta digestione di questo cibo perfettissimo e fate
che viviamo sempre olezzanti della vostra santa
dolcezza, bontà e carità (1).
(1) L. DCXXXVI (t. XIV, 375).
4,94
C A P O S E S T O - Delle virtù teologali.
La salvezza è mostrata alla fede, preparata alla
speranza, ma data solamente alla carità. La fede ad-
dita la strada che conduce alla terra promessa, come
colonna di nube e di fuoco, cioè chiaroscura; la spe-
ranza ci alimenta della sua manna soave; ma la ca-
rità è quella che vi c'introduce, come l'Arca dell'Al-
leanza, che ci apre il passaggio nel Giordano, cioè
al giudizio, e rimarrà in mezzo al popolo nella ter-
ra, promessa ai veri Israeliti, dove nè la colonna
della fede serve più di guida, nè si prende più in
cibo la manna della speranza (1).
I. LA FEDE.
§ 1. O G G E T T O E ATTO DELLA F E D E .
La fede ha per oggetto le verità rivelate da Dio
e consiste nell'adesione del nostro intelletto a queste
(1) Tr. de Vam. de Dieu, i, 6 (r.. iv, p. 3 9 ) .
495

26.3 Page 253

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verità, riconosciute dal medesimo belle e buone.
Quindi mentr'esso le crede, la volontà le ama, es-
sendo la bellezza oggetto dell'intelletto e la bontà
oggetto della volontà. Nell'uomo esterno la bontà
è desiderata dall'appetito concupiscibile e la bellez-
za amata dagli occhi; lo stesso accade nell'uomo
interno riguardo alle verità della fede, le quali
mentre, perchè buone, dolci e certe, sono amate
e avute care dalla volontà, sono pure tenute in pre-
gio dall'intelletto per la bellezza che in sè racchiudo-
no. Sono belle perchè sono verità, non potendosi
dare bellezza senza verità nè verità senza bellezza;
quindi è che le bellezze disgiunte da verità non
sono bellezze.
Ora, le verità della fede, appunto perchè certis-
sime verità, sono amate in grazia della bellezza loro,
che forma l'oggetto dell'intelletto. Dico amate, per-
chè, quantunque la volontà abbia per oggetto diret-
to del suo amore la bontà, tuttavia, rappresentan-
dole l'intelletto la bellezza delle verità rivelate, essa
ne discopre anche la bontà, e quindi ama a un tempo
la bontà e la bellezza dei misteri di nostra fede. Per
avere una gran fede è tanto necessario all'intellet-
to conoscerne la bellezza, che appunto per questo
il Signore, volendo attirare qualche creatura al co-
noscimento della verità, glie ne svela sempre la bel-
lezza, e così l'intelletto, sentendosene attratto o in-
496
vaghito, comunica la verità alla volontà, che l'ama
pure per la bontà e bellezza in quella riscontrate.
Poscia l'amore di queste due potenze alle verità co-
nosciute fa sì che, la persona lasci tutto per creder-
le e abbracciarle. Tatto questo si fa per via di astra-
zione. Dunque la fede non è altro che un'adesione
dell'intelletto e della volontà alle verità dei divini
misteri.
§ 2. ALCUNE QUALITÀ DELLA FEDE.
Fede morta, fede moribonda, fede viva.
La fede è la base di tutte le altre virtù, ma
specialmente della speranza e della carità: e ciò che
dico della carità, si applichi pure alla schiera di
virtù che ne formano il nobile corteggio. La carità,
quando va unita e congiunta alla fede, la vivifica;
dal che s'inferisce che vi ha una fede morta e una
fede moribonda. Fede morta è quella separata dalla
carità, separazione, per effetto della quale non si
compiono opere conformi alla fede professata? Han-
no questa fede morta molti Cristiani del mondo, che
eredono tutt'i misteri di nostra santa Religione, ma,
avendo una fede scompagnata dalla carità, non fan-
no cosa alcuna che risponda alla loro lede. Fede mo-
ribonda è quella non interamente disgiunta dalla ca-
49

26.4 Page 254

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rità. Questa fa qualche opera buona, ma di rado
e languidamente, perchè la carità non può stare in
un'anima che abbia la fede, senza più o meno ope-
rare: la carità bisogna che operi o che perisca, giac-
ché senza operare non potrebbe sussistere.
Come l'anima non può restare nel corpo senza
produrre azioni vitali, così la carità non può andar
congiunta alla nostra fede senza compier opere ad
essa conformi: non potrebbe essere diversamente.
Vuoi dunque conoscere, se la tua fede è morta o
moribonda! Guarda le tue azioni. Accade qui come
in una persona che stia per spirare: quando le viene
un deliquio o sembra spirata, le si posa una piuma
sulle labbra e la mano sul cuore; se l'anima vi è
ancora, si sente battere, si vede dalla piuma dinanzi
alla bocca che respira tuttavia, e sì conchiude con
tutta certezza che la persona, sebbene moribonda,
non è però interamente morta: giacché fa azioni vi-
tali, necessariamente l'anima vi è unita al corpo.
Ma quanSo si scorge che non dà segno di vita,
allora si dice senz'altro che l'anima se n'è partita e
che la persona è spirata.
La fede morta somiglia ad un albero secco, che
non ha più umore vitale; e quindi, allorché in pri-
mavera gli altri alberi mettono foglie e fiori, quello
non ne mette, perchè non ha la linfa che hanno
gli altri, non morti, ma solo ammortiti. Ora qui la
498
cosa è -ben diversa; poiché per quanto nell'inverno
questi siano esteriormente simili agli alberi morti,
nondimeno nella loro stagione portano foglie, fiori
e frutti, il che non fa mai un albero morto. Questo
è un albero simile agli altri, è vero; ma è morto,
perchè mai non fiorisce nè fruttifica. Così la fede
morta ha bensì la stessa apparenza di quella viva,
ma con la diversità- che la prima non reca mai fiori
nè frutti di opere buone, e la seconda ne produce
sempre 'e in tutte le stagioni.
Ciò avviene della fede per effetto della carità. Si
conosce dall'operare della carità, se la fede sia morta
o moribonda; quando non produce opere buone,
diciamo che è morta, e quando le opere sono da
poco e fatte a stento, diciamo che è moribonda. Ma,
se vi è una fede morta, ve ne sarà un'altra viva,
contraria alla prima. Questa è ottima, perchè, es-
sendo strettamente unita alla carità e da essa vi-
vificata, è forte, ferma e costante, e compie molte e
grandi opere buone, che meritano la lode data, da
Gesù alla Cananea: 0 donna, grande è la tua fede (1).
La fede è grande a motivo delle sue opere buone,
ed anche per il gran numero di virtù che l'accompa-
gnano e che essa governa, quale regina intenta alla
difesa e conservazione delle divine verità. E nel-
(1) MATT., XV, 28.
499

26.5 Page 255

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l'obbedire di queste virtù a lei appare la sua eccel-
lenza e grandezza, allo stesso modo che i re appaiono
grandi non solamente quando posseggono molte
province con numerosi sudditi, ma quando insieme
hanno sudditi, che li amano e stan loro sottomessi.
Che se con tutte le loro ricchezze avessero sudditi
noncuranti dei loro ordini e delle loro leggi, non
si direbbero al certo grandi, ma piccolissimi re.
Così la carità unita alla fede non è soltauto seguita
da tutte le virtù, ma quale regina comanda loro ed
esse le obbidiscono e combattono per lei e secondo il
suo volere: donde provengono le numerose opere
buone della fede viva.
Fede vigilante e fede sonnacchiosa.
Vi è una fede vigilante, per effetto sempre della
sua unione con la carità; ma ve n'è pure un'altra
sonnacchiosa, greve e letargica, contraria alla pre-
cedente. È pigra a meditare i misteri della nostra
religione; vi è tutta così intorpidita, che nelle verità
rivelate non va a fondo; le vede però e le intende,
poiché non ha gli occhi interamente chiusi, essendo
non addormentata, ma sonnecchiante o assonnita.
Rassomiglia a certe persone sonnacchiose, le quali,
benché abbiano gli occhi aperti, non vedono tutta-
via quasi nulla, e benché sentano parlare, non
500
sanno né intendono che cosa si dica. Perchè? perchè
sono tutte intontite dal sonno. Così questa fede son-
nolenta ha bensì gli occhi aperti, perchè crede i
misteri, e intende abbastanza ciò che le si spiega,
ma con una specie di cascaggine e intontimento,
che le impedisce di coglierne bene il netto. Questa
fede rassomiglia pure a quelle persone che hanno
la testa pesante e la mente astratta: aprono gli
occhi, è vero, e tu le vedi pensierose e apparen-
temente assorte in qualche cosa, ma non san nem-
meno loro in che. Lo stesso è di quei che han la
fede sonnacchiosa; credono tutt'i misteri in genere,
ma- se domandi loro che cosa ne capiscano, non ne
sanno niente: e una fede sì addormentata corre pe-
ricolo di venir assalita e vinta da diversi nemici ed
anche di cadere in rovinosi precipizi.
Invece^ la fede sveglia non solo fa opere buone
come quella viva, ma penetra con acume e afferra
con prontezza le verità rivelate; è attiva e diligente
a ricercare e abbracciare quanto valga ad accrescer-
la e fortificarla; vigila e scopre molto da lontano
tutt'i suoi nemici; sta sempre alle vedette per iscor-
gere il bene e schivare il male; si mette in guardia
da ciò che potrebbe mandarla in rovina, e desta
com'è, procede con passo fermo ed evita facilmente
di dare in precipizi.
Questa fede vigilante è accompagnata dalle quat-

26.6 Page 256

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tro virtù cardinali: ha la fortezza, la prudenza, la
giustizia, la temperanza, e se ne arma come di co-
razza per respingere i suoi nemici, sicché sta in
mezzo a loro ferma, invitta e incrollabile. È tanto
forte, che non paventa nulla, perchè non possiede
solamente la forza, ma conosce questa for$a e sa
dove si fondi, sulla Verità per essenza. Ora, non
vi è cosa forte come la verità, che costituisce il nerbo
della fede. Oli uomini hanno questa forza, hanno
potenza e signoria su tutti gli animali; ma perchè
non conosciamo di averla, sentiamo una paura da
deboli e codardi .e fuggiamo a guisa di allocchi
dinanzi alle bestie. La forza della fede invece le
deriva dal conoscere di averla; ond'è che ne fa
uso nelle occasioni e mette in fuga tutt'i suoi ne-
mici.
La fede si vale della prudenza per acquistare
con che fortificarsi e accrescersi, poiché non si tien
paga di credere tutte le verità rivelate da Dio e
presentate dalla Chiesa, condizione indispensabile
per salvarsi, ma sta desta per iscoprirne sempre di
nuove, e oltre a ciò le approfondisce per trarne il
succo e il midollo, di cui si alimenta, si diletta, si
arricchisce e si avvantaggia. Questa prudenza non è
quella di tanti mondani, studiosissimi di accumulare
roba, onori e altre bagattelle, che li fan ricchi e rag-
guardevoli agli occhi degli uomini, ma che loro non
g'ovano punto per la vita eterna. Che falsa pru-
denza! quand'anche essa mi faccia padrone di città,
principati e reami, che mi varrà se cou tutto quello
andrò perduto? che mi servirà la mia bravura, se
l'adopero per l'acquisto di cose transitorie in questa
vita mortale? Certo è che tutta la fortezza e pru-
denza del mondo, se io non me ne servo per la vita
eterna, valgono un bel nulla.
Eppure vi è tanta prudenza umana! Vi si ricorre
iu tanti e tanti modi, e certo la maggior parte dei
nostri mali deriva da questa falsa prudenza. Ma
parliamone qui solamente nei riguardi della fede.
La maggioranza dei Cristiani che hanno la fede (e
bisogna averla per essere tali) credono tutto ciò che
si deve credere per salvarsi. Ebbene, dice San Ber-
nardo (1), sarete salvi, se crederete e farete quanto la
fede v'insegna richiedersi per ottenere la vita eterna.
Poco è necessario: credere tutt'i misteri della nostra
religione e osservare i comandamenti di Dio. La pru-
denza dei mondani si contenta di ciò e non vuol
fare nulla più del necessario per aver la vita eterna
e fuggire quanto possa cagionare loro la dannazione.
Voi dunque non operate per Iddio, ma unicamente
per voi, dacché la vostra prudenza non si spinge
più là di ciò che sapete potervi preservare dalla
(1() Ser. xxiv in Cani.
503

26.7 Page 257

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perdizione. Voi non siete quei servitori vigilanti (1)
che tengono sempre gli occhi fissamente rivolti alle
mani dei padroni (2), solleciti e attenti a fare quanto
sanno poter rendere accetti i propri servigi. Tali ser-
vi dimostrano c'osi chiaramente di non operare per
sè, ma per l'amore che portano al padrone; poiché
mettono tutta la prudenza non solo a compiere i lor
doveri verso di lui, ma anche a fare ciò che scorgono
tornare di suo gradimento. Questi sono servitori fe-
deli (3); avranno quindi la vita eterna e per soprap-
più una gloria e soavità grande nel godimento di
Dio.
Vi sono molti, scrive san Bernardo (4), che di-
cono: — Io osservo i comandamenti di Dio. — Eb-
bene, sarai salvo, ecco la tua ricompensa. — Io fac-
cio quello che so doversi fare per salvarsi. — Eb-
bene, avrai la vita eterna, ecco la tua ricompensa;
ma sarai intanto giudicato servo inutile (5). Ora,
la fede vigilante non opera cosìr essa serve Dio
non da servitore mercenario, ma fedele, usando la
sua fortezza, prudenza, giustizia e temperanza a
(1) Lue., XII, 37.
(2) Ps. CXXII, 2.
(3) MATT., XXV, 21, 23.
(4) De jraecept et dispens., xv.
(5) MATT., XXV, 30.
fare tutto ciò che sa e conosce tornar gradito al
Signore. Non pratica dunque solo ciò che è richiesto
per la salvezza, ma studia, abbraccia ed eseguisce
fedelmente tutto quello che le serve per avvicinar-
si di più al suo Dio.
Fede attenta.
Vi è un'altra qualità della fede, che è l'attenzio-
ne. La fede attenta è molto grande ed eccellente,
perchè oltre a essere viva e vigilante, tocca me-
diante la sua oculatezza il colmo della perfezione.
Una fede di tal fatta aveva la Cananea (1); vediamo
dunque come la fede di quella donna fosse grande
a motivo di quest'attenzione. 11 Signore, essendosi
recato dalla parte di Tiro e Sidone, e volendosi na-
scondere per non manifestare la sua gloria, pensò
di ritirarsi in una casa per non essere veduto o scor-
to; poiché, crescendo la sua rinomanza di giorno
in giorno, era seguito da gran folla di gente, at-
tirata dai miracoli e dalle opere meravigliose, ch'ei
faceva. Volendosi dunque nascondere, entrò in una
casa vicina. Ma ecco una donna pagana, che vigile
e attenta spiava quando passasse il Salvatore,
di cui udiva tante meraviglie. Al suo passaggio la
(1) MATT., XV, 21-28.
505

26.8 Page 258

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Cananea, che era tutt'occhi, andò a fargli la sua
supplica, esclamando: Signore, figlio di Davide, abbi
pietà di me, perchè la mia figliuola è malamente tor-
mentata dal demonio. Vedi un poco la fede grande
di questa donna: domanda semplicemente al nostro
Divin Maestro che abbia pietà di lei e crede che,
se egli avrà pietà, non occorrerà altro per guarire
e liberare la sua figliuola, tormentata dallo spirito
maligno. La sua fede non sarebbe stata così grande
senza l'attenzione a ciò 'che si sentiva dire del Si-
gnore e al concetto che ne derivava. Coloro che lo
seguivano o stavano nelle case vicine a quella in
cui egli era entrato, ne avevano pur visto e udito
le meraviglie e i miracoli, coi quali confermava la
dottrina da lui insegnata; avevano anche tanta fede
quanto la Cananea, perchè molti credevano di lui
ciò che se ne diceva: ma la loro fede non era grande
come la fede di quella donna, perchè non era at-
tenta come la sua.
Questo noi vediamo ordinariamente nella gene-
ralità degli uomini del mondo. Ecco persone che
stanno riunite a discorrere familiarmente di cose
belle e sante: un avaro sentirà benissimo ciò che si
dice, ma se nel partire gli si chiederà di che cosa siasi
ragionato in quella conversazione, non saprà ripe-
tere una parola. E perchè? Perchè- non istava at-
tento a quel che si diceva, ma aveva l'attenzione
al suo tesoro. Lo stesso un voluttuoso: benché sem-
bri ascoltare la conversazione, tuttavia non si ri-
corderà più di nulla, perchè fa più attenzione alla
propria voluttà che ai discorsi altrui. Chi invece
presta tutta l'attenzione alle cose che si dicono,
ripeterà molto bene quanto avrà udito. Perchè ve-
diamo che si cava sì poco profitto dalle prediche
o dalla spiegazione e insegnamento dei misteri o
dalla loro meditazione? Perchè la fede, con cui si
ascolta o si medita, non è attenta: per questo si
crede, ma non con grande fermezza. La fede della
Cananea non era di tal fatta. 0 donna, grande è la
tua fede, non solo per l'attenzione con cui ascolti
e credi ciò che dice il Signore, ma anche per l'at-
tenzione che metti nel pregarlo e presentargli la
tua supplica. L'attenzione usata da noi nell'ascol-
tare i misteri della nostra religione e nel meditar-
li e contemplarli rende senza dubbio la nostra fede
più grande (1).
Fede nuda e semplice.
Le verità della fede talvolta piacciono al cuore
dell'uomo, non perchè Dio le ha rivelate di sua bocca
e proposte per mezzo della Chiesa, ma perchè ci
(1) S. R. LW (t. x, pp. 215-224).
507

26.9 Page 259

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vanno a genio, e noi vi andiamo a fondo e facil-
mente le intendiamo e le troviam conformi alle no-
stre inclinazioni. Per esempio: che dopo questa vita
mortale ci sia un paradiso, è una verità di fede che
a molti torna gradita, perchè dolce e soddisfacente;
che Dio sia misericordioso, sembra generalmente ot-
tima cosa e vi si crede di leggieri, insegnandolo anche
la filosofìa: ciò risponde al nostro gusto e desiderio.
Ora, non tutte le verità di fede sono di tal fatta:
così, per esempio, che esista un inferno eterno a
punizione dei malvagi, è verità di fede, ma verità
amara, paurosa, spaventevole, che non crediamo
volentieri, ma perchè costretti dalla parola di Dio.
Qui, io dico anzitutto: la fede nuda e semplice
è quella, per cui crediamo le verità della fede sen-
z'alcun pensieio di dolcezza, soavità e consolazione
gustate in esse, ma con il puro assenso dell'intel-
letto all'autorità della parola di Dio e dell'insegna-
men'o della Chiesa, sicché si credono le verità amare
non meno delle dolci e gradevoli. In tal caso la no-
stra fede è nuda, perchè spoglia di soavità e di-
letto; è semplice, perchè scevra di soddisfazione per-
sonale.
In secondo luogo, vi sono verità rappresenta-
bili con l'immaginazione: per esempio, che il Signore
sia nato in una mangiatoia, che sia stato portato
in Egitto, che sia stato crocifisso, che sia salito al
508
cielo. Ve ne sono altre che con l'immaginazione
non si possono assolutamente raffigurare: per esem-
pio, la verità della santissima Trinità, l'eternità, la
presenza corporale de! Signore nel santissimo Sa-
cramento dell'Eucaristia; tutte le quali verità sono
vere in un modo, che la immaginazione non può af-
feri are, non sapendo noi immaginare come sia ciò,
ma credendole tuttavia fermamente e semplicemente
con l'intelletto, ass'curatone solo dalla parola di Dio.
Fede davvero nuda, perchè dispogliata d'ogni im-
maginazione; fede perfettamente semplice, perchè
non accompagnata ad altre azioni, salvo quella del-
l'intelletto, che puramente e semplicemente abbrac-
cia tali verità sull'unica guarentigia della parola di
Dio. Questa fede così nuda e semplice è la fede pra-
ticata dai Santi, e praticata fra sterilità, aridità, ri-
pugnanze e tenebre.
Vivere nella verità e non nella menzogna è con-
durre una vita interamente conforme alla fede nuda
e semplice, secondo le operazioni della grazia e non
secondo le operazioni della natura; perchè in noi
immaginazione, sensi, sentimento, gusto, consola-
zioni, considerazioni possono cadere in inganno e
in errore. Quindi il vivere secondo queste cose è
vivere nella menzogna o almeno in continuo peri-
colo di menzogna; com'è detto dello spirito mali-
9

26.10 Page 260

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gno, che non perseverò nella verità (1), perchè avuta
la fede sul principio della sua creazione, se ne di-
scostò, volendo con prescindere dalla fede fermarsi
a considerare la propria eccellenza, sicché pretese
di fare se stesso il fine, contro le esigenze della fede,
e secondo le disposizioni della natura, che lo por-
tarono all'amore eccessivo e disordinato di se stesso.
Ecco la menzogna, in cui vivono tutti coloro che
non aderiscono con semplicità e nudità di fede alla
parola del Signore, ma vogliono vivere conforme alla
prudenza umana, formicaio di menzogne e di vane
cosiderazioni (2).
§ 3. NELLA FEDE È VERITÀ,
FUORI DELLA FEDE VANITA.
Sta scritto che il Signore era pieno di grazia e
di verità (3). Per noi egli fu ricolmo di questi doni;
perciò si affaticava per farli ricevere agli Scribi e
Farisei, e corrucciato diceva (4): Perchè non volete
credere alle mie parole, che non sono vane, ma ve-
d i JOAN, VILI, 44.
(2) L. MDCCCLIV (t. xx, pp. 195-6).
(3) JOAN., I, 14.
(4) JOAN., WII, 46.
510
rissime? Tutto il bene dell'uomo sta nel ricevere
questa verità della parola divina e nell'attenersi ad
essa, come invece tutto il male degli Angeli e de-
gli uomini provenne dall'essersene discostati, an-
dando a cadere nella vanità.
È regola generale che, lasciando la verità, noi
ci appigliamo più o meno alla vanità, la quale è
un difetto di verità che ci fa traboccare nell'in-
ferno. L'Angelo, distornandosi dalla considerazione
di Dio, verità eterna, e allontanando gli occhi del-
l'intelligenza da quell'oggetto infinitamente ama-
bile, li abbassò subito a mirare la propria bellezza,
i-fri esso di quella Bellezza somma, a cui doveva te-
nere sempre rivolto lo sguardo. E nel guardarsi l'in-
felice s'ammirò, s'invanì e invanendosi fu perduto
e condannato alle fiamme eterne: così per non es-
sersi mantenuto nella verità andò a perire nella va-
nità. La fede gl'insegnava che quant'egli aveva,
era di Dio e che a lui solo è dovuto il supremo o-
nore: rimossa l'intelligenza dalla considerazione di
questa verità, egli tosto commise quell'atto insop-
portabile di vanità col dire(l): Ascenderò e sarò si-
mile all'Altissimo. Malvagio proposito e malaugu-
rato disegno, che fu la sua rovina per sempre.
Parimente i nostri progenitori, per non essere
( l ) Is., xiv, 13, 14.

27 Pages 261-270

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27.1 Page 261

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rimasti nella verità, si meritarono una condanna
eterna, se Dio per merito del Figliuol suo non a-
vesse accordato loro il perdono. Poiché lo spirito
maligno, incontrata Eva che, invece di considerare
le grazie grandi fattele da Dio, se n'andava ozio-
samente per il paradiso terrestre, le propose di ab-
bandonare la meditazione di quella verità: — Se
mangerete il frutto vietato, morirete. — Qual ve-
rità più importante di questa, giacche Dio stesso
aveva proferito tale sentenza? Eppure V antico ser-
pente (1), messosi a persuadere la donna, le parlò su
per giù così: — Non interpretate tanto rigorosa-
mente le parole del Signore: voi non morirete. Nu,
non pensate tanto alla morte: è un pensiero che
vi renderà malinconici, .è un argomento uggioso. —
E la poverina, stando là ad ascoltare simili fan-
donie, si lasciò convincere a segno che tirò nel
peccato anche il marito, facendogli trasgredire il
comando di Dio col mangiare il frutto dell'albero
proibito. "Oh, quanto sarebbe stato meglio che avesse
perseverato nella meditazione! così non sarebbe ca-
duta dalla verità nella vanità, essendo stata ap-
punto la vanità a farla prevaricare, come a tutti
è noto.
D'allora in poi i tìgli di Eva sono stati presi
(1) Apoc., XII, C).
512
da questo spirito d'orgoglio, che li muove alla caccia
degli onori, delle ricchezze, dei piaceri e simili, tutte
cose da pazzi, perchè servono più ad allontanarli
dalla verità che non a tenerveli attaccati. L'espe-
rienza d'ogni giorno ce lo dimostra. Non vediamo
purtroppo, come coloro, i quali sono affezionati a
queste cose vane e frivole, non pensino o almeno
con la loro cattiva condotta mostrino di non pen-
sare alla verità che esiste un Paradiso pieno d'ogni
contentezza e felicità per quanti vivranno nell'os-
servanza dei comandamenti di Dio, seguitando lui
per la strada dei suoi voleri? Ora, tali comandamenti
e Voleri sono diametralmente opposti alla vita da
essi menata, poiché si abbandonàno ai piaceri vili
e caduchi, benché sappiano che questi li prive-
ranno, se non si emendano, della gioia infinita. E
quanto li signoreggi la vanità, non si vede ancora
dal fatto di non riflettere alla verità che esiste un
inferno, dove stanno raccolti tutti i tormenti e guai
inimmaginabili per punire chi non teme Dio in
questa vita e non ne osserva i comandamenti? Ep-
pure questo genere di riflessioni ci è necessaris-
simo, se vogliamo perseverare nella pratica dei
nostri doveri.
E poi, se riflettessimo bene alla verità dei mi-
steri, che il Signore ci fa intendere nell'orazione,
quanto saremmo felici! Alla vista di Gesù morente
513
17. - E. CERI A, La vita religiosa ecc.

27.2 Page 262

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per noi in croce, che cosa non veniamo ad appren-
dere da lui? — Io sono morto per te, dice il divino
Amante; e che cosa esige da te la mia morte, se
non che, come io sono morto per te, così anche
tu muoia per me o almeno per me viva?— Oh,
q u a n t o ardore questa verità comunica alla volontà
nostra per farle amare teneramente Colui chè è sì
amabile e sì degno di essere amato! La verità è
l'oggetto dell'intelletto, come l'amore della volontà;
tostochè dunque l'intelletto accoglie in sè questa
verità che il Signore è morto d'amore per noi, oh,
la volontà si accende all'istante e forma vive aspi-
razioni di contraccambiare al possibile tanto amore.
Allora questi ardori fanno un braciere di desideri
di dar gusto all'Amante divino, sicché sembra che
per la volontà nulla più debba esser difficile, nulla
impossibile a fare o a soffrire, e un nulla sembra
ciò che fecero i Martiri a petto di ciò che essa vor-
rebbe fare. E va bene; perseveri in questa verità,
che tutto andrà egregiamente. In pratica però non
si fa così, perchè dalla verità appresa nell'orazio-
ne si passa alla vanità nell'azione; donde viene che
siamo angeli nell'orazione e, purtroppo, diavoli
nella conversazione e nell'azione, offendendo quel
Dio medesimo da noi riconosciuto sì amabile e sì
degno di essere obbedito.
Un altro esempio sia considerare il Signore che si
4
è annientato (1), abbassandosi con abbassamento
tale da non potersi comprendere. Dinanzi a questo
riflesso Dio ci suggerisce interiormente la verità,
che, se il nostro dolce Salvatore per darci l'esempio si
è umiliato cotanto, noi dobbiamo al certo umiliarci
cosi profondamente da restar inabissati nella cono-
scenza del nostro nulla. Ci sembra allora impossi-
bile che siamo mai per sentire ripugnanza a essere
umiliati; ma poi, venendo l'occasione, non si pensa
più alle risoluzioni prese, anzi siam così vani, che
la menoma ombra di scorno ci fa fremere, sicché
corriamo ai ripari per tema di riceverlo.
Parimente, il Signore ci ha insegnato che sono
beati i poveri (2), e iu generale si respinge questa
verità per darsi in braccio alla vanità, agognando
tutti d'acquistar ricchezze, sicché nulla loro manchi.
Ha detto il divino Maestro: Beati i pacifici, e tutti
vogliono essere temuti e guardati con paura; beati
i perseguitati per la giustizia, e tutti vogliono ven-
dicarsi e non tollerar nulla, per tema di venire in
dispregio; beati quei che piangono, e tutti nondi-
meno se la vogliono godere in questa vita caduca
e mortale, quasi fosse qui il luogo della nostra gioia.
E così dicasi delle altre beatitudini. Perchè dunque,
(1) Philipp., ir, 7.
(2) MATT., V, 3-11.
515

27.3 Page 263

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potrebbe il Signore domandare a noi come fece ai
Giudei, perchè non mi credete, se io v'insegno la
veritàt
Vi si erede, potremmo rispondere, ma non la si
pratica. Non sarebbe una scusa questa, come non
fu per i pagani, che, pur avendo riconosciuto che
esisteva un Dio, non l'onorarono qual Dio (1). Ci
meriteremo un castigo gravissimo, se, sapendoci sì
teneramente amati dal nostro dolce Salvatore, sa-
remo tanto cattivi da non amarlo con tutto il cuore
e a tutto potere, ricusando di metterci con tutte
le forze e con ogni diligenza a seguire gli esempi
da lui lasciatici nella sua vita, passione e morte.
Egli ci rivolgerà lo stesso rimprovero del Vangelo:
— Se io vi ho insegnato la verità da parte del mio
Padre celeste, perchè dunque noh mi credete? E
se credete che io dico la verità, perchè non l'accet-
tate e non vi conformate ad essa, ma vivete in
modo affatto contrario a ciò che essa esige da voi?
— Saremo così rei convinti e ci toccherà confessare
a nostra confusione che la colpa è nostra e che la
causa sta nella nostra malizia (2).
(1) Rom., I, 20, 21.
(2) S. R. LXIII (t. x. pp. 333-8).
516
§ 4. TENTAZIONI CÓNTRO LA FEDE.
Chi ama la fede, vorrebbe che non gli venisse
ueppur un pensiero contrario, e subitochè se ne
sente tocco, si attrista e si turba. Non bisogna es-
sere così geloso di questa purezza di fede da cre-
dere che ogni cosa la alteri. No, no, lascia che il
vento tiri: non prendere lo stormir delle foglie per
fragore d'armi. Un giorno io mi trovava presso
delle arnie, e alcune api mi si posarouo sul viso.
Feci per portarvi la mano e scacciarle. — No, mi
disse un contadino, non abbiate paura, non le toc-
cate, non vi pungeranno; se le toccate, vi mordono.
— Io gli credetti e neppur una mi punse. Credimi:
non temere le tentazioni, non le toccare affatto,
che non ti faranno male: tira avanti senza badar-
vi (1).
Nelle tentazioni mosseci dal maligno contro la
fede e la Chiesa si tenga la medesima tattica che
in quelle della carne: non discutere nè punto nè
poco, ma fare come facevauo i figli d'Israele con
le ossa dell'Agnello pasquale, che non tentavano
neppure di romperle, ma le gettavano nel fuoco (2).
(1) L. c c c v i (t. XIII, p. 8811.
(2) Exod., XII, 10, 46; JOAN., XIX, 36.

27.4 Page 264

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Non si risponda, non si faccia vista nemmeno di
sentire ciò clic il nemico dice: strepiti egli quanto
vuole alla porta, non si domandi neanche chi c'è.
— Va bene, mi dirai; ma mi dà fastidio, e col suo
fracasso impedisce a quei di dentro d'intendersi
fra loro. — Fa lo stesso: pazienza! si parli per via
di segni: bisogna prostrarsi davanti a Dio e stare a'
suoi piedi: da quest'umile atteggiamento dovrà ben
capire che tu sei di Dio e che gli chiedi aiuto anche
senza poter parlare. Ma soprattutto sta'ben chiuso
dentro e non aprire affatto la porta nè per vedere
chi ci sia nè per iscacciare l'importuno; si stan-
cherà una buona volta di far chiasso e ti lascerà
in pace. — Sarebbe ormai tempo! — mi dirai. Corag-
gio, il momento verrà: basta ch'ei non entri, e poi
non importa. Il suo battere e tempestare alla porta
è buon segno, perchè dimostra che non ottiene quel
che vorrebbe. Se l'avesse già ottenuto, non farebbe
più rumore, ma entrerebbe e starebbe lì. Notalo
bene per non cadere in iscrupolo.
Dopo questo rimedio, eccone un altro. Le tenta-
zioni contro la fede mirano dritto all'intelletto per
tirarlo a discutere, fra sogni e fantasie. Sai che
cosa devi fare mentre il nemico si ostina in dar
la scalata all'intelletto? Fa' una sortita dalla porta
della volontà e muovigli un attacco vigoroso; ap-
pena cioè la tentazione contro la fede si presenta
518
con i suoi: — Ma come è possibile ciò? ma come
qui? ma come là? — tu, invece di entrare in di-
scussione di parole col nemico, fa' in modo che la
tua parte affettiva gli si scagli energicamente con-
tro, e unendo alla voce interna anche l'esterna,
gridi: — Malvagio traditore! tu hai abbandonata
la Chiesa degli Angeli, e vorresti che io abbando-
nassi quella dei Santi! Sleale, infedele, perfido! tu
hai presentato alla prima donna il pomo di perdi-
zione, e vorresti che anch'io ne mangiassi! Vattene,
Satana; sta scritto: Non tenterai il Signore Dio tuo
(1), No, non discuto, non faccio contestazioni! Eva
volle discutere, e si perdette; Eva fece così, e fu
sedotta. Viva Gesù, nel quale io credo! viva la
Chiesa, a cui sto attaccato! — E simili fervorose
espressioni. Eivolgine anche a Gesù Cristo e allo
Spirito Santo, secondochè egli stesso ti suggerirà,
e così pure alla Chiesa dicendo: — Oh, madre dei
figli di Dio! inai e poi mai io mi separerò da te;
voglio vivere e morire nel tuo grembo. —
Non so se mi spiego. Dico che bisogna aiutarsi
con affetti e non con ragioni, con sentimenti e
non con riflessioni. È vero che in quel tempo di
tentazione la povera volontà è arida arida; ma
tanto meglio, colpirà più forte il nemico, che
(1) MATT., IV, 10, 7.
9

27.5 Page 265

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)
vedendo come, invecè di rallentare il tuo avan-
zamento, ti porge occasione di lare molti atti vir-
tuosi e specialmente di rinnovare la tua profes-
sione di fede, "finirà con l'andarsene.
In terzo luogo, gioverà infliggersi talvolta cin-
quanta o sessanta colpi di* disciplina, ovvero solo
trenta, secondo le disposizioni. È una ìicetta questa
che io ho trovata straordinariamente efficace per
un'anima di mia conoscenza. Certo, l'impressione
esterna è un diversivo al malessere interno e attira
la misericordia dì Dio; senza dire poi che il mali-
gno, vedendo colpire la sua partigiana e alleata,
la carne, teme e fugge. Ma di questo terzo rime-
dio si usi con moderazione e secondo il profit-
to che se ne ricava con l'esperimento di alcuni
giorni.
Alla fin fine, simili tentazioni sono tribolazioni
come tutte le altre e bisogna rassegnarvisi con
quelle parole della sacra Scrittura: Beato chi tollera
tentazione, perchè, quando sarà stato provato, riceverà
la corona di gloria (1). Ben pochi io ho veduti
progredire senza passare per questa prova. Ci
vuole pazienza: dopo le burrasche Dio manderà
la calma (2).
(l[i JAC., I, 12.
(2) L. ccxxxiv (t. xm, pp. 355-7).
§ 5. LA. PAROLA DI D I O .
Chi la predica.
Chi annuncia la parola di Dio s : a irreprensi-
bile e conduca una vita conforme al suo insegna-
mento; altrimenti non sarà accento nè ascoltato.
Perciò Dio proibisce al peccatore di annunciare
la sua parola (1). Al peccatore disse Dio: Perchè
fai tu parola de' miei comandamenti e metti bocca
nella mia alleanzaf Tu hai in odio la mia disci-
plina e ti sei gettato dietro le spalle le mie parole.
Quasi volesse dire: — Disgraziato! ardiresti inse-
gnare la mia dottrina con le tue labbra e diso-
norarla con la tua vita cattiva! Come vuoi che
l'accolgano, dopoché sia passata per una bocca
così puzzolente e infetta di malvagità? Non sia mai,
che io abbia un tal banditore de' miei voleri! — È
dunque vietato ai peccatori d'annunciare la santa
parola, per tema che gli ascoltatori la rigettino.
Ma questo non s'intenda di peccatori ordinari,
bensì di peccatori grandi e famigerati; se no, chi
l'annuneierebbe, se tutti gli uomini sono peccatori
e se chi dicesse il contrario mentirebbe impuden-
temente? (2). Neanche gli Apostoli furono senza
(1) Ps. XLIX, 16, 17.
(2) I JOAN., I, 8.
521

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peccato; chiunque pretendesse di non essere pecca-
tore, commetterebbe gravissima impostura e mostre-
rebbe il contrario di quel che asserisce nel punto
stesso di proferire tale menzogna. Ce lo dice chiaro
e netto sant'Agostino (1), quando scrive che la do-
manda del Pater noster, da noi recitato ogni gior-
no: Rimetti a noi i nostri debiti, non esprime sol-
tanto umiltà, ma anche verità, perchè peccati se
ne fanno ogni momento, per, la fragilità della no-
stra natura.
Ora, benché tutti gli uomini siano peccatori,
non debbono però tutti tacere e astenersi dall'inse-
gnare la parola di Dio, ma quelli soli che menano
una vita affatto contraria alla divina parola. E se
nondimeno accada che questa ci sia presentata dai
cattivi, non la rigettiamo, ma accogliamola, imitan-
do le api, che raccolgono il miele da tutt'i fiori
del prato, salvo che da uno o due; e quantunque
alcuni di questi fiori siano velenosi ed abbiano nella
loro sostanza del tossico, esse ne cavano destra-
mente il miele. Il Signore stesso volle che un Pro-
feta imparasse da un'asina (2); egli permise che
quel cattivo arnese di Pilato ci proclamasse la gran-
de verità, che il nostro divin Maestro era Gesù,
(1) De civ. Dei, xix, 27.
(2) Num., xxn, 28-30.
522
cioè Salvatore, titolo fatto da lui porre sulla croce,
con dire per giunta: — Così è, l'ho detto io (1).
— Caifa, il peggiore degli uomini, proferì anche
quella sentenza verissima, esser necessario che mo-
risse un uomo per la salvezza del popolo (2).
Di qui si vede che, quantunque non bisogni sti-
mare nè approvare la vita cattiva dei malvagi e
peccatori, non dobbiamo tuttavia disprezzare la
parola di Dio annunciataci da loro, ma farne pro-
fitto. Non badiamo, dice un grande Dottore (3), se
colui, il quale ci addita la strada della virtù, sia
buono o cattivo; quando buona sia la strada, infi-
liamola e tiriamo innanzi tranquillamente. Che co-
sa deve importare a noi, che ci si dia del balsamo
in una ciotola o in un vaso prezioso? se ci guari-
sce le piaghe, questo ci deve bastare.
Non guardiamo alla persona" che ci predica o
c'insegna, ma soltanto se quello che ci dice, è buo-
no o cattivo; stiamo pur sicuri che la parola di
Dio non è buona o cattiva a causa di chi la espo-
ne o spiega, ma che in se stessa porta la sua bon-
tà senza venir magagnata dalla pravità di chi l'an-
nuncia. La Scrittura nella sua sapienza ce lo con-
t i ) MATT., 1, 2 1 ; JOAN., XIX, 22.
(2) JOAN., XI, 49, 50; xvin, 14.
(3) Cfr. S. GREG. M., In Job, v, 5.
3

27.7 Page 267

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ferma (1) quando ci manda dalle bestie anche più
meschine, anche più ripugnanti a imparare come
regolarci. Così ci dice di andare dalle formiche pe>*
apprendere da esse la diligenza e la previdenza
nelle cose nostre, perchè accumulano durante la
buona stagione il nutrimento per la stagione se-
guente disadatta al raccogliere. E il Signore stesso
non ci dice d'imitare la prudenza e avvedutezza
del serpente e la semplicità' della colomba? (2).
Parimente in tanti altri luoghi della Scrittura.
Tuttavia, per dirla qui alla buona, chi insegna,
dov'essere persona da bene, se vuole che la dot-
trina venga ricevuta e approvata; se no, la sua
vita cattiva farà ributtare e svalutare quanto dirà,
quasi fosse vituperevole e cattivo. Si tragga frutto
dalla parola di Dio, annunciata non importa da
chi; ma tuttavia i peccatori che non hanno la
volontà di emendarsi, ma sono ostinati nella loro
malvagità, fanno malissimo a esporla e a dire le
lodi dell'Altissimo, perchè mettono questa divina
parola a rischio di venir disprezzata per causa
della loro mala condotta (3).
(1) Prov., vi, 6-8; xxx, 25.
(2) MATT., x, 16.
(3) S. R. LXIII (t. x, pp. 329-332).
524
Chi l'ascolta.
Si porti gran rispetto a chi annuncia la parola
di Dio. Vi è grave obbligo di farlo; perchè i pre-
dicatori ci si presentano quali messaggeri, che
vengono da parte di Dio per indicarci la strada
della salute. Come tali si riguardino e non come
semplici uomini: quantunque non parlino bene
come gli spiriti celesti, non si deve per questo
detrarre nulla all'umiltà e riverenza, con cui si
ha da ricevere la parola di Dio, che è sempre la
stessa, sempre pura, sempre santa, come se ci
venisse annunciata per bocca degli Angeli. Io os-
servo che quando scrivo a una persona su cattiva
carta e quindi con cattivo carattere, essa mi rin-
grazia affettuosamente non meno di quando le scrivo
su carta migliore e con miglior calligrafia. Perchè
questo, se non perchè essa non bada nè alla carta
uien buona nè alla scrittura cattiva, ma soltanto
a me che le scrivo? Così facciamo con la parola
di Dio: non guardiamo a chi ce la reca o a chi ce
la espone; ci basti sapere che per comunicarcela
Dio si serve di quel predicatore. E al vedere che
Dio l'onora tanto da parlare per bocca di lui, come
potremmo noi esimerci dall'onorarne e rispettarne
la persona? (1).
(1) E. xv (t. vi, pp. 278-9).

27.8 Page 268

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Ma perchè tante volte quelle parole passano per
un orecchio ed escono per l'altro? come mai pro-
ducono sì scarso frutto? Perchè vi portiamo sì
poca attenzione, sì poca fede e divozione, che non
possono fare, i loro effetti nei nostri cuori. Cre-
diamo, sì, a quel che si dice; ma è una fede son-
nolenta: ecco perchè le prediche e le istruzioni
non ci arrecano profìtto. E poi le sante esortazioni
ci. sono rivolte, come dicevo, da uomini, incapaci
di dare ai loro ragionamenti tutta la forza ed ef-
ficacia da essi desiderata. Hanno un bel gridare,
esortare, affannarsi: se la virtù di Dio non li ani-
ma, e se tu da tua parte non ci vai ben disposto,
non ti rimarrà nulla in cuore (1).
In primo luogo adunque prepariamoci, e non
andiamo ad ascoltare la parola di Dio con uno
spirito noncurante, come faremmo per qualsiasi
vano discorso. La moglie che non portasse al
marito più amore che allo staffiere, non lo amereb-
be abbastanza nè debitamente; e così pure il figlio
che amasse suo padre con amore uguale a quello
che ha per il domestico; parimente chi ascoltasse
la predica con lo spirito e l'attenzione con cui
ascolterebbe un racconto ameno o altro argomento
simile, non la sentirebbe a dovere: e se pigliasse
(1) S. R. xxxv (t. IX, p. ,3'57>.
gusto ugualmente nell'una e nell'altra cosa, si po-
trebbe affermare con certezza che non ama abba-
stanza la parola di Dio. Per ben disporci e met-
terci in grado di sentirla come vi siamo tenuti, di-
latiamo i nostri cuori alla presènza di Dio a fine
di ricevere questa celeste rugiada, come fece Ge-
deone che stese il suo vello nel prato, perchè venisse
irrorato dalle pioggie e dalle acque del cielo (1).
Dischiusi che abbiamo così i nostri cuori davanti
a Dio con fermi propositi di trar profìtto dalle cose
che ci saranno dette in suo nome, stiamo bene at-
tenti, pensando che ci parla Iddio per farci cono-
scere la sua volontà. Ascoltiamo con animo divoto
e attento le verità proposteci dal predicatore; met-
tiamoci le sue parole sul capo, ad imitazione degli
Spagnoli, che, ricevendo una lettera da persona
ragguardevole, se la posano subito sulla testa in
segno d'onore verso chi l'ha scritta, come anche per
indicare la propria docilità agli ordini ivi contenuti.
Facciamo così anche noi; sentendo la parola di Dio
a predica, mettiamocela sulla testa, non già in modo
visibile e reale, ma spiritualmente. Sottomettiamoci
obbedienti alle cose insegnateci intorno ai voleri che
Dio ha riguardo alla nostra perfezione e al nostro
avanzamento spirituale: ascoltiamo, risoluti di farne
(1) ]udic., vi, 37, 38.
527

27.9 Page 269

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prò. Non badiamo mai alla qualità di chi ci annun-
cia la santa parola: poco importa ch'ei sia buono
o cattivo, purché quel che dice, sia utile e confor-
me alla nostra fede; Dio non ci domanderà se quei
che ci hanno insegnato, fossero santi o peccatori,
ma se noi avremo profittato di quanto ci han detto
da sua parte e se l'avremo accolto con animo umile
e riverente.
Notevolissimo a questo riguardo è l'esempio del
grande san Carlo: egli non leggeva mai la sacra
Bibbia se non in ginocchio, a capo scoperto, con
somma riverenza, pensando che Dio medesimo gli
parlasse, man mano che leggeva. Così bisogna fare
per ben leggere e udire la divina parola, se si vuole
che torni di giovamento.
Ma ti debbo ora togliere una spina, che ti si po-
trebbe ficcare molto dentro nel piede, volendo tu
metterti subito in cammino per eseguire quanto ti
ho fin qui esposto. Potresti obiettarmi: — Voi
avete detto che per ascoltar bene la parola di Dio
e fare che ci torni di giovamento, bisogna ascoltarla
con attenzione e con animo divoto e riverente. Pur-
troppo, finora, io non l'ho mai ascoltata così. —
Ebbene, su, procura di farlo d'ora in avanti. —
Ma come riuscirvi? io ho la mente distratta, sono
così travagliato da aridità e da languore interno,
che non provo gusto in niente. Alla predica ho la
528
testa così assalita da distrazioni, che mi ci vuole
molta fatica per tenerla a segno, sicché ascolti ciò
che il predicatore dice: mi sembra di non averci
gusto né divozione, e quasi nemmeno il desiderio
di mettere in pratica quel che sento. —
Quando ci s'insegna che bisogna ascoltare la pa-
rola di Dio con attenzione, divozione e riverenza,
questo si deve intendere come quando si parla del-
l'orazione e, in genere, di vita spirituale. Non si
vuol già dire che bisogni avere i sentimenti di di-
vozione e di riverenza nella parte inferiore del-
l'anima, dove ordinariamente hanno sede quei di-
sgusti e quegl'impedimenti. Basta che nella parte
superiore stiamo con riverenza e abbiamo l'inten-
zione di trarre profitto; dato che sia così, non tur-
biamoci, quasi non fossimo ben disposti a ricevere
la parola di Dio: con la preparazione fatta nella
volontà e nella parte più elevata dello spirito,
avremo secondato abbastanza la Bontà divina, che
si contenta di poco e non bada a tutto quel che
succede nella parte inferiore (1).
Vi è una seconda cosa da fare. Ascoltare la pa-
rola di Dio non è tutto: osservarla bisogna, e per
osservarla fa d'uopo masticarla e inghiottirla. Ma-
sticare che è se non meditare? Per mangiare cibi
(Ili S. R. LXIII (t. x, pp. 338-341).
9

27.10 Page 270

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corporali, si mettono in bocca, poi si masticano e
si mandano giù; così per questa manducazione spi-
rituale si prende il cibo che è nutrimento dell'ani-
ma, pòi si mastica, cioè si medita, indi s'inghiotte
e s'assimila. E qual è il cibo spirituale, se non la
parola di Dio, vero cibo dell'anima, secoudocliè
l'ha dichiarato egli stesso in tanti luoghi della sa-
cra Scrittura? Bisogna dunque prenderla. Ma co-
me? Nella bocca dell'anima, cioè nelle orecchie del
corpo, per le quali viene lino a noi; perchè come
non sarebbe possibile mangiar i cibi corporali sen-
z'averli prima presi in bocca, così non potremmo
masticare, cioè meditare la parola di Dio, senz'a-
verla ben udita. Dunque beati, dice il Signore, quei
che ascoltano la parola di Dio (1) perchè questo
è già buon segno che la osserveranno.
Il Signore nell'Antico Testamento (2) non voleva
sacrifici d'animali che non ruminassero. Ecco per-
chè corvi, orsi, leoni e simili erano dichiarati im-
mondi e non venivano mai adoperati per i sacrifici.
Sono animali che ingoiano senza masticare; perciò
Dio nell'antica Legge li ributtava, mentre invece
gradiva i ruminanti, come tori e agnelli, che erano
le vittime ordinariamente offerte e immolate. Oh,
(1) Lue., xi, 28.
(2) Lev., xi, 1-26; Deut., xiv, 6-8.
se si conoscesse l'importanza di questo ruminare!
Son molti purtroppo coloro che ascoltano la divina
parola, e poi la trangugiano alla guisa dei corvi,
degli orsi e dei leoni, senza ruminarla. Di qui la
perdita di tanti (1), dichiarati per questo immondi
e non fatti per il sacrificio. Ricevono nella bocca
dell'anima, cioè ascoltano con le orecchie del corpo
ciò che si dice sull'orrore dell'inferno, sulla bellezza
del paradiso e cose simili; ma inghiottono e non
ruminano, sicché non posson digerire nè trarne nu-
trimento, ed è per loro come se nulla fosse.
Perchè i cibi facciano prò, vi si richiede una
buona digestione, mediante la quale, scesi nello sto-
maco, si convertano in sangue, che, scorrendo per
tutte le vene, si cangi poscia in noi stessi. Ciò in-
tendeva benissimo san Bernardo, che esortava i
suoi religiosi a serbare diligentemente il pane della
parola di Dio (2): « State ben attenti a serbare il
vostro pane, se ne avete, diceva loro; riponetelo
dove non vi possa esser rubato dai ladri. Ma come
farete a conservarlo bene? Ecco, soggiunge il gran
Santo: vedete un povero che abbia un pane den-
tro un cofano o nella credenza: è contento e pensa
che ne avrà abbastanza per la sera e per il dì ap-
(1) Cfr. JER., IX, 21.
(2) Cfr. Ad Milites templi, VI; ser. ni in Dom. Palm., 4.

28 Pages 271-280

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28.1 Page 271

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presso. Oh, poveretto! non sai che ivi non è al sicu-
ro? Potrebbero venire i ladri a rubarlo in quell'ar-
madio. E non potrebbero anche mangiartelo i topi?
Se vuoi fare una cosa buona, mangialo; non basta:
digeriscilo bene e così convertilo nella tua sostanza ».
San Bernardo vuol dire che non basta ascoltare
e meditare la parola di Dio, ma che bisogna anche
digerirla e cos cambiarla in noi stessi. Vi sono
purtroppo stomachi di sì cattiva digestione, che,
appena ricevuti gli alimenti, li rigettauo. Son casi
compassionevoli; allora, si mangino pure cibi suc-
culenti: non se n'è nutriti, ma si dimagrisce e si
tiene l'anima coi denti. Donde ciò? Perchè non si
fa la digestione. Bisogna dunque digerir bene quello
che si medita, traendone buoni desideri, buoni af-
fetti, buone risoluzioni, che riporremo poi in un can-
tuccio del cuore per valercene all'occasione e prati-
carle in qualsiasi incontro, sicché noi non siamo più
noi, ma compaiano in tutto il nostro vivere i sen-
timenti e i propositi formati nel meditare.
Beati dunque coloro che ascoltano la parola di
Dio e la osservano. Qui sta appunto la beatitudine
della vita presente e della futura; poiché noi non
saremo beati se non nella misura che ci saremo con-
vertiti nella parola divina. Il grande San France-
sco in modo mirabile digerì le massime sante udite
nel Vangelo; infatti vi si trasformò totalmente, assi-
532
lodandosele in guisa da non essere più lui, ma da
diventare ciò che quelle massime significavano.
Qual altro uomo vi era povero e umile come san
Francesco? Egli si nascondeva, e Dio lo esaltava;
egli s'impoveriva, e Dio lo colmava di ricchezze.
Era un povero illetterato; eppure predicava e fa-
ceva meraviglie. Egli certo non maneggiava san
Bonaventura nè san Tommaso o simili autori eccle-
siastici, nè Cicerone, nè altri dello stesso genere;
eppure insegnava una dottrina buona, vera e soda.
Beato lui, che aveva digerito così bene la divina
parola, fino a essere tutto trasformato in quella! San
Giovanni Battista, ritiratosi tanto giovane nel deser-
to, non si era talmente immedesimato con la peniten-
za, che linguaggio, voce, abiti, tutto il suo interno ed
esterno predicavano unicamente la penitenza? Giu-
stamente per tanto si può dire: Beati coloro che
ascoltano la parola di Dio e la osservano (1).
Vi sono due altre cause che impediscono di pro-
fittare della parola di Dio. La prima è che, quan-
tunque la si ascolti bene e se ne resti internamente
tocchi, pure si rimanda d'oggi in domani il prati-
carla. Poveri noi! non vediamo che queste dilazioni
sono la nostra morte e rovina, e che tutto per noi
dipende da oggi? La vita dell'uomo è il giorno in
(1) S. R. xxxv (t. ix, pp. 359-364).
3

28.2 Page 272

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cui si vive; chi potrebbe infatti ripromettersi di
vivere il dì appresso? Nessuno, senza dubbio. La
nostra vita sta nel giorno, nel momento in cui vi-
viamo; dopo il momento che godiamo, non possiamo
aspettarcene con sicurezza un altro, per breve che
sia. Dunque, se è così, come si osa procrastinare
l'attuazione e la pratica di ciò che si è udito es-
sere mezzo alla nostra conversione, poiché tutta la
nostra vita dipende dall'istante, in cui si sente che
cosa debbasi fare per emendarsi? Ecco la prima di
dette ragioni che c'impediscono di trar profitto dalle
cose che ci vengono insegnate.
La seconda è una specie di avarizia spirituale,
che porta alla ricerca di molte cognizioni e ad accu-
mulare notizie di cose divote. Troverai persone che
non si stancano mai di raccogliere e mettere insie-
me nuove massime, nuovi consigli, nuovi ammae-
stramenti, e con tutto questo non ne fanno mai nep-
pure un'applicazione pratica. Non vi è qui un'ava-
rizia spirituale, vizio gravissimo nella vita divota?
Troverai altri che non sono mai sazi d'ascoltare
o di vedere cose nuove; ammucchiano libri e for-
mano stupende biblioteche, ed hanno sempre ap-
punti da prendere. Poverini! che cosa volete fare
di tanta roba? — Togliamo essere previdenti, per
trovarne poi quando ne avremo bisogno; divenuti
vecchi, sapremo noi servircene. — Ma non sapete
531
che il Sigonore, volendo sbandire l'avarizia e ogni
ansietà dal cuore dei discepoli, comandò loro di vi-
vere giorno per giorno, senza darsi pensiero del do-
mani? (1).
Fra le altre cose ordinate agli Israeliti, ingiunse
loro di raccogliere solamente una misura di manna,
cioè quanto bastava per la porzione di ciascuno (2).
Inoltre comandò che nessuno ne serbasse per il do-
mani o ne raccogliesse di più con l'intenzione di
farne provvista, perchè vi sarebbero nati i vermi
e la sarebbe andata a male (3). Vivi giorno per
giorno, mangiando quello che ti si dà, e nutrisciti
bene delle tue pratiche, lasciando la cura del resto
alla divina provvidenza, che ti provvederà abba-
stanza secondo il bisogno; fa' solamente buon uso
di ciò che ti viene dato e sgombra da te ogni al-
tra preoccupazione. È proprio vero che i cibi te-
nuti in serbo s'inverminiscono, e per me io credo
che i vermi roditori delle coscienze nei dannati non
siano le minori, ma 'e maggiori pene da loro sof-
ferte. E quali sono questi vermi, se non i vivi e
possenti rimorsi di coscienza, che ne pungeranno
e roderanno l'anima al ricordo e alla vista di tanti
(1) MATT., VI, 34.
(2) Exod., xvi, ]6.
(3ft Ib., 19, 20.
3

28.3 Page 273

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mezzi, di tante occasioni avute per servire Dio?
Che rimorsi di coscienza non si proveranno nel pun-
to della morte, vedendo sì gran numero d'inse-
gnamenti, di consigli e d'istruzioni datici per la
uostra perfezione! Saranno quelli i dolori più acuti
che sentiremo. Ecco in qual modo l'avarizia spiri-
tuale è un altro impedimento a profittare della
parola di Dio (1).
La parola interiore.
- Dio ci parla anche alla familiare interiormente.
Trattava con Mose cuore a cuore, insegnandogli ciò
che doveva fare nel condurre gl'Israeliti e dandogli
istruzioni chiare e confidenziali su tante altre cose.
Indicò a Salomone la maniera di fabbricare il Tem-
pio. Così pure ha parlato a molti altri santi uomini,
e le sue parole hanno prodott > quello che esprime-
vano.
Oh, quanto è meravigliosa questa parola divina!
Scorre nell'anima con grande soavità, la penetra,
l'infiamma e vi rimane. Il fondo del cuore è riser-
vato a Dio solo, egli solo vi può entrare, e lo fa
cou gli ammonimenti dati <lal Signore in molti luo-
ghi della Sacra scittura. Va', vendi tutto quello che
(1) S. R. XL (t. IX, pp. 435-7).
hai e seguimi (1). E altrove: Chi vuol venire dietro a
me, rinneghi se stesso, dia di mano alla sua croce e mi
segua (2). Poi ancora: Beati i poveri in spirito, per-
chè di questi è il Regno de' cieli; beati i mansueti,
perchè questi possederanno la terra (3). E tanti altri
insegnamenti simili, usciti dalla bocca del nostro ca-
ro Salvatore, che, intesi da molti, han prodotto e
producono ancora oggidì effetti stupendi. Sono pe-
netrati nei cuori, toccandone il fondo, sicché han fat-
to abbandonare tutti gli averi per andar dietro al
Signore che chiamava, e questo, contro lo spirito
e il. giudizio del mondo, che rigetta come una fol-
lia il titolo di beati attribuito dal divin Maestro ai
poveri in ispirito.
Un giorno, il grande sant'Antonio ricevette una
lettera dall'Imperatore e i suoi religiosi, a tal vista,
rimasero tutti stupiti dell'onore fattogli dal princi-
pe; ma egli ne li riprese mostrando la loro cecità.
— Come? disse. Voi vi stupite che l'Imperatore,
un uomo come un altro, mi abbia scritto e manda-
to un suo ambasciatore, e .11011 vi stupite che il
Signore ci parli nella Sacra Scrittura? Anzi, non
contento di questo, ci manda i suoi messaggeri,
(1) MATT., XIX, 21.
(2) Ib., xvi, 24.
(3) Ib., v, 2, 3.
53?

28.4 Page 274

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che sono gli Angeli, per farci conoscere i suoi voleri,
e per giunta viene egli stesso a incarnarsi e a di-
morare su questa terra per farci personalmente da
maestro. Obi è che ci empie di fango gli occhi, perchè
non ammiriamo tali meraviglie, ma ci stupiam tan-
to di ciò che fanno gli uomini con i loro simili? —
Lo stupore di sant'Antonio derivava unicamente dal
conoscere quanto bene e onore provenga dall'ascol-
tare la parola di Dio (]).
II. LA SPERANZA.
§ 1. FONDAMENTO DELLA SPERANZA.
Fra le lodi tributate dai Santi ad Abramo, san
Paolo fa notare soprattutto questa, che egli contro
speranza credette alla speranza (2). Dio gli aveva
promesso di moltiplicare la sua posterità come le
stelle del cielo e come l'arena del mare (3); eppure
da lui ebbe ordine di uccidere il figlio Isacco (4). Il
povero padre non perdè per questo la speranza, ma
contro speranza sperò che, nonostante la sua ob-
(1) S. R. xxxv (t. ix, pp. 358-9).
(2) Rom., iv, 18.
(3) Gen., xv, 5; xxn, 17.
(4) lb., xxn, 2.
3
be lienza al comando di uccidere il figlio, Dio non
avrebbe tuttavia lasciato di mantenere la sua parola.
Grande tu davvero tale speranza, perchè non si
vedeva assolutamente dove fondarla, all'infuori della
parola di Dio. Oh, la parola di Dio ne è verace e
solido fondamento, perchè infallibile! Àbramo dun-
que se n'uscì per andar a eseguire la volontà di
Dio, e lo fece con una semplicità impareggiabile,
senza opporre osservazioni o repliche, nè più nè meno
che quand'era uscito dalla sua terra e dalla casa
paterna per recarsi in un luogo da indicarglisi (1),
e non.aacora specificato, appunto perchè con sem-
plicità maggiore montasse sulla barca della divina
Provvidenza. Durante adunque un cammino di tre
giorni e di tre notti co! figlio Isacco, che portava
le legna del sacrificio, quest'anima innocente chiese
al padre, dove fosse l'olocausto; al che il buon
Abramo rispose: Figlio mio, il Signore vi provvedere.
Oh, quanto saremmo felici, se fossimo capaci di abi-
tuarci a dare una simile risposta, ogni volta che i
nostri cuori sono assaliti da qualche preoccupazio-
ne, e quindi restassimo senza ansietà, turbamenti e
preoccupazioni, al pari d'Isacco! Infatti egli tacque,
persuaso che il Signore vi avrebbe provveduto, co-
me gli aveva detto il padre.
(1) Gen., XII, 1.

28.5 Page 275

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§ 2. .FIDUCIA IN DIO.
Fiducia dei religiosi.
Grande fiducia Dio vuole che si riponga nella
sua sollecitudine paterna e nella sua divina prov-
videnza; invero perchè non averla, dal momento che
nessuno ne potè mai esser deluso? Nessuno mai con-
fida in Dio senza cogliere i frutti dalla sua confi-
denza. Dico questo parlando a religiosi; perchè la
gente del mondo ha molto spesso una confidenza
accompagnata da dubitanza e quindi priva di va-
lore davanti a Dio. Consideriamo, di grazia, quello
che il nostro Signore e Maestro disse agli Apostoli
per radicare in essi questa santa e amorosa fiducia:
— Io vi ho mandati per il mondo senza bisacce,
senza denaro e senza provvigioni sia per nutrirvi che
per vestirvi; ebbene, vi è mancata qualche cosaf
— Ed essi risposero: — Nulla (1). — Disse anco-
ra: — Andate, e non istate a cercare quel che avre-
te a mangiare o a bere, ne di che vi vestirete (2), e
nemmeno che cosa dovrete dire, trovandovi davanti
ai grandi signori e magistrati delle province, per
dove passerete; perchè in pgni occasione il vostro
(1) Lue., XXM, 35, 36.
(2) Ib., XII, 29.
540
Padre celeste vi somministrerà tutto il necessario
ed egli parlerà in voi, mettendovi sulle labbra le
parole da usare (1). — Ma io, dirà taluno, sono
tagliato alla grossa, non so trattare coi grandi, non
ho istruzione ! — È tutto lo stesso; va', e confida
in Dio, il quale ha detto (2): — Quand'anche una
donna giungesse a scordarsi del suo bambino, io n/ni
mi saprei giammai scordare di te, perchè ti porto
impresso nel mio cuore e nelle mie mani. — Po-
tresti mai pensare che Colui, il quale si prende
cura di provvedere nutrimento agli uccelli dell'aria
e agli animali della terra, che non seminano nè rac-
colgono (3), arrivi poi a dimenticarsi di provvedere
il necessario all'uomo, abbandonato interamente
nella sua provvidenza, all'uomo capace di vivere
unito a Dio, nostro sommo bene? (4)
Fiducia in Dio e
conoscenza della propria miseria.
Un'anima che senta la propria miseria, può pre-
sentarsi a Dio con grande fidanza? Rispondo: non
(1) Ib., XII, EE; MATT., X, 19, 20.
(2) Is., XLIX, 15, 16.
(3) MATT., vi 26; L u e . xii, 24.
(4) E. vi (t. vi, pp. 86-88).
4

28.6 Page 276

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solamente può avere grande fiducia in Dio l'anima
che conosce la sua miseria, ma vera fiducia in Dio
non sarebbe possibile senza la conoscenza della pro-
pria miseria; poiché questo conoscere e conlessare
la nostra miseria serve a introdurci alla presenza
di Dio. Tutt'i grandi Santi, come Giobbe, Davide
e gli altri cominciavano sempre le loro preghiere
con la confessione della propria miseria e indegni-
tà; è dunque ottima cosa il riconoscerci poveri, me-
schini, abietti e indegni di comparire davanti a Dio.
Il celebre detto degli antichi: « Conosci te stesso »,
quantunque si debba riferire al conoscere la gran-
dezza ed eccellenza dell'anima per non avvilirla e
profanarla in cose indegne della sua nobiltà, pure
s'intende anche del conoscere l'indegnità, imper-
fezione e miseria nostra; anzi, quanto più ci cono-
sceremo miseri, tanto più confideremo nella bontà e
misericordia di Dio, essendovi fra la misericordia
e la miseria un legame sì stretto, che l'una non si
può esercitare senza dell'altra. Dio, se non avesse
creato l'uomo, sarebbe stato, sì, molto buono, ma
non sarebbe stato effettivamente misericordioso, es-
sendoché la misericordia si esercita coi miseri.
Ecco dunque che, quanto più ci conosciamo mi-
seri, tanto più abbiam ragione di confidare in Dio,
non trovando in noi di che confidare in noi stessi.
La diffidenza di noi proviene dal vedere le nostre
4
imperfezioni. È cosa buona diffidare di sé; ma a
che ci servirebbe questo, se non ci facesse riporre
tutta la nostra fiducia in Dio con l'affidarci alla sua
misericordia? Le nostre colpe e infedeltà quotidia-
ne ci debbono certamente cagionare vergogna e con-
fusione nell'accostarci al Signore: così leggiamo di
anime grandi, quali santa Caterina da Siena e la
Madre Teresa, che, cadute in fallo, ne rimanevano
piene di confusione: ed è ben ragionevole che dopo
aver offeso Dio noi ci tiriamo un po' indietro per
umiltà e ne restiamo confusi, giacché, quando ab-
biamo offeso anche solo un amico, sentiam vergo-
gna di avvicinarci a lui: ma non fermiamoci lì, per-
chè umiltà, abiezione e confusione sono virtù inter-
medie, per via delle quali bisogna salire all'unione
dell'anima col suo Dio. Non sarebbe un gran che
l'essersi annientato e spogliato di sè (la qual cosa
si fa con gli atti di confusione), se ciò non fosse
per darsi interamente a Dio, come c'insegna san
Paolo, dicendo (1): Spogliatevi dell'uomo vecchio e
cestitevi del nuovo; non bisogna infatti restare ignu-
di, ma vestirsi di Dio. S'indietreggia un po', ma
per islanciarsi meglio in Dio con un atto d'amore
e di confidenza, non essendo buona cosa il confon-
dersi con tristezza e inquietudine; simili confusioni
(1) Coloss., HI, 9, 10.
543

28.7 Page 277

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provengono dall'amor proprio, rincrescendoci di non
essere perfetti, non tanto per amor di Dio quanto
per amore di noi stessi.
E quantunque tu non senta questa fiducia, non
lasciare tuttavia di farne gli atti, dicendo al Signo-
re: — Ancorché, o Signore, io non senta confidenza
in voi, so per altro che voi siete il mio Dio e che
io sono tutto vostro e non ho altra speranza fuor-
ché nella vostra bontà; quindi mi abbandono total-
mente nelle vostre mani. — È sempre in poter no-
stro di fare tali atti, e per quanto vi proviamo dif-
ficoltà, non si tratta però mai d'impossibilità: ap-
punto in queste occasioni e difficoltà si dà prova di
fedeltà al Signore. Benché cotesti atti si facciano
senza gusto e soddisfazione, non affliggiamocene,
perchè al Signore piacciono di più così. Non repli-
carmi che tu lo dici, sì, ma soltanto con la bocca;
se il cuore non volesse, la bocca non farebbe motto.
Dopo, sta' in pace, e senza badare al tuo turba-
mento parla d'altro al Signore.
Concludiamo. È ottima cosa il sentirsi confuso,
quando si ha coscienza della propria miseria e im-
perfezione; ma non bisogna fermarsi lì, nè per que-
sto cadere in iscoraggiamento: si sollevi il cuore a
Dio con una santa confidenza, fondata in lui e non
in noi; poiché noi cambiamo ed egli non cambia
mai, ma resta sempre buono e msericordioso sia
544
quando noi ci mostriamo deboli e imperfetti, sia
quando ci manteniamo forti e perfetti. Io sono so-
lito a dire che il trono della misericordia di Dio è
la nostra miseria; dunque quanto maggiore sarà la
nostra miseria, tanto più grande bisognerà pure clie
sia la nostra confidenza (1).
Cinque massime per la fiducia in Dio.
Per durarla costanti in questa fiducia gioveranno
le cinque solide ed eccellenti massime, che qui ti
propongo.
La prima è questa di san Paolo (2): Tutte le cose
tornano a bene per coloro che amano Dio. Dio in-
fatti, che può e sa trarre il bene dal male, per chi
farà ciò, se non per coloro che senza riserva si sono
dati a lui? Fin anche i peccati, dai quali ci preservi
Iddio per sua bontà, vengono dalla divina Provvi-
denza volti a bene di coloro che sono suoi. Giam-
mai Davide sarebbe stato così ricolmo di umiltà, se
non avesse peccato; nè la Maddalena così amante
del Salvatore, s'egli non le avesse rimesso tanti pec-
cati, e non glie li avrebbe mai rimessi, s'ella non
(1) E. in (t.vn, pp. 19-22).
(2) Rom., vili, 28.
545
18. - E. CERIA, La vita religiosa ecc.

28.8 Page 278

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li avesse commessi. Vedi il grande artefice di mi-
sericordia: converte in grazie le nostre miserie e
dalle vipere delle nostre iniquità trae il farmaco
della salute per le anime nostre. Dimmi dunque:
che non farà delle nostre afflizioni, dei nostri tra-
vagli, delle persecuzioni che ci si muovono? Quindi
se mai accada che ti tocchi qualche dispiacere, da
qualunque parte venga, assicura l'anima tua, che,
se ama davvero Dio, tutto si convertirà in bene.
E quand'anche tu non vegga per quali vie cotesto
bene debba venire, sta' ognor più certo che verrà.
Se Dio ti mette il fango dell'ignominia sugli occhi,
lo fa per darti buona vista (1) e renderti oggetto
d'onore. Se Dio ti lascia prendere una caduta, co-
me fu di san Paolo gettato da lai a terra (2), lo
fa per poi rialzarti con gloria.
Seconda massima: Dio è tuo Padre. Se così non
fosse, egli non ti farebbe dire: Padre nostro, che
sei ne' cieli. E che cosa hai da temere, essendo fi-
glio di un tal Padre, senza la cui provvidenza
non cadrà mai un sol capello dal tuo capo? (3).
Pigli d'un tal Padre, è cosa ben strana che ab-
biamo o possiamo avere altro pensiero che non
sia di fedelmente amarlo e servirlo. Abbi della t uà
persona e de' tuoi la cura ch'ei vuole che tu abbia,
e non più; così vedrai ch'egli avrà cura di te. —
Tu pensa a me, e io penserò a te, — disse Dio a
santa Caterina da Siena. Oh Padre, dice il Savio
(1), la tua provvidenza governa ogni cosa.
Terza massima, quella insegnata dal Signore
agli Apostoli: — Che cosa vi è mancato? (2). —
Osserva: il Signore aveva mandato gli Apostoli di
qua e di là, senza denaro, senza, bastone, senza cal-
zari, senza bisaccia, con una sola tunica (3), e dono
disse loro: — Quand'io vi mandai in quel modo,
che cosa vi è mancato? — Ed essi risposero: —
Nulla (4). — Orbene, tu, -allorché avesti delle af-
flizioni, anche nel tempo che non avevi tanta fidu-
cia in Dio, vi soccombesti forse? — No — mi ri-
spondi. E perchè dunque non ti farai animo, spe-
rando di uscire felicemente da tutte le altre conti a -
rietà? Dio, che non ti ha abbandonato finora, come
ti abbandonerà adesso che più di prima vuoi essere
suo? Non metterti in allarme per il male che ti
possa venire dal mondo: forse non ti verrà mai e
ì
(1) Cfr. JOAN., IX, 6, 7, 11.
(2) Act., ix, 4.
03) Lue., xxi, 18; cfr. xn, 7.
4
(1) Sap., XIV, 3.
(2) Lue., XXII, 35.
(3) JVIATT., x, 9, 10.
(4) L u e . , XXII, 35, 36.
54
{

28.9 Page 279

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/
in ogni caso, se verrà, Dio ti darà forza. Egli
comandò a San Pietro di camminare sulle acque;
e san Pietro, vedendo il vento e la burrasca, ebbe
paura, e la paura lo faceva sommergere, e invocò
l'aiuto del Maestro, e il Maestro gli disse: — Uomo
di poca fede, perchè hai dubitato'l — E stendendogli
la mano, lo rincorò (1). Se Dio ti fa camminare
sui flutti delle contrarietà, non dubitare, non temere:
egli è con te; fatti coraggio e sarai salvo.
Quarta massima: l'eternità. Poco m'importa,
quale io sia nei fugaci istanti di quaggiù, purché
per sempre me ne stia nella gloria del mio Dio.
Si va all'eternità, vi ci siamo già quasi con un
piede: purché quella sia felice, che importa, se
questi brevi momenti ci sono penosi? È mai pos-
sibile sapere che le nostre tribolazioni di tre o quat-
tro giorni producono tante consolazioni eterne (2),
e non volerle sopportare? Alla fin fine: ciò che non
è per l'eternità non può essere che vanità.
Quinta massima, quella dell'Apostolo (3): lungi
da me il gloriarmi d'altro che della Croce di Gesù.
Pianta nel tuo cuore Gesù Cristo crocifisso, e tutte
le croci di questo mondo ti paranno rose. Coloro
(1) MATT., xav, 29-31.
(2) li Cor., iv, 17.
(3) Galat., 6, 14.
548
che sono punti dalle spine della corona del Si-
gnore, nostro capo, non sentono guari le altre
punture (1).
Pensieri sulla fiducia in Dio.
1. 1 tuoi dispiaceri sono come nebbie, non tal-
mente fitte che il sole non le dissipi. Dio che è stato
sempre'tua guida, continuerà a sorreggerti con la
sua mano santissima (2)^bisogna però che tu con
totale abbandono di te stesso ti getti nelle braccia
della sua provvidenza: è cotesto il tempo buono
per fare ciò. Mettere la propria fiducia in Dio
durante 'la dolcezza e la pace della prosperità, è
cosa che ognuno più o meno sa fare; ma affidarsi
( a lui in mezzo a,venti e tempeste, è dajfigli: dico
affidarglisi con abbandono completo. Se lo farai,
credimi, con tua grandissima sorpresa vedrai un
giorno svaniti dinanzi a' tuoi occhi tutti gli spau-
racchi che presentemente ti turbano. Dio aspetta
questo da te, avendoti tratto a sé per farti parti-
colarmente suo (3).
2. Patti coraggio, confidando pienamente nella
bontà di Dio. Quando mai alcuno sperò in lui e
f
(1) L. MCDXX (t. XVIII, pp. 209-211).
(2) Cfr. Ps. CXXXVHI, 10.
(3) L . CMXLIX (t. x v i , p p . 133 4)
i
549

28.10 Page 280

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rimase confuso? (1). Il diffidare di te è cosa buona,
finché ti serve di fondamento per confidare, come
devi, in Dio; ma se ti portasse a scoraggiamenti,
inquietudini, tristezze e malinconie, ti scongiuro di
sbandirlo da te, come la tentazione delle tentazioni;
e non permettere mai alla tua mente di prendere
le difese dell'inquietudine o dello scoraggiamento,
a cui ti sentirai portato: è verità certissima che Dio
permette molte difficoltà a chi abbraccia il suo ser-
vizio, ma non lo lascia mai cadere sotto il peso,
finché confida in lui. Bando perciò alle discussioni,
quand'anche si facessero sotto lo specioso pretesto
dell'umiltà (2).
3. Certe volte all'inizio di un'impresa non s'in-
contrano le cose nel buono stato che il nostro desi-
derio ci farebbe immaginare. Ebbene, ecco alcuni
veri contrassegni della bontà di un'opera: principio
difficile, progresso un po' meno, fine lieto. Non isco-
raggiarti: Dio non abbandonerà mai la cura di te
e de' tuoi, finché si confiderà in lui. Nelle conso-
lazioni il passo più difficile è quello dell'uscio: dopo
viene la ricompensa. Non ti disamorare, non la.
sciarti abbattere fra le contrarietà. Quando mai il
servir Dio ne andò esente, massime sul principio!
(1) Eccli., Il, 11; cfr. Ps. xxxi, 1.
(2) L. MCCXXIII (t. XVII, p. 259).
550
Insomma, guardati dagli scoraggiamenti. Credimi,
si semina in travaglio, in ansietà, in angoscia, per
raccogliere in gioia (1), in consolazione, in piena
contentezza: la salita confideuza in Dio addolci-
sce tutto, ottiene tutto, risolve tutto (2).
4. Tieni alto il capo, appoggiandolo in Dio; alti
gli occhi, fissandoli nell'eternità felice, che ti aspet-
ta. Quale cosa potrebbe nuocere ai figli del Padre
celeste, che hanno fiducia nella sua bontà? In te ho
posta, o Signore, la, mia speranza (3); diciamolo, ma
diciamolo spesso, diciamolo con ardore, diciamolo
con ardire, e otterremo quello che vi si soggiunge:
non resterò confuso giammai. No, nè in questa vita,
né ih quella' futura, giammai resteremo confusi.
Dunque, spera in Dio e opera il bene (4) (5).
5. Appigliati fortemente al collo della Provvi-
denza di Dio, come fa il bambino al collo della ma-
dre: Dio ti porterà, ti allevierà, ti darà il latte (6)
per le strade sassose di questa vita mortale (7).
(1) Cfr. Ps. cxxv, 5.
(2) L . MCCXXXVI (t. XVII, pp. 2 7 8 e 279).
(3) Ps. xxx, 1.
(4) Ps. xxxvi, 3.
(5) L. MDCXII (t. x i x , 143).
( 6 ) Cfr. I s . , LXVI, 12.
( 7 ) L. MDCXLIV (t. x i x , p. 193).
551

29 Pages 281-290

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29.1 Page 281

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§ 3. ABBANDONO DI NOI STESSI IN DIO.
In che consiste e come si pratica.
Abbandonare noi stessi è lasciare interamente la
nostra volontà per darla a Dio: chè a nulla ci ser-,
virebbe il rinunciare a noi stessi, se questo non fos-
se per unirci perfettamente alla Bontà divina. Sol-
tanto per questo fine bisogna dunque fare tale ab-
bandono, che altrimenti sarebbe inutile e somiglie-
rebbe a quelli degli antichi filosofi, i quali fecero
mirabili abbandoni di tutto e di sè per il vano
scopo di dedicarsi alla filosofia. Così il celeberrimo
filosofo Epitteto, schiavo di condizione, benché per
il suo gran senno lo volessero affrancare, rinunciò
con la massima di tutte le rinunce alla libertà,
restandosene volontariamente nella sua schiavitù e
in tanta povertà, che dopo morto gli trovarono ap-
pena una lucerna, la quale si vendette a caro prezzo
per essere appartenuta a un sì grand'uomo. Ma noi
vogliamo abbandonare noi stessi unicamente per
rimetterci al beneplacito di Dio.
Vi sono molti che dicono al Signore: — Io mi
dono tutto a voi senza riserva; — ma ben pochi
sono quelli che vengano poi alla pratica, accettando
con assoluta indifferenza eventi d'ogni specie, se-
condochè siano dalla Provvidenza divina ordinati:
afflizioni o consolazioni, cattiva o buona salute,
povertà o ricchezze, disprezzo od onore, obbrobrio
0 gloria. Intendo riferirmi alla parte superiore della
nosti'anima; perchè certo la parte inferiore e la na-
tui ale ine inazione propenderà sempre per l'onoie
anziché pei' il disprezzo, per le iic< liezze anziché
per la povertà, quantunque nessuno possa imioiare
che disprezzo, umiliazione e poveri à piacciono a
Dio più dell'onore e più di tutte le dovizie Ora,
per arrivale a quest'abbandono bisogna obbedire
alla volontà di Dio espressa e a quella di benepla-
cito, nel primo caso con la conformità e nel sec mdo
con l'indifferenza. La volontà di Dio espressa ne
comprende i comanilamenti, i concigli, le ! spi ì azioni,
nonché le Regole e gli ordini de' tuoi superiori.
La volontà di beneplacito riguarda gli eventi impre-
vidibili: così, per esempi , non sapendo se n orrò o
no domani, vedo che trattasi del beneplacito ni Dio
e mi vi rimetto di buon grado e aspetto ras egnato
la morte. Così pure, non so se l'anno venturo tutti
1 frutti della terra mi saranno lovinati dalla f r a u -
dine: che mi siano dunque rovinati oppure no, che
scoppi o no la peste, che succedano o non succedano
altri guai, evidentemente è cosa die dipende dal
beneplacito di Dio, e mi ci adatto. Ti avverrà di non
provare consolazioni ne' tuoi esercizi divoti: vi si
tratta certo di beneplacito divino, e perciò stat-
553

29.2 Page 282

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tene con somma indifferenza, ti tocchino desolazioni
o consolazioni. E così dicasi di tutto il resto, come
de^li ab ti che ci si danno o delle vivande sommi-
nistratr-ci.
Os.-erva inoltre ohe vi sono cose, in cui alla vo-
lontà di beneplacito va unita quella espressa. Per
esempio, nel caso di una gagliarda febbre, io vedo
in questo fatto essere beneplacito di Dio che mi
mantenga in liffermte alla sanità o alla inalatt'a;
ma è pure volontà di Dio espressa che io, non vi-
vendo sotto l'obbedienza, mi chiami il medico e
prenda tutti i rimedi possibili (non dico i più rari,
ma i comuni e consueti), e che i religiosi, essendo
soggetti a un superiore, ricevano con semplicità
e sommissione rimedi e cure loro apprestati; poi-
ché Dio ce l'ha significato, dando ai rimedi la virtù
che hanno, e ce l'insegna in più luoghi la Scrittura,
e cosi ordina la Chiesa. Ciò fatto, che il male poi
vinca il rimedio o il rimedio vinca i: màle, è cosa
da starsene indifferenti, a segno che, qualora ve-
dessimo dinanzi a noi la malattia e la sanità, e il
Signore ci dicesse: — Se scegli la sanità, non ti tolgo
un briciolo della mia grazia, e se scegli la malat-
tia, non te l'aumento neppure, ma la scelta della
malattia è un po' più conforme al mio beneplacito,
— allora l'anima, che si fosse totalmente rimessa
e abbandonata nelle mani del Signore, sceglierebbe
554
senz'altro la malattia, solo perchè vi è un po' più
del beneplacito divino; essa, quand'anche dovesse
stare tutta la vita inchiodata in un letto senza far
altro che soffrire, per nulla al mondo vorrebbe desi-
derare una condizione diversa. I Santi del Cielo
hanno sì stretta unione con la volontà di Dio, che,
se vedessero un po' più del suo beneplacito a stare
nell'inferno, lascerebbero il Paradiso per andarvi.
Questo stato d'assoluto oblio di sè importa altresì
un abbandonarsi al beneplacito divino in tutte le
tentazioni, aridità e ripugnanze proprie della, vita
spirituale, scorgendovisi il beneplacito di Dio, sem-
precliè non vengano da nostra colpa e non vi .sia
peccato.
Lodi di questo abbandono.
L'abbandono in Dio è la virtù delle virtù: è il
fiore della carità, la fragranza dell'umiltà, il merito,
a parer mio, della pazienza e il frutto della perse-
veranza: virtù grande e sola degna di essere pia-
ticata dai prediletti tigli di Dio. Padre, disse il no-
stro dolce Salvatore in croce (1), nelle tue mani ri-
metto il mio spirito. E voleva dire: — Tutto è com-
pito, è vero, tutto ho eseguito ciò che mi hai co-
mandato (2); ma pure, se è tua volontà che io ri-
d i Lue., xix, 30.
(2) JOAN., XIX, 3 0 ; x v n , 4.
555

29.3 Page 283

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man a ancora su questa croce per soffrire di più,
io son contento: rimetto il mio spirito nelle tue
mani, fanne tu quel che ti piace. — Così dobbiamo
fare anche noi in ogni occasione o di patimento o
di gioia, lasciandoci condurre dalla volontà divina,
secondo il suo beneplacito, senza lasciarci frastor-
nare dalla nostra propria volontà.
Il Signore ha una tenerezza specialissima per i
fortunati, che si affidano in tutto e per tutto al suo
cuore paterno, lasciandosi governate dalla sua di-
vina provvidenza e non fermandosi a riflettere, se
per loro gli effetti di questa provvidenza riusci-
ranno utili o nocivi, sicuri come sono che da quel
paterno e amabilissimo cuore non potrebbe essere
voluto nè permesso nulla, donde non faccia loro
ritrarre qualche bene o utilità, sol che abbiano ri-
posta in esso ogni fiducia e sinceramente dicano:
— Io rimetto spirito, anima, corpo e tutte le cose
mie nelle vostre mani benedette, perchè ne facciate
quel che piacerà a voi. — Non si dà mai il caso
che noi siamo ridotti a sì mal termine, da non po-
ter sempre olezzare davanti alla Maestà divina fra-
granze di santa sommissione verso la sua santissima
volontà e d'una costante risolutezza di non volerlo
offendere. Il Signore stesso dispone talvolta che le
anime da lui elette al suo servizio alimentino la loro
vita spirituale soltanto col proposito fermo e immu-
tabile di perseverare nella sua sequela, soffrendo
sempre disgusti, aridità, ripugnanze e amarezze e
non gustando mai consolazioni, dòlcezze, sensibilità,
nè trovando piacere in nulla, fino a non credersi
degne di meglio, sicché seguitano il Signore; pura-
mente con la cima del loro spirito senz'altro soste-
gno all'infuori della sua divina volontà che vuole
così.
Disposizioni interne
di chi si abbandona in Dio.
Ma quale sarà l'occupazione interiore di un'anima
tutta abbandonata nelle mani di Dio? Stare vicino
al Signore, senza curarsi d'altro, nemmeno del corpo
e dell'anima; poiché, imbarcatasi sotto la scorta
della provvidenza di Dio, non è più affar suo pen-
sare come andrà: il Signore^ al quale si è intera-
mente affidata, vi penserà abbastanza per lei. Non
intendo dire con questo, che non si pensi alle cose
di dovere, secondo il proprio ufficio; un superiore,
per esempio, sotto pretesto di essersi abbandonato
tutto in Dio e di riposare in grembo a Lui, non
deve trascurar di leggere o di apprendere le istru-
zioni concernenti l'esercizio della sua carica.
Per un sì totale abbandono alla Provvidenza
divina si richiede, è vero, una grande confidenza;
ma è anche vero che, quando noi abbandoniamo
55?

29.4 Page 284

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tutto, il Signore si prende cura di tutto e guida
tutto. Se ci riserviamo qualche cosa, per la quale
non ci affidiamo a Lui, Egli vi ci lascia, quasi di-
cesse: — Tu ti pensi di bastare a te nel fare la tal
cosa; fa' pure, vedrai come la audrà a finire. —
Le persone consacrate a Dio nella religione devono
staccarsi da tutto senza riserva. La Maddaleua, af-
fidatasi tutta alla volontà del Signore, sfavasene
ai suoi piedi e ascoltava le cose ch'Ei diceva (1); e
ce ssando Egli di parlare, cessava anch'essa di ascol-
tare, ma senza muoversi di là. Così l'anima stac-
cata da sè non fa. altro che starsene fra le braccia
del Signore, come il bambino in grembo alla ma-
dre,; il quale, se la madre lo mette giù perchè cam-
mini, cammina fino a che la madre lo ripigli, e se
essa vuole portarlo, lascia fare. Egli non sa e non
pensa dove vada, ma ,si lascia portare o condurre,
dove piace alla madre; allo stesso modo quest'anima,
per amore alla volontà divina di beneplacito in
ogni evento, si lascia portare, ma insieme cammina,
facendo con gran diligenza tutto quello che si ri-
ferisce alla volontà di Dio espressa.
In ogni caso, la nostra confidenza dev'essere
fondata sull'infinita bontà di Dio e sui meriti della
Passione e Morte di nostro Signor Gesù Cristo,
(1) Lue., x, 31.
558
mettendovi da parte nostra una piena e ferma ii-
soluzione di essere tutti di Dio e di affidarci in tutto
e senza riserva alla sua provvidenza. Io non dico,
bada bene, che bisogni sentire questa risoluzione
di essere così tutti di Dio, ma soltanto averla e
conoscerla, perchè non è da far caso di quello che
si sente o non si sente, essendo la maggior parte
dei nostri sentimenti e delle nostre soddisfazioni
puri giochi dell'amor proprio. Neppure si deve cre-
dere che in tutta questa faccenda dell'abbandono
e dell'indifferenza non si abbia mai a provar desi-
deri contrari alla volontà di Dio e che la nostra
natura mai non senta ripugnanza alle cose prove-
nienti dal suo beneplacito: tutto questo può anzi
accadere soventi volte. Si parla qui di virtù che
risiedono nella parte superiore dell'anima, senza che
d'ordinario l'inferiore ne voglia sapere. Di questo
non si faccia caso: ma senza badare a ciò che la
parte inferiore vuole, abbracciamo la volontà divina
e uniamoci ad essa, nonostante che la parte inte-
riore se ne risenta. Pochi arrivano a sì alto grado
nel rinnegamento di sè; ma bisogna tuttavia aspi-
rarvi, ognuno secondo la sua possibilità (1).
(1) E. il (t. vi, pp. 22-28, 30).
559

29.5 Page 285

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Ancora del nulla
domandare e nulla rifiutare.
Ecco la massima cbe io desidero sommamente
di stamparti nell'animo: nulla domandare e nulla
rifiutare. No, non domandar nulla e non rifiutar
nulla; ricevi quanto ti verrà dato, senza chiedere
quello che non ti sarà offerto o che non ti si vorrà
dare: in questa pratica troverai la pace dell'anima.
Tieni, tieni il tuo cuore nella santa indifferenza a
ricevere tutto quello che ti si darà, e a non desi-
derare quello che non ti sarà dato. In una parola,
non desiderare nulla, ma rimetti la tua persona e
le cose tue completamente alla cura della Provvi-
denza divina, lasciando che essa disponga di te,
come fanno i bambini che si lasciano governare
dalle loro nutrici; ti porti essa a suo piacimento sul
braccio destro o sul sinistro, lasciala fare, chè di
questo non farebbe caso un bambino; ti metta essa
in letto o te ne levi, lasciala fare, chè è buona ma-
dre e sa meglio di te quello che ti bisogna. In altri
termini, se la divina Provvidenza permette che ti
vengano afflizioni o mortificazioni, non le rifiutare,
ma accettale di buona voglia, con amore, in pace;
se poi non te ne manda o non te ne permette, non
desiderarle e non domandarle. Così pure, se ti ven-
gono consolaziani, ricevile con sentimento di gra-
560
titudine e riconoscenza alla Bontà divina; in caso
contrario, non le desiderare, ma cerca di tener il
cuore preparato a ricevere dalla Provvidenza divi-
na, e possibilmente sempre con lo stesso animo, le
varie vicende. Se nella religione ti si danno obbe-
dienze apparentemente pericolose, quali le superio-
rità, uon le rifiutare; se non ti si danno, non de-
siderarle, e così per tutte le cose. Parlo delle cose
terrene; chè, quanto alle virtù, passiamo e dobbia-
mo domandarle a Dio; l'amore di Dio le compren-
de tutte. Non si può immaginare, senz'averne fatta
l'esperienza, quanto vantaggio questa pratica arre-
chi alle anime; poiché in virtù di essa, invece di
perdersi a cercare or un mezzo or un altro di per-
fezione, ci applichiamo ~con maggior semplicità e
costanza a quelli che si presentano per via (1).
Bando dunque a tanti desideri e velleità: met-
tiamoci interamente nelle mani della divina Prov-
videnza, perchè faccia di noi come le aggrada. A
che prò desiderare questo più che quello? non è
tutto lo stesso per noi? Deve bastarci di piacere a
Dio e amare la sua divina volontà. Io mi stupisco
che si possa, specialmente in religione, preferire di
venir occupati in una cosa piuttosto che in un'altra:
nello stato religioso una carica e un'occupazione è
(1) E. vi (t. vi, pp. 92-30.
561

29.6 Page 286

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gradita a Dio al pari di un'altra, essendo nella re-
ligione l'obbedienza quella che dà valore a tutto ciò
che si fa. Qualora toccasse a noi di scegliere, gli
uffici più bassi sarebbero i più desiderabili e da
abbracciarsi con predilezione; ma poiché non tocca
a noi fare la scelta, abbracciamoli tutti con egual
disposizione d'animo. Se ci si affida un incarico
Onorevole dinanzi agli uomini, teniamoci umili di-
nanzi a Dio; se l'incarico è dinanzi agli uomini
più meschino, stimiamoci più onorati dinanzi alla
Bontà divina. Insomma, non volere nulla più di
quel che vuole Dio, accogliendo di buon grado le
varie disposizioni della volontà divina a tuo riguar-
do, senza badare ad altro (1).
Qualora tu debba così intraprendere un affare
di grande conseguenza e importanza, faresti male
a non isperarne un buou esito, dato che non ti ci
sii messo tu per tua elezione, ma per obbedienza.
Certo si ha motivo di temere, quando irt religione
o altrove si cercano cariche e uffici e si ottengono
per via di brighe; ma quando non é così, pieghia-
mo umilmente il collo sotto il giogo della santa
obbedienza e accettiamo di buon animo il fardello.
Umiliamoci, perchè bisogna farlo sempre: ma ri-
cordiamoci anche sempre d'innalzare sugli atti d'u-
fi) E. vi. (t. vi, p. 99).
miltà la generosità, perchè altrimenti l'umiltà non
avrebbe nessun valore (1).
III. LA CARITÀ.
Parte prima. — Amore di Dio.
§ 1. I L COMANDAMENTO DELL'AMOR DI D I O .
Un dottore della legge domandò a Gesù quale
fosse il più gran comandamento; al che il divin
Maestro rispose: Amerai il Signore Dio tuo con
tutto ' il cuore, con tutta Vanima tua, con tutto il tuo
spirito, con tutta la mente e con tutte le forze (2).
iusomma con tutto quello che hai e con tutto quello
che sei.
Mi fermo anzitutto sulla parola diliges, che vuol
dire « amerai con amore di dilezione », cioè con amo-
re di elezione (3). Bisogna considerarla ben bene,
perchè merita di esser valutata a peso del santuario
(4), tanto è geloso il Signore che amiamo unica-
mente Lui e con tutta la perfezione possibile in que-
(1) E. vi (t. vi, pp. 91-2).
(2) MATT., XXII, 34-36; Lue., x, 27.
(3) Cfr. S. THOM., P I I A E , q. xxvi, a. ìli.
(4) Num., vii, 13.
563

29.7 Page 287

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sta vita, come diremo appresso. Dio vuol essere
amato con amore di. elezione. Egli non si contenta
affatto di essere da noi amato con un amore co-
mune, come facciamo coi nostri simili, ma con a-
more d'elezione, distinto da tutti gli altri amori,
cosicché tutti gli altri amori nostri per le creature
siano semplici immagini al paragone di quello da
Lui voluto per sè. Non è cosa molto ragionevole
che un tal amore domini e campeggi su tutti gli
altri, e che esso regni e comandi, e tutto gli sia
soggetto? Questo è amar il Signore con amore
d'elezione, cioè ^sceglierlo fra le migliaia, come dice
la Sposa dei Cantici (1): — Il mio Diletto ha tutte
le perfezioni possibili, io me lo sono scelto fra le
migliaia, — cioè in un numero infinito.
Ora, quand'è in arbitrio nostro di scegliere un
oggetto per termine principale del nostro amore,
faremmo certo molto male se non lo cercassimo fra i
beni più amabili, cogliendo di tutti il più eccellente.
Ma dimmi: può darsi mai oggetto più eccellente
che la Divinità stessa? Prescidendo dalla sua in-
comparabile bellezza, consideriamone la bontà inef-
fabile, la quale in tante e tante maniere ci ha di-
mostrato di amarci e desidera immensamente di
essere da noi amata. Qua! cosa potrebbe muovere
(1) Cant., v, 10.
più fortemente la nostra volontà ad amare che il
vederci cotanto amati? E da chi? Da Dio medesi-
mo. E che sia così, lo provano gli effetti del suo
amore. Oh, quant'è amabile il comandamento di
amar Dio!
Yi furono uomini stolti e insensati, i quali vol-
lero sostenere, che è impossibile osservarlo, finché
si vive quaggiù; ma grandemente errarono: il Si-
gnore non avrebbe mai dato all'uomo un comanda-
mento senz'avergli dato insieme la possibilità di os-
servarlo. Ma, dicono altri, Dio vuole che l'amiamo
con tutto il cuore, con tutto lo spirito, con tutte le
forze, cioè con tutto il nostro potere; ma come farlo
in questa vita, dove bisogna amare padri, madri,
mogli, figli? Se l'amore è diviso, come amar Dio
con tutte le forze? È una cosa impossibile, dicono.
Oh povera gente! mostrate bene chi siete: siete in-
gegnosi, ma non per penetrare le cose di Dio, nè
per comprenderle e conoscerle quali realmente sono.
Se il Signore ci avesse comandato di amarlo come
fanno i Beati lassù nel Cielo, avreste qualche ra-
gione di dire che è impossibile: essi lo amano d'un
amore fermo, stabile e costante, senza interruzione
di sorta: lo benedicono perpetuamente, e quindi sono
in un continuo esercizio del loro amore; il che non
possiamo fare noi altri, perchè abbiam bisogno di
dormire, nel qual tempo il nostro amore sospende
565

29.8 Page 288

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il suo esercizio. La Madonna soltanto ebbe il pri-
vilegio di poter amar Iddio in questa vita senz'al-
cuna interruzione; giaccliè anche durante il sonno
il suo spirito non cessava di agire e slanciarsi in
Dio (1). Ma noi quante volte ci troviamo in distra-
zioni inevitabili! Possiamo bensì amar Dio con a-
more fermo e immutabile, ma non essere nell'eser-
cizio continuo del nostro amore.
Per amar Dio con amore d'elezione bisogna che
abbiamo la volontà risoluta di non conservare nè
risparmiare vei un altro amore non soggetto intera-
mente a Lui, pronti a sbandire dai nostri cuori tutto
ciò che non solo sarà contrario, ma non servirà alla
conservazione e all'incremento di questo divino a-
more, l'unico degno del nome di dilezione. Il nome
di amore è comune a tutte le altre affezioni basse,
terrene e caduche, mentre a quelle non si addice
mai il nome di dilezione.
§ 2. COME PRATICARE QUESTO COMANDAMENTO.
Come dunque praticare questo comandamento
divino nella vita presente? Per fartelo intendere
meglio ricorrerò ad una similitudine.
(1) Cfr. Cani., v, 2.
566
Immagina di vedere tre arcieri, che portino l'ar-
co teso, per tirare ogni volta che si presenti il bi-
sogno, e che a tal fine abbiano il turcasso pieno
di saette. Uno degli arcieri tiene la freccia in una
mano e l'arco nell'altra pronto a metter quella so-
pra la corda, semprechè faccia bisogno. L'altro
porta non solo l'arco teso, ma anche la freccia ap-
plicata, sicché all'occasione non abbia d a far altro
che scoccare. Il terzo invece non si ferma lì, ma
non cessa mai di tirare a sé la corda dell'arco e
di saettare nel punto preso di mira. Non senza ra-
gione i pittori dipingono l'amore come un arciere
sempre in atto di frecciar i cuori dei mortali per
colpirli e ferirli de' suoi amabili dardi. L'amore è
soavissimo, quando si rivolge a un oggetto degno
di venir prescelto fra mille, come dicevamo; perchè
l'amor basso e caduco, rivolto alla creatura con
pregiudizio del'riguardo che si deve all'amor del
Creatore, non che dolce e soave, è straordinari a-
mente amaro e riempie il cuore di turbamento, di
affanno e d'inquietudine.
L'amore che la maggioranza dei Cristiani porta
a Dio, rassomiglia al primo arciere da noi descrit-
to, perchè sono risoluti di morire piuttosto che of-
fendere mortalmente il Signore con trasgredirne i
comandamenti. Essi tengono sempre teso l'arco di
questa risoluzione, prouti a scoccare la freccia
56?

29.9 Page 289

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della propria fedeltà ogni qual volta bisogni far
vedere che il loro amor di Dio è il sommo fra tutti
gli altri amori: così subordinano sempre l'amore
della creatura all'amor del Creatore, anche l'amore
per il padre, la madre, la moglie e i tigli. Anime
al certo ben fortunate nel serbare una tal fedeltà"
a Dio, perchè, così facendo, l'ameranno quanto è
bastevole per non cadérgli in disgrazia.
Ma vi sono anime più nobili e generose, le qua-
li, persuase che il bastevole non basta in quel che
concerne l'amor di Dio, vanno più in là. Somi-
gliano esse al secondo arciere da noi immaginato,
che non solo tien la faretra piena di freccie e l'ar-
co pronto per il colpo, ma tira molto spesso, la-
sciando passare il minor tempo possibile fra un
colpo e l'altro, e, senz'aspettare proprio la neces-
sità, vibra i suoi dardi a ogni semplice apparenza
di necessità. Sono coloro che si appartano dalla
generalità dei fedeli per condurre vita più perfet-
ta, segregandosene del tutto o no, e non si limitano
a vivere nell' osservanza dei comandamenti di Dio,
ma abbracciano per di più la pratica de' suoi con-
sigli; questi pertanto scoccano con la maggior fre-
quenza possibile dardi e saette al cuore di Dio con
fervidi e teneri slanci dello spirito.
Questa seconda maniera di amar Dio è quella
che possiamo praticar noi nella vita presente e a
568
cui dobbiamo aspirare; chè la terza, raffigurata
nell'arciere che tira senza posa, appartiene alle
anime dei Beati, i quali godono la chiara visione
della Divinità in Paradiso. Oh, quanto sono felici
nel ferire il cuore amabilissimo di Dio con l'amor
loro, amore che non avrà mai nè fine nè interru-
zione nel suo santo esercizio! giacché di mano in
mano che essi scoccano i dardi dei loro affetti, la
Maestà divina ne riempie le faretre, di modo che
la provvisione sarà inesauribile.
Dunque adesso capisci abbastanza, in qual ma-
niera si possa praticare questo comandamento.
Va bene, dirai; ma è amare Dio abbastanza l'a-
marlo solamente come quelli che ne osservano i
comandamenti? Senza dubbio, chi si contentasse
di ciò senza desiderare di amarlo maggiormente,
voglio dire senza sentir bisogno di accrescere il
suo amore verso la Bontà divina, non lo amerebbe
abbastanza; non abbiamo detto che il bastevole non
basta? Qui non è come nei desideri d'acquistar onori
e ricchezze, [dove il bastevole basta; sol che] nulla
varrebbe a soddisfare la sete insaziabile di colui, al
quale il bastevole non bastasse. Ma riguardo al
divino amore, non bisogna dire mai basta; chi così
parlasse, non ne avrebbe abbastanza. La Divinità
non può essere amata abbastanza se non da se stes-
sa; quindi è che la nostra sete di amarla non potrà
569

29.10 Page 290

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mai divenir sazia. Fa d'uopo anelare e sospirare
sèmpre a questo sauto amore, affinchè il Signore
si compiaccia di darci un amore corrispondente a
quello che egli ci porta.
Ma consideriamo un po' quest'amore che Dio
porta a noi, ' amandoci con sì grande tenerezza.
Vedi in che bèi modo il Salvatore ci esprime l'ardore
del suo affetto sia cou parole e sentimenti che con
opere. Con parole, è chiaro: non c'è argomento,
sul quale tanto largamente si diffonda, come su
quello del suo amore per noi e del suo desiderio
di essere da noi amato. Ecco quanto è geloso del
nostro amore: Amerai il Signore Dio tuo con tutto
il cuore, con tutta l'anima, con tutto lo spirito, con
tutte le forze, cioè con tutto il tuo potere. Poi nel
suo Sacramento sembra che non abbia mai parole
abbastanza per invitare gli uomini a riceverlo,
tanta è l'insistenza con cui mostra il bene da Lui
preparato a chi vi si accosterà degnamente. Io sono,
dice (1), il pane disceso dal Cielo; chiunque ne man-
gia, non morirà in eterno. Chi mangia la mia car-
ne e beve il mio sangue, ha la vita eterna. Io sono
il pane vivo: e tante altre espressioni. Ardentemente
ho bramato, dice ancora (2), di mangiare questa
(1) JOAN., vi, 50, 51, 52, 55, 58.
(2) Lue., xxn, 15.
5
Pasqua con voi. Poscia, parlando della sua morte
(1): Nessuno ama con amore più grande che colui
il quale dà la sua vita per il suo amico. E in cen-
tf altri modi ci espresse l'ardore dell'amor suo in
tutto il corso della vita, massime del tempo della
sua Passione e Morte.
Non ti sembra che abbiamo obbligo grandissimo
di contraccambiare il più possibile questo santo e
incomparabile amore, con cui il Signore ci ha ama-
ti e ci ama? Certo siamo obbligati; per lo meno, dob-
biamo avere buona volontà di farlo. Amar Dio con
tutto il cuore è amarlo con tutto il nostro amore,
ma con un amore ardente: quindi non bisogna
amare tante altre cose, almeno con affetto speciale.
Amarlo con l'anima è mettere tutta l'anima nell'e-
sercizio del suo amore. Amarlo con tutto lo spirito,
è amarlo con amore puro e semplice. Amarlo con
tutta la mente è pensare a lui il più sovente pos-
sinbile. Amarlo con tutte le forze è amarlo con
amore fermo, costante e generoso, che non si la-
scia abbattere, ma dura sempre. Amarlo con tutto
il nostro essere è mettere tutto il nostro essere
nelle sue mani per istare sottomessi interamente
al beneplacito del suo amore.
(1) JOAN., XV, 13.
571

30 Pages 291-300

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30.1 Page 291

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3. COME CONOSCERE SE AMIAMO DIO.
Avrai desiderio di sapere, come conoscere se arni
Dio nel modo anzidetto. Te ne» darò alcnni segni
infallibili. Il primo è provare grande soddisfazione
alla sua presenza; sai bene che l'amore cerca sem-
pre la presenza di chi si ama. Se ami grandemente
Dio, procurerai vivamente di cercarne la presenza
per unirti sempre più alla sua divina Bontà, non
già per la consolazione che vi è a godere di tale
presenza, ma semplicemente per appagare l'amore
di Lui che così desidera; cercherai il Dio di tutte le
consolazioni (1) e non le consolazioni di Dio.
Un altro segno per conoscere se ami molto Id-
dio è non amare tante altre cose con Lui, come ho
già detto (ma questo s'intende con amore vivo e
forte); poiché amare molte cose insieme è amarle
con amore meno intenso e meno perfetto. Finché
stiamo in questa valle di miserie la nostra capacità
di amare è piccola, e quindi non dobbiamo lasciare
che il nostro amore si sparpagli, ma tenerlo il più
possibile concentrato, per farlo convergere a un og-
getto così amabile, qual è quello di cui parliamo.
Amare qualche cosa con Dio è certamente neces-
sario; ma sia un amore che non vada di pari, sic-
(1) Coloss., in, 14.
572
chè lo si possa sempre mandar via, quando Iddio
così desiderasse.
Il terzo e principale indizio che ti dò per cono-
scere se ami molto Iddio,è l'amar molto anche il pros-
simo. Nessuno può dire con verità di amar Dio, se
odia il prossimo, come ci assicura l'Apostolo san Gio-
vanni (1). Ma come amare il prossimo? con quale
amore? Con l'amore, con cui Dio stesso ama noi;
giacché bisogna che andiamo ad attingere questo
amore nel seno dell'Eterno Padre, se si vuole che sia
quale dev'essere. Ma questo com'è? È fermo, costan-
te, invariabile: non fondandosi sulle frivolezze, nè
sulle doti o condizioni personali, non va soggetto a
mutamenti nè ad avversioni, come quello che ci por-
tiamo fra di noi, facile a dileguarsi o ad illanguidir-
si per una cera fredda ovvero non atteggiata al no-
stro umore o desiderio. Il Signore ci ama senza in-
terruzione (non parlo di chi è in istato di peccato
mortale); ci sopporta nei nostri difetti e nelle nostre
imperfezioni, senza per questo amarle nè favorirle.
Bisogna dunque che noi facciamo il medesimo coi no-
stri fratelli, non istancandoci mai di sopportarli,
.cardandoci bene tuttavia dal carezzarne le imperfe-
zioni, cercando anzi di fare il possibile per eliminar-
le, sull'esempio della Bontà divina. Ma Dio ci ama
(1) I JOAN., IV, 20.
573

30.2 Page 292

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per il Cielo, e quindi ama l'anima più ohe non il cor-
po; così dobbiamo fare anche noi. Amare il prossimo
per il Cielo è procurargli grazie e benedizioni median-
te le nostre preghiere, come pure incoraggiandolo
alla pratica delle sode virtù sia con parole che con
esempi. Così facendo, ci rallegreremo dei doni largiti
da Dio alle anime dei prossimi in grazia, virtù e be-
nedizioni celesti più che non degli onori, delle ric-
chezze e dei beni caduchi e perituri che potessero
loro toccare (1).
§ 4. AMORE AFFETTIVO ED EFFETTIVO.
L'amor divino è di due specie, affettivo ed effet-
tivo. Il primo è desiderato da tutti: e certamente
è un amore buono. Per esso durante l'orazione il
cuore uuota nel miele e gode una dolcezza squisita.
Oh, quanta soavità! Yi si provano stringimenti di
cuore, sentimenti d'amore, dati dallo Spirito Santo
come zuccherini a bimbi per attirarci. È cosa buo-
na, quando viene da Dio. Sant'Agostino che l'ha
provata, dice con grande sincerità (2): « Oh Dio!
oh, Gesù, Gesù! tu mi sciogli dai lacci de' miei pec-
cati, ma in pari tempo torni a legarmi e stringer-
(1[) S. R. XXII (t. i x , pp. 193-201).
(2) Confess., ix, 1.
mi con questi vincoli, con queste catene d'amore ».
L'altro amore è effettivo. Oh! questo è buono in
sommo grado. È un amore che opera e non istà ozio-
so (1). Sopporta travagli e pene, tollera ingiurie e
calunnie; non si stanca mai di patire e ci tiene sem-
pre in attività. Yedi la Maddalena? Era stata tocca
dall'amore affettivo, allorché, visto il suo Maestro
e volendogli baciare i piedi, gridò: Rabbonii Ma il
Signore la respinse dicendole: Non mi toccare, va'
dai miei fratelli. Ed ecco l'amore effettivo: pronta-
mente essa uscì e andò ('A). Il medesimo sant'Ago-
stino, dopo aver gustato le dolcezze dell'amore affet-
tivo, passò ai travagli dell'effettivo. Quanto non
ebbe a soffrire nella lotta contro le eresie! E tu avrai
ricevuto grandi dolcezze nell'orazione, ma fuori di
lì non puoi sopportare un'ingiuria, una parola, un'a-
zione sfuggita a qualcuno, uè sai adattarti a per-
sone d'indole contraria alla tua. Yi sono persone
che la natura ha arricchite di belle doti, e torna fa-
cile andar d'accordo con loro; altre non posseggono
tali qualità, hanno anzi un non so che di ripugnante
alle nostre inclinazioni. Ma certo l'amore effettivo
passa sopra tutto questo, lasciando da parte i propri
gusti per conformarsi interamente a quelli altrui.
(1) Cfr. S. Auc., Enarr. in ps. xxxi, §§ 5, 6.
(2) JOAN., x x , 16-18.
575

30.3 Page 293

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Sant'Agostino diceva una parola, clie dovrem-
mo tutti scolpire sulla porta delle nostre -stanze o
meglio dei nostri cuori: (1) « Mio Dio, quanto sarebbe
desiderabile, che te solo si amasse, che si amasse
te in tutte le cose e che non si amasse cosa alcu-
na senza di te! » Ma, o glorioso Santo, tu vuoi che
si ami Dio solo: ma non bisogna amare anche gli
amici1? Sì, ma in Dio. E non bisogna amar pure i
nemici? Sì, ma per Iddio. Come saremmo felici, se
facessimo così! Ma noi dobbiamo arrivare a un amor
di Dio, che ci faccia morire a noi stessi mercè un
intero e assoluto, rinnegamento. A proposito delle
parole rivolte dal Signore alla Maddalena: Va' dai
miei fratelli, il medesimo sant'Agostino osserva:
« Per andare ci vogliono qui due passi: morire e ri-
nunciare a tutto ciò che è fuori di noi; morire e ri-
nunciare a noi, che è il più difficile » (2). Se ne tro-
vano abbastanza, che entrando in Religione, rinun-
ciano a tutte le comodità, ai beni, agli amici; ma
pochi si trovano che rinuncino assolutamente a se
stessi, mediante cioè una rinuncia piena e intera.
Molti dicono bensì di amare i travagli ed anche di
desiderarli; ma pochi li sopportano con la dovuta
perfezione.
(1) Cfr. Conjess., x, 29.
(2) Medit., cc, 36, ,37; S. GREC. M., Homilli.
Evang., 1.
xxxn in
576
Chiuderò questo punto con un'altra parola di
sant'Agostino (1): « Mio Dio, è possibile sapere che
tu sei Dio e non amarti?» Certo fa pena il vedere
come anche noi, sapendo che Dio è Dio e credendo
in lui, pure non l'amiamo. Questo dice, quasi ram-
maricandosi, il Signore: Se vi è chi mi ami, mi se-
gua (2). Se vi è ehi mi ami: gli è come dire che il
numero di quei che lo amano, è piccolo (3).
§ 5. LA PRATICA DELL'AMARE LA VOLONTÀ DI D I O .
"Volgi prima lo sguardo- alla volontà generale di
Dio, a quella volontà con cui vuole tutto ciò che è
opera della sua misericordia e della sua giustizia
nel Cielo, sopra la terra e sotto terra, e con profonda
umiltà approva, loda, ama questa volontà altissima,
tutta santità, tutta equità, tutta bellezza.
Poi volgi lo sguardo alla volontà di Dio speciale,
a quella con cui ama i suoi, mandando loro secon-
do i casi consolazioni e tribolazioni. E qui bisogna
fermarsi un po' a riflettere alla varietà delle con-
solazioni, ma più ancora delle tribolazioni sperimen-
(1) Cfr. Serm. IX.
(2) JOAN., xiv, 23; XII, 26.
(3) S. R. xxxim (t. ix, pp. 335, 336-8).
57?
19. - E. CERIA, La vita religiosa ecc.

30.4 Page 294

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tate dai buoni; indi con grande umiltà approvare,
lodare, amare questa volontà.
Finalmente considera la volontà divina nei ri-
guardi della tua propria persona, rispetto a quanto
ti accade o ti può accadere di bene e di male, fatta
eccezione del peccato, il tutto approvando, lodando e
amando, risoluto di sempre onorare, pregiare, ado-
rare questa somma volontà con mettere a sua di-
sposizione la persona tua e quella dei tuoi.
Chiudi questa pratica ravvivando la tua confi-
denza nella volontà divina, persuaso che essa farà
sempre il nostro bene e la nostra felicità (1).
§ 6. DELL'ESSER TUTTI DI DIO.
Gran bene delle nostre anime è l'essere di Dio,
massimo bene l'essere tutte di Dio. Chi è tutto di
Dio non si contrista mai d'altra cosa che di aver
offeso Dio, e questa tristezza è accompagnata da
profonda, ma tranquilla e placida umiltà e sommes-
sione, e seguita da un elevarsi alla Bontà divina
mediante una dolce e piena fiducia, senz'ombra di
affanno nè di risentimento. Chi è tutto di Dio cerca
Dio solo, e poiché Egli si trova nella tribolazione
non meno che nella prosperità, così nelle vicende
avverse si sta con pace. Chi è tutto di Dio pensa
( l ) L. XDXX (t. XIII, p.' 361).
8
sovente a Lui in ogni circostanza della vita. Chi è
tutto di Dio ha piacere che si sappia essere volon-
tà sua di servirlo, cercando, di fare quelle pratiche,
le quali gli giovano per istar unito con Lui. Sii dun-
que tutto di Dio e solo di Dio, unicamente deside-
roso di piacere a Lui, e in Lui, secondo Lui, per
Lui alle sue creature (1).
Che felicità dunque l'essere tutti di Dio, che per
farci suoi si è fatto tutto nostro! Ma per questo
dobbiamo crocifiggere in noi tutte le nostre affezioni,
massime le più vive e stimolanti, raffrenandone e
moderandone gli atti, in modo che non si facciano
istintivamente e nemmen per volontà nostra, ma per
impulso dello Spirito Santo. Soprattutto si richiede
un cuor buono, dolce e amorevole col prossimo, spe-
cie quand'esso ci è fastidioso e antipatico; perchè al-
lora ciò che in lui ci muove ad amarlo è soltanto
il riguardo del Salvatore, la qual cosa nobilita e
impreziosisce l'amore, purificandolo e sceverandolo
dagli elementi caduchi (2).
§ 7. L'AMOK DI DIO E LE VIRTÙ.
L'amor di Dio dev'essere così puro che ci fac-
cia abbracciare indistintamente la pratica di tutte
(1) L. MDXLVIII (T. XIX, p p . 11-12).
(2) L. MXXIX (t. xvi, p. 285).
579

30.5 Page 295

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le virtù, senza che noi vi portiamo le nostre pre-
ferenze. Ben sovente ci dispiace d'aver commesso
qualche lieve mancanza contro la nostra virtù pre~
ferita e non ci diamo pensiero d'averne commessa
una assai più grave contro altra virtù fors' anche
più eccellente. Uno, per esempio, avrà gran di-
spiacere d'essersi lasciato entrare in bocca qualche
boccone più del necessario a motivo del suo, gran-
de amore alla sobrietà, e poi non si curerà affatto
di lasciarne uscire tante parole contrarie alla cari-
tà. Si dà eresia nella carità, come si dà nella fede.
Eresia è scegliersi da credere certi articoli di fede,
rifiutando di credere gli altri. Lo stesso dicasi
della carità: scegliersi un comandamento di Dio
senza volerli osservare e rispettare tutti è un es-
sere eretico nella carità. Bisogna avere in pregio
e stima tutte le virtù, perchè ci rendono assai cari
a Dio, e non già praticarle e affezionarmi, perchè
ci vanno a genio (1).
La carità va poi così strettamente unita all'u-
miltà, che le due virtù non si possono separare.
Se tu mi dici che hai la carità e che non hai l'u-
miltà, io ti rispondo che menti; se affermi di arere
l'umiltà e non la carità, dici una cosa priva di senso.
L'umiltà è una virtù piccola e la minore di tutte
(1) S. R. v u. IX, pp. 35-36).
580
in apparenza, e di natura sua tende sempre al basso,
mirando a nascondersi sotterra ed a scomparir® in
seno al nulla; invece la carità è la prima, la più
eccellente, la più sublime delle virtù, perchè ab-
braccia Dio: ciò nondimeno vuol andare unita al-
l'umiltà, con cui si disposa. Se dunque ti credessi
di possedere la carità senza l'umiltà, saresti in er-
rore; faresti come chi volesse mettere il tetto a una
casa -prima d'averne gettate le fondamenta e tirati
su i muri: impresa da matti. La carità è il tetto
che corona tutto l'edificio della perfezione cristiana,
e l'umiltà ne è il fondamento; nell'anima perciò
questa viene prima della carità a prepararle il po-
sto (1).
§ 8. UNIONE c o n D i o .
'
T: s
Mi domanderai come fare per vivere sempre in
unione con Dio. Per tenere la mente così unita a
Dio, che nulla valga a staccarla nè a ritrarla da
Lui, due cose son necessarie: morire e salvarsi;
solo così non vi sarà mai più separazione e la mente
starà legata a Dio in modo da non potersene sciorre.
Certe anime divote vorrebbero chejieppure la più
(1) S. R. XXV (t. IX, pp. 224-226).
581

30.6 Page 296

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piccola mosca ne distraesse la mente da Dio. Ma
le piccole distrazioni non ci allontanano la mente
da Dio, perchè da Dio ci allontana soltanto il pec-
cato; e poi la risoluzione fatta al mattino di tener
la mente unita a Dio e attenta alla sua presenza
vi ci mantiene sempre, anche mentre dormiamo,
perchè prendiamo il sonno in nome di Dio e secon-
do la sua santissima volontà. Anzi, la divina Bontà
sembra dirci: — Tu dormi e riposa, e io terrò su
di te gli occhi per custodirti e difenderti dal leone
ruggente che ti va sempre attorno per trovar modo
di divorarti (1). Lo star sempre attenti alla pre-
senza di Dio è il mezzo per far bene tutto ciò che
si fa; chè nessuno di noi l'offenderà, vedendo ch'E-
gli ci guarda. Nemmeno i peccati veniali ci posso-
no sviare dalla strada che conduce a Dio; rallen-
tare un poco il nostro cammino, sì: ma fuorviarci,
no: tanto meno le semplici distrazioni.
Riguardo all'orazione, questa non cessa di es-
sere vantaggiosa per noi e gradita a Dio per tante
che siano le nostre distrazioni; anzi, ci sarà essa
forse più utile così, che non se vi si gustassero molte
consolazioni, richiedendovisi allora maggior fatica:
purché, ben inteso, siamo diligenti a liberarci dalle
distrazioni senza tratt enervici volontariamente. Lo
(1) I PETR., Y, 8.
8
stesso si di< a del'a nosti a difficoltà a fissare la mente
in Dio e nelle cose celesti lungo i giorno, sempre-
chè procuriamo di richiamare la mente e d'impe-
dirle che corra dietro alle mosche e alle farfalle,
come suole la madre col suo figliuolino. Vede essa,
che il piccolo si entusiasma a inseguire le farfalle,
smanioso di prenderle, e lo ferma e lo tiene con tutt'e
due la brace a e gli dice: — Figlio mio, ti piglie-
rai un'infiammazione, correm o dietro le farfalle
con questo sole; è meglio star qui vicino a me. —
Il piccino sta là finché ne vede un'altra, e subito le
correrebbe dietro, se la madre-non lo tenesse, come
prima. Che fare? Ci vuol paz enza e non istancarsi
mai della fatica, giacché tutto è per l'amor di Dio.
Ma, se io non m'inganno, quando diciamo di
non poter trovare Dio e che Dio ci sembra lontano
da noi, d'ordinario intendiamo dire che non si rie-
sce ad avere il sentimento della sua presenza. Io
ho notato che molti non fanno distinzione tra Dio
e il sentimento di Dio, fra la fede e il sentimento
della fede, e questo è un gravissimo sbaglio. A co-
storo sembra che, quando non sentono Dio, non
sono alla sua presenza: ma non sanno quel, che di-
cono. Una persona che soffra il martirio per Iddio
e nondimeno durante quel tempo non pensi a Dio,
ma alla propria pena, benché non abbia il senti-
mento della fede, pure non lascia di meritare nè
583

30.7 Page 297

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di fare un atto di grande amore in grazia della ri-
soluzione antecedente. Ci corre di molto fra il dire
d'aver la presenza di Dio (cioè di stare alla pre-
senza di Dio) e il dire di aver il sentimento della
sua presenza: Dio solo ci può fare questa seconda
grazia: darti i mezzi per acquistare tale sentimento
non è in poter mio.
. Invece io posso suggerirti il mezzo di stare sem-
pre con gran rispetto dinanzi a Dio; e l'unico mezzo
è di pensare ch'egli è il nostro Dio e che noi sia-
mo sue deboli creature, indegne di tanto onore, co-
me faceva san Francesco, che passò tutta una notte
rivolgendo a Dio la domanda? — Chi sei tu? chi
sono io? —
Finalmente, come se tu mi chiedessi che cosa
devi fare per acquistare l'amor di Dio, ti risponde-
rei: volerlo amare; così invece di metterti a pensare
e a domandare in che modo potrai unire la tua
mente a Dio, vieni senz'altro alla pratica mediante
un continuo rivolgere a Dio la mente, e io ti assi-
curo che raggiungerai con tal mezzo il tuo intento
assai più presto che non per qualsiasi altra via.
Quanto più ci perdiamo in simili pensieri, tanto
meno stiam raccolti e quindi siamo tanto meno ca-
paci di unirci a Dio, che ci vuole tutti suoi senza
riserva. A forza di pensare come faranno, certe ani-
me non han tempo di fare; eppure in ciò che ri-
584
guarda la nostra perfezione, la quale consiste nel-
l'unione dell'anima nostra con la divina Bontà, tutto
si riduce qui: sapere poco e fare assai. A me sem-
bra che chi è richiesto d'insegnar la strada del Cielo,
abbia ragione di rispondere come chi dice che per
andare in un dato luogo bisogna andar sempre, cioè
muovere un piede dopo l'altro, e che così s'arriverà
alla meta desiderata. Andate sempre, bisogna dire
alle anime desiderose della perfezione, andate per
la strada della vostra vocazione con tutta semplicità,
badando più a fare che a desiderare: questo è an-
dare per la più corta (1).
Fa' dunque con la maggior frequenza possibile
atti di adorazione a Dio mediante brevi, ma fervidi
slanci del cuore. Ammirane spesso la bontà, molti-
plica gli ossequi interni, mettiti ai piedi dalla sua
santa Croce, invocane l'aiuto, pregalo insistente-
mente che ti salvi, rinnovagli più e più volte al gior-
no l'offerta dell'anima tua. Talora anche non dir-
gli parola, ma rivolgi un semplice sguardo alla sua
dolcezza. Sta in questo un punto importantissimo
del profitto spirituale: poiché il nostro spirito, pra-
ticando spesso e familiarmente con Dio, viene a
prendere la fragranza delle sue perfezioni. Ripeti
inoltre spesse volte il fermo proposito di non vo-
ti) E. ix (t. vi, pp. 148-151).
58

30.8 Page 298

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lerlo mai offendere, come faceva Davide, il quale
esclamava (1): — No, mio Salvatore, io non dimen-
ticherò mai in eterno i tuoi santi voleri, perchè per
essi tu mi desti la vita (2). —
§ 9. PENSIERI SULL'AMOR DI DIO.
1. Ama molto Iddio, che è stato sempre così
amorevole con te, e non amar nulla, se non in Lui
e per Lui (3).
2. Noi siamo al mondo per ricevere e portare il
dolce Gesù: sulla lingua annuciandolo, sulle brac-
cia facendo opere buone, sulle spalle sopportandone
il giogo, e così nei nostri sensi interni ed esterni.
Buon per coloro che lo portano con soavità e co-
stanza! (4).
3. Il fuoco visto da Mose sul monte (5) rappre-
sentava il santo amor di Dio; e come quelle fiam-
me avvampavano fra le spine, così l'esercizio del
santo amore si mant:ene assai meglio fra le tribo-
lazioni che non fra le allegrezze (6).
(1) Ps., cxvm, 93.
(2) L. MMLXI (t. x x i , p. 142).
(3) L. CDLXXXVI (t. x i v , p. 80).
(4) L. DLV (t' XIV, p. 211).
(5) Exod., ni, 1, 2.
(6) L. DCXIX (t. x i v , p. 3 4 5 ) .
6
4. Com'è dolce veder il Signore coronato di spine
sulla Croce e di gloria nel cielo! Questa vista c'in-
coraggia a ricevere amorosamente le contraddizioni,
ben sapendo che per la corona di spine giungeremo
alla corona di felicità. Tienti dunque ben unito al
Signore; così non troverai alcnn male che non ti si
converta in bene (1).
5. La moderazione sta sempre bene in tutte le
pratiche di vote, fuorché in quella dell'amor di D o ,
che non si deve amare con misura, ma assoluta-
mente senza misura (2).
6.- A chi Dio è tutto, il mondo è niente (3).
7. L'uomo in questo mondo è come un albero
piantato dalla mano del Creatore, coltivato dalla
sua sapienza, innaffiato dal sangue di Gesù Cristo,
affinchè produca frutti, i quali siano di gusto del
suo Padrone; e ciò ch'egli desidera è che noi lo ser-
viamo specialmente col lasciarci volentieri governare
dalla sua Provvidenza, la quale conduce i volonte-
rosi e trascina per forza ì ritrosi (4).
8. Nu la può recar nocumento a coloro che sono
(1) Ibid. (pp. 345-6).
(2) L. MDCCLXXVIJ (t. XX, p. 50).
(3) L. MCMLXV (t. XXI, p. 1.)
(4) L. MCMXCI (t. x x i , p. 30|).
587

30.9 Page 299

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davvero risoluti di amar Dio sopra tutte lo cose e
in tutto le cose (1).
9. Il nostro Dio, a differenza delle altre cose, è
buono per tutti e in tutt'i tempi, sicché tu lo tro-
verai sempre pronto a porgerti aiuto e conforto;
non istancarti dunque mai nella ricerca di un sì
gran bene, aspirando del continuo a Lui con brevi,
ma vivi slanci del cuore (2).
10. Le notti sono giorni per noi, quando Dio è
nel nostro cuore, e i giorni sono notti, quando Dio
non vi è (3).
11. Non di rado una persona da poco, debole di
corpo e d'animo, occupata solo in cose piccole, fa
queste con tanta carità da sorpassare in esse il me-
rito delle azioni grandi e rilevanti; perchè d'ordina-
rio queste ultime si fanno con minor carità a
motivo dell'attenzione e delle molteplici riflessioni,
con cui le si accompagnano. Se per altro un'opera
grande viene fatta con la stessa carità di quella pic-
cola, chi la fa ne consegue indubbiamente molto
maggior merito e premio. La carità insomma dà il
pregio e il valore a tutte le nostre opere; per con-
seguenza il bene che faremo, facciamolo per amor
(1) L. cccxvi (t. XHI, p. 114).
(2) L. cccvni (t. XIII, p. 90).
(3) L. MMXLBII (t. x x i , p. 126).
588
di Dio, e il male che eviteremo, evitiamolo per amor
di Dio (1).
§ 10. DELLA DIVOZIONE.
Vi è una generale inclinazione e prontezza d'a-
nimo a fare quanto si conosce tornar gradito a
Dio: in ciò consiste la virtù della divozione. Essa
è quell'allargarsi del cuore, di cui Davide diceva
(2): Io corsi la via de' tuoi comandamenti, quando
tu mi dilatasti il cuore. Coloro che sono semplice-
mente buoni, nella via di Dio camminano; ma i
divoti corrono. Ora ti darò alcune norme da seguire
per essere veramente divoto.
Prima cosa: fare la
volontà di Dio con prontezza.
Anzitutto bisogna osservare i comandamenti ge-
nerali di Dio e della Chiesa, che fan legge per o-
gni fedele cristiano: senza di ciò, è cosa risaputa
che non ci può essere divozione di sorta. Oltre i cor
mandamenti generali si debbono osservare con di-
ligenza i comandamenti particolari, propri di cia-
scuno secondo la sua vocazione: chi non facesse così,
(1) E. x (t. vi, p. 166)
(2) Ps. cxvm, 32.
58

30.10 Page 300

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risuscitasse anche i morti, non lascerebbe di essere
in peccato e di dannarsi, morendo in tale stato. Ai
Vescovi, per esempio, è comandato di visitare il loro
gregge, d'istruirlo, correggerlo, consolarlo: se io me
ne stessi tutta la settimana in orazione e digiunas-
si tutta la vita, ma non facessi questo, andrei per-
duto.
Ecco pertanto due specie di comandamenti da
osservarsi con diligenza, perchè fondamentali nella
divozione; tuttavia la virtù della divozione non con-
siste solo nell'osservarli, ma nell'osservarli con
prontezza e volentieri. Ora, per acquistare tale
prontezza giovano diverse considerazioni.
La prima è che Dio lo vuole, e la ragione ci di-
ce che dobbiamo fare la sua volontà, essendo noi
al mondo unicamente per questo. Gli domandiamo
ogni giorno che sia fatta la sua volontà; ma pur-
troppo, quando viene il momento di farla, vi pro-
viamo tanta pena! Ci offriamo tanto spesso a Dio,
dicendogli a ogni tratto: — Signore, son tutto vo-
stro, a voi dono il mio cuore; — ma poi quand'egli
si vuol servire di noi, siamo così infingardi! Come
possiam dire di essere suoi, non volendo conforma-
re la nostra volontà alla sua?
La seconda considerazione è che i divini precet-
ti sono di lor natura dolci, amabili e soavi: dico
non solo i precetti generali, ma anche quelli par-
9
ticolari della vocazione. E che cosa è dunque che
te li rende gravosi? Nient'altro che la tua volontà, -
che vuol regnare in te a qualunque costo, sicché
le cose stesse, che non comandate forse desiderereb-
be, le rifiuta comandate. Era tanti e tanti frutti
deliziosi Eva scelse proprio quello proibito; senza
dubbio, se ne avesse avuto il permesso, non l'a-
vrebbe mangiato. Il fatto è insomma, che noi vo-
gliamo servir Dio secondo la nostra volontà, e non
secondo la sua. Saulle aveva ordine di distruggere
tutto quanto avrebbe trovato nel paese degli Ama-
leciti: tutto distrusse, fuorché le cose di valore, che
mise da parte e offerse in sacrificio: ma Dio dichia-
rò, che egli non vuole sacrifici contro l'obbedienza
(1). Dio mi comanda di attendere al bene delle a-
nime, e io me ne voglio stare in contemplazione: è
buona la vita contemplativa, ma non a detrimento
dell'obbedienza. Non tocca a noi scegliere di no-
stro arbitrio: bisogna vedere che cosa voglia Iddio,
e se Dio vuole che io lo serva in un modo, non deb-
bo volerlo servire in un altro. Dio vuole che Saulle
lo serva da re e da capitano, e Saulle vuol servir-
lo da sacerdote: indubbiamente questo è meglio di
quello, ma Dio non se ne appaga, perchè vuol es-
sere obbedito.
(1) / Reg., XV, 3-23.
591

31 Pages 301-310

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31.1 Page 301

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Gran cosa! Dio aveva dato agli Israeliti la man-
na, cibo deliziosissimo (1), ed ecco che essi non la
vogliono, ma tornano col desiderio all'aglio e alle
cipolle d'Egitto (2). È insito nella guasta nostra
natura il volere che sia fatta sempre la propria vo-
lontà, e non quella di Dio. Orbene, di mano in
mano che andrà scemando in noi la volontà no-
stra, ci si verrà via via facilitando l'osservanza di
quella divina.
La terza considerazione è che non si dà voca-
zione, la quale non abbia i suoi fastidi, le sue ama-
rezze, i suoi dispiaceri, e chi non vive interamente
rassegnato alla volontà di Dio, ha sempre voglia
di cambiare la sua condizione con quella degli altri:
chi è Vescovo, vorrebbe non esserlo; chi è coniu-
gato, vorrebbe non eser tale, e chi non è, vorrebbe
esserlo. Donde viene cotesta generale irrequietezza
d'animi, se non da ripugnanza a qualsiasi costri-
zione e da un certo maltalento, il quale ci fa im-
maginare che tutti gli altri stiano meglio di noi!
Ma è sempre lo stesso: chi non è rassegnato in tut-
to, si volga pure di qua e di là, non troverà mai
posa. Quei che han la febbre, non trovano mai do-
ve adagiarsi bene: non sono stati un quarto d'ora
(1) Exod., XVI, 14-31; Num., XI, 7-9; Sap., xvi, 20.
(2) Num., xi, 4, 5.
592
in un letto, che vorrebbero essere in un altro: ma
non ne può nulla il letto, è la febbre che li trava-
glia in ogni dove. Una persona che non abbia la
febbre della propria volontà, si contenta di tutto:
purché faccia quanto richiede il servizio di Dio,
non si cura del come Dio la voglia adoperare: sol
che si compia la sua divina volontà, per lei tutto
il resto è indifferente.
Seconda cosa: fare la
volontà di Dio con allegrezza.
Non basta. Per. essere dìvoti bisogna nou sola-
mente voler fare la volontà di Dio, ma anche far-
la allegramente. Se io non fossi Vescovo, è proba-
bile che, sapendo quel che so, non vorrei esserlo;
ma, poiché lo sono, debbo fare quanto questa dif-
ficile vocazione esige, e farlo con allegrezza, pren-
dendovi gusto e piacere. Così appunto dice san
Paolo (1): Ognuno resti nella sua vocazione davanti
a Dio. Bisogna non portare la croce degli altri,
ma la propria; e perchè porti ciascuno la sua, il
Signore vuole che ciascuno rinunci a se stesso (2),
cioè alla propria volontà. Il dire: — Preferirei que-
(1) / Cor., VII, 24.
(Z) MATT., XVI, 24.
5

31.2 Page 302

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sto o quello, starei meglio qui o colà, — son tutte
teutazioni. Il Signore sa quello che fa; facciamo
ciò ch'Egli vuole e stiamcene dove ci ha messi.
Alcune norme pratiche.
Ora eccoti alcune norme pratiche per saperti
regolare.
1° Nelle tue meditazioni quotidiane dedica sem-
pre un pensiero all'obbedienza praticata dal Signore
verso Dio, suo Padre: vedrai come tutto ciò clie fi-
gli ha fatto, l'ha fatto per conformarsi alla volontà
del Padre suo (1). Mediante questi riflessi sfóraati di
concepire un ardente amore alla volontà di Dio.
2° Prima di fare o di prepararti a fare cose
della tua vocazione cheti tornano spiacevoli, pensa
come i Santi abbiano fatto lietamente cose ben
maggiori e più dure: gli uni lian sofferto il mar-
tirio, altri hanno subito il disonore del mondo. San
Francesco e tanti religiosi nostri contemporanei
hanno baciato e ribaciato lebbrosi ulcerosi ; altri si
sono confinati nei deserti, altri sulle galere coi sol-
dati; e tutto ciò per far cosa gradita a Dio. E noi
che cosa facciamo che s'avvicini in difficoltà a tutto
questo?
(1) JOAN., v, 30; vi, 38.
5
3° Pensa sovente che tutto quanto facciamo,
ha il suo vero valore dalla conformità nostra alla
volontà di Dio; sicché, quand'io mangio e bevo,
se lo fo perchè è volontà di Dio che lo faccia, sono
più accetto a Dìo che non se incontrassi la morte
senza tale intenzione.
4° Spesse /volte durante la giornata rivolgiti
a Dio, implorando da lui l'amore alla tua voca-
zione e dicendogli con san Paolo, dopoché fu con-
vertito:— Signore, che cosa volete ch'io faccia? (1)
Volete ch'io vi serva nel più umile ufficio della vo-
stra casa? Oh, me ne stimerò fortunatissimo: pur
di servirvi, non mi curo del come. — E, venendo
alla cosa particolare che ti dovrà riuscir dura, di-
gli; — Volete che io faccia questo o quello? Oh, Si-
gnore, ancorché io non ne sia degno, lo farò ben
volentieri. — Gli è così che ti umilii davvero. Oh,
qual ricco tesoro ti acquisterai! più ricco certamente
che tu non sappia calcolare.
5° Considera quanti Santi e Sante vissero nella
tua vocazione e condizione, adattandovisi con tran-
quillità e rassegnazione grande. Ciò ti darà animo,
tanto più se ti raccomanderai alle loro preghiere.
6° Insomma, bisogna amare ciò che Dio ama.
Ora, Dio ama la nostra vocazione: amiamola noi pure
(l) Act., ix, 6.

31.3 Page 303

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grandemente e non- perdiamoci ad almanaccare su.
quella degli altri. Facciamo la parte nostra: che o-
gnuno abbia la sua Croce, non è cosa straordinaria.
Unisci dolcemente l'ufficio di Marta con quello di
Maddalena: fa' con diligenza quanto s'appartiene
alla tua vocazione, e rientrando sovente in te stesso;
e mettendoti in ispirito ai piedi del Signore digli:
—r Mio Signore, o mi muova o me ne stia fermo, io
sono tutto vostro e voi siete tutto mio: ch'io faccia
questo o quello, tutto è per amor vostro. —
7° Ricordati infine di far onore alla divozione, ren-
dendoti amabile a tutti coloro che ti conosceranno,
massime a quei di casa, sicché ognuno ne dica be-
ne (1). Io non voglio una divozione bisbetica, arci-
gna, malinconica, fastidiosa, mesta; ma una divo-
zione dolce, soave, piacevole, tranquilla; in breve,
una pietà disinvolta e che si faccia amare da Dio
prima di tutti e poi dagli uomini (2). E quando ti
accadano contrarietà, mettiti interamente nelle ma-
ni del Signore, e consolati col pensiero che questi
sono favori suoi a coloro che son buoni o che s'in-
camminano a divenir tali (3) (4).
(1) L. cccxxxm (t. XII, pp. 346-351D.
(2) L. ccxci (t. XIII, pag. 59).
(3) Cfr.// Tim, ni, 12
(4) L. CCCXXXIII (t. xra, pp. 351-2).
596
§ 11. I SETTE DONI DELLO SPIRITO SANTO.
Nel libro dei Numeri al capo ottavo si dice che
Dio comandò a Mosè di mettere presso il taberna-
colo un gran candeliere d'oro, che portava sette
lampade sempre accese. Sant'Isidoro e prima di
lui san Cirillo di Gerusalemme han detto che quel
candeliere e le sue sette lampade rappresentavano
10 Spirito Santo e i suoi sette doni. È vero infatti
che ogni luce, calore, illuminazione e benedizione
procede dallo Spirito Santo, cioè da Dio in quanto
Egli è amore; ma il tutto è distinto in sette doni
dello Spirito Santo.
Spunterà un pollone dalla radice di Jesse, dice
11 profeta Isaia (5), cioè la Vergine, e dalla Vergi-
ne unfiore, che è il suo Figlio, Signor nostro, e su
quel fiore ripoterà lo Spirito Santo: spirito di sa-
pienza e d'intelligenza, spirito di consiglio e di for-
tezza, spirito di scienza e di pietà: e lo riempirà lo
tpirito del timor del Signore. Cosicché l'umanità
santa del nostro Salvatore è stata come un fiore
divino sul quale riposò il Santo Spirito per comu-
nicargli i suoi sette doni.
Vediamo quali siano questi doni. Il profeta li
enumera secondo l'ordine di dignità, e poiché il
(l) Cap. xi, 1-3
5

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dono della sapienza è il più eccellente e il più alto,
mette quello per primo, e poi via via i meno eccellen-
ti. Ma noi, dovendone parlare per nostra istruzione,
cominciamo dal fondo e risaliamo alla cima; adesso
che siamo sulla terra, cominciamo dal primo gradi-
no: quando saremo arrivati al sommo, voglio dire
al Cielo, potremo trarre i tesori dal seno dell'eter-
no. Padre.
1. IJ timore.
Per cominciare "dunque a salire questa scala di-
vina, il primo dono dello Spirito Santo è il dono
del timor di Dio. Ma qual timore! giacché vi è un
doppio timor di Dio, uno inferiore e l'altro supe-
riore. Principio della sapienza è il timor di Dio, di-
ce il Salmista (1); e altrove: Santi tutti del Signo-
re, temetelo (2). E il Savio dice (3): Si scrivono li-
bri su libri; ma il contenuto di tutti si compendia
nel timor di Dio.
Ma che cosa vuol dire timor inferiore o superiore?
domanderà qualcuno. Ecco. Si teme Dio o come pu-
nitore di chi fa male o come rimuneratore di chi fa
(1) Ps. ex, 9.
(2) Ps. XXXIII, 9.
(3) Eccles., XII, 12, 13.
598
bene. Il primo timore è servile e somiglia a quello dei
galeotti, che remano solo per forza, nè mai tocche-
rebbero il remo, se non temessero le nerbate. Così
vi sono persone che non lascerebbero mai la loro
vita cattiva, se non temessero la morte, il giudizio
e le pene dell'inferno. Questo timore è il più comune
fra gli uomini, come l'esperienza quotidiana lo dimo-
stra; poiché di diecimila penitenti non uno forse
pensa alla salvezza dell'anima senza cominciare dal
timor della morte, del giudizio e dell'inferno. Ecco
perchè il profeta Davide, parlando a Dio, gli dice
(1): Tu sottometterai al tuo dominio re e grandi, le-
gandoli in ceppi di ferro.
I ceppi e le catene di ferro, dice sant'Agostino
(2), sono il timore di andar dannato, e questo timo-
re è buono per incamminarsi alla salute: gli uomi-
ni infatti, riconoscendo essere impossibile che Dio
non punisca i peccatori che l'hanno offeso,|ne temono
e paventano i castighi, e quest'apprensione è natura-
le: poiché, come la natura c'insegna che vi è un
Dio, così, dice san Giovanni Crisostomo (3), è im-
possibile pensare che vi sia un mondo retto e go-
vernato dalla sua Provvidenza, dov'egli non eserciti
(1) Ps. CXLIX, 8.
(2) Enarr. in Ps., CXLIX, 15.
03) Hom. XII (ad pop. Antioch.), 5 3-4.
5

31.5 Page 305

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la sua giustizia verso gli uomini con la punizione
dei peccati.
Davide stesso faceva a Dio questa preghiera (1):
Trafiggi col tuo timore le carni mie, perchè ho temu-
to i tuoi giudizi. E non leggiamo negli Atti degli
Apostoli (2) che Felice, preside della Giudea, ben-
ché pagano, tremò di spavento sentendo san Paolo
parlare del giudizio finale, senza per altro convertir-
si? Così molti temono i divini giudizi, ma non ne
hanno il cuore trafitto: provano un certo timore che,
restando nella parte inferiore e nei sensi, non produ-
ce nessun effetto nelle loro anime; invece il dono
dello Spirito Santo penetra dentro il cuore e vi pro-
duce degni frutti di penitenza (3). Laonde tu vedrai
d'ordinario, come quei che provano questo timore
nella parte inferiore soltanto, ritornano a casa dalla
predica malinconici, mentre quei che hanno il timo-
re che è dono dello Spirito Santo, ne ritornano con-
vertiti e penitenti.
Questo è il motivo che faceva dire a Davide:
Ti chieggo, o Signore, una saetta scagliata dalla
tua mano, che mi trapassi il cuore. E san Girola-
mo diceva che il timore dei giudizi di Dio gli colpi-
(1) Ps. cxvm, 120
(2) Cap. xxiv, 25.
(3) Lue., IH, 8; Act., xxvi, 20.
va l'anima così fortemente da sembrargli sempre di
sentirsi risonare alle orecchie la voce spaventevole
degli Angeli: Sorgete o morti, e venite al giudi-
zio (1). Oh, quanti hanno lasciato il peccato per que-
sto timore del giudizio!
Ben a ragione dunque esso vien detto il prin-
cipio della sapienza, e l'amore il compimento del-
l'opera (2), perchè ci fa salire al Cielo per unirci
a Dio; ma per giungere a tanto, bisogna abban-
donare il peccato, e per abbandonarlo bisogna te-
mere. Ecco l'effetto di questo timore inferiore.
L'altro che io chiamo superiore è il timore di
perdere il Cielo. Vi sono- purtroppo uomini così
carnali che, come se non esistesse paradiso, ma vi
fossero soltanto pene infernali, non si curano affat-
to di perdere quello, paghi di possedersi il paradiso
mondano, terreno, misero e infelice, senza punto
aspirare al paradiso celeste. Ora il timor di Dio
non comprende solo la paura delle pene infernali,
ma anche quella di perdere il Paradiso.'Un senti-
mento dunque più nobile, sollevandoci il cuore
ai beni eterni, ci fa dire col salmista (3): Inclinai
il mio cuore ad eseguire sempre i tuoi comandamen-
ti) Reg. Monach. ex scriptis S. Hier. collecta, xxiu.
(2) I JOAN., BV, 18.
(3) Ps. cxvm, 112.
601

31.6 Page 306

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ti per amore della retribuzione. Queste notevoli
parole non vogliono significar altro se non che il
timore ci fa smettere di operar il male in vista del
paradiso che dev'essere la nostra mercede. Quindi
è che le anime nobili per incorarsi alla fatica si
mettono dinanzi agli occhi, come Davide, la glo-
ria eterna. — Perchè non faticherei, dicono, a fine
di entrare in possesso dell'eredità celeste? Ho in-
clinato il mio cuore ad eseguire sempre i tuoi coman-
damenti per amore della retribuzione. E sarebbe
mai possibile che io volessi perdere il paradiso?
Sarei io così infingardo da perdere l'eredità pro-
messami nella patria celeste? —
Questo timore, come adesso vedi, si chiama in-
feriore e superiore, perchè composto di due timori:
si temono le pene dell'inferno, si teme la perdita
del paradiso. E un lai timore che ci fa lasciare il
peccato, è dono dello Spirito Santo, ed Egli solo ce
lo può dare: perciò vien chiamato il principio deb
la sapienza, essendo per via ordinaria il principio
della nostra salvezza. È ben vero che gli eretici lo
dicono cattivo, ma s'ingannano a partito: le paro-
le di Gesù Cristo danno loro assolutamente torto.
Non temete, dice (l), coloro che uccidono il corpo,
ma temete Colui che può mandare in perdizione e
(1) MATT., x, 28.
602
l'anima e il corpo all'inferno. Il che ci dimostra
come questo timore sia buono e come Dio ne sia
l'autore ed Egli ce lo infonda nell'animo per dare
principio con esso alla nostra salvazione (1).
Nota ancora una cosa. È detto che i doni del-
lo Spirito Santo riposarono sul capo del nostro di-
vin Salvatore e si aggiunge che lo riempì il timor
del Signore. Che significa ciò? il nostro Maestro
non aveva bisogno di timore. Riteniamo dunque
che Egli ne fu riempito per ispanderlo su ciascuno
di noi, perfetti o imperfetti; sui perfetti, affinchè
temano di decadere dalla perfezione, e sugl'imper-
fetti, affinchè temano di non poterla raggiungere.
E come una fiala si riempie di qualche essenza, ben-
ché essa non ne abbia alcun bisogno, essendone
per la sua durezza impermeabile, così il nostro be-
nedetto Salvatore fu ripieno del timor del Signore,
non già per sè, ma unicamente per versarlo ne'
suoi fratelli.
Tuttavia, massime a persone religiose, non oc-
corre molto parlare di timore, ma sol quanto ba-
sti per venire in aiuto, bisognando, all'amore. Non
dobbiamo nè star attaccati al timore nè tenerlo at-
taccato ai uostri cuori, essendo ivi il luogo del-
ti) S. R. LXX (t. x, pp. 418-422)
603

31.7 Page 307

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l'amore: lasciamolo alla porta del cuore (1), affinchè
sia pronto, come dicèvo, a soccorrere l'amore (2).
2. La pietà.
Il secondo dono dello Spirito Santo è la pietà:
una virtù speciale che dipende dalla giustizia e con-
siste nell'onore, rispetto ed amore da noi reso non
solo a Dio come a nostro sommo Creatore e Padre
amabilissimo, ma anche a coloro che abbiamo per
superiori spirituali o temporali. Lo Spirito Santo
dunque, venendo nel cuore, gli comunica il dono
della pietà, per cui l'anima porta grandissimo onore
e rispetto a Dio, mandandovi di concerto un amor
filiale e un amoroso timore.
E noi vediamo, come Dio lamenti la mancanza
di timore, amore, onore e rispetto, dicendo per bocca
del profeta Malachia (3): Se io son padre, dov'è
l'onore a me dovuto? e se io sono il Signore, dov'è
il timore a me dovuto? Il figlio serve da figlio, e
non da schiavo per tema delle battiture, nè da mer-
cenario per desiderio della ricompensa, ma per
amore, per quell'amore che è impresso in un cuor di
(1) I JOAN., IV, 18
(2) S. R. XXXII (t. ax, pp. 318-319).
(3) MAL., I, 6.
604
figlio. Quando l'anima ha avuto il timore di perdere
il paradiso, passa oltre e dice: — Anche senza pa-
radiso, Dio è mio padre: mi ha creato, mi conserva,
mi mantiene e mi dà tutto, e quindi lo voglio amare,
onorare e servire. —
Oh dono della pietà, ricco presente fatto da Dio
al cuore! Pelice chi al cuor paterno del Padre ce-
leste risponde con cuor di figlio! (1). A questo ap-
punto egli ci vuol condurre, allorché nell'orazione
domenicale si fa da noi chiamare Padre nostro che
è. ne' Cieli: nome che esprime rispetto, amore e ti-
more.
E per mostrare come il dono della pietà, cioè il
timor filiale, ci sia dato dallo Spirito Santo, l'A-
postolo san Paolo, scrivendo ai Romani (2), dice loro:
Non avete ricevuto di bel nuovo lo spirito di servitù
per temere, ma avete ricevuto lo . spirito di adozione
in figliuoli, mercè di cui gridiamo: Abba (padre).
In altri termini, noi diveniamo per Nostro Signore
teneri figli. I figliuoletti vivono in grande fidanza:
non pensano che il padre voglia batterli o preparar
loro un'eredità, ma badano solo ad amarlo senza
curarsi d'altro, perchè portati da lui in braccio, da
lui nutriti e carezzati, oggetto insomma di tutta la
(1) Galat., iv, 6.
(2) Rom., vili, 15.
5

31.8 Page 308

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premura del loro buon padre. Così dobbiamo fare
noi con Dio: riverirlo qual Padre, servirlo con
amore senza paura di supplizi nè pretesa di ricom-
pensa, lasciarci portare in braccio alla sua santa
Provvidenza nel modo che a lui piacerà.
3. La scienza.
Il terzo dono dello Spirito Santo, andando in or-
dine inverso, è la scienza, non già per sapere le
cose umane, come Aristotele, Platone, Omero, Vir-
gilio e gli altri filosofi che ebbero questa scienza,
ma di nessuna utilità per essi; la scienza, dono dello
Spirito Santo, è necessaria per ben esercitare i due
primi doni, per sapere cioè come comportarci con Co-
lui che vogliamo temere e amare e per iscoprire e sa-
per discernere il male da schivare e il bene da prati-
care. Fuggi il male e opera il bene, dice il Profeta
(1): ecco la scienza delle scienze, la scienza dataci
dallo Spirito Santo, quella che i figli del mondo noD
hanno avuta: quand'anche fossero grandi filosofi,
essi non hanno imparato a glorificare Dio nè a se-
guire la giustizia, perchè tennero prigioniera la ve-
rità nell'ingiustizia, dice l'Apostolo (2). Avevano
(1) Ps. xxxvi, 27.
(2) Rom,, I, 18, 21.
bensì la verità nell'intelletto, ma non nella pratica,
non possedendo l'umiltà cristiana, che ci fa cadere
in ginocchio dinanzi a Dio per riceverne un dono
sì necessario a operare la nostra salute.
È desiderio naturale di tutti la scienza del bene
e del male; quindi è che la desiderò Eva curiosa.
Dio sa il male, ma per detestarlo, e il bene per at-
tuarlo. Sarete come dèi, conoscendo il buono e il
cattivo (l), disse il serpente ai nostri progenitori
per trarli miseramente in inganno, facendo loro com-
mettere il male. Sant'Agostino in un'omelia sopra
la Pentecoste (2) dice che i filosofi hanno parlato
magnificamente delle virtù, ma per'disprezzarle, e
così pure dei vizi, ma per praticarli, da quei ciechi
che erano, altra vera scienza non essendovi fuor-
ché quella dello Spirito Santo, da Ini comunicata
solamente ai cuori umili (3). NOD abbiamo visto
anche tanti grandi teologi, che han detto mirabilia
delle virtù, ma non per esercitarle, e all'incontro
tante sante donne che non sapevano parlare delle
virtù, ma che nondimeno sapevano benissimo pra-
ticarle? E chi aveva fatto loro questo dono della
scienza, con cui discernere il bene e il male, il vizio
(1) Gen., Ili, 5.
(2) Ser. CCLXIX, 4.
( 3 ) PTOV., I H , 3 2 ; 1 7 . , L v m , 1 5 .
60

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e la virtù, se non lo Spirito Santo? Ma io, dirai,
non so come si debba praticare la virtù. Mettiti alla
presenza dello Spirito Santo, umiliati, ed egli te
l'insegnerà e ti renderà sapiente.
Certo si'son veduti dei Santi mirabilmente sa-
pienti nella loro ignoranza e mirabilmente ignoranti
nella loro scienza. Peste della scienza è la presunzio-
ne, vera gonfiezza e idropisia degli spiriti, come si
scorge d'ordinario nei sapienti del mondo. Oh quale
ignoranza in siffatta scienza! Santa Caterina mar-
tire fu molto sapiente, ma la sua scienza stava umile
ai piedi della Croce. Altre Sante furono ignoranti
e nella loro ignoranza mirabilmente sapienti, come
santa Caterina da Genova: era la presenza dello
Spirito Santo che le rendeva sapienti; poiché ave-
vano il timore, la pietà e l'umiltà, Dio fece loro
il prezioso dono della scienza, tanto desiderata da
Eva, ma per orgoglio, a fine di essere simile a Dio.
4. La fortezza.
Al dono della scienza tiene dietro il quarto della
fortezza, che ci è assolutamente necessario: non ba-
sta saper discernere il bene e il male, se poi man-
ca la forza per evitare questo e praticare quello.
Quanta gente non si è vista che sapeva il bene e
non aveva il coraggio di praticarlo!
608
Ma, dirai, se riceviamo lo Spirito Santo e insie-
me tutti i suoi doni nell'atto di ricevere con le
disposizioni richieste i Sacramenti, donde proviene
che si ricade sì spesso nel peccato? È per debo-
lezza, non osandosi da noi muover guerra al vizio
con l'energia e il coraggio necessari a riportare
vittoria sui nostri nemici. Si va, per esempio, alla
confessione, in cui si riceve lo Spirito Santo con la
remissione dei peccati; eppure, quanti ricadono nei
medesimi peccati dopo la confessione! Donde ciò, se
non da manco di coraggio? Si pensa: — Che cosa
si dirà di me, se mi mostro divoto, se faccio pe-
nitenza, se lascio la mondanità? — Si ha paura di
una parola in aria: non è questo un mancare di for-
tezza?
Ma osserva che, quand'anche siansi ricevuti i
doni dello Spirito Santo, se poi non si sta bene in
guardia, si possono perdere ogni momento; così pure
è sempre possibile valersi di un dono senza del-
l'altro, essendo essi in noi per modo di abito, il che
fa sì che ce ne serviam solo quando vogliamo. Non
avviene del cuore spirituale come del cuore carneo,
che, quand'anche noi dormiamo, non cessa di agire,
star desto e mandare i suoi spiriti vitali al cervello;
mentre invece nel cuore spirituale la volontà, il co-
raggio e la generosità sono indispensabili per fargli
compiere le sue operazioni.
609
20. - E. CERIA, La Dita religiosa ecc.

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Ecco perchè lo Spirito Santo ci comunica il dono
della fortezza, mediante il quale tanti Martiri vin-
sero i tiranni e superarono i tormenti con tale co-
stanza che nulla valeva a spaventarli; come si vede
leggendo le storie d'una sant'Agnese, d'una san-
t'Agata e d'infiniti altri (l).
È dunque grande la necessità che abbiamo della
fortezza; ma bisogna sapere in che consista.'Non
trattasi di fare come Alessandro Magno, che con-
quistò il mondo per forza d'armi. Egli non aveva
il dono della fortezza, per quanta forza gli si at-
tribuisca a motivo delle sue Conquiste; la sua forza
consisteva nelle palle di piombo, con cui diroccava
le mura delle città e rovesciava le opere di difesa.
Aveva ancor meno quel coraggio, di cui gli si dà
vanto; la prova è che non sapeva vincere se stesso
nemmeno per rinunciare a un bicchier di vino, tanto
era beone. Vedilo poi smaniare e piangere all'udire
da un filosofo che esistevano ancora altri mondi da
vincere e assoggettare: provò allora tale rincresci-
mento di non poterne fare la conquista, che non si
seppe dar pace.
Facciamo ora un confronto con la bravura e il
coraggio d'un san Paolo eremita o meglio di san
Paolo Apostolo. Alessandro distrugge città, atterra
(1) S. E. LXX (t. x , pp. 422-6).
610
castelli, soggioga il mondo con la forza delle armi, e
poi finisce con lasciarsi vincere da se stesso. Invece
il nostro grande Apostolo sembra che voglia sog-
giogare la terra, percorrendola tutta per abbattere
non le mura, ma i cuori degli uomini e sottomet-
terli al suo Maestro mediante la predicazione (1);
nè pago di tanto, vedi il potere che esercita sopra
di sè, debellando e assoggettando affetti e passioni
alla norma della ragione e poi tutto se medesimo
alla santissima volontà di Dio. Qui sta il dono della
fortezza e il colmo del coraggio: nel vincere se stesso
per assoggettarsi a Dio, mortificando e recidendo
senza riserva dagli animi nostri ogni eccesso e
imperfezione, quantunque si tratti di cose da poco;
inoltre questo dono ci aiuta a camminare verso il
sommo della perfezione senza temere la difficoltà che
s'incontra per via (2).
5. Il consiglio.
Dopo la fortezza, procedendo sempre a ritroso,
incontriamo il dono del consiglio, senza del quale
la fortezza è temerità; così tu vedi nei soldati che,
quantunque abbiano forza, pure han bisogno di un
(1) / Cor., l, 21-25.
(2) S. R. xxxit (t. ix, pp. i320).
1

32 Pages 311-320

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32.1 Page 311

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capitano per il consiglio. Il timore ci fa staccare
dal peccato, la scienza ce lo fa discernere; ina ci
vuole ancora il consiglio per mettere ad effetto
quello che la scienza ci fa conoscere. Rimane dun-
que da sapere quale metodo convenga seguire nella
pratica di ciò che lo Spirito Santo c'insegna. Ve-
drai, per esempio, una persona che, desiderosa di
darsi alla vita divota, dirà fra sè: — Che consiglio
seguirò per praticare il bene ispiratomi da Dio e
per evitar il male fattomi da lui conoscere? che
strada batterò? — Lo Spirito Santo che dimora nel
nostro cuore, ci consiglia e ci muove con la sua
ispirazione a far quello che è più conforme alla glo-
ria di Dio e alla nostra salvezza. — Finora io sono
stato avido della roba, sensuale, inclinato ai pia-
ceri della gola; vedo che questo è male, desidero
di ritrarmene; che farò dunque per liberarmi a poco
a poco da queste cattive abitudini e mortificare me
stesso? — Lo Spirito Santo consiglia i mezzi da
usare per vincere il male e operare il bene.
Vediamolo nella gente del mondo. Vi saranno
persone colleriche, dedite al giuoco, nel quale d'ordi-
nario si lasciano trasportare a parole iraconde e of-
fensive: che fare? Lasciar il giuoco. Ad altre pia-
ceranno conversazioni, in cui regna la maldicenza,
e ivi cadranno in questa colpa; risolvono di non
612
più dir niente, ma la conversazione le porta Insen-
sibilmente alla maldicenza: che fare? Lo Spirito
Santo dice loro internamente che bisogna abbando-
nare quelle conversazioni. Quanti vi sono nel mon-
do, i quali sanno benissimo che ivi l'aria infetta è
causa di malanni e che dà la morte eterna alle ani-
me, in cui entra, o cagiona loro gravi infermità!
Quale il rimedio? — Venite via — dice loro inter-
namente lo Spirito Santo, — dal momento che co-
noscete di non potervi operare la vostra salvezza.
— Egli dunque o ci consiglia immediatamente con
le sue ispirazioni o ci consiglia di consigliarci da
chi è da lui illuminato (1).
Ci vuole poi il dono del consiglio anche per sa-
per scegliere fra le virtù la pratica di quelle che
-ono più necessarie a noi secondo la nostra voca-
zione; giacché, quantunque sia sempre cosa buona
praticare le virtù, bisogna però saperle praticare or-
dinatamente. Chi sa se in quella data occasione sia
meglio che io pratichi solo la pazienza interna e non
Testerna o se debba unire l'una all'altra? Ecco dun-
que che si richiede il dono del consiglio per non
farci delle illusioni nella scelta delle virtù, proce-
dendovi secondo le nostre inclinazioni e non secondo
(1) S.R. LXX (t. x, pp. 426-7).
1

32.2 Page 312

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la necessità nostra, e nelle virtù stesse fermandoci
alla scorza senz'arrivare al midollo (1).
— Oh, che belle cose! — esclamiamo. Ma per chi
sono belle? Agli occhi dei mondani: il mondo dice
6. L'intelletto. così. Anche il Signore dice: — Vedete questa perla
(1) della povertà evangelica, e attraverso di essa ve-
Il sesto dono dello Spirito Santo è quello del- dete il Cielo e la felicità eterna, a cui quella con-
l'intelletto: intelletto spirituale, che lo Spirito Santo duce. — Ma per non aver bene impresse nel cuore
immedesima col nostro intelletto umano, ed è una tali massime, si va miseramente perduti, e il mondo
certa luce che ci fa vedere e penetrare la bellezza trionfa di noi e sventuratamente ci seduce con le
e bontà dei misteri della fede. Si sentono prediche, sue massime false. Poveri illusi che noi siamo! Sap-
si leggono libri, e tuttavia si rimane sempre nel- piamo bene che il mondo con tutte le sue ricchezze
l'ignoranza di questi santi misteri, perchè non c'è e vane grandigie non vai nulla; eppure vi ci affe-
il dono dell'intelletto. Invece un'anima semplice, zioniamo e diamo retta alle massime sue.
prostrata dinanzi a Dio, intenderà il mistero della
Fatevi come fanciulli (2), dice il Signore; siate
santissima Trinità, non per parlarne, ma per trarne semplici come le colombe (3): eppure non si ha can-
massime utili alla sua salvezza, perchè lo Spirito dore nè semplicità. Si vuol essere prudenti, ma di
Santo le ha comunicato il dono dell'intelletto. Io una prudenza carnale che, dice l'Apostolo (4), dà la
son solito dire che causa generale di perdizione è morte all'anima. È donde ciò? Dal non avere il dono
il non seguire le massime del Cristianesimo, come dell'intelletto, che ci faccia vedere e penetrare la
le seguenti: Beati i poveri in spirito, perchè di que- bellezza e bontà delle massime del Signore. Se le
sti è il regno de' Cieli; Beati i mansueti, perchè que- penetrassimo bene e ne vedessimo la bellezza, certo
sti possederanno la terra (2). Ma chi scorge la bel- volteremmo le spalle e rinunceremmo per sempre al-
lezza di tali massime, se non è di coloro, a cui le le malaugurate massime del mondo, che non han va-
fa vedere lo Spirito Santo?
Osservando bei palagi dorati, perle e gioielli:
(1) MATT., XIII, 46.
(1) S. R. XXXII (t. ix, pp. 320-1).
(2) MATT., v, 3, 4.
(2) MATT., XVIII, 3.
(3) Ib„ x, 16.
(4) .ioni., vili, 6.
614
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32.3 Page 313

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lore di sorta, per seguire quelle del nostro divin
Maestro. Ma specialmente le anime religiose deb-
bono su tali massime sante fondare e innalzare tutta
la loro perfezione, fissandole saldamente nel cuore
per non lasciarvi mai entrare masiime contrarie, se-
condo l'esempio di tanti Santi e Sante, i quali mo-
strarono di aver caro più il pianto che la gioia, più
la tribolazione che la prosperità, più la povertà
che le ricchezze (1).
Il dono dell'intelletto ci fa penetrare, dicevo, i
misteri della fede e in fondo ad essi trovare le nor-
me della perfezione interiore. Ma bada che questo
si ottiene mediante la meditazione e l'orazione e non
per via di curiosità, speculazione e studio alla ma-
niera dei teologi. Quindi una semplice donnicciuola
sarà capace di riuscirvi meglio dei più grandi dot-
tori che abbiano minor pietà. Questa donnicciuola
arriverà, per esempio, in un attimo a leggere sulla
Croce del Salvatore e fìnanco nel cuore di Dio la
massima di perfezione: Beati i poveri in spirito; nel
mistero dell'Incarnazione essa scorge la massima
medesima e insieme quella dell'umiltà e dell'abie-
zione. Ecco dunque evidenti gli effetti di questo
dono dello Spirito Santo (2).
(1) S. R. LXX (t. x, pp. 427-8).
(2) S. R. xxxii (t. ix, p. 321).
616
7. La sapienza.
Dopo averci dato il dono dell'intelletto, lo Spi-
rito Santo ci dà quello della sapienza, che colma
l'anima d'ogni bene. Molti sapienti sono stolti; (1)
ma la sapienza è una scienza che ci fa assaporare,
gustare e penetrare la bontà della legge e la subli-
mità del Vangelo, non già per discorrerne o predi-
carne, ma per la pratica e, come l'ape, l'anima si
posa sui fiori della legge, succhiandovi il miele della
bontà di Dio. O Signore, quanto son dolci alle mie
fauci le tue parole! dice il Salmista (2): sono più
dolci che non sia il miele alla mia bocca, quando
le rumino nel cuore. Ben felice è l'anima giunta
a questo grado; perchè ciò è segno che essa è piena
dello Spirito Santo, e che lo Spirito Santo le ha
comunicato i suoi doni.
Piaccia dunque alla Maestà divina darci il dono
del timore, perchè serviamo Dio filialmente; il dono
della pietà, perchè lo riveriamo qua] Padre teneris-
simo; il dono della scienza, perchè conosciamo il
bene da fare e il male da fuggire; il dono della
fortezza, perchè superiamo coraggiosi tutte le diffi-
coltà che s'incontrano nella pratica delle virtù; il
dono del consiglio, perchè discerniamo e scegliamo
(1) Cfr. Rom., I, 22.
(2) Ps. cxvim, 103.
61

32.4 Page 314

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i mezzi atti a perfezionarci; il dono dell' intelletto,
perchè intendiamo la bellezza e l'utilità dei misteri perfino chiamato suo comandamento il comandamen-
della fede e delle massime evangeliche; e finalmente to dell'amor del prossimo, quasi che questo sia il
il dono della sapienza, per gustare quanto sia ama- suo comandamento prediletto. Tenuto nel mondo
bile Iddio e. per assaporare e sperimentare la dol- per farci da Maestro divino, nessun'altra cosa c'in-
cezza della sua incomprensibile bontà. Noi fortu- culca tanto nè con sì calde espressioni come l'os-
nati, se riceveremo questi doni preziosi! Ci condur- servanza del comandamento di amare il nostro
ranno senza dubbio al sommo di quella scala mi- prossimo. E non senza motivo; infatti il suo predi-
stica, dove saremo accolti dal nostro divin Salva- letto discepolo, il grande apostolo san Giovanni,
tore, che a braccia aperte ivi ci attende per metterci assicura (1) che chiunque dice di amar Dio e non
a parte della sua gloria e felicità (1).
ama il prossimo, è bugiardo; viceversa si deve as-
serire che chiunque dice di amare il prossimo e non
ama Dio, va contro la verità, essendo questo im-
Parte seconda. — Amore del prossimo.
possibile. Amar Dio senz'amare il prossimo, creato
u immagine e somiglianza di Dio, non è cosa fat-
§ 1. AMORE DI DIO E AMORE DEL PROSSIMO.
tibile (2).
Come dall'amor di Dio procede l'amore del pros-
La parola di Gesù.
L'amore del prossimo ci fu predicato, raccoman-
dato e insegnato dal Signore sia con l'esempio che
con la parola, ma in modo così straordinariamente
energico e in termini così inauditi, da sembrare
che per meglio inculcarci l'amore scambievole che
simo, così, al dire di san Paolo (3), col crescere del-
l'amor di Dio va crescendo anche l'amore del pros-
simo. Dunque se si vuol mostrare di amar molto
Iddio e si desidera di essere creduti ciò affermando,
bisogna amar molto i fratelli, servirli, aiutarli nelle
loro necessità (4).
voleva regnasse fra noi, abbia dimenticato l'amore
da noi dovuto a lui e al suo Padre celeste; egli ha
(1) I JOAN., IV, 20, 21.
(2) S. R. LIX (t, x, pp. 266).
(1) S. R. LXX (t. pp. 429, 4.30).
(3) Cfr. Rom., XIII, 8; Gal., v , 14; Egli., v , 1, 2.
(4) S. R. XLVII (t. x , p 65).
618
61

32.5 Page 315

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La nostra unione fraterna dev'essere tale, che,
se il Signore in persona non ce l'avesse spiegata,
nessuno avrebbe avuto l'ardire di farlo nei termini
da lui usati. Padre, disse nell'ultima cena, dopoché
Signore dunque non c'invita ad eguagliare tale unio-
ne, ma soltanto a riprodurne la qualità; egli vuole
cioè che noi ci amiamo e stiamo uniti insieme nel mo-
do più semplice e perfetto possibile.
ebbe dato quella prova stupenda del suo amore per
gli uomini, che è l'istituzione della santissima Euca-
ristia, amatissimo Padre, ti supplico che, coloro i
La parola dell'Apostolo.
quali hai a me affidati, siano una cosa sola, come
una cosa sola siamo tu e io, o Padre (1). Ed a
mostrare com'egli parlasse non solo per gli apostoli,
ma anche per. tutti noi, aveva detto prima (2):
fo non prego solamente per questi, ma anche per
tutti quelli che per la loro parola crederanno in me.
Chi avrebbe osato, ripeto, fare un simile confronto,
chiedendo che noi fossimo uniti insieme come sono
uniti fra loro il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo!
Tale confronto sembrerebbe affatto fuor di luo-
go; poiché l'unione delle tre Persone divine è in-
comprensibile, nè alcuno, chiunque si fosse, potreb-
be figurarsi un'unione così semplice e una così
ineffabilmente semplice unità. Perciò non prendia-
mo la cosa nel senso, che sia possibile arrivare al-
lo stesso grado, ma contentiamoci di accostarvici
il più possibile, secondo la capacità nostra. Il
Anche san Paolo ci raccomanda l'amore del pros-
simo con parole mirabili, scrivendo a quei di Efeso
(1): Miei cari, camminate nella via della mutua di-
lezione, comefigliuoli diletti di Dio; sì, camminate
per questa via, come vi ha camminato Gesù Cristo,
che ha dato per noi la vita, offrendosi a Dio Padre
in olocausto e in ostia di soave odore. Oli, parole
care e degne di essere ben ponderate! Parole auree,
con cui questo gran Santo ci là intendere qual
debba essere il nostro amore vicendevole. Sembra
quasi volerci spiegare il senso delle parole dette
dal Salvatore, allorché pregava il suo Padre ce-
leste che noi formassimo tutti insieme una sola
cosa, come una sola cosa sono egli e il Padre. Il
Signore era stato piuttosto breve nell'insegnarci
verbalmente come desiderava che noi praticassimo
questa santa e sacratissima unione; ed ecco che il
( 1 ) JOAN., XVII, 11, 12, 21, 22.
(2) Ibid., 20.
620
.'
Ibid., (1)
XIIII, 3 4 ; XV, 12.
621

32.6 Page 316

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suo glorioso Apostolo vi si diffonde maggiormente,
esortandoci a camminare nella via della dilezione,
come figliuoli diletti di Dio. Quasi volesse dire:
Come Dio, nostro Padre sommamente buono, ci
lia sì teneramente amati da adottarci per Agli, così
voi mostrate di essergli figli davvero, amandovi te-
neramente l'un l'altro con somma bontà di cuore.
Ma affinchè non camminiamo con passo da fan-
ciulli per questa via della dilezione tanto raccoman-
dataci da Dio nostro Padre, san Paolo aggiunge:
Camminate come ha camminato Gesù Cristo, che ha
dato'per noi la vita. Nel che egli ci fa intendere
che dobbiamo camminare con passo non da fanciulli,
ma da giganti. Amatevi gli uni gli altri, come Gesù
Cristo ha amato noi (1), non già per alcun merito
che fosse in noi, ma perchè creati a sua immagine
e somiglianza. Quest'immagine e somiglianza si ono-
ri e si ami in tutti gli uomini, e non altre loro
qualità personali; di ciò che viene da noi, niente
merita di essere in noi amato, perchè quello non
solo non abbellisce la somiglianza divina, ma la
deturpa, l'imbratta e insozza, sì da renderci pres-
soché irriconoscibili. Ecco ciò che non bisogna af-
fatto amare nel prossimo, giacché Dio non lo vuole.
(1) Eph., v, 1, 2.
622
Inseparabilità dei due precetti.
Perchè dunque il Signore ha voluto che ci amas-
simo tanto fra noi? e perchè ci ha inculcato con
tanta insistenza questo precetto, rassomigliandolo
al comandamento dell'amore di Dio? Fa molto me-
raviglia il dire che questi due comandamenti sono
simili, dacché uno si riferisce all'amore di Dio e
l'altro all'amore della creatura: Dio infinito e la
creatura finita, Dio bontà per essenza e fonte d'o-
gni bene, e l'uomo pieno di malizia e sorgente di
tanti mali; tant'è vero che il comandamento del-
l'amore del prossimo include anche l'amore dei ne-
mici. Quale sproporzione fra gli oggetti di questi
due amori! eppure i rispettivi comandamenti sono
simili, tanto che non può uno sussistere senza l'al-
tro e necessariamente uno di essi perde o acqui-
sta col scemare o crescere dell'altro, secondochè si
esprime san Giovanni (1).
Una volta Marc'Antonio comperò due giovinetti
così perfettamente simili, che gli si fecero credere
gemelli: e sembrava proprio impossibile che fosse al-
trimenti, poiché, quando se ne vedeva uno senza del-
l'altro, non si riusciva a giudicare qual fosse dei due.
Per questa singolarità piacquero tanto ad Antonio,
(1) JOAN., HI, 30.
62

32.7 Page 317

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che li pago profumatamente. Se non che, fattiseli
condurre in casa, trovò che parlavano due lingue
differentissime; venivano infatti, come narra Plinio
(1), uno dalla Gallia e l'altro dall'Asia, due' loca-
lità distanti quanto mai. Antonio, saputo che non
solo non erano gemelli, ma clie non venivano nem-
meno dallo stesso paese, nè eran nati sotto un me-
desimo sovrano, montò in collera efieramente s'in-
dispettì contro chi glie li aveva venduti. Ma aven-
dogli un furbacchiotto fatto osservare che la ras-
somiglianza dei due schiavi era tanto più sorpren-
dente, data la loro provenienza da regioni così di-
sparate e la nessuna relazione esistente fra entram-
bi, si calmò e li tenne poi sempre così cari, che
avrebbe preferito perdere tutt'i suoi beni anziché
i due giovani, appunto per quella rara somiglianza,
Ohe voglio dire con questo! Ohe i due comanda-
menti dell'amore di Dio e del prossimo si rassomi-
gliano come i due adolescenti, di cui parla Plinio,
benché provengano da due punti fra loro distan-
tissimi; quale distanza invero fra il finito e l'infi-
nito, fra l'amor divino che ha per oggetto Dio im-
mortale, e l'amor del prossimo che si riferisce al-
l'uomo mortale, fra l'uno che riguarda il Cielo e
l'altro che riguarda la terra! Tanto più sorpren-
(1) Hist. nat., VII, 12.
62
dente perciò è questa divina rassomiglianza. Dun-
que facciamo anche noi come Antonio: acquistia-
mo i due amori come gemelli usciti entrambi e nel
medesimo istante dalle viscere della misericordia
del nostro buon Dio; infatti nel punto stesso di
creare l'uomo a sua immagine e somiglianza, il
Creatore gli ordinò di amare Dio e il prossimo.
La legge di natura ha sempre messo nel cuore
di tutti gli uomini questi due precetti, sicché, quan-
d'anche Dio non ne avesse parlato, avrebbero tutti
nondimeno saputo di essere obbligati a far così. Lo
vediamo nella circostanza, in cui il Signore giudi-
cò pessima la risposta dello sciagurato Caino, quan-
do, richiesto del fratello Abele, ebbe l'ardimento
di dire che egli non aveva obbligo di fargli da
custode (1). Nessuno può scusarsi dicendo di non
sapere che bisogna amare il prossimo come noi
stessi, perchè Dio ci ha scolpito questa verità nel-
l'intimo del cuore col crearci tutti fra noi somi-
glianti; chè portando tutti l'immagine del Creato-
re, noi siamo per conseguenza immagini l'un del-
l'altro, come quelli che x-iproduciamo lo stesso mo-
dello divino.
(1) Gerì., iv, 9.

32.8 Page 318

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§ 2. IL COMANDAMENTO NUOVO.
Nuovo, perchè rinnovellato dal Signore.
Ciò posto, vediamo i termini usati dal Signore
per raccomandarci l'amor del prossimo. Un nuovo
comandamento, dice parlando agli Apostoli (1), io
do a voi, che vi amiate gli uni gli altri. Anzitutto,
perchè chiamare nuovo questo comandamento, men-
ti'era stato dato già nella Legge mosaica (2), nè
erasi ignorato, come dicevamo, nella legge di na-
tura, auzi taluno l'aveva riconosciuto e osservato
fin dalla creazione dell'uomo? Il nostro divin Mae-
stro chiama nuovo questo comandamento, perchè
egli intendeva di l'innovellarlo; e come quando si
mette, in quantità notevole, vino nuovo dentro una
botte che ne contiene ancora un poco di vecchio,
non si dice che la botte contiene vino vecchio, ma
nuovo, essendo la quantità di questo immensamente
superiore a quella dell'altro, così il Signore chiama
nuovo questo comandamento, perche, sebbene già
dato prima, era stato però osservato da un picco-
lissimo numero di persone; sicetiè egli poteva chia-
marlo nuovo affatto, volendolo talmente rinnovel-
lato, che tutti si amassero gli uni gli altri.
(1) JOAN., XIII, 34.
(2) Levit., x i x , 18.
626
Così facevano i primi Cristiani, che avevano tutti
un cuor solo e un'anima sola (1), mantenendosi fra
loro sì strettamente uniti, che non davano mai in-
dizio di divisioni; la qual concordia arrecava loro
vivissima contentezza. Come da molti grani di fru-
mento macinati e impastati si fa un pane solo, il
quale risulta composto eli tutti quei grani prima
separati ed ora inseparabili a segno che non si pos-
sono più scorgere nè ravvisare distintamente, così
quei Cristiani si portavano un amore tanto vivo,
che volontà e cuori erano tutti come santamente
fusi e mescolati insieme. Nè questa santa fusione
e divina mescolanza cagionava alcun dissesto, non
essendo ivi possibile divisione o scissura; laonde il
pane impastato di tanti cuori tornava graditissimo
al palato del Signore.
Parimente, come vediamo che di molte uve pi-
giate insieme si fa un sol vino, senza che si possa
più distinguere quale sia ilvino uscito da un dato
acino o da un dato grappolo, ma si ha tutto un
miscuglio, dove un sol vino è il risultato di tanti
acini e grappoli uniti, così i primi Cristiani, fra cui
regnava la santa carità e dilezione, formavano quasi
un vino solo, composto di molti cuori, quasi di molte
uve. Ma quello che creava fra loro un'unione sì
(1) Act., iv, 32.
62

32.9 Page 319

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stretta altro non era se non la santissima Comu-
nione (1), venuta a cessare la quale o ricevendosi
di rado, cominciò del pari a raffreddarsi fra i Cri-
stiani la carità fino a perdere gran parte della forza
e soavità sua.
Il comandamento dell'amore del prossimo è dun-
que nuovo, perchè il Signore l'ha rinnovellato, fa-
cendolo osservare meglio di prima. È nuovo altresì,
perchè in certo qual modo il Signore l'ha risusci-
tato, come si può ben chiamare uomo nuovo chi è
risorto da morte. Questo comandamento giaceva così
negletto nel mondo da sembrare che non fosse mai
esistito, tanto pochi erano quelli che se ne ricor-
davano ovvero l'osservavano. Il Signore dunque lo
ridà al mondo e vuole che qual cosa novella, quale
comandamento nuovo venga praticato con fedeltà
e fervore.
Nuovo, per gli obblighi nuovi.
Nuovo è ancora a motivo degli obblighi nuovi
che noi abbiamo di osservarlo. E quali sono i nuovi
obblighi apportati da Gesù Cristo nel mondo, per
farci docili all'osservanza di questo divino precetto?
Obblighi ben grandi, nel fatto che egli in persona
(1) Act., li, 42; I Cor., x, 17.
628
è venuto a darci tale insegnamento non solo con pa-
role, ma molto più con l'esempio; poiché questo
Maestro divino e amabilissimo non ha voluto in-
segnarci a dipingere prima d'aver dipinto egli stes-
so sotto i nostri occhi; non ci ha dato cioè nessun
precetto senz'averlo osservato prima di darcelo. Co-
sì, prima di rinnovellare il comandamento dell'amor
del prossimo, ci ha amati, mostrandoci col proprio
esempio in qual maniera lo dovessimo praticare noi,
e prevenendo con ciò qualsiasi nostra scusa d'impos-
sibilità. Ecco infatti che prima ha dato se stesso
nel santissimo Sacramento, e poi ha detto: Amatevi
gli uni gli altri, com'io ho amato voi (1). Gli uomini
dell'antica Legge, se non hanno amato il prossimo,
sono dannati, perchè o la legge di natura o la legge
di Mosè ve li obbligava; ma i Cristiani che dopo
l'esempio lasciatoci da nostro Signore non si amino
a vicenda nè osservino il precetto divino della mu-
tua carità, incorreranno in una dannazione di gran
lunga peggiore.
Gli uomini d'una volta, vissuti cioè avanti la
gloriosa, Incarnazione del nostro caro Salvatore e
Maestro, sono un po' scusabili; poiché, sebbene si
sapessefin d'allora che il Signore, unendo la nostra
natura umana alla natura divina, sarebbe venuto
(1) JOAN., XV, 12,
62

32.10 Page 320

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a restaurare con la sua.Passione e Morte l'immagine
e somiglianza di Dio impressa in noi, soltanto al-
cuni dei più grandi, cornei Patriarchi e i Profeti,
ne avevano consapevolezza, mentre gli altri l'igno-
ravano quasi tutti. Ora invece che lo sappiamo non
venturo, ma venuto, e conosciamo la maniera no-
vissima, con cui ci ha raccomandato la santa dile-
zione scambievole, che castigo sarà il nostro, se non
ameremo il prossimo!
1
Quale meraviglia dunque, se il Diletto delle ani-
me nostre vuole che ci amiamo come ha amato noi,
dopoché ci ha sì perfettamente reintegrati nella no-
stra somiglianza con lui da far sembrare che ogni
differenza sia scomparsa? Non v'ha dubbio che l'im-
magine di Dio in noi prima dell'Incarnazione del
Salvatore fosse ben lontana dalla vera somiglianza
di quel modello, di cui eravamo la riproduzione;
qual proporzione infatti esiste fra Dio e la creatura?
Le tinte del ritratto apparivano assai assai smorte
e sbiadite, vi restavano semplicemente poche pen-
nellate ed esigui lineamenti, come si vede in ritratto
o quadro appena abbozzato, dove, non essendovi
ancora stesi i colori, si scorge imperfettissima e in-
significante lafisonomia. del rappresentato. Ma il
Signore, venendo nel mondo, ha innalzato tant'alto
la nostra natura al disopra di tutti gli Angeli, dei
Cherubini e di tutto ciò che non è Dio, ci ha resi
6
talmente simili a sè, che possiamo dire con verità
di rassomigliare perfettamente a Dio, il quale, fa-
cendosi uomo, ha preso la nostra somiglianza e ci
ha dato la sua. Oh, come dobbiamo dunque sentirci
animati a vivere in modo conforme all'essere nostro,
imitando con la massima perfezione Colui che è ve-
nuto per insegnarci la maniera di conservare in noi
questa divina somiglianza, da lui per intero così
bellamente restaurata!
§ 3. COME AMARE IL PROSSIMO. '
Vicendevoli dimostrazioni d'affetto.
Ora, dimmi tu, qual non dev'essere questo scam-
bievole amore cordiale, dopoché il Signore tutti del
pari ci ha rifatti simili a sè, non escludendo nep-
pur uno? Ricordiamoci però sempre che nel prossi-
mo non bisogna amare quello che sia contrario alla
rassomiglianza divina oche offuschi quest'immagine
santa; ma, eccezion fatta di ciò, non dovremmo noi
amare teneramente chi ci rappresenta sì al vivo la
sacra persona del nostro Maestro? Non è questo un
motivo dei più stringenti per amarci a vicenda di
ardentissimo amore? Alla vista del nostro prossimo
non dovremmo fare come il buon Raguele alla vista
631

33 Pages 321-330

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33.1 Page 321

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di Toluolo? Questi, recatosi a Rages per ordine del
padre, T'incontrò il buon Raguele, cbe, guardan-
dolo: — Oli, esclamò a sua moglie, come questo
giovine mi ritrae bene il nostro cugino Tobia! — E
tosto gli chiese' donde fosse, e se mai conoscesse
Tobia; al che rispose l'Angelo, sua guida: — Tu
parli qui con suo tiglio; pensa un po' se lo cono-
sciamo! — Allora il buon Raguele, nel colmo della
gioia, lo abbracciò e carezzandolo e baciandolo con
viva tenerezza: — Oh, mio caro, riprese, di quale
buon padre tu sei tiglio, e come rassomigli a quel-
l'uomo veramente dabbene! — Poi lo fece entrare
in casa e ve lo trattò magnificamente, conforme al-
l'affetto che nutriva per il cugino (1).
Non dovremmo dunque fare lo stesso anche noi,
incontrandoci l'un l'altro! Oh, dovremmo dire al
nostro fratello, come rassomigli ad un uomo vera-
mente dabbene, poiché mi presenti l'immagine del
mio Salvatore e Maestro! E nella certezza reciproca
di scorgere l'un nell'altro la somiglianza del Crea-
tore e di essere suoi figliuoli, che vicendevoli dimo-
strazioni d'affetto non dovremmo scambiarci! Meglio
ancora, quali amorevoli accoglienze non dovremmo
fare al prossimo onorando in lui la divina somi-
glianza e rinnovando ogni volta i dolci vincoli di
(1) Toh., VITI, 1-9.
6
carità (1), che ci tengono legati, stretti e congiunti
insieme! Camminiamo dunque per la via della di-
lezione comefigli carissimi di Dio, secondo la rac-
comandazione dell'Apostolo.
Sacrificarsi senza riserva.
Ma, prosegue egli, camminate come ha cammi-
nato Gesù Cristo, il quale ha dato la vita per noi
e si è per noi offerto al Padre in olocausto e ostia
di soave odore. Da questa parola si viene a cono-
scere, qual grado abbia da raggiungere il nostro
amore e fino a qual perfezione debba salire: vita
per vita bisogna che diamo a vicenda, tutto insom-
ma quel che siamo e tutto quel che abbiamo, fuor-
ché la salvezza dell'anima, che è l'unica eccezione
voluta da Dio. Il Signore ha dato la vita per ognu-
no di noi, ha dato l'anima, ha dato il corpo, in
una parola non si è riservato nulla; quindi vuole
che noi non ci riserviamo cosa alcuna fuorché la
salvezza eterna (2).
Il nostro divin Maestro ha sacrificato per noi la
vita, non solo impiegandola a guarire malati, a fare
(1) Coloss., m, 14.
(2) I JOAN., HI, 16.
633

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miracoli, ad insegnarci il modo di salvare l'anima
e di piacere a Lui; ma anche fabbricandosi la croce
durante tutto il tempo di essa col soffrire tante e
tante persecuzioni da coloro medesimi, a cui face-
va tanto bene e per cui si sacrificava. Facciamo
anche noi così, dice il santo Apostolo; fabbrichia-
mo cioè la nostra croce, soffrendo gli uni dagli al-
tri nel modo insegnatoci dal Salvatore, e diamo
la vita per coloro stessi che ce la vorrebbero to-
gliere, com'egli fece con tanto amore; impieghia-
mola . a vantaggio • del prossimo non solo in cose
piacevoli, ma anche nelle più amare e contrarie al
nostro gusto, come nel sopportare amorosamente le
persecuzioni che potrebbero in qualche modo rattie-
pidire il nostro amore fraterno.
Tanti dicono: — Io amo grandemente il mio
prossimo, e vorrei fare qualche cosa per lui. — Ya
bene, dice san Bernardo (1), ma non basta, bisogna
andare più in là. — Amo tanto il mio prossimo,
che ben volentieri metterei a sua disposizione tutti
i miei beni. — È già qualche cosa di più e di me-
glio, ma non basta ancora. — Lo amo tanto, che
di buon grado m'adoprerei con la mia persona stessa
in tutto ciò che desiderasse da me. — Ecco un ot-
timo segno d'amore; ma bisogna ancora procedere
(1D De Consid., IV, 11.
634
oltre, perchè in questo amore vi è un grado più
alto, come c'insegna san Paolo, quando dice (1):
Siate miei imitatori, corti'io pur di Cristo. E altrove,
rivolgendosi ai suoi carissimi figli, scrive (2): — Io
sono disposto a dare la vita per voi ed a sacrifica-
re me stesso senza riserva per mostrarvi, quanto
caramente e teneramente vi ami; sì, da voi o per
voi sono disposto a lasciar fare di me quello che
si vorrà. — Nel che c'insegna che il sacrificarci an-
che fino a dare la vita per il prossimo non vale
quanto il lasciare che dagli altri o per gli altri si
disponga di noi a loro piacimento.
Questa dottrina egli aveva appresa dal nostro
dolce Salvatore, il quale dopo essersi adoperato per-
sonalmente alla nostra salvezza e redenzione, per
compiere poi l'opera redentrice e acquistarci la vita
eterna lasciò che altri disponessero di lui, permet-
tendo che lo inchiodassero sulla croce queglino
stessi, per i quali moriva. Aveva fatto da sè per
tutta la vita, ma in morte lasciò che lo maneggias-
sero e facessero di lui a lor talento non gli amici,
ma i nemici, i quali gli davano la morte con una
rabbia fuor d'ogni limite malvagia. Tuttavia non
oppose resistenza nè scusa per impedire di essere
(1) l Cor., xi, 1.
(2) Il Cor., XII, 14, 15, 19.
6

33.3 Page 323

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trascinato e sballottato nel modo che la crudeltà
suggeriva a quei disgraziati, perchè guardava in
ciò alla volontà del suo Padre celeste, la quale era
cli'ei morisse per gli uomini, volontà a cui sotto-
mettevasi con amore stragrande e da adorarsi più
che non da immaginarsi o da comprendersi.
A questo sommo grado di perfezione, a questo
grado di amor del prossimo sono chiamati e deb-
bono tendere con tutte le forze i religiosi e le re-
ligiose, e quei che si sono consacrati al servizio di
Dio. Si adoperino essi a beneficare e a consolare
il prossimo, ma si lascino anche adoperare a suo
vantaggio dalla santissima obbedienza nel modo
che si vorrà, senza mai resistervi. Chi vi si adopera
da sè, facendo per volontaria sua scelta od elezio-
ne, appaga sempre grandemente l'amor proprio; ma
chi si lascia adoperare secondo il volere altrui e
non secondo il voler suo, cioè all'infuori di ogni
sua preferenza, tocca il colmo dell'annegazione in-
segnataci morendo dal nostro Signore e Maestro.
Uno vorrebbe predicare, e lo mandano ad assistere
gl'infermi; un altro vorrebbe pregare per il prossi-
simo, e lo mandano a servirlo. Yale sempre incom-
parabilmente più quel che ci fanno fare (purché,
ben inteso, non sia contrario alla volontà di Dio
nè l'offenda), che non quel che facciamo o ci sce-
gliamo da per noi.
636
Amarci come ci ha amati il Signore.
Amatevi dunque gli uni gli altri, dice san Paolo,
come il Signore ci ha amati. Egli si è offerto in
olocausto, e ciò fu quando dalla croce versò sulla
terra fino all'ultima goccia tutto il suo sangue,
quasi per formare un sacro cemento (1), con cui
congiungere e saldare insieme le pietre della sua
Chiesa, che sono i fedeli, affinchè stessero talmente
uniti, che fra loro non sorgesse mai ombra di divi-
sione, tant'era la sua sollecitudine per impedire che
le discordie ne cagionassero la rovina eterna (2).
Che motivo stringente per indurci ad amare questo
comandamento e ad osservarlo con esattezza non
è mai il pensiero che siamo stati tutti egualmente
irrorati da quel sangue prezioso, quasi mastice sacro
che deve unire saldamente fra loro i nostri cuori!
Oh, quanto è grande la bontà del nostro Dio! (3).
Il Signore è stato pure offerto o si è offerto a Dio
Padre come ostia di soave odore. Che divina fra-
granza non effuse egli davanti alla Maestà di Dio,
quando istituì il santissimo Sacramento dell'altare,
in cui ci diede una prova così ammirabile del suo
(1) Coloss., i, 20.
(2) Lue., XI, 14-28.
( 3 ) Ps. LXXIE, 1.
6

33.4 Page 324

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grande amore! Si levò un profumo insolito da
quell'atto d'incomprensibile perfezione, col quale
si diede a noi che eravamo suoi nemici e la causa
della sua morte, e allora fu che ci porse il mezzo,
con cui potessimo attuare il suo desiderio di veder-
ci formare una cosa sola con lui, come sono una
cosa sola egli ed il Padre.
Ciò egli aveva domandato o inteso di domandare
al suo Padre celeste, e con quel mezzo ce ne pro-
curò in pari tempo la possibilità. Oh bontà incom-
parabile, quanto sei da amare e da adorare!
• Fin dove si è abbassata per ciascuno di noi la
grandezza di Dio, e fin dove ci vuole innalzare?
Fino a unirci così strettamente a sè, da renderci
una cosa sola con lui! Ecco qui l'intenzione del
Signore: insegnarci che come noi siamo stati tutti
amati con quel medesimo amore, con cui ci abbrac-
cia nel santissimo Sacramento, così fra noi dobbiamo
amarci con un amore che medesimamente tenda
all'unione, ma ad una unione fra le più grandi e
più perfette che si possa esprimere. Noi veniamo
tutti nutriti d'un medesimo pane (1), che è il pane
celeste della divina Eucaristia, la cui manduca-
zione, chiamandosi comunione, ci rappresenta la
comune unione, che dobbiamo avere fra di noi, unio-
(1) l Cor., x, 17.
6
ne senza della quale non meriteremo il nome di
figli di Dio, perchè non gli saremo obbedienti.
Esortazione all'amor del prossimo.
I figli che hanno un padre buono, debbono imi-
tarlo ed eseguirne gli ordini in tutto. Ora, noi ab-
biamo un Padre migliore d'ogni altro e autore
d'ogni bontà (1), i cui comandamenti non possono
non essere perfettissimi e salutari; oud'è che dob-
biamo imitarlo il più perfettamente possibile e ob-
bedire del pari a' suoi ordini divini. Ma fra tutt'i
suoi precetti non ve n'ha uno che egli abbia incul-
cato tanto e della cui piena osservanza abbia mo-
strato tanto desiderio, come ha fatto per il precet-
to dell'amore del prossimo: non già che quello
dell'amore di Dìo non gli vada innanzi, ma, poiché
a praticare il precetto dell'amore del prossimo la
natura ci aiata meno che non faccia per l'altro,
bisognava che vi fossimo stimolati in una maniera
più speciale.
Amiamoci dunque con la massima larghezza di
cuore per piacere al nostro Padre celeste, ma amia-
moci in modo conforme a ragione: sia cioè il nostro
amore guidato dalla ragione, la- quale ci dice di
(l) JAC., i, 17.

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amare nel prossimo l'anima più del corpo; appres-
so, di amare anche il corpo, e poi per ordine tutto
ciò che al prossimo appartiene, ogni cosa secondo
il suo merito, e questo allo scopo di mantener vivo
il vicendevole amore.
Così facendo, potremo a buon diritto cantare il
salmo Ecce quam bonwm (1), la cui considerazione
produceva tanta soavità nel grande sant'Agostino
(2): Oh, quanto è buona e dolce cosa, che i fratelli
vivano in santa unione, concordia e pace! essi sono
come l'unguento prezioso che fu sparso sulla testa
del gran sacerdote Aronne e che poi gli colava giù
per la barba e sopra le vesti. Il nostro divin Mae-
stro è il sommo Sacerdote, su cui è stato sparso
in modo incomparabile questo unguento prezioso
e fragrante della santissima dilezione verso Dio e
verso il prossimo; noi altri siamo suoi capelli e peli
della sua barba. Ovvero possiamo considerare gli
Apostoli come la barba del Signore, nostro Capo,
del quale noi siamo le membra (.3), essendo queglino
in certo senso attaccati alla sua faccia, perchè ne
videro gli esempi e le opere e direttamente dalla
sua santa bocca ne ricevettero gl'insegnamenti.
(1) Ps. cxxxn.
(2) Enarr. in hunc ps.
(3) 1 Cor., XII, 12, 27; Eph., IV, 15; Coloss., I, 18.
640
Noi altri non abbiamo avuto quest'onore, ma, quel
che sappiamo, l'abbiamo appreso dagli Apostoli,
sicché siamo quasi le vesti del nostro sommo Sacer-
dote il Salvatore, sulle quali pure viene colando
l'unguento prezioso della santissima dilezione, tanto
da lui comandata e raccomandata. Così il suo santo
Apostolo ci ha più espressamente indicato, che in
questa pratica tanto necessaria noi pensiamo a imi-
tare non gli Apostoli nè i Cherubini, ma il Signore
stesso, il quale ce l'ha insegnata più con opere che
con parole, massime quando stava inchiodato sulla
croce.
E ai piedi della sua Croce dovremmo stare noi
di continuo, come in luogo di ordinaria dimora per
gl'imitatori del nostro sommo Maestro e Salvatore;
di lì infatti si riceve il liquore celeste della santa
dilezione, che sgorga copioso, quasi da divina
sorgente, dalle viscere della misericordia del nostro
buon Dio, il quale ci ha amati d'un amore sì forte,
sì saldo, sì ardente e sì perseverante, che neppur
la morte l'ha potuto intiepidire, anzi l'ha infinita-
mente rinvigorito e ingigantito. Le acque delle più
amare afflizioni non valsero a smorzar il fuoco della
sua dilezione per noi (1), tanto era questa ardente,
e le crudeli persecuzioni de' suoi nemici non eb-
(1) Cant., vili, 6, 7.
641
21. - E. CEHIA. La aita religiosa ecc.

33.6 Page 326

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V
'
bero tanta forza da vincere la straordinaria saldezza
e resistenza dell'amore, con cui ci ha amati. Tale
sia il nostro amore del prossimo: forte, ardente,
saldo e perseverante (1).
§ 4 CORDIALITÀ RELIGIOSA.
Sua origine e natura.
La. cordialità è l'essenza della vera e schietta ami-
cizia. Ora l'amicizia esiste soltanto fra persone ra-
gionevoli, le quali per mezzo della ragione promuo-
vono e alimentano i loro rapporti; altrimenti non vi
è amicizia, ma semplice amore. Così le bestie han-
no amore, ma non possono aver amicizia, perchè
irragionevoli: si portano amore fra di loro a motivo
di qualche relazione naturale, e portano amore al-
l'uomo, come lo dimostrano l'esperienza quotidiana
e i fatti mirabili narrati da diversi autori. Ma que-
sto non merita il nome di amicizia, perchè il rap-
porto di amicizia richiede che i due si amino a vi-
cenda e che l'amicizia venga contratta per via di ra-
gione. Ond'è che la maggior parte delle amicizie
umane, non avendo fine buono e non essendo re-
fi) S. R. LIX (t. x', pp. 266-280).
642
golate dalla ragione, non si debbono punto chiama-
re amicizie.
Ma l'intervento della ragione non basta: fra co-
loro che contraggono amicizia ci vuole pure una cer-
ta colleganza o di vocazione o di scopo o di condizio-
ne, secondochè l'esperienza chiaramente c'insegna;
non è vero infatti che l'amicizia più reale e più forte
è quella che esiste tra fratelli? Non si dice amicizia
l'amore dei padri ai figli, nè quello dei figli ai pa-
dri, perchè vi manca l'omogeneità, di cui parliamo,
correndo ivi gran differenza fra l'amore dei padri so-
stenuto e pieno d'autorità, e quello dei figli rispet-
toso e sottomesso; ma tra fratelli per la somiglianza
•Iella condizione la corrispondenza dell'amore gene-
ra un'amicizia ferma, forte e salda. Ecco perchè
nella Chiesa primitiva gli antichi Cristiani si chia-
mavano fratelli; poi, raffreddatosi il fervore nella ge-
neralità dei Cristani, furono istituite le Religioni,
in cui è disposto che i membri si chiamino tutti
fratelli e sorelle per contrassegno della schiettamente
e realmente cordiale amicizia che si portano o si deb-
bono portare. Le amicizie che i mondani stringono
fra loro o per interessi particolari o per frivoli mo-
tivi, sono amicizie facili a sciogliersi e dileguarsi;
ma l'amicizia tra fratelli è tutt'altra cosa, perchè
senz'artificio e quindi assai commendevole. Ecco
dunque perchè si chiamano fratelli i religiosi: essi
643

33.7 Page 327

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hanno un amore, a cui s'addice il nome non di ami-
cizia comune, ma di amicizia cordiale, di uu'amici-
za fondata nel cuore.
L'amore, ha sede nel cuore, nè si può amar troppo
il prossimo e oltrepassare in quest'amore i limiti della
ragione, se esso alberga nel cuore; ma riguardo
alle testimonianze esterne, può esservi difetto o ec-
cesso, violandosi le leggi dalla ragione imposte. 11
glorioso san Bernardo dice (1) che la misura dell'a-
mar Dio è amarlo senza misura e che nel nostro amo-
re non devono esserci limiti, ma che bisogna lasciar-
gli spiegare liberamente i rami. Ciò che è detto di
Dio, devesi intendere anche dell'amore del prossimo,
a condizione tuttavia che l'amore di Dio stia sem-
pre in alto e tenga il primo posto; ma dopo Dio,
il religioso ama i suoi fratelli con tutta l'ampiezza
del cuore, non contentandosi di amarli come se stes-
so, conformemente all'obbligo impostoci dai coman-
damenti di Dio, sibbene amandoli,più di se stesso,
in ossequio alle norme della perfezione evangelica,
che così vogliono. Il Signore medesimo l'ha detto
(2): Amatevi gli uni gli altri, com'io ho amato voi.
Parole assai notevoli, « Amatevi com'io ho amato
voi »; perchè significano « più di voi ». Come infatti
(1) De diligenti. Deo, initio.
CI) JOAN., XIII, 3 4 ; xv, 12.
6
il Signore ci ha preferiti sempre a se stesso, e an-
cora lo fa, ogni volta che lo riceviamo nel santis-
simo Sacramento, dandosi a noi in cibo, così pu-
re vuole che noi scambievolmente portiamo tale un
amore da anteporre sempre il prossimo a noi stes-
si. Perciò, allo stesso modo che egli ha fatto tutto
quanto poteva per noi, fuorché dannarsi (cosa che
non poteva nè doveva fare, non essendo soggetto a
peccare, nel che solamente sta la causa della danna-
zione), così egli vuole, e la legge della perfezione
richiede, che noi facciamo tutto il fattibile gli uni
per gli altri, tranne dannarci: all'infuori di questo,
abbiano i religiosi un'amicizia talmente ferma, cor-
diale e salda, che non ricusino mai di fare o di sof-
frire qualunque cosa per il prossimo e per i fratelli.
Due doti della cordialità religiosa.
Due doti accompagnano quest'amore cordiale:
affabilità e bel conversare. L'affabilità effonde una
certa qual aria di soavità nelle faccende e relazioni
serie che abbiamo fra di noi; il bel conversare ci
rende graziosi e graditi nelle ricreazioni e nei rap-
porti meno serii col prossimo. Tutte le virtù poi
hanno due vizi contrari, che ne sono gli estremi
opposti; così l'affabilità sta di mezzo fra la soste-
nutezza o soverchia serietà e la soverchia mollezza

33.8 Page 328

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in far moine e dir parole blande. Fra un eccesso
e un difetto sta, dicevo, l'affabilità, carezzevole a
seconda dei casi e insieme soavamente grave a
seconda delle persone e degli affari. A tempo e luogo
ci voglion dunque anche le carezze; invero non
sarebbe conveniente star vicino a un malato con
la gravità che si userebbe altrove, senza volergb
usare più amorevolezze di quelle che gli si userebbe-
ro, se godesse perfetta salute. Ma non bisognerebbe
neppure esser prodighi di carezze e ad ogni pie
sospinto proferire parole melate, quasi gettandole
a piene mani sui primi che s'incontrano: come il
mettere troppo zucchero sopra una vivanda la fa-
rebbe venire a nausea, perchè troppo dolce e sgrade-
vole, così le carezze troppo frequenti ingenerano
disgusto e non ci si bada più, ben sapendosi che
si fanno per abitudine. Le vivande, in cui si get-
tasse a manate il sale, avrebbero cattivo sapore
per l'acredine; ma quelle salate; o inzuccherate con
misura riescono gustose: parimente le carezze mo-
derate e discrete piacciono e giovano a chi le
riceve.
Il bel conversare fa che si contribuisca alla san-
ta e moderata allegria e a quel piacevole confabu-
lare che dà sollievo o ricreamento al prossimo:
impedisce quindi che lo si infastidisca con un con-
tegno accigliato e malinconioso e che si ricusi di
646
prender parte alle comuni ricreazioni nel tempo a
ciò destinato. Qui, cogliere sempre nel segno rie-
sce assai difficile. Vero è che noi dobbiamo bensì
prendere tutti di mira il centro della virtù, desideran-
dola ardentemente; tuttavia non perdiamoci di co-
raggio, quando non arriviamo dritto al punto es-
senziale della virtù, nè stupiamoci di questo, pur-
ché andiamo a colpire dentro il bersaglio, cioè il
più vicino che sarà possibile al centro: nemmeno i
Santi vi sono riusciti in tutte le virtù, ma soltan-
to il Signore e la Madonna.
Quanta differenza, per esempio, fra lo spirito di
sant'Agostino e lo spirito di san Girolamo! Si ve-
de dai loro scritti: nessuno più dolce di sant'Ago-
stino, i cui libri sono la quintessenza della dolcezza
e soavità; invece san Girolamo era austerissimo,
e, per fartene un'idea, vedi le sue lettere, dove si
mostra quasi sempre sdegnato. Eppure entrambi
erano molto virtuosi; ma l'uno aveva maggior dol-
cezza e l'altro maggiore austerità di vita, e tutt'e
•lue, benché non egualmente nè dolci nè rigidi,
furono grandi Santi.
Non ci dobbiamo dunque meravigliare di non es-
«ere anche noi dolci e soavi, purché a'i iamo cordial-
mente il prossimo in tutta l'estensione del termine, nel
modo che l'ha amato il Signore: cioè più di noi
«tessi, anteponendolo sempre a noi in tutto, secon-
6

33.9 Page 329

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do l'ordine della santa carità nè ricusandogli mai
nulla che possiamo fare per suo vantaggio, eccet-
to che di dannarci. Cerchiamo dunque di dargli
tutte le possibili testimonianze esterne del nostro
affetto secondo ragione: ridere con chi ride, pian-
gere con chi piange (1).
Le familiarità troppo spinte.
Se non che, le persone religiose dimostrino di
amarsi senza usare fra di loro tratti di sconvene-
vole familiarità. Nulla di men che santo apparisca
nella familiarità loro e nelle loro testimonianze d'a-
micizia, secondo l'ammonimento di san Paolo (2):
Salutatevi col bacio santo. I Cristiani costumavano
baciarsi, incontrandosi; anche il Signore usava con
gli Apostoli questa forma di saluto, e lo vediamo
nel tradimento di Giuda. I santi religiosi d'una
volta, quando s'incontravano, dicevano: Deo gra-
tias, in segno della gran contentezza che provava-
no vedendosi, quasi dicessero o volessero dire: —
Rendo grazie a Dio, caro fratello, per questa con-
solazione che la tua vista mi procura. — Nello stes-
ti) Rom., XII, 15.
(2) Rom., xvi, 16. Cfr. / Cor., 16, 20; // Cor., 13, 12.
64
so modo le persone religiose si manifestino il vicen-
devole affetto e il piacere di trovarsi insieme; ma
la santità accompagni sempre le loro affettuose
dimostrazioni, sicché Dio, non che offeso, ne riman-
ga glorificato e lodato. Il medesimo san Paolo, che
c'insegna a manifestare santamente i nostri affetti,
c'insegna pure a farlo con garbatezza, dandocene
l'esempio. Salutate, dice (1), il tale che sa bene co-
m'io lo ami di cuore, e il tal altro, che deve star si-
curo di essere amato da me qual fratello, e in par-
ticolar modo sua madre, la quale sa di essere an-
che la mia (2).
Nel cuore umano, se non si sta attenti, sopra gli
affetti più puri e sinceri, suole prodursi della forfora
e della ruggine. Non vediamo noi come le viti che
danno il miglior vino, gettano più facilmente frondo-
sità superflue, sicché han bisogno maggiore di veni-
re spampinate e potate1? Così è dell'amicizia, anche
spirituale; ma con questo di particolare che la ma-
no del vignaiuolo intento a rimondarla dev'essere
più delicata, perchè i rimessiticci vi sono tanto sot-
tili ed esili, che sulle prime sfuggono allo sguardo
di chi nou abbia occhi ben tersi e aperti. Non è
dunque da stupire, se spesso vi si prende abbaglio.
(1) Rom., XVI, 5-13.
(2) E. IV (t. VI, pp. 54-62).
649

33.10 Page 330

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Oh, quanto raramente avviene di vedere fuochi sen-
za fumo!' Soltanto l'amore celeste non ne ha, fino
a che rimane puro; ma appena comincia a tollera-
re mischianze, comincia anche a mandar fumo d'in-
quietudini, di sconcerti e di sregolati movimenti in-
terni (1).
La stessa misura con tutti,
i*
Sarà lecito mostrare maggior affezione a un
fratello perchè viene stimato più virtuoso? Benché
siamo tenuti ad amare maggiormente i più virtuo-
si con l'amore di compiacenza, non dobbiamo però
amarli maggiormente con quello di benevolenza,
nè dar loro maggiori attestazioni d'amicizia: e ciò
per due ragioni. La prima è che il Signore non
l'ha fatto; anzi sembra che abbia mostrato più af-
fezione agl'imperfetti che ai perfetti, avendo di-
chiarato di non essere venuto per i giusti, ma peri
peccatori (2). Un affetto più speciale mostriamo a
chi ha più bisogno dell'opera nostra; in tal modo
daremo a vedere che amiamo per carità, meglio
che* non faremmo amando chi ci arreca più sod-
disfazione che molestia. Nella qual cosa si proceda,
(1) L . CCCXLVII ( t . XIII. p. 175).
(2) MATT., IOC, 13.
650
secondocliè esige l'utilità del prossimo. Ma fuori di
questo caso procuriamo di amare tutti egualmente;
poiché il Signore non ha detto: — Amate quei
che sono più virtuosi, — ma indistintamente: —
Amatevi gli uni gli altri com'io ho amato voi, —
senza escludere nessuno, per imperfetto che sia.
La seconda ragione per non dare maggiori di-
mostrazioni d'amicizia agli uni che agli altri e per
non amare maggiormente chicchessia, è l'impossibi-
lità nostra di giudicare chi siano i più perfetti e
virtuosi; poiché le apparenze ingannano e tante
volte quei che sembrano migliori, non sono tali
davanti a Dio, il solo che sia in grado di cono-
scerli. Può darsi che un fratello o una sorella, che
tu vedrai inciampare con molta frequenza e com-
mettere numerose imperfezioni, abbia più virtù e
dia maggior gusto a Dio che non chi possegga
una dozzina di virtù o naturali o acquisite, ma
provi minor difficoltà e fatica, e quindi abbia
minor fortezza e umiltà di chi vediamo cadere in
tanti mancamenti. San Pietro fu scelto a capo
degli Apostoli, benché andasse soggetto a molte im-
perfezioni e ne commettesse anche dopo aver ri-
cevuto lo Spirito Santo; ma perchè nonostante i
suoi difetti si faceva sempre coraggio nè si smar-
riva mai, il Signore lo elesse suo vicario, favoren-
dolo più di tutti gli altri, sicché nessuno avrebbe
61

34 Pages 331-340

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34.1 Page 331

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avuto ragione di dire eli' ei non meritasse di venir
preferito e innalzato al disopra di san Giovanni o
degli altri Apostoli.
Nel nostro amore fraterno adoperiamo dunque
la stessa misura con tutti. Tutti sappiano che li
amiamo con la cordialità anzidetta, senza che vi
sia bisogno di tante parole per dichiarare che li
amiamo teneramente, che ci sentiamo portati ad
amarli in modo speciale, e cose simili; il provar
inclinazione più per uno che per gli altri non ci fa'
avere un amore più perfetto verso di quello, ma
forse più mutevole ad ogni minima occasione che
si presenti. E se veramente abbiamo di queste
simpatie personali, non fermiamoci a pensarvi e
tanto più guardiamoci dal palesarle alla persona;
giacché non si deve amare il prossimo nè per la
simpatia nè perchè più virtuoso o per la speranza
che divenga tale, ma principalmente per essere
questa la volontà di Dio.
In ogni caso la miglior testimoniaza di affetto
al prossimo è fargli del bene il più che si possa, tan-
to per l'auima che per il corpo, pregando per lui e
aiutandolo cordialmente in qualsiasi occasione; l'a-
micizia che finisce in belle parole, non è gran cosa
e non ha nulla da fare con l'amore simile a quel-
lo portatoci dal Signore, il quale non si tenne pago
di assicurarci che ci amava, ma volle andare più
652
oltre, facendo tutto ciò che fece in prova del suo
amore (1).
»
Sopportarsi a vicenda.
UDO dei punti principali di quest'amore è il sop-
portare le imperfezioni del prossimo; ce lo mostrò
il Signore sulla croce, avendo per noi un cuore sì
dolce e amandoci con tanta tenerezza; noi, dico, e
queglino stessi che gli davano la morte ed erano
là nell'atto di commettere il peccato più enorme
che uomo al mondo possa mai commettere, giacché
il peccato commesso dai Giudei toccò il fondo della
malvagità. E nondimeno il nostro dolce Salvatore
nutriva pensieri d'amore per essi, dando a noi un
esempio superiore ad ogni immaginazione, allorché
scusò coloro che lo crocifiggevano e con una ràb-
bia addirittura selvaggia l'oltraggiavano, e cercò
argomenti per muovere il Padre a perdonarli nel-
l'atto stesso del peccato e dell'oltraggio. Miseri noi,
che stentiamo a dimenticare un'ingiuria lungo tem-
po dopo d'averla ricevuta (2)! Di fronte alle ingiu-
rie, la passioue da prima ci fa sempre desiderare
vendette; chi però ha un briciolo di timor di Dio,
(1) E. iv (t. vi, pp. 62-64).
(2) E. iv (t. vi, pp. 65-66).
6

34.2 Page 332

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non osa chiamarle vendette, ma dà loro il nome
di riparazioni (1). Chiunque pertanto preverrà il
prossimo con le benedizioni della sua bontà (2) sarà
il più perfetto imitatore di Gesù Cristo (3).
Certo è che gran parte della nostra perfezione
sta nel sopportare a vicenda le nostre imperfezioni;
difatti, in che cosa possiamo noi praticare l'amor
del prossimo, se non in questa tolleranza? (4). La
tolleranza del prossimo forma la lezione più alta e
più eccellente nella dottrina dei Santi: felice, chi
l'ha appresa! Desideriamo di essere sopportati noi
nelle nostre miserie, le quali troviam sempre meri-
tevoli di essere tollerate; invece quelle del prossi-
mo ci paiono sempre troppo grandi e troppo gra-
vose (5). Eppure, se vuoi avere un cuore caritate-
vole, sopporta il prossimo, perchè questa tolleran-
za è la carità, e la carità è questa tolleranza (6).
Naturalmente bisogna sentire vivo rincrescimen-
to perule colpe delj prossimo;' ma bisogna in pari
tempo sapere che la carità si esercita col soppor-
ti) L. Mxcmi (t. XVII, p. 14).
(2) Ps. xx, 4.
(3) E. iv (t. vi, p. 66).
(4) L . CMXXXVIII (t. x v i , p . 118).
( 5 ) L . MCCXXXVII ( t . XVII, p . 2 8 9 ) .
( 6 ) L . MCCXLII (t. XVII, p . 288).
6
tarle, non già facendone le meraviglie. Raccoman-
diamo al Signore questo nostro prossimo e cerchia-
mo di praticare noi con grande perfezione la virtù
opposta alla sua colpa. Sull'esempio del Signore,
si detesti e si odii il peccato e Si guardino con pe-
na le imperfezioni e i difetti; ma si compatisca il
peccatore e l'imperfetto, sopportandolo e tolleran-
dolo, come fa appunto il Salvatore (1).
Quando sarà dunque che ci struggeremo tutti
di dolcezza e soavità verso il prossimo? Quando ve-
dremo le anime dei nostri prossimi nel sacro petto
del Salvatore? Purtroppo, chi guarda il prossimo
fuori ili lì, corre rischio di non amarlo nè con pu-
rezza nè con costanza nè sempre d'un modo; ma
nel petto del Salvatore chi non lo amerebbe? chi
non lo sopporterebbe? chi non ne tollererebbe le
imperfezioni? chi lo troverebbe sgarbato? chi noio-
so? Orbene, questo prossimo è là, proprio là nel
petto del divin Salvatore, e vi è come amatissimo
e tanto amabile, chè il divino Amante muor d'amore
per lui, quell'Amante in cui amore è morte e mor-
te è amore (2).
(1) L. MMxcviii (t. xxi, pp. 186-7).
(2) L. MCCII (t. XVII, pp. 213-4).

34.3 Page 333

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Mutua confidenza.
L'amore cordiale va inoltre unito a una virtù,
che ne è, per dir così, una derivazione, cioè a una
confidenza da bambini. I fanciulli, quando hanno
una bella piuma o altra cosa da loro stimata bella,
non si dan pace, tìuchè non abbiano trovato tutti
i loro compagnetti, per mostrarla e chiamarli a
parte della propria gioia; così pure li vogliono par-
tecipi del proprio dolore: poiché, quando hanno un
tantino di male alla punta di un dito, lo van di-
cendo a quanti incontrano, affinchè li compatisca-
no e vi soffino su. Ora, io non dico che bisogni
essere proprio come questi fanciulli; ma dico che
la confidenza, di cui parliamo, deve far sì che le
persone religiose non siano schizzinose a comuni-
carsi le loro cosette e consolazioncelle, senza poi
nemmeno temere che si veggano le loro imperfe-
zioni. Chi avesse doni straordinari da Dio, non
sarebbe il caso che li contasse a tutti, no; ma
quanto alle coserelle ordinarie, non vorrei che si
facessero tanti misteri; presentandosi l'occasione,
senza iattanze o vanterie, ma con semplice confi-
denza le si appalesino in modo franco e schietto.
Riguardo poi ai nostri difetti, non affanniamoci a
coprirli; tanto, il non lasciarli trapelare non fa che
siano migliori. Nè per questo i fratelli crederanno
656
che tu non ne abbia; e così le tue imperfezioni
saranno forse per te più pericolose che non se ve-
nissero scoperte e ti arrecassero la confusione, che
arrecano a chi più facilmente le lascia trasparire.
Nessuno sbigottimento dunque, nessuno scoraggia-
mento, quando si commettono difetti e imperfezioni
davanti ai fratelli: anzi, mostriamoci ben lieti di
essere conosciuti quali siamo. Avrai fatto uno sba-
glio o una balordaggine, è vero: ma l'hai fatta di-
nanzi a' tuoi fratelli che ti vogliono molto bene e
saranno perciò disposti a sopportarti nel tuo di-
fetto e ne avranno più compassione per te che non
passione contro di te. Il fare a fidanza in questo
modo alimenta grandemente la cordialità e la tran-
quillità degli animi nostri tanto facili a turbarsi,
quando siamo colti in fallo per cose anche picco-
lissime, quasi che vi fosse molto da stupire a ve-
derci imperfetti.
Ancora un'osservazione. Tenendo meno qual-
che volta per inavvertenza alla dolcezza, non af-
fliggiamoci nè giudichiamoci privi di cordialità,
chè non la si perde per questo. Qualche atto com-
messo isolatamente, purché ciò non sia con fre-
quenza, non rende viziosa una persona, massime
se vi sia la buona volontà di correggersi (1).
(1) E. iv (t. vi, pp. 66-68,1.
6

34.4 Page 334

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§ 5. ZELO DELLE ANIME.
Apostolato dei sacerdoti.
Quanto sono felici le anime che si dedicano di
proposito e interamente al servizio di Dio! Dio non
le lascia mai sterili e infruttuose. Rinunzino anche
solo a un nonnulla per Iddio, Dio le ricompensa a
dismisura tanto.in questa che nell'altra vita. Qual
grazia non è mai l'essere occupati nel fare del bene
alle anime, che sono tanto care a Dio e per la cui
salvezza il nostro Signore ha tanto sofferto! È cer-
tamente un onore senza pari, del quale devi fare
grandissimo conto, e per applicatiti sul serio, pas-
sa sopra a disagi, a fastidi, a fatiche: tutto ti sarà
ripagato profumatamente; non conviene però che
tu ricorra a questo motivo per infervorarti, ma al
pensiero di renderti più caro a Dio e di promuo-
verne ounor più la gloria.
Non fermarti nemmeno a considerare, che non
vedi in te tutti i requisiti necessari; voglio dire
le doti confacenti agli uffici, a cui vieni destinato.
È meglio che non le vediamo in noi, perchè que-
sto ci fa stare umili e ci porge maggior argomento
a diffidare delle nostre forze e di noi stessi, spin-
6
gendoci a riporre più completamente tutta la no-
stra fiducia in Dio (1).
Naturalmente insieme con lo zelo ci vuole la
pazienza, la dolcezza, la tolleranza; chiunque in-
somma si accinga a imprese rilevanti per il Salvai
tore, dev'essere provvisto di tutte le virtù, per
valersene a seconda dei casi (2). Di mano in mano
però che, mosso dall'obbedienza, ti metterai a fare
molto per Iddio, egli ti assisterà col suo aiuto e farà
il tuo lavoro con te, purché tu voglia f<tre con lui
il lavoro suo: e il suo lavoro è la santificazione
delle anime. Attendi a questo lavoro con umiltà,
semplicità e confidenza, e non ne riceverai distra-
zioni, che ti siano di nocumento. Non è pace ra-
gionevole quella che fugge la fatica necessaria alla
glorificazione del nome di Dio (3).
Siccome poi non conosciamo i disegni di Dio,
non tralasciamo mai di cooperare alla salvezza del
prossimo nel miglior modo possibile (4). Dio ha
nascosto agli uomini il secreto dell'avvenire, e se
noi ci dovessimo occupare solamente a bene di
quelle anime che saranno perseveranti, ci troverem-
(1) E. vi (t. vi, p. 98).
(2) L. MCCLXXX (t. XVII, pp. 345-60.
(3) L . MCXL (t. XVII, p . 106).
( 4 ) L . CMLVIRA ( t . x v i , p . 1 5 5 ) .

34.5 Page 335

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mo assai impicciati a discernerle frammezzo alle
altre. Bisogna impedire il male del prossimo, quan-
d'anche ciò fosse per un'ora sola (1).
Noi siamo pescatori, e pescatori d'uomini. Dob-
biamo quindi rivolgere a questa pesca non solo
cure, fatiche e veglie, ma anche attrattive, arti,
adescamenti e perfino, oserei dire, sante astuzie.
Il mondo si viene facendo così delicato, che nes-
suno ormai oserà più toccarlo se non in guanti
profumati, nè medicarne le piaghe se non con im-
piastri di zibetto; ma che importa, purché gli uo-
mini vengano guariti e alla fine salvati? La nostra
regina, la carità, fa di tutto per i suoi figli (2).
Dai fanciulli specialmente bisogna tollerare mol-
to, finché sono in tenera età, e benché talvolta
mordano il petto che li nutrisce, non si deve loro
negarlo. Ci servano di epitema le quattro parole
dell'Apostolo (3): Opportune, importune, in omni
patientia et doctrina. Mette per prima la pazienza,
come quella che è più necessaria e senza di cui la
dottrina non serve. E vuole altresì che soffriamo
di passare per importuni, giacché col suo importu-
ne c'insegna a importunare. Soltanto, proseguiamo
( 1 ) L . DCCCLXXXIV ( t . XVI, p . 2 2 ) .
( 2 ) L . MDCCCLIIX ( t . XX, p . 2 1 9 ) .
(3) Il Tim., iv, 2.
660
-i
a coltivar bene: non c'è terreno così ingrato, che
l'amore del coltivatore non renda fecondo (1).
Nei Santi la carità è un fiume ricco di limpide
acque, che va pian piano dispensandole alla cam-
pagna e arrecandovi benefici d'ogni sorta, senza stre-
pito, senza devastazioni, senzafiotti; perchè scorre e
non fiotta, irriga e non fa guasti, mormora e non ru-
moreggia. Così il perfetto amor del prossimo che è
secondo Dio, si comunica in diversi modi: aiuta il
prossimo con parole, con opere, con l'esempio; lo
soccorre quanto può in tutti i bisogni; si compiace
della sua fortuna e felicità temporale, ma molto
più del suo avanzamento spirituale; gli procaccia
i beni temporali tanto quanto possono a lui servi-
re per l'acquisto della beatitudine eterna; gli desi-
dera i beni più preziosi della grazia e le virtù che
lo perfezionino agli occhi di Dio, procurandogliele
con ogni mezzo lecito e con vivo affetto, ma con
calma di spirito e senz'ombra di turbamento, con
pura carità e senz' alcun moto di tristezza o di sde-
gno per accidenti contrari. E come il corallo, fin-
ché sta nel mare, è una ramosità muscosa, verda-
stra e punto bella, ma appena estratto dall'acqua
prende il suo colore vermiglio e la sua lucentezza;
così, finché l'amor del prossimo sta sommerso ne-
(L) L . DCLVII ( t . x v , p . 2 8 ) .
661

34.6 Page 336

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gli oggetti dei sensi, non ba niente di hello uè di
buono; ma appena trasferito in Dio, nello spirito,
nella carità, acquista subito la sua perfezione (1).
Apostolato dei religiosi non sacerdoti.
Tra le persone religiose, anche quelle che non
possono venir insignite della dignità apostolica, sono
in grado di esercitare qualche ufficio apostolico, ren-
dendo a Dio vari servigi col promuovere la sua
gloria alla maniera degli Apostoli. Per loro certa-
mente dev'essere motivo di grande consolazione, che
Dio voglia valersi di esse per un'opera così eccel-
lente, qual è quella a cui sono chiamate, e se ne
tengano onoratissime dinanzi alla Maestà divina.
Che cosa infatti desidera Dio da loro, se non quello
che egli ingiunse agli Apostoli, allorché li mandò
per il mondo, quello appunto clie il Signore mede-
simo era venuto a fare quaggiù, cioè a dare la vita
agli uomini, anzi a farli vivere d'una vita più ab-
bondante per mezzo della grazia (2)? Proprio a
questo fine furono dal Signore inviati per tutta la
terra gli Apostoli, secondochè egli disse loro (3):
(1) L. MMLXXIIT j x x , p. 1450.
(2) JOAN., X, 10.
(3) Ib., xx, 21.
62
— Come il padre ha mandato me, così io mando voi;
andate, e date agli uomini la vita. Non contenta-
tevi però di questo: fate che vivano, e d'una vita
più perfetta mediante la dottrina che loro insegne-
rete; essi avranno la vita col credere alla parola
mia da voi predicata, ma avranno una vita più ab-
bondante mercè il buon esempio che voi darete loro.
E non v'impensierite, vedendo che alla vostra fa-
tica non segue il frutto da voi aspettato: a voi non
si domanderà il frutto, ma soltanto se avrete usato
diligenza in coltivar bene i terreni sterili e aridi:
non vi si domanderà certo se avrete fatto buon
raccolto, ma unicamente se avrete procurato di fare
buona seminagione. —
Così pure queste persone religiose vengono man-
date qua e là in diversi luoghi, a far sì che le
anime abbiano la vita, e una vita migliore. Non
vanno esse a far conoscere la perfezione del loro
Istituto e per tal mezzo a farne amare le osservanze?
Anche senza predicare e amministrare i Sacramenti
e rimettere i peccati, come facevano gli Apostoli,
non attendono dunque a dare la vita alle anime, e
in particolar modo alle anime giovanili? Mosse dal
loro esempio, abbracceranno la vita religiosa tante
e tante anime giovanili che si sarebbero perdute
stando nel mondo, mentre così andranno a godere
eternamente nel Cielo una felicità superiore a ogni

34.7 Page 337

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nostro intendimento. E non riceveranno esse per
tal modo una vita più abbondante, cioè più perfetta
e più gradita a Dio? Sarà una vita che le renderà
capaci di più intima unione con la Bontà divina,
perchè riceveranno dalle persone religiose le istru-
zioni necessarie per l'acquisto del vero e puro amor
di Dio, nel che consiste quella vita più abbondante
che il Signore è venuto a dare agli uomini. Io,
dice (1), son venuto a portare fuoco sopra la terra:
e che voglio, se non che si accendaì E altrove (2) co-
manda che il fuoco resti sempre acceso sul suo al-
tare, e quindi non venga mai spento, per mostrare
quanto vivamente desideri che il fuoco del suo
amore arda di continuo sull'altare del nostro cuore.
Oh, qual grazia non è mai questa, fatta da Dio a
cotali persone religiose! egli le ha rese apostole,
non nella dignità, ma nell'ufficio e nel merito. Non
predicano; ma non lasciano di esercitare l'aposto-
lato, comunicando ad altri il loro genere di vita,
nel modo anzidetto.
Vadano dunque coraggiosamente a fare la parte
loro, ma vadano con semplicità. Se provano delle
apprensioni, dicano a se stesse: — Il Signore prov-
cederà (3). —• Se il considerare la propria debolezza
(1) Lue., XII, 49.
(2) Levit., vi, 6.
(3) Gerì., x x n , 8.
664
le turba, si mettano nelle mani di Dio e confidino
in lui. Gli Apostoli erano in massima parte pesca-
tori e ignoranti; ma Dio li fece sapienti quanto era
necessario all'incarico che voleva loro affidare. Con-
fidino in lui, si appoggino alla sua provvidenza e
non abbiano paura di nulla. Non dire: — Io non
ho il dono della parola. — Non importa, va' senza
fare grandi ragionamenti: Dio ti suggerirà quel che
a tempo debito avrai da dire e da fare. E se non
hai virtù o non ne scorgi in te, non ti appenare;
se per la gloria di Dio e in ossequio all' obbedienza
prenderai a guidare anime ed a fare qualunque altra
cosa, Dio avrà cura di te e sarà obbligato di for-
nirti tutto il necessario, sia per te che per le anime
a te affidate! (1).
§ 6. CARITÀ NEI PENSIERI E NELLE PAROLE.
Carità nei pensieri.
Si osservino le azioni altrui unicamente per no-
tarne le virtù, non le imperfezioni; giacché, quan-
do noi non abbiamo tale ufficio, non dobbiamo vol-
gere da quel lato gli occhi e nemmeno il pensiero.
(l) E. vi (t. vi, pp. 88-91).
665

34.8 Page 338

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S'interpreti sempre nel miglior senso possibile ciò
che si vede farsi dal prossimo; e nelle cose dubbie
diciamo a noi stessi che il veduto da noi non è ma-
le e che la causa di un tal pensare sta nella nostra
imperfezione, per evitar così i giudizi temerari sul-
le azioni altrui, male pericolosissimo e sommamente
detestabile. Nelle cose poi evidentemente cattive bi-
sogna che sentiamo compassione e umiliazione per
i difetti del prossimo, come per i nostri stessi, e
che preghiamo Dio per l'altrui emendamento, come
faremmo per il nostro, se fossimo caduti nei difetti
medesimi (1).
Il mettersi di proposito ad osservare le imperfezio-
ni degli altri è gran male, è una cosa da non farsi:
ma se ci accade di vederle, non vi badiamo, pen-
siamo invece con tutta calma al paradiso e alle
perfezioni di Dio, del Signore, della Madonna, dei
Santi e Sante e degli Angeli; qualche volta guar-
diamo anche a noi, alla nostra indegnità e bas-
sezza, e al venire di simili pensieri, umiliamoci pro-
fondamente, considerando come, poveri vermiccioli
quali siamo, pure vogliamo sindacare le azioni degli
altri, che sono gli amici del Signore (2).
Allorché si sa che una persona è dabbene, scor-
ti) E. iv (t. va, p. 72).
(2) E., App. E (t. vi, p. 417).
6
gendosi in: lei qualche cosa che non ci permetta di
scusare nè il fatto nè l'intenzione, non giudichiamo
punto, ma leviamoci di mente quel pensiero, la-
sciando il giudizio a Dio. Del resto, se proprio non
si potesse scusare il peccato, rappresentiamocelo al-
meno come degno di compatimento, attribuendolo
alla causa più passabile, come a ignoranza ovvero
a debolezza (1).
Il pensar male del prossimo, quando non iscac-
ciamo prontamente il pensiero, ma vi ci fermia-
mo un poco, senza però formare un giudizio inte-
ro fino a dire dentro di noi: — È veramente così,
— non è peccato mortale; e neppure quando dices-
simo senz'altro : — È così, — ma non in cosa
d'importanza. Ogni qualvolta la cosa, intorno a
cui giudichiamo il prossimo, non è grave oppure
non formuliamo un giudizio completo, si commette
soltanto peccato veniale (2).
La carità teme di trovare il male, tanto è lungi
dall'andarne in cerca (3); avvenendole poi di trovarlo
passa oltre, dissimula, chiudefinanco gli occhi per
non vedere, a meno che non si abbia obbligo di
fare altrimenti (4).
(1) L . DVIII ( t . x i v , p . 115(1
( 2 ) L . DCCXLIV ( t . x v , p p . 1 5 2 - 3 ) .
( 3 ) C f r . / Cor., XIII, 5.
(4) L . DVIII (t. x i v , p . 115).

34.9 Page 339

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Carità nelle parole.
Ci vogliono buone briglie nella lingua, affinchè
non córra per le strade come un cavallo in fuga e
non entri nella casa del prossimo ed anche nella
sua vita, a censurare, a sindacare, a portargli sem-
pre via un po' della stima che sappiamo essergli
dovuta (1).
Io ti scongiuro di non dire mai male del pros-
simo, nè di proferir parola che lo possa offendere.
Non bisogna tuttavia favorire il male, piaggiarlo o
coprirlo; anzi fa d'uopo parlare chiaro e tondo, dicen-
do francamente male del male e biasimando le cose
biasimevoli, ogni volta che lo richiegga l'utilità del-
la persona, di cui si parla; in tal caso Dio viene
glorificato. Soprattutto si biasimi il vizio, rispar-
miando al possibile il vizioso, tanto più che la bontà
di Dio è sì grande da bastare un momento per impe-
trarne la grazia. Chi potrà mai asserire con cer-
tezza che colui, il quale era peccatore e malvagio,
lo sia ancora al presente! (2).
Quando ti credi in dovere d'incolpare alcuno,
parlane con brevità e coscienziosamente; non dif-
fonderti cioè nelle tue rimostranze e non ritornarvi
U!) S. R. XXI (t. IX, pp. 189-190).
(2) L. dviii (t. xiv, pp. 165-6).
668
su con frequenza; nel farle poi, non asserire nulla
più di quanto potrai conoscere o congetturare della
colpa, esprimendoti dubitosamente intorno alle cose
dubbie, e più o meno dubitosamente, secondochè
quelle saranno più o meno dubbie (1). Un'imperfe-
zione trascurata, ma grandemente nociva, da cui
pochi si guardano, è che, se ci capita di far osser-
vazioni o lagnanze sul prossimo (e deve capitarci
di rado), non la finiamo più, ma ricominciamo sem-
pre da capo, ripetendo senza fine lamenti e rimo-
stranze; il che dà indizio di un cuore ferito e non
ancora ben rimarginato. I ^cuori forti e gagliardi si
dolgono solo per motivi gravi e per giunta in que-
sti gravi casi non serbano mai risentimento di sorta,
almeno in una forma turbata e inquieta (2).
Viceversa, neppur una parola, che torni a pre-
giudizio del prossimo, dev'essere creduta senza le
prove, eie prove si hanno soltanto dall'esame, ascol-
tando le parti. Siano pure quanto si voglia degni
di fede gli accusatori, bisogna sempre ammettere
gli accusati a fare le proprie difese (3).
Quella dolce e sincera cortesia ti raccomando,
la quale non offende nessuno e si mostra sensibile
(1) L. CMXLIX (t. xvi, p. 13411.
( 2 ) L . DCCCXVII ( t . x v , p . 2 8 8 ) .
(3) L. MLIJ (t. xvi. p. 318).
6

34.10 Page 340

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con tutti, è vaga più d'amore che d'onore, non ride
a spese altrui nè usa parole pungenti, non respinge
mai e non è mai o quasi mai respinta, e in cambio
riceve assai spesso onorevoli riguardi (1). Certo
è che, come ordinariamente si vede, nulla tanto of-
fende quanto le parole pungenti e dette in ispregio
di coloro a cui si parla, massime se quelle vengono
da persone distinte e autorevoli. Si sono veduti uo-
mini morire di dolore e dispiacere per aver udito
parole sprezzanti dai loro principi, quantunque pro-
ferite in un moto o scatto di passione. Vi sono tanti
che dicono di non essere^ nulla, di essere spregevoli,
povera gente, e simili (un'umiltà di cui il mondo è
pieno); ma poi non saprebbero sopportare se fos-
sero altri a dir loro che non sono buoni a nulla, che
sono sciocchi, e somiglianti espressioni di spregio.
A confessarsi tali da sè son disposti,finché si vuole;
ma guai a dirlo tu, chè se l'avrebbero a male (2).
Anche il parlar poco io approvo, ma a patto
che questo poco si faccia con garbo e carità e non
con aria malinconica e affettata. Tu, parla poco e
dolce, poco e buono, poco e semplice, poco e schietto,
poco e amabile (3).
(1) L. DCXXXVII (t. xiv, pp. 377-8).
(2) S. R. LVI (t. x, p. 2311).
( 3 ) L. MMX (t. xxi, p. 5 7 ) .
6
§ 7. CARITÀ NELLE CORREZIONI.
Perchè e come si deve correggere.
In ogni Congregazione religiosa ben regolata vige
la pratica della correzione, da cui viene il buon ordi -
ne che vi regna; con questa infatti si raddrizza, si ri-
netta e si emenda ciò che non va bene, ovvero è
comechessia imperfetto. Invece quei che vivono nel
mondo non hanno chi li riprenda; vi percorrono le
vie maestre con abiti infangati, nè havvi alcuno
che dica loro una parola o pensi a sbrattarli; ma sen-
za far motto si lascia che tirino avanti per la loro
strada, sicché restano sempre con le loro zacchere.
Non così nella vita religiosa, dov'è consuetudine or-
dinaria il ricevere riprensioni (1).
Si presentarono un giorno a santa Brigida al-
cuni lebbrosi per essere da lei guariti. La Santa,
appena li vide, prese dell'acqua pura, la benedisse
e ordinò loro di lavarsi l'un l'altro. Allora il primo
tuffò le mani in quell'acqua fresca e si diede a la-
vare il compagno, che divenne candidò come la
neve. — Orsù, disse la Santa, prendi tu pure del-
l'acqua e lava l'altro. — Ma il nettato non se ne
diede per inteso, e al vedersi così nitido rispose: —
Oh, mi guarderei bene dal toccarlo! Adesso che
( 3 ) s . R . XLIV ( t . x , p . 3 0 ) .

35 Pages 341-350

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35.1 Page 341

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sono guarito, vi è pericolo che, toccandolo, io mi
pigli di nuovo la lebbra. — Costui fu guarito per
il primo; ma era ancora molto lebbroso. Quindi la
Santa, illuminata da luce interna, replicò: — Ecco
che la guarigione della lebbra esterna ti ha pro-
dotto la lebbra interna; così non può essere: ridiver-
rai lebbroso. — Il che avvenne subito. Allora gli dis-
se, di lavare il compagno; ciò fatto, e lavato ancora
una volta dagli altri, guarì.
Per qual motivo ho io ricordato questo miracolo?
Perchè è bello e. mi sembra che contenga ottimi in-
segnamenti. La Santa, mossa dallo Spirito di Dio,
dice ai lebbrosi: — Lavatevi l'un l'altro.—Nel che
ci porge una bella lezione sopra la carità reciproca
che deve regnare fra i Cristiani e dev'essere im-
pressa specialmente nel cuore dei religiosi e delle
religiose: bisogna che si puliscano fra loro dalla
lebbra spirituale mediante la riprensione e corre-
zione fraterna; così appunto si pratica in ogni fa-
miglia religiosa ben osservante.
Ed è così che si ricupera la primiera salute e
il corpo della Congregazione si conserva mondo e
scevro d'ogni macchia o lordura. Ne ricompaiono
bensì di quando in quando; ma tosto che vengono
scorte, vi si stende la mano per tergersele a vi-
cenda. Ora, se per qualche umano riguardo e mossi
non da carità, ma da fantasia e capriccio, noi ricu-
672
siamo di lavare chi ne ha bisogno, si fa un male
grande. Col dire: — Io che son netto, non oserei
toccare quel tale, che è tuttora infetto;— oppure:
— È un membro putrido, correggerlo è inutile, per
lui riesce vana ogni fatica, vai meglio lasciarlo sta-
re, — non vedi che ti esponi al pericolo di pigliar la
lebbra anche tu? Chi si vorrebbe guarire, se non
chi è malato? E per ch'i è venuto il Signore, se non
per gl'infermi? Il giusto, come dice il glorioso A-
postolo (1), non ha bisogno di leggp; non occorre
che a lui si raccomandi l'amore di Dio, perchè lo
ama abbastanza, e nemmeno l'amore del prossimo,
perchè sa bene a che cosa lo obblighi e sproni l'a-
more di Dio. Ma i lebbrosi, su cui fa d'uopo sten-
dere la mano, sono i deboli e gl'infermi da servire
con pazienza e carità. Ecco la lezione impartitaci
da santa Brigida, con l'ordinare ai lebbrosi di la-
varsi l'un l'altro (2).
Procurino dunque i religiosi di avvertirsi l'un
l'altro con carità dei loro difetti; come mai potresti
vedere una macchia nel tuo confratello senza cer-
care di levargliera, facendonelo avvisato? Ci vuole
però discrezione in quest'affare; non sarebbe, per
esempio, il momento di avvertire un confratello,
(1) I Tim., i, 9.
(2) S. R. XLIV (t. x, pp. 32-3).
673
22. - E. CERIA, La vita religiosa ecc.

35.2 Page 342

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quando lo vedi mal disposto o di malumore, essen-
dovi allora pericolo cli'ei respinga senz'altro l'av-
vertimento datogli da te. Bisogna aspettare un tan-
tino, e poi avvertirlo a cuore aperto e con carità.
Se un confratello ti dice parole che sappiano di
mormorazione, e mostra di avere l'animo in calma,
osservagli con tutta confidenza: — Caro mio, questo
non va bene; — ma se ti accorgi che ha il cuore a-
gitato da qualche passione, allora con la maggior
destrezza possibile cambia discorso (1). Oltre a sa-
per cogliere il momento opportuno, coloro che fanno
le correzioni non si stupiscano nè si offendano al
vedere, in chi correggono, qualche risentimento;
è cosa duretta per chicchessia il sentirsi correg-
gere (2).
Come ricevere le correzioni.
E veniamo al modo di ricevere bene le corre-
zioni, di guisa che non ne rimangano risentimenti o
freddezze in cuore. Impedire che qualsiasi moto
d'ira si desti in noi e che il sangue ci salga al viso
non sarà mai possibile; noi fortunati, se arriveremo
a tanta perfezione un quarto d'ora prima di morire.
Ma la freddezza di cuore che, passato quel risenti-
(1) E. ix (t. vi, p. 147).
(2) E. xi (t. YI, p. 200).
mento, c'impedisca di parlare con la confidenza,
dolcezza e tranquillità di prima, oh sì, bisogna pro-
curare che non ci sia.—Io, dirai, respingo il ri-
sentimento, ma esso rimane. — Io invece sono quasi
sicuro che lo respingi come fanno i cittadini d'una
città, iu cui scoppi di notte una sedizione; dan la
caccia ai rivoltosi e ai nemici, ma non li espellono
perchè quelli si vanno nascondendo di via in via
fino a che, spuntato il giorno, si gettano su gli
abitanti e restano padroni del campo. Tu respingi
il risentimento causato in te dalla correzione, ma
non con la forza e la diligenza bastevole a impe-
dire che almeno una parte di quello ti si appiatti
in un cantuccio del cuore. Non vuoi avere risenti-
menti, ma non vuoi nemmeno sottomettere il tuo
giudizio, che ti fa credere la correzione fuor di pro-
posito o passionata o che so io. Chi non vede che
cotesto sedizioso ti assalirà e ti metterà tutto sos-
sopra, se non fai presto a cacciarlo ben lontano?
— Ma che fare in quel momento? — Star vicino
al Signore e parlargli d'altro. — Ma il risenti-
mento non si calma, anzi m'instiga a considerare il
:orto fattomi! — Oh, certo, non è quello il mo-
mento di piegare il proprio giudizio ad ammettere
e confessare che la correzione è giusta e viene op-
portuna! ciò sarà dopo il ritorno alla calma e tran-
quillità: durante il turbamento non s'ha da dire nè
674
6

35.3 Page 343

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da fare nulla, ma bisogna mantenersi fermi e riso-
luti a non consentire alla passione, per quante ragio-
ni si avessero di farlo; poiché ragioni in quei mo-
menti non ne mancherebbero mai, anzi verrebbero in
folla: non diamo ascolto a neppur una, per buona
che sembri, ma stiamcene vicini a Dio, come ho det-
to, distraendo la mente e parlandogli d'altro con
umiltà e docilità.
Ma bada bene a questa raccomandazione, che ti
faccio assai volentieri a motivo della sua utilità:
umiliati con umiltà dolce e tranquilla, non triste e
agitata: mal per noi, se ci presentiamo a Dio con
atti d'umiltà dispettosi e insofferenti: così non cal-
miamo lo spirito, e i nostri atti rimangono senza
frutto. Se invece li facessimo dinanzi alla Bontà
divina con dolce confidenza, ce ne verremmo via
interamente rasserenati e tranquilli e troveremmo poi
facile disapprovare tutte le ragioni, spesso e quasi
sempre irragionevoli, suggeriteci dal nostro giudizio
e amor proprio, tornando con la stessa facilità di pri-
ma a parlare con chi ci ha corretti o contrariati.
— Io mi vinco, rispondi, e parlo con colui; ma, se
dall'altra parte non mi si parla coni'io desidero, la
mia tentazione si raddoppia. — Tutto ciò proviene
sempre dal medesimo guaio detto sopra: che cosa
deve importare a te, che ti si parli in un modo o
nell'altro, purché tu faccia il dover tuo?
676
A conti fatti, non c'è uno che non provi ripu-
gnanza alla correzione. San Pacomio, dopo essere
vissuto quattordici o quindici anni nel deserto con
grande perfezione, ebbe rivelazione da Dio ch'egli
avrebbe tirato a sè moltissime anime, e tanti sareb-
bero andati al deserto per mettersi sotto la sua
guida. Aveva già seco parecchi religiosi, fra i quali
vi era suo fratello, di nome Giovanni, il primo da
lui ricevuto. San Pacomio dunque pensò di amplia-
re il monastero, facendovi molte celle; ma il fratel-
lo o perchè ne ignorava le intenzioni o per il suo
zelo in materia di povertà, gli fece un giorno una
forte correzione, domandandogli se fosse quello il
modo d'imitar il Signore, che durante la sua vita
non aveva dove posare il capo, mentr'egli co-
struiva un convento così grande: e via di questo
passo. San Pacomio, con tutta la sua santità, fu
tocco sì nel vivo da tale correzione, che si voltò
dall'altra parte, affinchè, se io non erro, il suo
contegno non ne lasciasse trasparire il risentimento.
Poi andò a gettarsi in ginocchio davanti a Dio,
chiedendo perdono della colpa e rammaricandosi
ehe, dopo essere vissuto tanto tempo nel deserto,
non fosse ben mortificato. Fece una preghiera così
fervente e umile, che ottenne la grazia di non cade-
re mai più nell'impazienza. Non meravigliamoci
dunque dei nostri scatti di collera e dei nostri risen-
6

35.4 Page 344

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ti mentì, allorché veniamo ripresi o contrariati; pren-
diamo invece esempio dai Santi, clie si dominarono
subito, senza fare la menoma concessione al risen-
timento proprio.
— Io, osserverai, accetto di buon grado la cor-
rezione, l'approvo, la stimo giusta e ragionevole;
ma dinanzi al superiore mi sento poi nell'imbaraz-
zo, per averlo disgustato o avergli dato motivo di
disgusto, ed è cosa che mi toglie la confidenza di
accostarmi a lui, benché l'umiliazione derivatami dal
fallo mi sia cara. — Qui, chi comanda è l'amor pro-
prio. Probabilmente tu non sai che dentro di noi vi
è una comunità, in cui fa da superiore l'amor pro-
prio, che come tale impone penitenze: ed ecco la pe-
nitenza da lui imposta a te per la colpa d'aver di-
sgustato il superiore, il disagio cioè, nel quale ti tro-
vi, pensando che il superiore non ti stimi più come
avrebbe fatto, se tu non avessi mancato (1).
§ 8 CARITÀ E'AVVERSIONI.
Origine.
Le avversioni sono certe inclinazioni, talvolta na-
turali, che ci fanno provare un po' di ripugnanza
alla vista di alcuni, impedendoci di gradirne la
(1) E. ix (t. vi, pp. EO, 3-7).
6
couversazione e di prendervi il diletto che ci dà il
trattare con altri, verso cui proviamo un'inclinazio-
ne piacevole, accompagnata da amore sensibile e
proveniente da reciproca affinità e omogeneità di
carattere.
Quanto sia cosa naturale che si amino per incli-
nazione gli uni e non gli altri, non si vede anche,
per esempio, al gioco della palla? chi va ad assi-
stervi, appena giunto, si sente subito inclinato a
voler che vinca uno dei giocatori piuttosto che l'al-
tro. Donde questo, se non si è mai veduto nessu-
no dei due, non se n'è mai udito parlare, nè si sa
affatto quale di essi valga più del suo avversario? non
vi è proprio nessun motivo di predilezione. Bisogna
dunque ammettere che l'inclinazione ad amare più
questo e meno quello, è cosa naturale: la si nota
pure nelle bestie, che, sebbene prive di ragione,
han però da natura avversioni e propensioni reci-
proche. Fanne la prova con un agnellino appena
nato: mostragli una pelle di lupo: benché questo
sia morto, l'agnellino si darà alla fuga, manderà
belati, si nasconderà sotto la madre; mostragli in-
vece un cavallo, che è una bestia ben più grossa,
e non avrà paura di sorta, anzi si divertirà con
lai. La ragione di ciò è questa sola, che l'istinto
naturale gli fa sentire propensione per l'uno e av-
rsione per l'altro.
679

35.5 Page 345

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Ora, di siffatte. avversioni naturali non si La da versione è cosa buona; voglio dire che ci farà crede-
fare gran caso, trattandosi di semplici inclinazioni, re d'aver motivi e argomenti tali da parerci buoni,
seinprechè tutto venga da noi sottomesso alla ragio- e una volta che siano approvati dal nostro giudi-
ne. Sento ripugnanza a conversare con una perso- zio e amor proprio, non ci sarà più scampo, li tro-
na, che conosco per virtuosa e con cui posso gran- veremo giusti e ragionevoli.
demente profittare? non devo dar retta alla mia ri- Stiamo bene in guardia! Mi ci sono fermato un
pugnanza, che mi muove a evitarne l'incontro, ma po' a lungo, perchè l'argomento è importante. Non
devo sottomettere questa inclinazione alla ragione, si ha mai motivo di portar avversione, tanto meno
che mi dirà di cercarne la conversazione o almeno di volerla fomentare. Io dico adunque:finché si trat-
di assistervi con pace e tranquillità, allorché vi ta di semplici avversioni naturali, non facciamovi
capitassi.
caso, ma distogliamone il pensiero senza far vista
di nulla, deludendo la mente. Combattiamole in-
Rimedi. vece ed abbattiamole, quando vediamo che il sen-
timento naturale va più in là e ci vorrebbe impedire
Quale rimedio vi sarà a tali avversioni, dacché di sottometterci, com'è nostro dovere, alla ragione,
nessuno può andarne esente, sia par perfetto quan- la quale non ci consente mai di fare alcunché in fa-
to si voglia? Chi ha naturale aspro, sentirà avver- vore delle nostre avversioni, come in generale delle
sione a chi è dolce, e tale dolcezza egli chiamerà nostre inclinazioni cattive, per tema di offendere
sdolcinatura, sebbene la dolcezza sia la dote più Dio (1).
universalmente amata. L'unico rimedio a questo Yi è sempre da temere che le piccole volpi pe-
male, come a ogni altra specie di tentazione, è di- netrino nella vigna per devastarla (2); intendo par-
vertire la mente, non pensandovi su. Ma il guaio si lare delle avversioni e ripugnanze, che sono le ten-
è che nói vogliamo andare a fondo e conoscere, se tazioni dei Santi. Soffocale sul nascere: tieni ben
abbiamo ragione o torto di sentir avversione per riparata la tua carità ed abbi per sospetto tutto ciò
qualche persona. Oh ! non perdiamoci dietro a simile
ricerca; il nostro amor proprio, che non dorme mai.
(1) E. xvi (t. vi. pp. 288-291).
c'indorerà la pillola facendoci credere che quell'av-
(2(1 Cant., il, 1S.
680
61

35.6 Page 346

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clie sia contrario all'unione, alla mutua tolleranza,
alla stima vicendevole che dobbiamo avere gli uni
degli altri (1).
Considera il prossimo in Dio, il quale vuole che
noi lo amiamo e lo trattiamo bene. Tale è il pensiero
di san Paolo quando ordina ai servi di servir Dio I
nei loro padroni e i loro padroni in Dio (2). Bisogna
esercitarsi in quest'amore del prossimo, dandogli se-
gni esterni di benevolenza: e benché sulle prime
lo facciamo di contraggenio, non desistiamo per
questo: la ripugnanza della parte inferiore sarà vin-
ta alla fine dall'abitudine e dalla buona disposi-
zione prodotta dal ripetersi degli atti. Sudi questo
si facciano convergere orazioni e meditazioni; per-
chè, dopo aver domandato l'amore di Dio, bisogna
sempre domandare quello del prossimo e in special
modo di coloro, verso i quali la nostra volontà non
prova nessuna simpatia (3).
§ 9. LA. « SOUPLESSE »
Vi è una certa pieghevolezza di volontà »i de-
sideri altrui, che forma una virtù bellissima, la qua-
]
(1) Eph., vi, 5-7.
(2) L..MCCXXXVII (t. XVII, p. 280.
(3) L. ccLxxvii (t. XII, pp6. 269-270).
le, mentre volge l'animo nostro in qualsiasi lato, ci
dispone a far sempre la volontà di Dio. Se, per
esempio, andando a passeggio in un luogo, io sen-
to un confratello che mi dice di andare altrove, la
volontà di Dio per me è che io faccia come quegli
vuole, anziché come voglio io; se invece io oppon-
go la mia opinione alla sua, la volontà di Dio per
lui è che ceda egli a me: e così in tutte le cose in-
differenti. Ma se accadesse che due volessero cede-
re entrambi al desiderio l'uno dell'altro, non con-
verrebbe star là a contendere, ma guardare quale
delle due cose sia più ragionevole e migliore, e
farla con semplicità. Nel che si proceda con discre-
zione: poiché sarebbe fuor di proposito tralasciare
una cosa necessaria per condiscendere in un'altra
indifferente. Se io volessi fare un atto di grande
mortificazione e un confratello mi venisse a dire di
non farlo o di farne un altro, rimetterei, possibil-
mente, ad altro tempo la mia prima idea per far»
la sua volontà, e dopo eseguirei il mio disegno.
Qualora poi non ne potessi omettere o rimandare
l'esecuzione, e la cosa voluta dall'altro non fosse
necessaria, farei ciò che avevo stabilito; quindi riaf-
ferrerei, potendo, l'occasione di fare quanto il con-
fratello desiderava da me.
Un altro caso. Poniamo che un confratello ci
preghi di fare qualche cosa e che noi lì per lì
683

35.7 Page 347

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mostriamo ripugnanza; il confratello non se ne
adombri nè dia segno di accorgersene, nè ci dica di
non farla più: non istà in poter nostro d'impedire
che il colore, gli occhi e il contegno rivelino la
nostra lotta interna, benché la ragione voglia fare
la cosa richiesta; sono messaggeri che vengono sen-
z'essere chiamati e per quanto si dica loro: — In-
dietro! — d'ordinario non si danno per intesi. Come
mai dunque il confratello non vorrà che io faccia
la cosa chiestami, solamente per essersi accorto del-
la mia ripugnanza? abbia anzi caro che io m'acqui-
sti quel merito. Mi dirai: — Si è che teme di esserti
stato importuno. — No, è il suo amor proprio, il
quale non vorrebbe che io avessi il minimo pensie-
ro ch'ei sia importuno; io avrò bensì questo pensie-
ro, ma non mi ci fermerò sopra. Se nondimeno al
segno della mia ripugnanza io aggiungo parole che
mostrino chiaro, com' io non abbia proprio volontà
di fare la cosa, di cui il confratello mi prega, questo
può e deve dirmi con dolcezza di non farla, sempre-
chè si sia fra eguali: chè coloro, i quali sono rive-
stiti di autorità, bisogna che tengan fermo e pieghi-
no i propri inferiori. Oltre a ciò, sebbene un confra-
tello mi abbia rifiutato recisamente qualche cosa o
mi abbia dimostrato la sua ritrosia, non debbo io
perdere la fiducia di ricorrere a lui un'altra volta
e nemmeno restare mal edificato della sua imperfe-
684
zione: in questo momento io sopporto lui, e di qui
a poco egli sopporterà me; ora egli prova ritrosia a
fare questa cosa, e un'altra volta la farà volentieri.
Tuttavia, se io sapessi per esperienza che è uno
spirito non in grado di venir trattato a questo
modo, lascerei passare qualche tempo, fino a che
egli fosse meglio disposto.
Dobbiamo tutti capacitarci che ognuno di noi ha
i propri difetti, e quindi non facciamo le meraviglie,
allorché ci avviene di riscontrarne; se la si dura un
po' di tempo senza cadere in fallo, verrà un altro
tempo, in cui faremo mancamenti su mancamenti,
commettendo molte e gravi imperfezioni: ma biso-
gnerà cavare profitto mediante l'umiliazione che ne
deriva.
Per acquistare l'anzidetta arrendevolezza alla vo-
lontà altrui, gioverà moltiplicare nell'orazione gli
atti d'indifferenza e poi al presentarsi delle occa-
sioni metterli in pratica; giacché non basta lo spo-
gliamento di noi stessi davanti a Dio: questo si fa
soltanto con l'immaginazione, e non ci vuol j>ran che;
ma quando si passa all'effetto, quando cioè, messici
interamente nelle mani di Dio, troviamo una perso-
na che ci comanda, allora la cosa cambia, allora è
tempo di mostrare il proprio buon volere.
La dolcezza nel condiscendere alla volontà del
prossimo è una virtù di gran pregio e simboleggia
6

35.8 Page 348

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l'orazione di unione. In questa orazione si fa una
rinuncia di sé a Dio, sicché l'anima dice con veri-
tà: — Io non ho altro volere che il vostro, o Signo-
re, — ed è tutta unita a Dio; parimente, nel rinun-
ciare alla volontà propria per fare sempre quella del
prossimo, si ha la vera unione col prossimo: il tut-
to però si faccia per amore di Dio (1).
(1) E. x (t. vi, pp. 162-4. 165-6).
686
C A P O S E T T I M O - Dell'umiltà.
§ 1. NECESSITÀ DI QUESTA VIRTÙ.
Necessaria per le altre virtù.
L'umiltà è la virtù delle virtù, come quella che
trae con sè nell'anima e vi conserva le altre. Questo
volle dire il glorioso sant'Agostino, allorché, interro-
gato quale fosse la prima virtù, rispose: — L'umiltà.
— E la seconda? — L'umiltà. — E la terza? — L'u-
miltà (1). — Così egli avrebbe continuato a risponde-
re, se altri avesse continuato a interrogare. Questa
virtù, intendeva egli dire, benché .piccola in appa-
renza, è nondimeno la maggiore; senza di essa tut-
te le altre sarebbero un bel nulla; come l'orgoglio
e la vanagloria è il semenzaio di tutti i peccati e il
fomite di tutti i vizi, così l'umiltà è la madre di tut-
te le virtù (2).
( 1 ) Epist. CXVI1I, a d Diosc. 22.
(2) S. R . XLIX (t. x, p. 109).
6

35.9 Page 349

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Il demonio combatte accanitamente l'umiltà, per-
chè il difetto di umiltà lo fece cacciare dal Cielo e
piombare nell'inferno (1); quindi non lascia intenta-
to nessun mezzo o artifìcio per far iscapitare l'uomo
in questa virtù, tanto più sapendo che essa rende
chi la pratica oltremodo caro a Dio. Sicché noi pos-
siamo dir bravo a chi persevera nell'umiltà, perchè
con questo egli rimane insieme vincitore del demo-
nio e del mondo, che è tanto pieno di ambizione, va-
nità e orgoglio (2).
Nelle Vite dei Padri (3) si narra che parecchi di
quei religiosi antichi, radunati a conferenza, loda-
vano chi una virtù chi un'altra. Uno di essi, udite
le osservazioni'dei fratelli iutorno alle diverse virtù,
prese a dire: — A me-sembra che l'umiltà sia la
prima e la più necessaria di tutte le virtù; — e fece
un paragone, che mi torna molto a proposito, dicen-
do che umiltà e carità stanno fra loro come san
G-iovanni Battista e il Signore. Infatti l'umiltà va
innanzi alla carità, come il Battista fu il precurso-
re del Signore. Essa è che prepara le vie, essa la
voce che grida: Spianate la strada del Signore. Come
san Giovanni Battista precedette il Messia, così l'u-
fi) [s., XIV, 11-15.
(2) E. xix (t. vi, p. 366).
(3) V. P., in, 126; vii, 1,3.
6
miltà bisogna che venga prima a vuotar i cuori,
perchè vi sia poi ricevuta la carità, la quale non
potrà mai albergare in un'anima, fino a che l'umil-
tà non le abbia apparecchiato il posto.
Sant'Antonio fu un giorno rapito in estasi e,
quando ritornò in sè, i suoi buoni religiosi gli do-
mandarono che cosa avesse veduto. Rispose: — Ho
veduto il mondo tutto .pieno di lacci, i quali stan-
no tesi non solo per farvi inciampare gli uomini,
ma anche per farli precipitare in abissi profondi.
— Ripigliarono quelli: — Ma se tutto è lacci, chi
dunque scamperà? — Soltanto chi è umile, — am-
monì il Santo. Ecco quanto è indispensabile l'u-
miltà, se si vuol resistere alle tentazioni è sfuggire
alle insidie del demonio (1).
Necessaria per tutta la vita.
L'umiltà è la più grande di tutte le virtù pu-
ramente morali e la più necessaria. Il Signore l'eb-
be tanto cara che la praticò fino alla morte; anzi,
fece, morendo, il più perfetto e sublime atto di
umiltà che si possa mai immaginare. L'Apostolo
san Paolo (2), per darci un'idea dell'amore che
(1 S. R. xxxix (t. ix, p. 429).
(2) Phillipp., il, 8.

35.10 Page 350

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il Salvatore portava a questa santa virtù, dice che
egli si è umiliato fino alla morte, e motte di croce,
quasi volesse dire: Il mio Maestro non si è umilia-
to solo per qualche tempo o in certe speciali azio-
ni, ma fino alla morte, cioè dall'istante della sua
concezione, per tutta la vita, fino alla morte; nè
solamente fino a quel punto, riguardo al tempo,
ma l'ha voluta praticare anche nel modo di mo-
rire. Perciò, rincalzando aggiunge: e morte di
croce, la morte più ignominiosa e umiliante d'ogni
altra.
Questo divino esempio c'insegna che non ci dob-
biamo restringere a praticare l'umiltà in certe azio-
ni particolari o soltanto per un dato tempo, ma
sempre e in tutte le occasioni; nè solo fino alla
morte, ma fino alla mortificazione di noi stessi,
umiliando così l'amore della stima propria e la sti-
ma dell'amore proprio. Non perdiamoci a praticare
una certa umiltà di contegno e di parole, la quale
consiste nel dire che noi non siamo nulla e nel
profonderci in inchini e umiliazioni esteriori e cose
simili, che con l'umiltà non hanno proprio niente
da fare. L'umiltà, perchè sia di buona lega, deve
farci non solo conoscere, ma riconoscere la nostra
vera nullità e la nostra indegnità di vivere, renden-
doci condiscendenti, alla mano, sottomessi con tutti,
per obbedire al precetto del Salvatore che ci ordina di
690
rinunciare a noi stessi, se vogliamo andare dietro
di lui.
Di qui si vede l'inganno di coloro, i quali sup-
pongono che l'umiltà sia una virtù da novizi e da
principianti e che, fatto un po' di progresso nella
via di Dio, possano lasciar correre nella pratica di
essa. Costoro sono di quelli che credendosi saggi,
appaiono ben stolti (1); non vedono infatti che il
Signore si è umiliato fino alla morte, cioè per tutto
il tempo della sua vita? Oh, davvero, il divin Mae-
stro delle anime nostre sapeva, quanto il suo esem-
pio ci fosse necessario! Egli non aveva alcun bisogno
di abbassarsi; eppure ha voluto perseverare negli ab-
bassamenti, perchè ne avevamo bisogno noi. Quan-
to è necessaria in questo la perseveranza! quanti
si sono visti che, dopo aver cominciato benissimo
nella pratica dell'umiltà, si perdettero poi per non
aver perseverato! Il Signore non ha detto: — Chi
comincerà—, ma — chi persevererà nell'umiltà, sa-
rà salvo (2). —
Tutti coloro che hanno peccato, sono stati mos-
si a farlo da orgoglio. Il Signore, da medico buono
e amoroso delle nostre anime, prende il male alla
radice: al posto dell'orgoglio viene a piantare la
(1) Rom., i, 22.
(2) MATT., x, 22; xxiv. 13.
61

36 Pages 351-360

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36.1 Page 351

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bella e utile pianta dell'umiltà, virtù maggiormen-
te necessaria, quanto più largamente è diffuso fra
gli uomini il vizio a lei contrario. Del re Saulle di-
ce la Scrittura .(1) che sul principio del suo regno
aveva l'innocenza di un bambino, d'un anno; eppu-
re a causa dell'orgoglio si pervertì à segno che si
attirò la riprovazione di Dio. Clie umiltà non dimo-
strava Giuda, vivendo in compagnia del Signore!
eppure vedi che orgoglio ebbe morendo: non volle
umiliarsi a fare gli atti di pentimento, che presup-
pongono grandissima e ottima umiltà, e disperò il
perdono. Superbia esecranda non volersi abbassare
dinanzi alla divina misericordia, dalla quale dob-
biamo attendere ogni nostro bene e ogni nostra
felicità!
Insomma, è questo un malanno generale fra
ogni classe di persone; quindi non si predica nè
s'inculca mai abbastanza la necessità della perseve-
ranza nella pratica della santissima e amabilissima
virtù dell'umiltà. Vedi il Signore e la Madonna
prendere nel dì della Purificazione l'aspetto dei pec-
catori, eglino che tali non potevano essere; eccoli
assoggettarsi a una legge, che non era fatta nè per
l'uno nè per l'altra. Umiltà grande abbassarsi così!
Non è gran cosa, non è abbassamento di grande im-
(1) I Reg., x m , 1.
692
portanza quello dei piccoli in confronto di quello dei
giganti. Che ci abbassiamo, che ci umiliamo noi, non
è gran che, da quelle nullità che siamo, meritevoli
della nostra abbiezioue, del nostro annientamento;
ma nel nostro caro Salvatore e nella santa Vergine,
che sono giganti d'incomparabile grandezza e altez-
za, le umiliazioni hanno un valore che noi non sa-
premmo calcolare. E cominciato che ebbero a umi-
liarsi, perseverarono a far così per tutto il tempo
della loro vita, senza volersi più risollevare. Noi
invece, non appena ci siamo abbassati e umiliati
in qualche piccolo incontro, ecco che subito rial-
ziamo il capo, dandoci importanza e cercando di
essere ritenuti per qualche cosa di buono.
Noi siamo l'impurità stessa, e vogliamo farci
credere puri e santi: strana follìa invero, più stra-
na di quello che si possa esprimere! La Madonna
non ha peccato, eppure vuol essere creduta pecca-
trice. Ecco dunque il conto che dobbbiamo fare
della santissima umiltà, base e fondamento all'edi-
ficio della nostra perfezione. No, questo non si può
innalzare uè reggere senza un profondo, sincero,
verace riconoscimento della nostra piccolezza e mi-
seria, il quale ci porti a un reale annientamento e
disprezzo di noi medesimi (1)
(1) S. R. xxvin (t. ix, pp. 253-7),
6

36.2 Page 352

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Necessaria per ogni stato di vita.
Oltre a questo, non vi è stato di vita, nel
quale possiamo-dirci sicuri e fuori del pericolo di
cadere negli abissi del peccato. Dappertutto vi è
da temere, dappertutto si ha motivo di star bassi
e umili. Tienti pure attaccato all'albero della tua
professione secondo la vocazione tua (1); ma non
tralasciare mai di andare avanti con paura e quasi
a tastone per tutto il tempo della vita, affinchè,
volendo procedere con troppa sicurezza e baldanza,
non abbi a rovinare nel peccato.
Coloro che Dio ha posti a vivere in una buona
e bella vocazione, hanno certamente un gran moti-
vo di lodarlo e ringraziarlo, avendone ricevuto un
segnalato beneficio; ma saranno essi per questo fuor
di pericolo* Oh, no! E perchè! Perchè non basta
vivere in una santa vocazione, se non si è perseve-
ranti. È un fatto ben singolare che nel Cielo tra
spiriti cosi puri, dotati di natura così nobile e
perfetta, fra compagni così santi, senza la menoma
occasione pericolosa, senza tentazioni nè suggestioni
da parte di spiriti maligni, che non esistevano an-
cora, un numero tanto esiguo di Angeli abbia per-
severato e un terzo di loro siasi ribellato a Dio e
(1) / Cor., vm, 20.
64
sia piombato nell'inferno! Mette spavento anche il
pensare che Giuda, chiamato dal Signore medesimo
all'apostolato, abbia commesso un peccataccio così
esecrando e un così inaudito tradimento, quale fu
vendere il suo Maestro proprio nel tempo che ne
frequentava la compagnia, ne udiva le parole, ne
vedeva le opere meravigliose! Sono esempi che deb-
bono far tremare ogni qualità di persone, in qua-
lunque stato, condizione o vocazione si trovino (1).
§ 2. CINQUE GRADI D'UMILTÀ
Il primo grado dell'umiltà è conoscere se stesso,
conoscere cioè mediante la testimonianza della no-
stra coscienza e alla luce irradiata da Dio nel no-
stro spirito che noi siamo soltanto povertà, mise-
ria, abbiezione. Questa umiltà, se non va più in-
nanzi, non è gran cosa; difatti è molto comune: ben
poche persone si trovano, le quali vivano in tanta
cecità da non conoscere abbastanza chiaramente la
viltà propria: basta per questo un po' di riflessione;
ma nondimeno, sebbene siano costrette di vedersi
quali sono, rimarrebbero assai male, se qualche al-
tro le ritenesse per tali. Non bisogna dunque fer-
marsi lì, ma passare al secondo grado che è di ri-
(1) S.R. LVIH (t. x, pp. 252-4).
695

36.3 Page 353

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conoscerci quali ci conosciamo, correndo gran dif-
ferenza fra il conoscere una cosa e il riconoscerla.
Riconoscere dunque è dire anche ai quattro venti,
se fa bisogno, quello che conosciamo di noi; ma
dirlo, s'intende, con vero sentimento del nostro
nulla: di gente che si umilia a parole, se ne trova
un'infinità. Parla con la donna più vana che esi-
sta, con un uomo di mondo che abbia il medesimo
carattere, e di' loro, per esempio; — Come siete va-
lenti! che persone di merito! non so chi somigli a
a voi in perfezione. — Oh, per carità, ti risponde-
ranno, io non valgo nulla; io sono la miseria e l'im-
perfezione personificata. — Ma intanto sono ben lieti
di sentirsi lodare, e lieti ancor più, se vedono che
tu li credi come li dici. Ecco dunque che le espres-
sioni sono tutte afior di labbra, nè vengono affatto
dall'intimo del cuore. Se tu li pigliassi in parola,
prestando fede alle loro pseudumiliazioni, se ne
adonterebbero e vorrebbero sull'istante una ripara-
zione al loro onore. Da umili di tal fatta Dio ci li-
beri.
Il terzo grado è confessare la nostra viltà e abie-
zione, quando gli altri ce la scoprono. Spesse volte
diciamo bensì noi stessi, ed anche con tutta convin-
zione, di essere cattivi, cattivissimi, ma non vorrem-
mo che altri ci prevenisse in questa dichiarazione^
se questo avviene, noi non solamente non ne ab-
696
biamo piacere, ma ci sentiamo punti sul vivo: se-
gno certo che la nostra umiltà non è perfetta nè di
quella genuina. In tali casi dunque si confessi fran-
camente e si dica: — Avete ragione, voi mi cono-
scete ottimamente.. — Questo è già un grado assai
buono.
Il quarto è amare il disprezzo e godere, quando
ci deprimono e avviliscono. A che prò gabbare il
il mondo? non sarebbe cosa ben fatta. Giacché con-
fessiamo di essere un bel niente, dobbiamo essere
ben contenti che ci si creda e che ci si tratti da
persone dappoco e di nessun conto.
Il quinto grado, l'ultimo e il più perfetto grado
di umiltà, è non solamente accettare il disprezzo,
ma desiderarlo e compiacersene per amore di Dio.
Quelli che arrivano a questo punto, sono fortuna-
ti davvero; ma il loro numero è piccolissimo! (1).
§ 3 . UMILTÀ E AMOR PROPRIO.
Mettiamo risolutamente'la mano nelle pieghe dei
nostri cuori, per isbarbicarne le male erbe, che il
nostro amor proprio vi fa germogliare mediante le
nostre disposizioni d'animo, inclinazioni e avver-
sioni (2).
(1) E. App. B. (t. vi, pp. 400-401).
(2) L. CMXXXVIII (t. XVII, p . 118).
6

36.4 Page 354

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L'amor proprio può venir mortificato in noi, ma
però non muore mai; di quando in quando e a se-
conda delle occasioni mette dei germogli, i quali
fanno vedere che, sebbenejreciso al piede, non è estir-
pato. Di qui avviene, per esempio, il non provare
la contentezza dovuta, allorché si vedono altri far
bene; giacché quello che non riscontriamo anche in
noi, non c'interessa, e quello che in noi riscontriamo,
ci torna graditissimo, a motivo dell'amore tenero
e appassionato che portiamo a noi stessi. Se posse-
dessimo la vera carità che ci fa avere un cuor solo
e un'anima sola col prossimo, noi saremmo pieni di
consolazione, quand'ei facesse del bene.
Lo stesso amor proprio è causa che noi vorrem-
mo bensì fare questa ó quella cosa per nostra ele-
zione, ma per elezione altrui o per obbedienza, no:
vorremmo farla come ideata da noi, ma non come
suggerita da altri. Siamo sempre sul cercare noi
stessi, la nostra propria volontà, il nostro amor pro-
prio. Invece, se avessimo il perfetto amore di Dio,
ci piacerebbero più le cose comandate, perchè quelle
provengono più da Dio e meno da noi.
Certe volte si gusta maggiormente a fare noi
cose ardue che non a vederle fare da altri; ora,
questo sentimento può nascere o da carità o da se-
greto amor proprio, il quale teme che gli altri ci
uguaglino o ci sorpassino. Così pure qualche volta
6
sentiamo pena più di veder trattati male gli altri
che noi, e questo per naturale bontà d'animo; ma
potrebbe anche essere perchè noi ci crediamo più
forti di loro e più capaci di essi a sopportare i mali
trattamenti, grazie alla buona opinione che abbia-
mo di noi stessi. Indizio di questo sarebbe il prefe-
rire abitualmente di avere noi, anziché qualche al-
tro, gl'incomodi leggeri, e il gradire invece che toc-
chino ad altri anziché a noi gl'incomodi gravi. La
ripugnanza a rappresentarci col pensiero l'innalza-
mento altrui deriva sia dall'avere noi un amor pro-
prio, il quale ci dice che noi faremmo ancor meglio
di essi, sia dallo stimare tanto i nostri buoni pro-
positi che ci ripromettiamo mirabilia da noi e non
altrettanto dagli altri.
In tutto questo però bisogna tener presente che
può sempre trattarsi di sentimenti, i quali risiedono
nella parte inferiore dell'anima, riprovati dalla par-
te superiore. Questo è appunto l'unico rimedio pos-
sibile, riprovarli appellandosi all'obbedienza e pro-
testando di volerla amare, a dispetto di qualsiasi
ripugnanza, più della propria elezione, e sforzandosi
di lodar Dio per il bene che si scorge in altri e sup-
plicandolo di continuarlo.
Nè dobbiamo affatto meravigliarci di trovar in
noi l'amor proprio, perchè non se ne va. Dorme
talora come fa la volpe, che tutto a un tratto si
699

36.5 Page 355

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getta sulle galline. Perciò bisogna tenerlo costan-
temente d'occhio, stando con pazienza e con tutta
calma sulle difese. Ohe se talvolta ci ferisce, noi, di-
sdicendo quello che ci ha fatto dire e sconfessando
quello che ci ha fatto fare, saremo bell'e guari-
ti (1).
Attienti bene alla regola dei Santi, i quali, a
chiunque voglia farsi santo, hanno dato tutti il con-
siglio che non si parli nè punto nè poco di sè e
delle cose proprie. L'amore di noi stessi sovente ci
abbaglia; bisogna tenere gli occhi ben chiusi sopra
di noi per non prendere inganno sul conto nostro.
Ecco perchè il grande Apostolo proclama (2): Non
è approvato chi commenda se stesso, ma chi è da Dio
commendato (3).
Quanto più la santa umiltà ti costerà fatica,
tanto più ti procaccerà grazia (4).
§ 4. UMILTÀ E VANITÀ.
Gran male della vanità.
Fa' le tue opere buone in segreto, e non per
piacere agli occhi degli uomini. Non imitare il ra-
ti) L. CMXLVIII (t. xvi, pp. 130-11).
(2) Il Cor.,' x, 18.
(3) L. MXLIX (t. xvi, pp. 312-311.
( 4 ) L . DLXV ( t . x i v , p . 2 3 7 ) .
700
gno, che è l'immagine degli orgogliosi, ma imita
l'ape, simbolo dell'anima umile. Il ragno tesse la
sua tela a vista di tutti, giammai in segreto: la fila
nei verzieri da un'albero all'altro, e nelle case alle
finestre, ai soffitti, insomma sotto gli occhi di tutti;
rassomiglia in questo ai vanitosi e ipocriti, che ogni
cosa fanno per essere veduti e ammirati dagli uo-
mini: così le loro opere sono tante ragnatele, buone
per venir gettate nel fuoco dell'inferno. Ma le api
sono più savie e prudenti: fabbricano il loro miele
dentro l'alveare, dove non le può vedere nessuno;
oltre a questo, si costruiscono ivi tante cellette, in
cui conducono avanti il lavoro segretamente: il che
ci rappresenta molto bene l'anima umile, sempre
chiusa in sè, non vaga di gloria o di lode per le
sue azioni, ma studiosa di occultare i suoi divisa-
menti, contenta che vegga e sappia Iddio quello
che essa fa.
San Pacomio, il celebre Padre di religiosi, pas-
seggiava un giorno con alcuni di quei buoni mona-
ci, discorrendo familiarmente di cose pie e divote:
quei grandi Santi non parlavano mai di cose vane
e inutili, ma ragionavano sempre di cose buone.
Durante quella conversazione un religioso, che ave-
va fatto in un giorno due stuoie, le andò a sten-
dere al sole in presenza di tutti quei padri. Lo vi-
dero essi, ma neppur uno pensò al perchè quegli
1

36.6 Page 356

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lo faceva, non essendo loro costume impacciarsi
delle azioni altrui; credettero pertanto che il fratello
agisse con semplicità, nè vi fecero osservazioni. Oh,
essi non criticavano mai le azioni del prossimo, ben
diversi da coloro, che vanno sempre spidocchiando i
fatti altrui, e intorno a tutto quel che vedono, ti-
rano giù volumi di commenti e chiose.
Quei buoni religiosi non pensarono dunque nien-
te sul conto di colui che stendeva così le sue stuoie;
ma san Pacomio, che era il superiore e a cui solo
quindi spettava di esaminare che cosa movesse quel
tale .ad agire, prese a considerare un poco il suo
atto; e poiché Dio illumina sempre chi lo serve, gli
fece conoscere che il fratello era guidato da spi-
rito di vanità e di compiacenza per le due stuoie
e che aveva fatto così per mostrare a lui e a tutti
gli altri padri, com'egli avesse lavorato molto quel
giorno. I religiosi antichi si guadagnavano da vi-
vere con il lavoro delle proprie mani, occupandosi
non in quello che volevano essi o che piaceva loro
ma in quello che veniva loro comandato; esercita-
vano il corpo nel lavoro manuale, e lo spirito nella
preghiera e nell'orazione, congiungendo così azio-
ne e contemplazione. L'occupazione più ordinaria
era tessere stuoie: tutti ne dovevano fare una al
giorno. Il fratello, di cui parliamo, avendone fatte
due, si credeva per questo più bravo degli altri; on-
702
d'è che le stese al sole dinanzi a tutti, perchè tutti
lo sapessero. Ma san Pacomio, che aveva lo spirito
di Dio, gliele fece gettare nel fuoco e volle che si
raccomandasse a tutti i religiosi, che pregassero per
chi aveva lavorato per l'inferno; poscia in peniten-
za della sua colpa gl'inflisse cinque mesi di prigio-
ne, perchè imparassero anche gli altri a fare le ope-
re loro con umiltà.
Lo spirito umano guarda solo alle apparenze e
nella sua vanità agisce unicamente per comparire
dinanzi agli uomini. Non fate così, dice il Signore,
ma digiunate in segreto, sotto gli sguardi del vo-
stro Padre celeste, che vi vedrà e ve ne darà il
premio (1). Benché tutti debbano così cercar di pia-
cere a Dio solo, nondimeno le persone a lui con-
sacrate hanno un obbligo specialissimo di guardare
unicamente a lui, paghe che egli soltanto ne vegga
le opere e da lui solo aspettando la ricompensa.
Questo insegna il gran Padre della vita spirituale,
Cassiano, nel libro veramente stupendo delle sue
Collazioni o conferenze, di cui molti Santi facevano
tanta stima, che non andavano mai a dormire sen-
z'averne letto un capitolo per racccogliere la mente
in Dio. Scrive adunque (2): «Che cosa guadagne-
(1) MATT., VI, 16-18.
(2) Coli., v, 12; vili, 1.

36.7 Page 357

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rai facendo le cose che fai per gli occhi delle crea-
ture? Ni ent'altro che vanità e compiacenza, cose
buone solo per l'inferno. Ma se compi le opere tue
per piacere esclusivamente a Dio, tu lavori per l'e-
ternità, senza' compiacerti di te stesso nè darti
pensiero, se ti veggano o nou ti veggano gli uo-
mini, non essendo per loro quello che fai nè da
loro dovendoti aspettare la mercede». Facciamo
dunque in umiltà e verità, non con menzogna e ipo-
crisia le opere nostre, cioè per Iddio e per dar gu-
sto a Lui solo (1).
Rimedi contro la vanità.
A ottenere questo ci aiuti la persuasione del
nostro nulla. Noi. abbiamo due sorta di beni, gli
uni in noi e da noi, gli altri in noi e non da noi.
Parlando di beni che sono da noi, non intendo già
dire che non vengano da Dio e che noi li abbiamo
da noi stessi: da noi non abbiamo altro che la mi-
seria e il niente; ma voglio dire che sono da Dio
posti in noi per siffatta guisa che sembrano essere
da noi: tali sono la sanità, le ricchezze, le scienze
e simili. Ora, l'umiltà ci vieta di gloriarci e stimarci
per questi beni, ma c'insegna a calcolarli per nulla;
e realmente così richiede la ragione, perchè tali
(1) S. R. LIV (t. x, pp. 190-30.
704
beni non sono durevoli nè ci rendono più graditi
a Dio, ma stanno in balìa della fortuna. Non è
forse vero? Havvi cosa men sicura delle ricchezze,
che dipendono dal buono o cattivo tempo, dalle
buone o cattive stagioni? Havvi cosa meno sicura
della bellezza, che per un nonnulla si offusca? basta
un erpete nella faccia a toglierle il lustro. E riguar-
do alle scienze, ima lieve perturbazione del cervello
ci fa perdere e dimenticare tutto il nostro sapere.
Ben a ragione dunque l'umiltà non tiene in gran
conto tali beni. Ma quanto più essa ci fa sentire
bassamente di noi mercè la conoscenza di quello,
che siamo e mediante la poca stima di quello che
è in noi e da noi, tanto più ci fa sentire il nostro
pregio a motivo dei beni che sono in noi e non da
noi, cioè la fede, la speranza, l'amor di Dio, come
pure la capacità dataci da Dio di unirci a Lui per
via della grazia ed anche la nostra vocazione reli-
giosa, che ci assicura, secondo che è possibile in
questa vita, il possesso della gloria e felicità eter-
na (1). Insomma, da qualunque parte noi ci rivol-
giamo, nulla troveremo degno della nostra stima
fuorché la grazia del Signore (2).
Vedi la palma. Benché giganteggi fra gli alberi,
(1) E. v. (t. vi, pp. 74-5).
(2) L . CMXCI (t. x v i , p . 2 1 1 ) .
705
23. - E. CERIA, La Dita religiosa ecc.

36.8 Page 358

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pure è il più umile fra di essi; il che dimostra col
nascondere i fiori nella primavera, quando tutti gli
altri li mettono in vista, e col mostrarli solamente
nel forte dei calori. La palma tiene i suoi fiori av-
volti entro brattee, fatte a guisa di guaine o cu-
stodie; la qual cosa rappresenta molto bene la dif-
ferenza che passa fra le anime tendenti alla perfe-
zione e le altre, la differenza fra i giusti e coloro
che vivono alla mondana. Questi ultimi, seguendo
le leggi del mondo, non appena hanno un buon pen-
siero o qualche idea che sembri loro meritevole di
considerazione, non appena scorgono in sè qualche
buona qualità, non si dan pace fino a che non ab-
biano tutto sciorinato e fatto conoscere a quanti
incontrano. In questo essi corrono il medesimo ri-
schio degli alberi che, come i mandorli, si affrettano
in primavera a mettere ifiori; poiché, se per disav-
ventura li coglie il gelo, sono beli'e rovinati, nè
portano più alcun frutto.
I mondani, che per ispirito di orgoglio e di am-
bizione sono così leggeri da far schiudere i loro fiori
durante la primavera di questa vita mortale, stan-
no sempre in pericolo di venir sopraggiunti da ge-
late, che facciano loro perdere i frutti delle proprie
azioni. I giusti all'incontro tengono sempre tutti
ifiori chiusi nella custodia della santissima umiltà,
non mettendoli in mostra, per quanto possono, fino
ai grandi calori, allorché Dio, il divin Sole di Giu-
stizia (1), verrà a scaldarne potentemente i cuori
nella vita eterna, dove porteranno per sempre il
dolce frutto della felicità immortale. La palma non
lascia apparire i suoifiori fino a che l'ardor veemen-
te del sole non venga a fenderne le guaine o cu-
stodie o brattee, che li avvolgono, e subito dopo
presenta alla vista il suo frutto. Così l'anima giu-
sta: tien nascosti i suoifiori, cioè le sue virtù, sotto
il velo della santissima umiltàfino alla morte, quan-
do il Signore li dischmde e li lascia apparire all'e-
sterno, perchè ormai non devono tardare a mostrar-
si i frutti (2).
— Pure, i giudizi sfavorevoli della gente sul
conto nostro ci turbano. — È vero; ma ecco una
buona ricetta: se il mondo ci disprezza, rallegria-
moci, perchè ne ha ben donde, riconoscendoci ab-
bastanza anche noi dispregiabili; se esso ci stima,
disprezziamone il giudizio, perchè è di un cieco.
Non ti curar tanto di quello che il mondo pensi,
non dartene pensiero, disprezzane stima e disisti-
ma, lascia che dica quello che vuole, o in bene o
in male.
Da questo comprenderai come io non approvi
che si commettano mancamenti, per dare cattiva
(11) MALACH., 4, 2.
(2) E. xix (t. vi, pp. 358-9).
706

36.9 Page 359

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opinione di sè; questo è sempre un mancare noi e far
mancare il prossimo. Io vorrei invece che, tenendo
gli occhi rivolti al Signore, noi ci prefiggessimo le
opere da compiere senza badare che cosa ne pensi
il mondo nè che viso vi faccia. Si può evitare il dar
buona opinioiie di sè, ma non va bene cercar di dar-
la cattiva, massime con mancanze commesse a bella
posta. Insomma, disprezza pressoché indistintamen-
te qualunque opinione il mondo abbia di te, senza
prendertene alcuna pena. Il dire che non si è quel-
lo che il mondo crede, quand'ei pensa bene di noi,
è cosa buona; perchè il mondo è un ciarlatano e, di-
ca bene o male, sempre esagera (1).
Io desidero che tu sii umile al sommo in tutte
le opere tue. Tratta sempre umilmente con tutti,
non far conto di riputazione e di lode, ma preferi-
sci dispregi e ripulse: finché non sarai giunto a
questo segno nell'umiliarti, non ti pensare d'aver
fatto gran progresso. Noi siamo davvero servi inutili
(2); nessun esercizio vale più del disprezzare se
stesso. Stima gran guadagno per l'anima tua, quan
do ricevessi oltraggi e ingiurie, e provane allegrez-
za. Non attribuire a ter le lodi delle tue buone ope-
re e azioni, ma porta tutto ai piedi di Gesù Cristo,
(1) L. cccxxxi (t. XIII, pp. 150-l[t.
(2) L u e . , XVII, 10.
708
che ne è l'autore; altrimenti gli ruberesti la gloria.
Non desiderare che ti conoscano per umile, ma per
vile e spregevole. « Si arriva all'umiltà passando
per l'umiliazione e il disprezzo di sè », dice san Ber-
nardo (1); « a me torna di giovamento che la mia
inettitudine sia conosciuta, e venga insieme morti-
ficata e biasimata da quanti la conosceranno, es-
sendomi toccato spesso di ricevere immeritate lodi
da chi punto mi conosceva ». Chi vuole abbondan-
za di grazie, senta umilmente di sè e non s'innal-
zi (2).
No, non fare nè dire mai nulla a fine di essere
lodato; ma non lasciar neppure di fare o di dire
alcuna cosa per tema di averne lode. Nè si pensi
che vi sia ipocrisia, perchè non si fa così bene come
si parla; altrimenti, dove si andrebbe afinire? Bi-
sognerebbe che io tacessi per paura di essere ipo-
crita, se, parlando di perfezione, dovessi anche pen-
sare di essere perfetto. Io non penso già di essere
perfetto, quando parlo di perfezione, come non pen-
so di essere Italiano quando parlo italiano; ma so-
lamente io penso di sapere il linguaggio della per-
fezione, perchè l'ho imparato conversando con co-
loro che lo parlavano (3).
(1) Ep. LXXXVII (ad Ogerium).
(2) L . MMLXIX (t. x x i , p. 151).
(3) L. MCCCI (t. XVII, p. 386D.

36.10 Page 360

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Non fare nemmeno alcun caso dei pensieretti di
vanagloria che ti si presentano all'anima nel corso
delle tue buone azioni; altro non sono che mosche,
le quali un male solo ti possono arrecare: seccarti.
Quindi non darti briga ad esaminare, se vi abbi o
no acconsentito; ma con tutta semplicità prosegui
nel tuo operare, come se quello non ti riguardasse
puuto (1). Certi spiriti sottili e immaginosi danno
appiglio alle suggestioni, con cui questi pensieri di
vanità irretiscono la mente. Ma via! Gli uccelli an-
davano a beccucchiare sul sacrifizio di Abramo; che
faceva egli! con un ramoscello fatto passare sovente
sull'olocausto ne li scacciava (2). Il proferire sem-
plicemente qualche parola che ricordi la Croce, man
derà via tutti cotesti pensieri o per lo meno li ren-
derà innocui. — Signore, perdonate a questo figlio
del vecchio Adamo, perchè non sa quello che fa.
Anima mia, ecco il tuo Padre sopra la croce. —
Canta con tutta calma: Depomit potentes de sede
et exaltavit humiles. Dico di fare questi discaccia-
menti con tutta calma e semplicità, proferendo quelle
parole più con un senso d'amore che per bisogno
di reagire (3).
§ 5. ALCUNE NORME PRATICHE.
L'umiltà è l'unica base alla prosperità spiri-
tuale di una Casa religiosa, che non leva giammai
in alto i suoi rami carichi di frutti, se non a mi-
sura che profonda le radici nell'amore delle umi-
liazioni (1).
Umiltà esteriore.
Non istudiarti di mostrare l'umiltà negli atti
esterni, ma non schivare nemmeno di farlo. Io ap-
provo l'abbassarsi talvolta a umili servizi, anche
verso inferiori e superbi, verso malati e poveri,
verso i suoi, in casa e fuori, ma sia sempre in modo
schietto e ilare. Avrei voluto dire piuttosto carita-
tevole; perchè la carità, dice san Bernardo (2), è
ilare, e il pensiero è di san Paolo (3). Gli uffici
umili, di umiltà esteriore, sono soltanto la scorza;
ma la scorza conserva il frutto (4).
Io troverei ben fatto che ogni giorno tu com-
piessi qualche atto di umiltà esteriormente o in pa-
( 1 ) L . CDXC ( t . x i v , p . 8 5 ) .
(2) Gen., xv, 9-11.
( 3 ) L . MDGIV (t. xix, pp. 124-5).
1
t i ) L . MCMLXII (T. XX, p . 3 9 6 ) .
(2) Tract. de Carit., 9.
(3) Galat., v, 22.
(4) L. CCXXXVIII bis (t. x m , p. 392d).
/
711

37 Pages 361-370

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37.1 Page 361

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role o in azioni: in parole, ben inteso che ti escano
dal cuore; in azioni, eseguendo qualche ufficio basso
o rendendo qualche basso servizio concernente la
casa o le persone (1).
Umiltà caritatevole.
Il gran punto dell'umiltà è visitare, servire, ono-
rare, intrattenere all'occasione e secondo l'oppor-
tunità (perchè non bisogna rendersi importuno, an-
dandone in cerca) le persone che non ci vanno a
genio, e stare con loro mantenendoci umili, condi-
scendenti, dolci, calmi. Sì, questo è un punto di
straordinaria importanza; perchè gli atti di umiltà,
che meno si veggono, sono i più eccellenti (2).
L'umiltà perfetta non è solamente caritatevole,
ma dolce e alla mano; poiché la carità è umiltà
che sale, e l'umiltà è carità che scende (3).
Buona pratica di umiltà è osservare le azioni
altrui per notarne le virtù, non mai i difetti; fin-
tanto che non abbiamo tale ufficio, non volgiamo
gli occhi e nemmeno il pensiero da quella parte.
S'interpreti sempre nel miglior modo possibile ciò
che si vede farsi dal prossimo; in casi dubbi indu-
(1) L. ccxxx (t. xml, p. ,32).
(2) L . CCCLIV ( t . XIII, p . 2 4 2 ) .
(3) E. vili (t. vi, p. 130).
712
ciamoci a credere che nell'azione scorta da noi non
vi è male, ma- che ce lo fa pensare la nostra im-
perfezione: così eviteremo i giudizi temerari sul-
l'operare degli altri, male gravissimo, che dobbiamo
avere in abominazione. Nelle cose evidentemente
cattive, sentiamo compassione del prossimo, umi-
liandoci alla vista de' suoi difetti, come se fossero
nostri, e pregando Dio per il suo ravvedimento, nè
più nè meno di quel che faremmo per il nostro, se
ci trovassimo nello stesso caso (1).
Umiltà nelle imperfezioni.
Sebbene ti accada di commettere molti manca-
menti per infermità, non ti smarrire punto; ma, de-
testando da un lato l'offesa che Dio ne riceve, abbi
dall'altro un'umiltà contenta di vedere e di cono-
scere la tua miseria (2).
La vista delle nostre imperfezioni serva a te-
nerci nell'umiltà; ma quest'umiltà sia base a una
grande generosità: l'una senza dell'altra degenera
in imperfezione. L'umiltà senza generosità è illu-
sione e pochezza d'animo, che ci fa credere di non
essere buoni a nulla e che quindi nessuno debba
mai pensare di adoprarci in cosa d'importanza; in-
(1) E. iv (t. vi, pp. 71-2).
( 2 ) L . CDXLVIII ( t . XIV, p . 7 ) .
1

37.2 Page 362

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vece la generosità senza umiltà è mera presunzione.
Diciamo pure: — Io, è vero, non ho virtù nè pos-
seggo le doti richieste per questo o quell'ufficio;
— ma poi mettiamo la nostra fiducia in Dio, per-
suasi che a tempo opportuno egli ci darà il neces-
sario e si servirà di noi, purché noi lasciamo da
parte il nostro io per cercare unicamente e far cer-
care al prossimo la gloria divina (1).
Dio ci sopporta nelle nostre inettitudini, mise-
rie, malizie; rassegniamoci anche noi a essere pove-
ri,, deboli, miseri, imperfetti dinanzi a Dio. Questa
sfavorevole disposizione non ci allontana da Dio,
ma ci serve per avvicinarci a lui, perchè in tale
stato apparentemente così basso l'amore ci santi-
fica (2). Non di rado i fiori crescono più belli sopra
concimaie che in ameni giardini; in premio del tuo
tenerti basso, Dio farà in te cose grandi (3). Dun-
que nutri l'anima tua di una cordiale fiducia in
Dio: ogni qualvolta ti troverai circondato d'imper-
fezioni e miserie, prendi animo a bene sperare.
Abbi molta umiltà, che è la virtù delle virtù, ma
sia un'umiltà generosa e serena (4).
(1) S. R. LXI (t. x, p. 305-6}.
(2) L. MMLXIX (t. x x i , p. 152D.
(3) L . MMXLI (t. x x i , p. 123X
(4) L . CDLXXII ( t . x i v , p. 57).
1
L'umiltà fa sì che, ricordando le imperfezioni
degli altri, non ci turbiamo alla vista delle no-
stre: perchè saremmo noi più perfetti di loro! Pa-
rimente c'impedisce di turbarci alla vista delle im-
perfezioni altrui, ricordando le nostre; perchè tro-
veremo strano che gli altri abbiano imperfezioni,
avendone tante anche noi? L'umiltà rende il cuore
dolce con i perfetti e con gl'imperfetti; con i per-
fetti per riverenza, con gl'imperfetti per compati-
mento. L'umiltà ci fa accettare tranquillamente le
pene per la coscienza di meritarle; ci fa ricevere
rispettosamente le gioie per la coscienza che non
le meritiamo punto (1).
Spirito di umiltà.
Fa' tutte le cose in ispirito di umiltà. Per me-
glio intendere questo, sappi che, come fra orgoglio,
abitudine dell'orgoglio e spirito di orgoglio, così
pure vi è differenza fra umiltà, abitudine dell'umiltà
e spirito di umiltà. Se fai un atto di orgoglio, ec-
coti l'orgoglio; se fai atti di orgoglio a tutto spiano,
hai l'abitudine dell'orgoglio; se ti compiaci di que-
sti atti e desideri di farne, hai lo spirito di orgo-
glio. Così, umiltà è fare qualche atto per umiliarsi;
abitudine dell'umiltà è farne a tutto andare, ogni
(1) L . CCLXXX ( t . x m i , p . 3 1 ) .

37.3 Page 363

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volta che se ne presenti l'occasione; ma spirito di
umiltà è sentir piacere di quello che umilia, cercare
l'umiliazione e l'abiezione in tutte le cose; in altri
termini, checché si faccia o si dica o si desideri,
avere per Arie precipuo di umiliarci e avvilirci, go-
dendo d'incontrare la propria abiezione dappertutto,
anzi carezzandone l'idea. Ecco dunque che cosa si-
gnifica fare le cose in ispirito di umiltà. Ma, come
acquistarlo! Vi è un mezzo solo per questo, come
del rimanente per tutte le altre virtù: moltiplicare
gli atti. Per praticare l'umiltà, approfittiamo di
tutte le occasioni, in cui vi sarebbero a fare cose
non necessarie al nostro avanzamento nella grazia,
come parlar bene, tenere un bell'atteggiamento,
spiegar grandi attitudini nel maneggio delle fac-
cende esterne, mostrare ingegno, eloquenza e simili:
in queste cose esteriori annichiliamoci, desiderando
che gli altri facciano meglio di noi (1).
§ 6. UMILTÀ E ABIEZIONE.
In che consiste l'abiezione.
Ama la tua abiezione. Ma che cosa vuol dire
amare la propria abiezione? Un' anima, per esempio,
(1) E. iv (t. VI, pp. 71 e 73).
716
si trova in tenebre e si sente incapace a far nulla
di buono. Ebbene, starsene umile, tranquilla, dolce,
fidente, in tale oscurità e impotenza; non impa-
zientirsi, non affannarsi, non turbarsi punto per
tutto questo, ma arditamente (non dico allegramente,
dico in modo franco e risoluto) abbracciare questa
croce, è amare la propria abiezione. Quest'anima
dunque, amando tale stato per amore di Colui che
così la vuole, amerà la sua abiezione.
In latino, l'abiezione si chiama umiltà e l'umil-
tà abiezione; sicché la Madonna, quando dice: Ha
rivolto lo sguardo all'umiltà della sua serva (1), vuol
dire: Ha guardato alla mia abiezione ed umiltà. Cor-
re tuttavia qualche differenza fra la virtù dell'umil-
tà e l'abiezione, perchè umiltà è riconoscere la pro-
pria abiezione. Ora, il colmo dell'umiltà è non so-
lamente riconoscere, ma anche amare la propria a-
biezione: e a questo io ti esorto.
Per intendere meglio la cosa, ritieni che fra i ma-
li da noi sofferti ve ne sono di abietti e di onorai
ti. Tanti si adattano ai mali onorati; ma agli abiet-
ti, pochi. Per esempio: ecco un Cappuccino tutto la-
cero e intirizzito dal freddo: tutti ne onorano l'abi-
to malconcio e sentono compassione del suo intiriz-
zimento. Ecco al contrario un povero artiere, un po-
ti) Lue., i, 48.
1

37.4 Page 364

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vero studente, una povera vedova nel medesimo sta-
to: si ride di essi e la loro povertà è abietta. Un re-
ligioso piglierà in pace il rimprovero del superiore, e
ognuuo dirà che quella è mortificazione e obbedien-
za; un gentiluomo sopporterà un altro rimprovero per
amore di Dio, e diranno che quella è pochezza d'a-
nimo: ecco una virtù abietta, una sofferenza dispre-
giata. Un uomo avrà un cancro al braccio e un altro
l'avrà sulla faccia: il primo lo nasconde, ed lia sol-
tanto il male; l'altro nasconderlo non può e col ma-
le ha pure il dispregio e l'abiezione. Ora, io dico che
amare il male non basta, ma che bisogna amare an-
che l'abiezione.
Inoltre, vi sono virtù onorate: d'ordinario la pa-
zienza, la dolcezza, la mortificazione, la semplicità
fra i secolari sono virtù abiette; far limosina, esse-
re cortese e prudente sono virtù onorate. Di una
medesima virtù vi sono atti abietti e atti onorati.
Par limosina e perdonare offese sono due atti di ca-
rità: ebbene, agli occhi del mondo il primo è onora-
to, abietto il secondo.
Io sono ammalato fra persone che se ne infasti-
discono: ecco un'abiezione unita al male. Faccio una
sciocchezza,' che mi rende abietto: benissimo! Fo un
ruzzolone e vado in collera: l'offesa di Dio mi rincre-
sce, ma sono ben contento che quell'atto mi avvili-
sca, facendomi fare una figura abietta e meschina.
718
Ecco esempi d'altro genere. Tu e io andiamo a
visitare ammalati. Si manda me alla visita dei più
miseri: ecco un'abiezione agli occhi del mondo; mi
si manda invece a visitare i meno miseri: ecco un'a-
biezione agli occhi di Dio; infatti questa visita è me-
no stimabile a giudizio di Dio, quella a giudizio del
mondo. Ora, io amerò l'una e l'altra, secondochè mi
toccherà in sorte. Andando dal più meschino, pen-
serò: — Bene, si dica pure che io non ho virtù ab-
bastanza per fare una visita più santa. —
Per altro, bada bene a quello che ti voglio dire.
Ancorché si ami l'abiezione, proveniente dal male,
non b;sogna per questo lasciar di rimediare al male
stesso. Io farò il possibile per non avere il cancro
sul viso; ma se l'avrò, mi terrò cara l'abiezione. In
materia poi di peccato, bisogna stare ancor più a
questa norma. Io, per esempio, mi sono regolato
malamente in una data cosa: me ne dispiace, ben-
ché abbracci di buon grado l'abiezione che da quel-
lo mi deriva: e se fosse possibile disgiungere l'un
elemento dall'altro, mi terrei cara l'abiezione e al-
lontanerei da me male e peccati. Bisogna anche aver
riguardo alla carità, la quale richiede talvolta che
per l'edificazione del prossimo si rimuova l'abiezione;
in tal caso però togliamola di sotto agli occhi del
prossimo, che se ne scandalizzerebbe, ma non dal
nostro cuore, perchè se ne edifichi. Mi sono eletto,
1

37.5 Page 365

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dice il Profeta (1), di essere abietto nella casa di Dio,
piuttosto che abitare nei padiglioni dei peccatori.
Infine, tu vorrai sapere, quali siano le abiezioni
migliori. Io ti -dico che sono quelle non scelte da
noi e a noi meno gradite, o, per dir meglio, quelle,
a cui non ci sentiamo guari inclinati; anzi, per par-
lar chiaro, quelle proprie della nostra vocazione e
professione. Per esempio, un religioso obbedirebbe
a qualsiasi altro, fuorché al suo superiore; io invece
tollererei volentieri di essere rimproverato da un su-
periore uello stato religioso, piuttostochè da un pa-
rente in casa mia. Dico dunque che per tutti la mi-
glior abiezione è quella toccatagli: la nostra scelta
toglie molto alle nostre virtù. Chi ci farà la grazia
che amiamo davvero la nostra abiezione? Nessun
altro all'infuori di Colui, il quale amò tanto la sua,
che per conservarla volle morire (2).
Esortazione alla pratica.
Alla fin fine, umiltà che è? È conoscenza della
nostra povertà e miseria? Va bene, dice san Ber-
nardo (3); ma questa è l'umiltà morale e umana.
( 1 ) Ps. I.XXXIII, 1 1 .
(2) L. CCCLIX (t. xiii, pp. 203-5).
(3) Serm. rv (De Adv.), 4.
2
Che cosa è dunque l'umiltà cristiana? È l'amore di
questa povertà e abiezione, in vista di quella del Si-
gnore. Conosci di essere povera e meschina creatu-
ra? Ama cotesta misera condizione, gloriati di es-
sere un bel niente, sii di questo lietissimo, perchè
la tua miseria forma l'oggetto,1 sul quale la bontà di
Dio esercita la sua misericordia. Fra i mendicanti
i più miseri e ulcerosi ritengono se stessi i miglio-
ri mendicanti e i più atti a strappare la carità. Noi
non siamo altro che mendicanti: i più miseri sono
di condizione migliore, la misericordia di Dio si vol-
ge ad essi volentieri (1). Umiliamoci, non decantan-
do se non le nostre piaghe e miserie presso la por-
ta del tempio della pietà divina (2). Ma ricordiamo-
ci di metterle in vista con gioia, contenti di esse-
re vuoti, affinchè il Signore ci ricolmi, dandoci il
suo Regno. Volentieri mi glorierò nelle mie infermi-
tà, dice l'apostolo (4). E altrove: È miglior cosa per
me morire che perdere il mio vanto (3). Come vedi,
egli preferirebbe morire anziché perdere le proprie
infermità, che formano la sua gloria. Tienti prezio-
sa la tua miseria e viltà, perchè Dio vi rivolge il
(1) Cfr. Ps. x, 5.
(2) Act., I l i , 2,
(3) li Cor., XII, 9.
(4) ì Cor., IX, 15.

37.6 Page 366

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suo sguardo, come fece con la santa Vergine (1).
Gli uomini vedono le cose che dan negli occhi, ma Dio
mira il cuore (2). Se vedrà la nostra bassezza nel
nostro cuore, ci farà grandi grazie! (3)
L'amore della nostra abiezione è una virtù che
non deve mai discostarcisi dal cuore, avendone noi
bisogno tutti i momenti, per quanto siamo avan-
zati nella perfezione, poiché le passioni rinascono
talvolta anche dopo lunghi anni di vita religiosa e
dopo grandi progressi nella perfezione, come accad-
de a un religioso di san Pacomio, chiamato Silva-
no. Nel mondo egli faceva il commediante; indi, con-
vertitosi e fattosi religioso, passò l'anno di novizia-
to e parecchi altri anni ancora in una mortificazio-
ne esemplarissima, senza che lo si vedesse mai fa-
re un gesto della precedente sua arte. Solo dopo
vent'anni pensò di poter fare qualche scherzo col
pretesto di ricreare i fratelli, credendosi d'aver già
mortificato talmente le sue passioni che queste non
l'avrebbero portato oltre un semplice passatempo.
Ma il poverino rimase ben ingannato; perchè la pas-
sione dell'allegria si ridestò in lui, facendo che da-
gli scherzi passasse alle sfrenate buffonerie, sicché
(1) Loc., i, 48.
(2) I Reg., xvi, 7.
(3) L. CCXXXVIII bis (t. XIII, pp. 392c-d).
722
fu presa la decisione di scacciarlo dal monastero.
Il che sarebbesi fatto, se uno de' suoi confratelli non
si fosse reso mallevadore per Silvano, promettendo
che egli si sarebbe emendato; la qual cosa si avve-
rò a segno che fu dopo un gran santo. Ecco dun-
que che noi non dobbiamo dimenticare giammai quel-
lo che siamo stati per non diventar peggiori, nè ci
dobbiamo credere perfetti allorché non commettia-
mo più molte imperfezioni (1).
§ 7. ESEMPLARE UMILTÀ DI SANT'AGOSTINO.
Questo grande Santo diede prove di profondis-
sima umiltà in parecchie cose notevoli, che può tor-
narci di utilità ricordare. Tutti sanno come sant'A-
gostino fosse uno dei maggiori ingegni che siansi mai
veduti, e come possedesse inoltre una scienza mera-
vigliosa. Egli è ritenuto il massimo genio fra i nostri
Padri antichi, i quali non esitano a proclamarlo la
fenice dei Dottori.
Si sa bene che l'umiltà raramente va di concer-
to con la scienza, la quale di natura sua gon-
fia (2), tanto più con una scienza così profonda
come quella di sant'Agostino; eppure in lui era ac-
(1). E. xvi (t. vi, pp. 298-9).
(2) / Cor., vili, 1.
2

37.7 Page 367

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compagnata da sì profonda umiltà, che non sappia-
mo quali delle due fosse maggiore. La sua cultura
per altro presentava una lacuna: egli non conosceva
il greco. Sebbene questa lingua sia in sè più su-
gosa della latina, pure lo stile non vi si presta a
egual finezza; perciò sant'Agostino, il quale badava
più alla forma che alla sostanza, erasi rifiutato
d'impararla durante il tempo dei suoi studi (1).
Ora, di questo non fece mistero, ma confessò
schiettamente e francamente la cosa, dicendo che
si considerava da meno di tutti, perchè non sape-
va nulla di greco, che è la lingua più ricca d'o-
gni altra (2).
Oh, che umiltà e sincerità non è mai questa!
Un po' ne sapeva certamente; ma stimava ciò un
nulla, nè aveva difficoltà di riconoscerlo e confes-
sarlo per secondare l'amore della sua abiezione. Se
non avesse dichiarato egli medesimo d'ignorare
questa lingua, chi se ne sarebbe mai accorto, ascol-
tando le sue dissertazioni o leggendone gli scritti,
pieni di profondo sapere? Se non l'avesse detto lui,
nessuno l'avrebbe saputo, tutti anzi avrebbero sup-
posto che vi fosse versato come nel latino. Ma ave-
va troppa umiltà, perchè potesse nascondere tale
(1) Confess,, I, 13.
(z) Re Trin., I l i , p r o e m .
2
deficienza; quindi è che lo volle dire chiaro e netto.
Vediamo adesso noi, se la nostra santità somiglia
a quella di questo Santo. Oggi purtroppo, chi sa
due o tre parole di greco, ha sempre in bocca que-
sta lingua, e i nostri predicatori, per poco che ne
sappiano, ecco che, mi si lasci dir così, lo scarac-
chiano dal pulpito.
Inoltre, sant'Agostino mostrò grande umiltà nel
sottostare alla censura dei suoi scritti e della sua
dottrina, censura esercitata non solo da chi poteva
essergli superiore ed uguale, il che è segno di pro-
fondissima umiltà, ma anche da chi gli era infe-
riore e in sapere e in dignità; nel che appunto
diede a vedere quant'egli fosse sovreccellente in que-
sta virtù. San Girolamo (1) gli fa una correzione
tutt'altro che lieve, nè in termini blandi, ma in
cosa rilevante e in forma adeguata alla generosa
umiltà del cuore di Sant'Agostino. Tratta con lui
come un maestro o un pedagogo farebbe con un
suo discepolo e scolaro: non lo smoccia con una
pezzuola di lino, ma con una di stoppa, e molto
rudemente. Che fa allora il nostro glorioso Santo?
Riceve la reprimenda con sorprendente sommissione.
E che cosa dice a san Girolomo? (2). So bene, gli
(1) Ep. cv.
(2) Ep. LXXXH, 33.

37.8 Page 368

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scrive, che il prete è da meno del Vescovo e che
io Vescovo sono da più di te, semplice prete; tut-
tavia questo riguarda soltanto la nostra rispettiva
dignità nella Chiesa di Dio: ma so pure che quanto
al resto, tu, o Girolamo, mi sei superiore. Nota
bene ora l'umiltà: — Perciò, soggiunge, mi rimetto
a te e accetto di buon grado la censura e la corre-
zione da te fattami, confessando che hai giusta ra-
gione di farmela. —
Osserva quale candore, semplicità, umiltà di
linguaggio nel glorioso Padre! Oggi purtroppo non
si vuol sapere di correzioni: è già molto, quando
le tolleriamo dai nostri superiori; ma dagli eguali
non si sopportano: allora il cuore gonfia e batte
forte: chi è mio eguale, non ha autorità di ripren-
der me! Dagli inferiori poi, manco a dire: se que-
sta osservazione mi venisse da un mio superiore,
tanto tanto la soffrirei; ma da quel tale, no, non
la tollero, nè gli darò mai quest'autorità sopra di
me! Eppure sta in ciò uno dei punti fondamentali
dell'umiltà e della perfezione cristiana. Siamo ben
capaci di dire: — Io sono così e cosà: — ma lasciar-
celo dire da altri, oh, non è possibile!
Giobbe, seduto sul suo' letamaio, tutto una
piaga, aveva aspetto più di mostro che d'uomo,
stava là come un cane o un cavallo morto e fe-
tente: pigliava dei cocci e si raschiava la marcia
formatasi nelle ulceri, non avendo chi gli volesse
fare quest'atto di carità, perchè tutti l'avevano
abbandonato. Neanche la moglie piegavasi a ren-
dergli quel servigio, anzi si pigliava beffe di lui
e lo detestava (1); gli, amici facevano altrettanto.
Certo è una fortuna avere chi dia di piglio al coc-
cio della correzione per nettarci dalle lordure della
coscienza; fortuna maggiore è quella dei religiosi,
che vivono dove si fanno puntualmente le correzio-
ni, sicché vengono a emendarsi anche dei minimi
difetti. Buon per coloro che le ricevono in spirito
di sommissione come il glorioso sant'Agostino!
Anche nel confessare le proprie colpe questo
Santo mostrò la propria umiltà. In ciò egli fu am-
mirabile, come si vede dalla sincerità e schiettezza,
con cui ha scritto il libro delle Confessioni, com-
posto nel fiore dell'età, con il racconto non già
sommario, ma particolareggiato di tutte le sue
colpe, male disposizioni d'animo, abitudini e incli-
nazioni viziose. Perchè simile confessione? per dir-
la forse all'orecchio d'un confessore? Oh, no: que-
sto l'aveva già fatto prima di scrivere il libro.
Sarebbe stato forse per farla leggere a' suoi con-
temporanei, i quali, avendolo conosciuto, ne avreb-
bero scusato facilmente i trascorsi giovanili, per
(1) Job, ii, 7-9.
72?

37.9 Page 369

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riguardo alla bellezza dell'ingegno e alle sue rare
doti naturali? Neppure. Sarebbe stato forse per
farla vedere a' suoi conterranei o a' suoi diocesani,
i quali, per la stima che avevano della sua santità,
avrebbero tenuto per cose da niente le azioni de'
suoi auni giovanili, di fronte alle virtù che in lui
rispondevano allora! Ovvero fece quella confessio-
ne per riceverne lode dai buoni, che avrebbero cer-
tamente contrapposto alla condotta della sua prima
età il tenor di vita mantenuto dopo la conversio-
ne? No, no: le sue Confessioni non sono indirizzate
a queste classi di persone. A chi dunque! A tutti
gli uomini in generale: a giovani e vecchi, a dotti
e ignoranti, a chi ne avrebbe ammirato la santità
e se ne sarebbe edificato, e a chi di lui sarebbesi
burlato e scandolezzato; a uomini e a donne: insom-
ma, dinanzi agli occhi di tutti volle che fosse scio-
rinata la vita cattiva che egli aveva condotta nel
periodo della sua giovinezza. Oggi purtroppo la
santità è ben differente da quella d'allora! La si fa
consistere nel nascondere le proprie colpe finauco
al confessore (1).
(1) S. R. XLIX (t. x, p p . 109-113)
728
C A P O OTTAVO - Mitezza,
eguaglianza d'animo,
tranquillità,
pazienza.
§ 1. DELLA MITEZZA D'ANIMO.
Con se stesso.
Lo spirito di dolcezza e di calma è il vero spi-
rito di Gesù Cristo (1). Attornia il tuo cuore, quan-
to più ti sia possibile, di questa santa dolcezza e
calma: dolcezza col prossimo, benché importuno e
noioso; calma con te stesso, benché tentato o afflitto,
benché pieno di miserie. Tienti sempre stretto alla
mano del Signore, sicché non abbi mai a stramazza-
re. Che se, imbattendoti in un sasso, v'inciampi,
questo servirà soltanto a renderti vieppiù vigile ed
a farti ognor più invocare l'aiuto e il soccorso del
nostro dolce Padre celeste (2).
(1) L. Dxxxiri (t. xiv, p. 162).
( 2 ) L . DXLV ( t . x w , p . 1 9 4 ) .
729

37.10 Page 370

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Nelle molte noie causateci dagli affari temporali
noi potremo trovare un giovamento straordinario
ad anici li re l'anima di virtù, se ci studieremo di
prendere tutto in ispirito di dolcezza, di pazienza,
di bontà. Tieni sempre il tuo cuore ben intento a
questo, considerando spesso che Dio ti guarda con
occhio amoroso in mezzo alle tue brighe, per vedere
in che modo sai fare le cose conforme al piacer suo.
Pratica dunque in bella maniera l'amor di Dio,
quando ti trovi in simili occasioni: accadendoti poi
talvolta di perdere la pazienza, non te ne turbare,
ma rimettiti subito in dolcezza. Tu benedici coloro
che ti affliggono (1), e Dio benedirà te (2). Porta in
tutte le cose tue una diligenza accurata, ma dolce,
ma tranquilla, ma conforme alla volontà di Dio (3).
Col prossimo.
Allorché il santo patriarca Giuseppe rimandò i
suoi fratelli dall'Egitto con l'ordine che gli condu-
cessero il padre, fece loro questa raccomandazione:
Non v'inquietate per via (4). Io dico a te la medesi-
ma cosa. Questa misera vita non è altro che un
(1) Cfr. Lue., vi, 28.
( 2 ) L . DXXX ( t . x i v , p . 1 5 9 ) .
(3) L . CDLII ( t . x i v , p . 15).
(4) Gen., XLV, 2 4 .
730
camminare verso la vita beata; deh, non inquietia-
moci lungo la strada, ma andiamo avanti con i no-
stri compagni di viaggio dolcemente e pacificamente.
Non dare ascolto ai pretesti suggeriti dall'amor pro-
prio per giustificare lo sdegno, perchè san Giacomo
dice chiaro chiaro (1): L'ira dell'uomo non adempie
la giustizia di Lio. Così pure il Signore ha infor-
mata tutta la sua dottrina a queste parole: Impa-
rate da me, che sono dolce e umile di cuore (2). In-
somma, lo zucchero non guasta nessuna salsa.
Nei nostri dipendenti bisogna combattere il male
e reprimere i vizi con forza, con energia, ma con
dolcezza e calma. Niente fiacca il furore del can-
none quanto la lana. Io non mi sono mai adirato,
per quanto giustamente l'avessi fatto, senza che
dopo riconoscessi che avrei fatto ancor meglio a
non isdegnarmi.
Ricórdati sempre che la sposa del Signore è
chiamata Sulamite (3), vale a dire pacifica, e che ha
latte e miele sopra la lingua e un favo distillante
sopra le labbra, come si legge nella Cantica (4). San
Paolo c'insegna che dobbiamo vincere il male (5),
(1) JAC., i, 20.
(2) MATT., XI, 29.
(3) Cant., VII, 1.
(4) Ib., iv, 11.
(5) Rom.., XIII, 21.
1

38 Pages 371-380

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38.1 Page 371

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non solamente combatterlo. Coloro che si adirano,
combattono il male; ma quei che sono dolci, lo vin-
cono: vinci, dice l'apostolo, il male col bene (1).
Si può, a tempo e luogo, parlare forte e risoluto,
per tener a dovere qualcuno; ma la forza è più for-
te, quand'è calma e la si fa nascere dalla ragione,
senza mescolanza di passioni (2). Tanto più che il
convertirsi dipende dalla grazia. A me sta dinan-
zi àgli occhi san Pietro, il principe dei penitenti,
che fu così dolce con i peccatori, allorquando egli
non era più peccatore (3). L'esperienza poi mi ha
insegnato a non essere duro con le anime riottose,'
Anche vi sia speranza di guadagnarle con la dol-
cezza (4). In certe occasioni il dissimulare guarisce
più il male in un'ora, che non farebbero i risenti-
menti nello spazio di un anno (5). Finalmente biso-
gna anche saper moderare la prudenza con la dol-
cezza e la dolcezza con la prudenza (6).
Lo spirito di dolcezza è il vero spirito di Dio:
chi sa sopportare, ha lo spirito del Crocifisso. Per-
ciò credimi: si può far sentire la verità, si possono
•E
(1) L. D1I (t. XIV, p. 105-6).
(2) L. MCCCI (t. XVII, p. 387P.
(3) L. MCCCXXIII (t. xvin, p. ,33).
(4) L. dli (t. xiv, p. 205).
(5) L . CMXLIX (t. x v i , p . 134).
i 6 ) L . MCMXL (t. x x , p. 362).
732
muovere rimostranze, ma sempre con dolcezza. Ci
vuole un animo che odii il male e sia fortemeute
risoluto a non fare mai pace con esso; ma bisogna
nutrire gran dolcezza verso il prossimo (1).
Chi preverrà il prossimo con benedizioni di dol-
cezza (2), sarà il più perfetto imitatore di Gesù Cri-
sto. In qualsiasi attrito si cerchi la calma alla pre-
senza di Dio e nel suo santo amore. Chi è dolce,
non offende nessuno, sopporta e tollera volentieri
quelli che gli fanno del male, anzi ne soffre pazien-
temente gli urti e non rende male per male. Una
persona dolce non si turba mai, ma diluisce tutte
le sue parole nell'umiltà, vincendo il male col
bene (3).
Tratta con la massima dolcezza e carità il pros-
simo e i tuoi fratelli, specialmente coloro che per
difetto d'intelligenza, per manco di grazie naturali
o per male creanze ti daranno motivo di avversio-
ne o disgusto.
Fa' sempre le tue correzioni con dolcezza di
cuore e di parole: mentre riprendi i mancamenti,
scusa dentro di te chi ha mancato, diminuendone la
colpa: così le ammonizioni produranno miglior ef-
(1) L . MMLXXII (t. XXI, p. 155).
(2) Ps. xx, 4.
(3) Rom., XII, 21.

38.2 Page 372

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fetto. Bisogna insomma col prossimo portare la
dolcezza fino all'ultimo limite, anche fino alla bo-
nomia, senza mai rendere la pariglia a chi ci faces-
se degli sgarbi. Se in questo dovessimo anche ri-
metterci qualche cosa, credi, il Signore ci compen-
serà largamente in altro.
Se per un buon fine si è costretti a far rilevare
la mancanza del prossimo, si dica esattamente quel-
lo che il caso richiede e, per quanto sarà possibile,
si taccia il resto. Non dar adito a risentimento o a
sdegno di sorta sotto qualsiasi pretesto o parvenza
di ragionevolezza: è sempre un'imperfezione: torna
più conto fare tutto il possibile, per ricevere ogni
cosa con tranquillità e quiete: questo serve gran-
demente alla perfezione e all'edificazione.
Farò ancora un'osservazione. Per inclinazione
naturale, per l'educazione ricevuta, per convinci-
mento derivato da personali considerazioni e, credo
anche, per ispirazione del cielo io ho in odio tutte
le contese e controversie fra Cattolici, quando non
abbiano unfine utile e tanto più quando producano
solamente dissensioni e contrasti, massime in questi
tempi con tanti spiriti pronti a litigi, a maldicenze,
a censure, alla rovina insomma della carità. Abbia-
mo già tanti nemici esterni, che io credo non dover-
si provocare agitazioni in seno alla Chiesa. La po-
vera chioccia, che ci tiene a guisa di pulcini sotto
le sue ali, "ha già abbastanza da fare per difender-
ci dal nibbio, senza che noi ci becchiamo a vicenda
o le cagioniamo disturbi (1).
Alcuni mezzi pratici.
In tempo di pace e di tranquillità moltiplica glj
atti di dolcezza; sarà questo un mezzo per abituare
il tuo cuore alla mansuetudine (2).
Un particolare esercizio di dolcezza e di confor-
mità ai voleri di Dio vedrai di farlo non solamente
per le cose straordinarie, ma principalmente per le
piccole miserie della vita quotidiana. Al mattino,
a mezzodì, alla sera previeni le cose: ma fàllo con
calma e serenità di spirito; succedendoti poi di man-,
care, umiliati e ricomincia da capo. Piuttosto mo-
rire che offender Dio a occhi aperti; ma, quando
si cade, vada tutto, pur di non perdere il corag-
gio, la speranza e la buona volontà (3).
Metti una particolare attenzione a mantenerti
dolce, se ti accorgi di cadere in piccole, ma fre-
quenti impazienze. Appena alzato, poi nell'uscire
dalla meditazione, indi tornando dalla Messa e dalla
(1) L. DCCXI (t. xv, pp. 95-6).
( 2 ) L . CDXLVIII (t. x i v , p . 8|).
(3) L . PXIII (t. x i v , p p . 122, X23).

38.3 Page 373

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Comunione, e generalmente in procinto di rimet-
terti alle tue faccende, sta' attento a cominciare con
calma: appresso, di tratto in tratto, osserva il tuo
cuore e vedi se è dolce: se non è, prima d'ogni
altra cosa addolciscilo; se è, lodane Dio e applica
cotesto tuo cuore alle faccende che di mano in mano
si presentalo, con l'avvertenza speciale d'impedire
che si dissipi.
Coloro che mangiano sempre miele, trovano più
agre le cose agre e più amare le amare e facil-
mente si disgustano dei cibi men gradevoli. Così
l'anima che attende con frequenza a esercizi spi-
rituali, dolci e graditi allo spirito, ritornando poi
agli esercizi corporali, esterni e materiali, li trova
molto ripugnanti e spiacevoli; ond'è che di leggieri
vi s'impazientisce. Ecco di qui la necessità che si
consideri in tali esercizi la volontà di Dio, ai me-
desimi connessa, e non le cose tali quali si stanno
facendo (1).
Ti avverrà così di trovare talvolta il tuo cuore
lontano dalla dolcezza. Allora non far altro che
prenderlo delicatamente con due dita per rimetterlo
a posto; non darvi mai di piglio con tutt'e due
le mani, come si dice, nè in maniera brusca. Bi-
sogna aiutare amorevolmente questo caro cuore
(l) L . DXXVIII (t. xiv, pp. 137-8).
736
nelle sue infermità; bisogna flnanco fargli carezze
qualche volta e stringere le nostre passioni e in-
clinazioni con catene d'oro, per sottometterle in-
teramente al beneplacito di Dio (1).
Dovresti proprio pregar Dio tutte le mattine,
prima d'ogni altra cosa, che ti conceda la vera
dolcezza di cuore, quale egli la desidera nelle a-
nime consacrate al suo servizio, e insieme prendere
la risoluzione di esercitarti ben bene in questa virtù
massime con le persone, con cui devi maggiormente
trattare. Mettiti di proposito all'opera di dominarti
sul serio in questo; poi ricordatene spesso spesso
durante il giorno, raccomandando a Dio la tua
buona intenzione. Vi sono certuni che per sotto-
mettere l'anima loro alla volontà di Dio non hanno
gran che altro da fare, se non addolcirla di giorno
in giorno col riporre tutta la loro fiducia nella sua
bontà.
Buon per te, se farai così, perchè Dio abiterà
nel mezzo del tuo cuore e vi regnerà tranquilissi-
mamente. Ma se ti avviene di commettere qualche
fallo, non perderti di coraggio, ma rasserenati su-
bito, nè più nè meno che se non fossi caduto.
Questa vita è breve, ci è data unicamente per me-
ritare l'altra: la impiegherai bene, se sarai dolce
(1) L. MMXXIX (t. xxi; pp. 105-6),
73?
24. - E. CERI A, La vita religiosa ecc.

38.4 Page 374

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con le persone, alle quali Dio ti ha accompagna-
to (1).
Quando ti assalgono risentimenti personali, non
ti sbigottire, ma leva lo sguardo interiore a Gesù
crocifisso, dicendogli:—Oh, Signore, voi siete per
me zucchero e miele; addolcitemi questo cuore con
la dolcezza del vostro! — Ciò fatto, rivolgi altrove
il pensiero e preparati a combattere; al rinnovarsi
deb risentimento, fa' un'altra volta la medesima
cosa: Dio ti assisterà (2).
Quasi tutti provano una certa facilità a conser-
vare alcune virtù e una certa difficoltà a conser-
varne alcune altre; perciò ognuno decanta la virtù
da lui agevolmente praticata e tende a esagerare
le malagevolezze delle altre per lui più ardue. Vi
erano dieci vergini, delle quali solamente cinque
avevano l'olio (3) della dolcezza misericordiosa e
benigna. L'eguaglianza di umore, la dolcezza e soa-
vità del cuore è più rara che non la perfetta ca-
stità, ma non è per questo meno da desiderarsi.
Io dunque te la raccomando, perchè da quella, co-
me dall'olio della lampada, si alimenta la fiamma
(1) L. MCMLXXX (t. XXI, pp. 19-20).
(2) L. DXXVIII (t. xiv, p. 157).
(3) MATT., x x v , I, 4.
738
del buon esempio, nulla essendovi che edifichi
quanto la caritatevole benignità (1).
§ 2. DELLA PAGE E TRANQUILLITÀ DI SPIRITO.
Osservazioni generali.
La pace vale più di un patrimonio (2). Non vi
è al mondo cosa che valga quanto la pace, nè che
basti a compensarne la perdita, perchè ci fu ac-
quistata dal merito del sangue del Salvatore e ci
acquisterà il Paradiso eterno, se la sapremo custo-
dire (3).
Abbi il cuore sempre pieno d'amore, ma d'un
amore dolce, tranquillo, quieto. Guarda le tue colpe
come anche le altrui, più con occhio di compassione
che non con iudignazione, con più umiltà che se-
verità. Vivi lieto, pensando che ti sei tutto consa-
crato all'eterna letizia, la quale- è Dio medesi-
mo (4).
Mi piace moltissimo l'indifferenza in tutte le
cose, quando però venga dalla considerazione della
volontà di Dio. A me non piacciono punto certe a-
(1) L. MCCXXIIII (t. xvi, p. 260).
(2) L. MCCLIV (t. XVII, p. 306).
(3) L. MCCCXC (t. XVIII, pp. 150-1D.
(4) L. CDLXXXV (t. x i v , p. 79).

38.5 Page 375

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nime che non sentono affezione per nulla e re-
stano impassibili a qualsiasi evento, ma lo fanno
perchè senza fibra e nerbo o perchè non curanti del
bene e del male. Quelle invece che per una piena
conformità al * volere di Dio si mantengono indif-
ferenti, ne debbono ringraziare il Signore, perchè
questo è un gran dono (1).
Vivi in pace, camminando fedelmente per la
strada in cui Dio ti ha messo; procura d'imitare
l'ape, fabbricando con diligenza il miele della santa
divozione e insieme anche la cera delle tue occu-
pazioni: l'una cosa è dolce al palato del Signore,
che, quand'era in questo mondo, mangiò butirro
e miele (2); ma l'altra ha pure il suo pregio, perchè
serve a far i ceri, su cui arde la fiamma dell'edi-
ficazione altrui (3). Con ciò mantieni il cuore in
sana allegria, che anch'essa alimenta le forze dello
spirito e edifica il prossimo (4). Ma bisogna che sia
un'allegria seria e grave, e quando dico grave non
intendo già triste, nè forzata, nè malinconica, nè
sdegnosa, nè altiera, ma voglio dire santa e cari-
tatevole (5).
(1) L. CDLXXXVIII (t. XIV, pp. 81-2).
(2) Is., VII, 15.
(3) L. M'CDXLI (t. xvni, p. 239).
( 4 ) L. MDXXII ( t . x v m , p . ,3860.
( 5 ) L. MDXXIV (t. x v m , p . 3 9 0 ) .
740
Torno dunque a dire; la pace è una merce santa,
che merita di essere acquistata a caro prezzo (1).
Tranquillità in mezzo alle faccende.
Esercita grandemente il cuore alla calma in-
terna ed esterna, che te lo mantenga tranquillo
in mezzo alla moltiplicità degli affari che ti si pre-
sentano. Guàrdati molto dalle ansietà, che sono la
peste della santa divozione, ma tieni abitualmente
in alto lo spirito, non guardando il mondo se non
per disprezzarlo, nè pensando al tempo se non
per aspirare all'eternità. Moltiplica gli atti di
conformità alla volontà di Dio, pronto sempre
ad adorarlo sia che ti mandi tribolazioni sia che
ti doni consolazioni (2).
La tua diligenza non degeneri in turbamento
e inquietudine: benché tu navighi in balia delle
onde e dei venti di molti affari, volgi sempre l'oc-
chio al Cielo, dicendo al Signore: — Mio Dio, per
voi sto vogando e navigando; siatemi guida e noc-
chiero. — Indi consolati al pensiero che, non ap-
pena saremo entrati in porto vi gusteremo dolcezze
tali che ci faran dimenticare i travagli sostenuti
( 1 ) L . MDCCCXI (t. x x , p . 115).
(2ll L. MCMLXXVIII (t. XXI, pp. 17-8).
741

38.6 Page 376

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per giungervi. E attraverso alle nostre burrasche
vi giungeremo di certo, sol che abbiamo rettitudine
di cuore, buona intenzione, saldo animo, occhio a
Dio e ogni fidanza in lui. Che se la violenza della
tempesta ci sconvolge talvolta un poco lo stomaco
e ci dà giramenti di capo, non isbigottiamoci, ma,
subito che ci sia possibile, riprendiamo lena e a-
nimiamoci a far meglio (1). Dunque in mezzo alle
faccende che hai sulle braccia, continua sempre
a mettere fervorosamente tutta la tua fiducia nel
Signore; questo ti aiuterà a stabilire su buone basi
la tua tranquillità: poiché una tranquillità non pro-
vata dalla tempesta è tranquillità infingarda e in-
gannatrice (2).
Ma qui sta il punto: sopraffatto dal cumulo de-
gli affari, devi più che mai domandar aiuto al Si-
gnore, invocandone la santa assistenza, affinchè le
fatiche da te sostenute tornino a lui accette e tu
le abbracci sempre per l'onore e la gloria sua.
Vedi bene che i nostri giorni sono brevi (3): quin-
di non può essere lungo il nostro travaglio; sicché
con un po' di pazienza ne usciremo onoratamente
e soddisfatti: al termine della nostra giornata non
(1) L. DCXXXV (t. xiv, pp. 373-4).
(2) L. DCXXX (t. x i v , p. 365).
(3) Job, xiv, 5.
74
proveremo consolazione eguale a quella che ci ver-
rà dall'aver molto lavorato e sofferto (1).
Bando a un pregiudizio. Allorché sei affaccen-
dato nelle cose volute dalla tua vocazione, non
devi credere che il Signore sia più lontano da te
che non se ti trovassi nelle delizie della vita
tranquilla. Non già questa tranquillità avvicina
Dio ai nostri cuori, ma la fedeltà del nostro amo-
re; non è il sentimento della sua dolcezza, ma il
consentimento alla sua volontà: è più desiderabile
l'adempimento della volontà di Dio in noi che non
l'adempimento della volontà nostra in lui (2).
Dal canto tuo, in mezzo a tutte le tue faccen-
de, tienti unito strettamente a Gesù Cristo, alla
Madonna e al tuo Angelo Custode, affinchè la mol-
tiplicità delle cose non ti turbi e la loro difficoltà
non ti sconcerti. Sbriga una cosa dopo l'altra me-
glio che potrai, mettendovi coscienziosamente tut-
to la tua capacità, ma in maniera dolce e soave.
Se Dio ti darà un buon esito, lo benedirai; se non
te lo darà, Io benedirai egualmente. A te basterà
d'aver fatto sinceramente ogni sforzo per riuscire;
il Siguore e la ragione non esigono da noi i buoni
risultati, ma fedele e volonterosa applicazione, zelo
(1) L. DCLXI (t. xv, pp. 18-9).
( 2 ) L. DCLXXXV (t. x v , p . 53).
743

38.7 Page 377

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e diligenza: questo è che dipende da noi, non già
la buona riuscita (1). Indirizza dunque le fatiche,
e i disturbi delle tue faccende alla gloria di Dio,
per amor della quale tu le sopporti: tratta insomma
gli affari della terra con gli occhi fissi al Cielo.
Tutto quello che si fa per l'amore è amore; la fati-
ca, la morte stessa non è che amore, quando le si
accettano solamente per amore (2).
Tranquillità durante pene, prove e insuccessi.
Cerchiamo di progredire nel santo amor di Dio,
perchè alla fin fine tutto il resto è vanità (3). Ma
l'amore alberga nella pace; quindi sia costante tua
sollecitudine di conservare la santa tranquillità del
cuore. Noi fortunati, quando abbiamo travagli, pe-
ne e fastidi! sono queste le vie che conducono al
Cielo, purché offriamo tutto a Dio (4).
Nelle tue pene interne fa' come l'ape. Questo
insettino, che da sano ha tanta diligenza e attività,
perde ogni ardire e se ne sta senza far nulla non
appena diviene infermo. Se non che egli trova to-
(1) L. DCCXII (t. x v „ p. 99).
(2) L. DCCX'in (t. xv, p. 101).
(3) Eccles., I, 2, 14; XII, 8.
(4) L. DCCCXXIV (t. xv, p. 302).
74
sto da se stesso l'unico suo rimedio, che è di met-
tersi al sole, aspettando calore e guarigione dalla
sua luce. Mettiamoci anche noi così dinanzi al
nostro Sole (1) crocifisso e diciamogli:— O bel So-
le dei cuori, voi vivificate tutto con i raggi della
vostra bontà; eccoci qui dinanzi a voi più morti
che vivi: di qui non ci moveremo, linci!è il vostro
calore non ci avvivi (2), Signore^ Gesù! —
Morire è vivere, quando si sta dinanzi a Dio.
Appoggia il tuo spirito alla pietra, simboleggiata
da quella che Giacobbe aveva sotto il capo, quando
vide la sua bella scala (3): è la medesima pietra,
su cui riposò san Giovanni Evangelista il giorno
nel quale il suo Maestro Gesù compiè l'eccesso di
carità (4). Il cuore del nostro cuore veglierà amo-
rosamente su di te. Mantienti in pace (5).
Sei in mezzo alle spine? Fatti coraggio: tra le
spine crescono più rigogliosi i gigli graditi allo
Sposo celeste (6): impigliato tra le spine era il
montone, che Dio volle immolato invece d'Isacco (7).
(1) MALACH., IV, 2.
(2) Cfr. Ps. XVIII, 7.
(I3) Gen., xxviii, 11-13.
(4) JOAN., XIII, 1, 23, 25.
(5) L. CMIV (t. xvi, pp. 50-51).
(6) Cfr. Cant., Il, 2 .
(7) Gen., xxn, 13.
745

38.8 Page 378

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Mettiti all'opera diligentemente con la parte più
elevata della tua volontà pur fra le tenebre e
aridità: un'oncia di bene fatta in queste condizioni
vale più che non cento libbre di quelle compiute
in mezzo a consolazioni e gusti sensibili: questo ha
maggior dolcezza, è vero, ma l'altro è di miglior
qualità (2).
Certe dicerie altrui potrebbero riempirti il cuo-
re di soverchia tristezza. Senza dubbio i nostri mali
sono in massima parte più immaginari che reali.
Credi proprio che- generalmente si presti gran fede
a simili chiacchiere? A ogni modo sappi che, quan-
do la nostr'anima è buona e sta nelle mani del Si-
gnore, tutte le vessazioni di tal fatta si dileguano
come fumo nell'aria. Contro il male della calunnia
non c'è miglior rimedio del dissimulare, disprezzan-
do il disprezzo e mostrando con la nostra fermezza
che noi siamo fuori di tiro, massime quando si trat-
ti di ciance anonime: la calunnia che non ha nè
padre nè madre che la voglia riconoscere, fa vede-
re di essere illegittima.
Ecco una parola che san Gregorio diceva a un
vescovo afflitto (1): « Se tu avessi il cuore nel Cie-
( 1 ) L. MCLXIX ( t . XVII, p . 1 5 1 ) .
(2) Ep. XI, 45. Le parole sono queste: Miror, cur vos, qui
cor fixistis in caelo, verbo hominum agitent in lena. La let-
74
lo, i venti della terra non lo scoterebbero nè pun-
to nè poco ». A chi ha rinunciato al mondo, niente
può recare nocumento di ciò che venga da parte
del mondo. Mettiti ai piedi del Crocifìsso, e vedi
quante ingurie riceve; supplicalo, per la dolcezza
con cui le ha ricevute, che ti dia la forza di sop-
portare queste porzioncelle che come a servitor fe-
dele ti sono toccate in sorte. Beati quelli che son
fatti segno a ingiurie e calunnie, perchè saranno o-
norati da Dio (1) (2).
È cosa che consola il vedere anime, che fra
ostacoli e contraddizioni mantengono ferma la vo-
lontà di servire il Signore; queste anime, restando
così fedeli in mezzo agl'impedimenti, ne avran sod-
disfazioni tanto maggiori quanto più gravi saranno
state le difficoltà. Se tu ti troverai in tali distrette
sappi renderle utili al tuo avanzamento spirituale.
Nessun premio senza vittoria, nessuna vittoria senza
guerra. Coraggio adunque: fa' di necessità virtù.
Volgi spesso gli occhi al Signore che guarda a te,
povera creatura qual sei, e vedendoti assediato da
travagli e distrazioni, t'invia il suo aiuto e bene-
tera è indirizzata non a un vescovo, ma a Teotista, sorella
dell'imperatore Maurizio.
( 1 ) Cfr. MATT., V, 11.
(2) L. CMXXX, (t. xvi pp. 96-7).
747

38.9 Page 379

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dice le tue pene. A questo riflesso, abbraccia con
pazienza e dolcezza i tuoi fastidi per amore di
Colui che permette la prova soltanto a fine di be-
ne. Solleva dunque di frequente il cuore a Dio,
chiedigli aiuto, prendi l'argomento principale di con-
forto dal pensiero della bella grazia che hai
di essere suo. Tutti i tuoi motivi di dispia-
cere ti parranno cose da poco, quando sentirai che
possiedi un tale Amico, un sì valido sostegno, un
così eccellente rifugio (1).
Anche negl'insuccessi un'anima religiosa si ras-
segna interamente al volere di Dio. Allorché pertan-
to, dopo aver fatto ogni sforzo, non puoi riuscire
iu qualche buon disegno, non potresti fare cosa più
gradita al Signore che sacrificando a lui la tua vo-
lontà- e standotene tranquillo, umile e divoto, rimes-
so e sottomesso in tutto al suo divino beneplacito;
il qual beneplacito divino ti sarà abbastanza rico-
noscibile in questo, che, avendo tu fatto quanto di-
pendeva da te, non ti è stato possibile veder ap-
pagati i tuoi voti. Il nostro buon Dio talvolta met-
te alla prova il nostro coraggio e il nostro amore,
privandoci delle cose che a noi sembrano, è in re-
altà anche sono, ottime per l'anima; se poi ci scor-
ge fervorosi nel cercarle, ma nondimeno umili, tran-
fi) L. Dcrxcvi (t. xv, pp. 246-7).
74
quilli, rassegnati a restarne anche privi, allora ci lar-
gisce nella privazione benedizioni maggiori che non
ci darebbe nel possesso dell'oggetto bramato: sempre
a Dio piacciono sommamente coloro che di cuore e
con semplicità in qualsiasi congiuntura della vita
sono pronti a dirgli: Sia fatta la tua volontà (1).
Tranquillità nelle imperfezioni.
Fa' il bene con la maggiore allegrezza possibile:
nell'opera buona è doppia grazia il farla bene e il
farla allegramente. E quando dico fare il bene, non
voglio già dire che, avvenendoti di commettere qual-
che difetto, tu ti debba abbandonare per questo alla
tristezza. No, in nome di Dio! sarebbe un aggiun-
gere difetto a difetto. Io intendo dirti di perseverare
a fare il bene, di tornare al bene ogni qualvolta
conoscerai che te ne sei allontanato, di vivere quin-
di sempre molto lieto, mercè questa costante fe-
deltà (2).
I difetti senza dubbio si devono odiare, ma con
un odio tranquillo e pacato, non con un odio di-
spettoso e turbolento. Eh, sì! rassegniamoci a ve-
(1) L . CDLXXXIIH ( t . XIV, p . 7 5 ) .
(2) L . DXXII (T. x i v , p . 146).
749

38.10 Page 380

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derli, ma caviamone profitto, pigliando occasione a
un santo abbassamento <li noi stessi. Senza di que-
sto, le tue imperfezioni, guardate sottilmente, ancor
più sottilmente ti turbano e per tal modo non se
ne vanno da te: nulla contribuisce a conservare le
nostre magagne più dell'inquietudine e ansietà che
si mette a toglierle (1).
Anche l'inquietudine e tristezza che nasce dal-
la conoscenza del tuo nulla, non è cosa da amarsi;
ancorché buona sia la causa, non è però buono l'ef-
fetto. La conoscenza del nostro nulla non ci deve
mai turbare, ma ci deve rendere dolci, umili, dimes-
si: è l'amor proprio che ci fa impazientire al veder-
ci vili e abbietti. Ti scongiuro per amore di Gesù
Cristo, vivi sereno e tranquillo nelle tue infermità.
10 mi glorio nelle mie infermità, dice il nostro gran-
de san Paolo (2), affinchè abiti in me la potenza del
mio Salvatore. Ecco dunque che la nostra miseria
11 è trono sul quale risplende la somma bontà di
nostro Signore (3).
Perciò coraggio, molto coraggio! confida nel
Signore, che teneramente ti ha amato, attirandoti
al suo servizio, e teneramente ti ama, continuando
ad allettarviti, e teneramente ti amerà, dandoti la
( 1 ) L. DX;II ( t . XLV, p. 120).
(2) Il COT., XII, 9.
( 3 ) L. DLXIV ( t . XIV, p. 236).
70
santa perseveranza. Io non so proprio come mai le
anime, che si sono consacrate alla Bontà divina, non
stiano sempre allegre; infatti qual felicità più gran-
de della loro1? Non ti turbino punto le tue eventuali
imperfezioni: son cose che non si vogliono nè trat-
tenere nè tanto meno accarezzare. Sta' quindi in
pace, studiandoti di vivere con dolcezza e umiltà
di cuore (1).
Alcuni consigli pratici.
La mia anima è in pericolo; perciò la porto nel-
le mie mani, diceva Davide (2). Esamina spesso se
hai l'anima tua nelle tue mani; se qualche passione,
turbamento o inquietudine non te l'abbia portata
via; se la tieni a tua disposizione o se non sia impi-
gliata in qualche affetto: e caso mai trovassi che ti sia
sfuggita, prima d'ogni altra cosa fanne ricerca
e ripigliala. Ma ricordati di ripigliarla pian piano
e con dolcezza: se tenterai di afferrarla a forza di
braccia, la metterai in agitazione (3).
Vivi tutto nel Signore,-comunqne sia l'acqua,
in cui il tuo cuore naviga. I funamboli, quando
( 1 ) L . MCCCLXJII (t. XVIII, p. 101).
( 2 ) Ps. CXVIII, 109.
(3) L. DUI (t. xiv, p. 106).
751

39 Pages 381-390

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39.1 Page 381

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camminano sulla corda, tengono sempre nelle ma-
ni il bastone di contrappeso per reggere in equili-
brio la persona nella varietà dei movimenti che de-
vono fare sopra una palàncola così pericolosa; an-
che tu stringi fortemente la santa Croce del Signo-
re per camminare sicuro tra i pericoli che la diver-
sità degl'incontri e delle conversazioni potrà pre-
sentare a' tuoi sentimenti, sicché tutti i tuoi moti
abbiano per bilanciatrice l'unica e amabilissima vo-
lontà di Colui, al quale hai consacrato corpo e cuo-
re (1).
È una verità incontestabile: nulla al mondo ci può
infondere maggior tranquillità che il considerare so-
vente Nostro Signore in tutte le afflizioni occorse-
gli dalla nascita fino alla morte; vi troveremo tan-
ti disprezzi, tante calunnie, tanta povertà e indigen-
za, tante abiezioni e pene, tanti tormenti, tante nu-
dità, ingiurie e amarezze d'ogni genere, che al pa-
ragone riconosceremo mal convenire il nome di af-
flizioni, sofferenze, contrarietà ai nostri piccoli acci-
denti ordinari, nè esservi bisogno di gran pazienza
per così poco, bastando.sapersi contenere uu tanti-
no per sopportare bene questi casi. Sentimenti di
tristezza, di sbigottimento, d'inquietudine vengono
a turbarci l'anima, perchè questa non porta ancora
(1) L. DXXX (t. x i v , p. 165).
752
abbastanza profondamente radicato nella volontà
l'amore della croce e dell'umiliazione. Un cuore
che nutra grande riverenza e amore per Gesù cro-
cifisso, ne ama la morte, le pene, i tormenti, gli
sputi, i vituperi, le privazioni, la fame, la sete, le
ignominie e, toccandogli di parteciparvi un pochet-
tino, ne gongola di gioia e tutto abbraccia amoro-
samente. Da' quindi ogni giorno un'occhiata gene-
rale al Signore in mezzo alle pene da lui sofferte
per la nostra Redenzione, considerando quale fortu-
na sarà la tua di parteciparvi: ma pensa quale sia
l'occasione, in cui questo ti potrà accadere, pre-
vedi cioè quali contrarietà potranno sorgere a osta-
colare i tuoi desideri, quelli massimamente che ti
sembreranno più giusti e legittimi, e poi con vivo
amore alla Croce e Passione del Signore esclama con
sant'Andrea: — O buona croce, dal mio Salvatore
tanto amata, quando mi riceverai tu fra le tue brac-
cia? (1) —
Porta il Salvatore crocifisso piantato nel mezzo
del cuore, io vidi già una fanciulla dia andava con
un secchio di acqua sopra la testa, e nel mezzo di
quello aveva messo un pezzo di legno. Ne volli sape-
re il perchè. Mi rispose che lo faceva per impedire
il movimento dell'acqua e così non lasciarla span-
ti) L. DLXIII (t. xiv, pp. 232-3).

39.2 Page 382

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dere. Dunque d'ora innanzi, dissi fra me, bisogne-
rà mettere la Croce nel mezzo del cuore, affinchè
questo legno rattenga i movimenti dei nostri affet-
ti, non permettendo che si spandano e sperdano fra
inquietudini e turbamenti di spirito (1).
Nell'umiltà la pace.
La pace dell'anima non può sussistere senza l'u-
miltà. Tutti i nostri turbamenti derivano dall'amor
proprio e dalla stima che facciamo di noi stessi. Se
non proviamo intenerimento di cuore, gusti sensi-
bili nell'orazione, interne soavità nella meditazione,
eccoci in tristezza; se qualche difficoltà incontriamo
a fare il bene, se qualche ostacolo si oppone ai
giusti nostri disegni, eccoci in affanno per ispuntarla,
cercando con inquietndiue di sgombrarci il passo.
Perchè tutto questo? Senza dubbio perchè ci piac-
ciono le nostre consolazioni, i nostri agi, le nostre
comodità. Vorremmo pregare guazzando in acqua
nanfa, vorremmo essere virtuosi cibandoci di zuc-
chero, nè guardiamo al dolce Gesù che, prostrato
a terra, suda sangue e acqua di amarezza (2) nel-
l'aspro suo combattimento interno, lottando in lui
(1) L. CDLXXXI (t. XIV, p. 72).
(2) MARC., XIV, 3 5 ; L u e . , XXII, 44.
74
i sentimenti della parte inferiore e i propositi di quel-
la superiore.
L'amor proprio è, dicevamo, una sorgente delle
nostre inquietudini; l'altra è la stima che facciamo
di noi stessi. Che cosa vuol dire che, cadendo in
qualche imperfezione o peccato, ci sentiamo sbigot-
titi, inquieti? Gli è che ci pensavamo di essere ab-
bastanza buoni, saldi e fermi, mentre invece, scor-
gendo dal fatto che non è così, perchè siamo stra-
mazzati, eccoci delusi e quindi sconcertati, morti-
ficati, inquieti. Ma, se sapessimo bene chi siamo,
anziché rimanere stupiti di vederci a terra, ci me-
raviglieremmo di poterci reggere in piedi. Ecco la
seconda origine del nostro inquietarci: pretendere
consolazioni e aver paura di riconoscere e toccare
con mano la nostra miseria, la nostra nullità, la no-
stra imbecillezza.
Facciamo tre cose, mio caro, e avremo la pace.
Abbiamo un'intenzione veramente pura di cercare
in tutte le cose l'onore di Dio e la sua gloria;
facciamo a questo fine il poco che possiamo; poi a
Dio lasciam la cura del rimanente. Chi ha Dio per
oggetto delle sue intenzioni e fa quello che può,
perchè si dovrà crucciare? perchè si turberà? per-
chè avrà da temere? No, no, Dio non è tanto ter-
ribile con chi egli ama; Dio Si contenta di poco,
perchè sa benissimo che noi non abbiamo gran che.
755

39.3 Page 383

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R i c o r d a t i clie il Signore vien chiamato nella Scrit-
tura (1) Principe di pace; perciò, dov'egli è padro-
ne assoluto, fa regnare la pace. È vero per altro
che, prima d'introdurre la pace in un luogo, vi
porta la guerra (2), separando cuore e anima dai
più cari, intimi, usuali affetti, come sono l'amore
eccessivo di sè, la fidanza nelle proprie forze, la
compiacenza personale, e sentimenti simili.
Ora, quando il Signore ci separa da queste pas-
sioni favorite e carezzate, sembra che scortichi il
cuore sul vivo e se ne ricevono dolorissime sensa-
zioni, nè si può quasi fare a meno di avere tutta
l'anima in spasimo, tanto questi strappi riescono
penosi. Ma tutta questa agitazione di spirito non
va disgiunta da pace, allorché alla perfine, sebbe-
ne oppressi da tale affanno, teniamo pur sempre
la nostra volontà rassegnata a quella del Signore,
inchiodata al divino beneplacito, senza punto ab-
bandonare i nostri uffici nè omettere di esercitarli,
ma eseguendone coraggiosamente i doveri. Di ciò
il Signore ci diede esempio nell'Orto degli Olivi;
perchè, quantunque oppresso da amarezza interna
ed esterna, piegò tutto il suo cuore alla volontà
del Padre, dicendo: Ma ni faccia la tua e non la
(HI IS., IX, 6.
(2) Cfr. MATT., X, 34-36.
7
mia volontà (1), nè, per quante angosce patisse,
omise di recarsi tre volte da' suoi discepoli per
ammonirli (2). È veramente da Principe di pace lo
star in pace nella guerra e vivere in dolcezza fra
le amarezze.
Dal fin qui detto desidero che tu cavi tre con-
clusioni. La prima, che spesso noi crediamo di aver
perduto la pace, perchè siamo nell'amarezza, men-
tre invece non l'abbiamo perduta affatto; la qual
cosa si conosce dal non cessare per quest'amarezza
di rinnegare noi stessi e di volerci conformare in-
teramente al beneplacito di Dio e dal continuar ad
esercitare l'ufficio affidatoci. La seconda, che neces-
sariamente dobbiam soffrire pena interiore, quando
Dio ci strappa l'ultima pelle dell'uomo vecchio per
trasformarci nell'«omo nuovo, creato secondo Dio (3);
nè per questo noi dobbiamo turbarci o crederci di es-
sere in disgrazia del Signore. La terza, che tutt'i
pensieri, i quali ci cagionano inquietudine e agita-
zione di spirito, non vengono punto da Dio, che è
Principe di pace, ma sono tentazioni del nemico, e
quindi bisogna rigettarli e non farne verun conto.
Conviene assolutamente vivere in pace. Qualora
(1) Lue., XXM, 42.
(2) MATT., XXVI, 40-45.
(3) Ephes., iv, 22-24.
757

39.4 Page 384

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ci assalissero pene interne o esterne, sopportiamole
in pace; qualora poi ci venisse allegrezza, ricevia-
mola egualmente in pace senza dare in sussulti.
Se vi e da fuggire un male, facciamolo con pace
senza turbarci; altrimenti potremmo, fuggendo, ca-
dere e lasciare al nemico il tempo di ucciderci. Se
vi è del bene da fare, facciamolo con pace; altri-
menti commetteremmo, affannandoci, molti errori.
Financo la penitenza dev'essere fatta con pace; ecco,
diceva quel Penitente (1), l'amarissima amarezza
mia in pace (2).-
§ 3. EGUAGLIANZA DI SPIRITO.
È ben fortunato chi sa conservare eguaglianza
di cuore in mezzo a tanta diseguagliauza di casi (3).
Eguaglianza nelle cose temporali.
Il non considerare bene, come siano inseparabili
da questa vita mortale la incostanza, varietà e in-
stabilità delle vicende, ci fa perder d'animo e pren-
dere ombra, causandoci inquietudini, variabilità
(1) Is. xxxvin, 17.
(2) L. CCLXXX (t. XHI, pp. 28-31).
(3) E. xi (t. vi, p. I960.
7
d'umore, volubilità di propositi; giacché si vorreb-
be non incontrar mai lungo il cammino difficoltà,
contraddizione, molestia di nessun genere, ma go-
dere consolazioni senz'aridità, bene senza male, sa-
nità senza malattia, riposo senza fatica, pace senza
turbamento. Chi non vede che è follìa la nostra?
questo è proprio un volere l'impossibile. Soltanto
in Paradiso e nell'inferno le cose si trovano senza
mescolanza: in Paradiso il bene, il riposo, la con-
solazione sono in tutta la loro purezza, senz'ombra
di male, di turbamento, di afflizione; nell'inferno
al contrario regna il male, la disperazione, lo scom-
piglio, l'irrequietudine, e ciò in tutta la sua inte-
rezza, senza una stilla di bene, di speranza, di
tranquillità, di pace. Ma in questa vita caduca non
si dà mai bene senza compagnia di male, non ric-
chezza senza preoccupazioni, non riposo senza fa-
tica, non consolazione senz'afflizione, non sanità sen-
za malattia. Quaggiù insomma tutto si mescola e
si rimescola: il bene va col male, gli accidenti si
succedono con una varietà continua. Così Iddio ha
voluto differenziare le stagioni, facendo tener die-
tro all'estate l'autunno e all'inverno la primavera,
perchè vedessimo che niente dura (1) nella vita pre-
sente, ma che le cose vi sono mutabili, incostanti,
(1) Eccles., il, 11.
759

39.5 Page 385

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soggette sempre a cambiamenti. Il non conoscere
abbastanza questa verità è, come dicevo, la cagio-
ne che ci rende volubili e cangiabili nelle nostre
disposizioni d'animo, sicché non facciamo uso del-
la ragione dataci da Dio e destinata a mantenerci
immobili, fermi, saldi, e per tal riguardo somiglian-
ti a Dio stesso.
Allorché Dio disse: Facciamo l'uomo a nostra im-
magine (1), gli diede in pari tempo la ragione, con
l'uso della quale discutere, considerare, distinguere
il bene e il male e le cose meritevoli di essere aio-
bracciate o respinte. La ragione è la facoltà che ci
costituisce superiori e signori di tutti gli animali.
Creati che ebbe i nostri progenitori, Dio diede loro
pieno dominio sui pesci del mare e su gli animali
della terra (2), e perciò diede loro altresì la cono-
scenza di ogni specie dei medesimi e i mezzi per
dominarli e farsene padroni assoluti. Nè questa gra-
zia solamente ha fatto Dio all'uomo di costituirlo
signore degli animali mediante il dono della ragio-
ne, con cui l'ha reso simile a sè; ma gli ha dato
inoltre pieno potere sui casi e gli eventi di qualsia-
si genere. È detto (3) che l'uomo savio, cioè l'uo-
(1) Gen., I, 26.
(2ì Ib., 28-30.
(3) S. TH., I, q. cxv, a. iv, ad 3'.
70
*
mo che si governa con la ragione, si renderà padro-
ne assoluto degli astri. Che cosa significano queste
parole, se non che l'uomo con l'uso della ragione
si terrà fermo e costante in mezzo al variare degli
accidenti, che si succedono durante il vivere mor-
tale? Faccia bel tempo o piova, siavi aria calda o
tiri vento, l'uomo savio non se ne preoccupa, ben
sapendo che nulla vi è di stabile e duraturo in
questa vita e che non è quaggiù il luogo del ripo-
so. Afflitto, non si dispera, ma attende il conforto^
malato, non si corruccia, ma aspetta la guarigione o
se vede che la malattia è mortale, benedice Dio, spe-
rando il riposo della vita immortale dopo la vita
presente. Nei casi d'impoverimento non si abbat-
te, conscio che le ricchezze di questa vita non sono
immuni da povertà; nei casi di vilipendio sa che l'o-
nore quaggiù non ha stabilità, ma è seguito per lo
più da disonore o disprezzo. Negli eventi d'ogni
fatta, prosperi o avversi, egli persevera fermo, sal-
do, costante nel suo proposito di aspirare e tendere
al godimento dei beni eterni.
Eguaglianza nelle cose spirituali.
Ma non basta considerare tanta varietà, mutevo-
lezza e incostanza solamente nelle cose transitorie
e materiali della vita mortale: fa d'uopo conside-
761

39.6 Page 386

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rare ancora come avvenga pure il medesimo nel-
l'andamento della vita spirituale, in cui la fermezza
e costanza è tanto più necessaria, quanto più ele-
vata è la vita spirituale al disopra di quella mor-
tale e corporale. È un gravissimo errore il preten-
dere di non soffrire nè sentire cambiamenti nelle no-
stre disposizioni d'animo, prima clie siamo arrivati
a governarci o a lasciarci governare con la ragione.
Si dice comunemente: — Vedete questo fanciullo;
piccolo com'è, ha già l'uso della ragione; — tanti
invece hanno l'uso della ragione, ma a guisa di
fanciulli, non seguono i dettami della ragione. Dio
ha dato all'uomo per guida la ragione, ma pochi
sono coloro che ne accettano il dominio, lascian-
dosi governare dalle proprie passioni, che dovreb-
bero stare alla ragione soggette e obbedienti, secon-
do l'ordine da Dio in noi voluto.
Mi spiegherò più alla buona. I mondani gene-
ralmente si lasciano governare e condurre dalle
passioni, anziché dalla ragione; quindi nelle loro
disposizioni d'animo appaiono capricciosi, volubili,
mutevoli. Se salta loro il ticchio di andare a letto
presto presto o tardi tardi, lo fanno; se hanno fan-
tasia di recarsi in campagna, si levano di buon
mattino; se altra volta vien loro voglia di dormire,
dormono senz'altro; se loro talenta di prendere i
pasti molto presto o molto tardi, subito lo fanno.
7
Nè solamente in queste cose si mostrano capricciosi
e incostanti, ma anche nelle scambievoli relazioni:
pretendono che gli altri si adattino ai loro umori,
ma essi non vogliono adattarsi agli umori altrui;
secondano le proprie inclinazioni, appagano i gusti
e le passioni loro particolari, senza che tuttavia
questo modo di agire venga stimato difettoso fra
i mondani: purché non si urtino troppo le suscet-
tibilità del prossimo, non si passa, così facendo, per
capricciosi e incostanti. Perchè questo! Non per
altro motivo, se non perchè fra i mondani questo
è un male necessario. Nello stato religioso non è
possibile invece andar dietro così alle passioni: vi
sono le regole, fatte apposta perchè ci servano di
norma riguardo al pregare, al prender cibo, al dor-
mire e a tutto il resto: ogni cosa in ora fissa, quan-
do l'obbedienza o la campana ce lo indica; poi, la
nostra ordinaria compagnia è sempre la medesima,
non potendoci noi separare dai nostri confratelli.
Qui dunque in che modo può entrare il capric-
cio e l'incostanza? Yi sussiste sempre la diversità
degli umori, dei voleri, dei desideri. — Adesso io
sono allegro, perchè tutto mi va a seconda; di qui
a poco sarò triste per una piccola contrarietà inat-
tesa. — Ma non sapevi che non è qui il luogo del
puro piacere, senza mescolanza di cose spiacevoli e
che questa vita è piena di simili vicende? Oggi che
763

39.7 Page 387

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provi diletto nell'orazione, ti senti animato e riso-
lutissimo a servir Dio; domani, trovandoti in aridità,
ti mancherà il cuore nel divino servizio e: — Mio
Dio, dirai, sono così languido e spossato! — Orbene,
dimmi un po': se tu ti governassi con la ragione,
non vedresti che, com'era bello ieri servir Dio,
così è bellissimo servirlo oggi e bellissimo sarà ser-
virlo domani? È pur sempre il medesimo Dio degno
di èssere da te amato e quando sei in aridità e
quando sei in consolazione. Invece, adesso vogliamo
una cosa; domani ne vorremo un'altra; quello che
veggo fare alla tal persona, in questo momento mi
piace, ma fra breve mi dispiacerà a segno da farmi
concepire financo dell'avversione. Adesso le mie
preferenze sono per uno, e io gusto grandemente
d'intrattenermi con lui, domani durerò fatica a sop-
portarlo. Tutto questo che cosa significa? quel tale
non merita di essere ben voluto oggi come ieri? Se
si badasse a ciò che detta la ragione, si vedrebbe
che bisognava voler bene a quella persona, perchè
è una creatura di Dio e porta in sè l'immagine della
Maestà divina; per tal modo si proverebbe adesso
nel trattare con lei egual piacere che le altre volte.
Causa di tutto questo è il lasciarci guidare dal-
l'istinto, dalle proprie passioni e affezioni, capovol-
gendo così l'ordine stabilito in noi da Dio, che tutto
stesse sottomesso alla ragione; se la ragione non
764
domina tutte le nostre potenze, facoltà, passioni,
affezioni, in una parola, tutto quanto il nostro es-
sere, non si avrà mai altro che una continua vicen-
da, incostanza, varietà, continui combiamenti e ca-
pricci, sicché noi saremo un momento fervorosi e
un momento dopo languidi, negligenti, pigri, adesso
allegri e poi malinconici; staremo tranquilli un'ora
per essere poi inquieti un paio di giorni: a dir breve,
la nostra vita diviene inutile perditempo.
Eguaglianza indispensabile ai religiosi.
Io ho sempre cercato d'inculcare ai religiosi
questa così santa eguaglianza di spirito, come virtù
necessarissima e tutta propria del loro stato. Gli
antichi fondatori di Ordini religiosi ebbero singo-
larmente in mira di far sì che regnasse nelle loro
comunità una costante eguaglianza di spirito; per-
ciò dettarono statuti, regole e costituzioni fisse, che
servissero ai religiosi come di ponte per passare
dalla costante eguaglianza degli esercizi ivi pre-
scritti e da loro volontariamente accettati, a quel-
l'amabile e desiderabile eguaglianza di spirito che
bisogna mantenere attraverso l'incostanza e dise-
guaglianza dei casi succedentisi tanto lungo il cam-
mino della nostra vita mortale, quanto nell'anda-
mento della nostra vita spirituale.

39.8 Page 388

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Non hai ragione alcuna di stupirti al vedere co-
me nella casa di Dio, che è la religione, avvengano
accidenti vari e impreveduti: fu così nella famiglia
stessa del Signore, dove risiedeva la fermezza e
stabilità in persona, cioè appunto il Signore. Gran-
de pace ed eguaglianza di spirito mostrarono la
santissima Vergine e san Giuseppe fra disegua-
glianza sì grande di casi, che toccarono loro fino dal
bel principio. Bisogna dirlo e ridirlo spesse volte,
perchè si stampi profoudamente negli animi: il va-
riare degli accidenti non deve mai portare i nostri
spiriti a diseguaglianze di umore: cotali cambia-
menti di umore provengono soltanto dalle nostre
passioni, inclinazioni o affezioni immortifìcate: non
debbono queste esercitare su noi alcun potere, allor-
ché spingono a fare, a ométtere, a desiderare qualun-
que benché minima cosa contraria a quanto la ragio-
ne prescrive di fare o non fare per piacere a Dio.
A ottenere questa eguaglianza d'animo giove-
rà, anche per quello che concerne la nostra vita spi-
rituale e la nostra perfezione, riposare interamente
nella Provvidenza divina. Il soverchio pensiero di
noi stessi ci fa perdere la tranquillità dello spirito
e ci fa dare in bizzarrie e ineguaglianza d'umore:
basta che qualche cosa ci vada di traverso, basta
anche solo che ci accorgiamo di aver commesso un
piccolo atto immortificato o di essere caduti in
766
qualche difettuccio, perchè ci sembri che per noi
tutto sia perduto. Ma è poi cosa tanto sorprendente
il vederci talvolta inciampare? — Ma io sono così
meschino, cosi pieno d'imperfezione! — Lo conosci
davvero? benedici Dio, che ti abbia dato cotesta
conoscenza e non fare tanti lamenti; sei ben for-
tunato, se conosci di essere la miseria in persona.
Dopo aver benedetto Dio per cotesto conoscimento
da lui ricevuto, tronca l'inutile sensibilità che ti fa
rammaricare della tua miseria.
— Ma, dirai, provo tanta pena per questa ten-
tazione, tanta pena per la mia imperfezione! — Lo
credo; ma bisogna che nella nostra pena stiamo
tranquilli, lasciando al Signore la cura di liberar-
cene, quando a Lui piacerà. Del nostro avanzamento
nella perfezione noi dobbiamo avere la sollecitu-
dine che Dio vuole, lasciando però a Lui la cura di
perfezionarci. Ora Dio vuole da noi una sollecitu-
dine tranquilla e pacifica, la quale sotto la guida
dei nostri direttori ci faccia andare avanti per la
strada segnataci dalle regole; quanto al resto, egli
vuole che ci affidiamo alla sua cura paterna, cer-
cando di fare il possibile per tenere l'anima in pace,
poiché la sede di Dio è nella pace (1) e nel cuore
pacifico e molto quieto. Allorché il lago è calmo
(1) Ps. LXXV, 2.

39.9 Page 389

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calmo e i Tenti non ne agitano le acque, il cielo
durante le notti serene vi si specchia dentro con
le stelle, di modo che guardando giù, si contem-
plano le bellezze del cielo come se si guardasse in al-
to; così, quando la nostr'anima è tranquilla e non
la turbano nè la sconvolgono i venti delle preoc-
cupazioni, delle ineguaglianze d'animo, dell'inco-
stanza, è attissima a portare in sè l'immagine del
Signore. Ma quando è turbata, inquieta, agitata da
burrasche di passioni, e si lascia governare da quel-
le e non dalla ragione, per la quale siamo simili a
Dio, allora noi non siamo assolutamente in grado
di riprodurre la bella e amabilissima immagine del
nostro Signore crocifisso, nè la varietà delle sue
elette virtù. [Lasciamo dunque la cura di noi al
beneplacito della Provvidenza divina; facciamo in
pari tempo con tutta la nostra buona volontà e con
tutta semplicità ogni sforzo possibile per correg-
gerci e perfezionarci, ma prendendoci sempre ben
guardia dal lasciarci turbare e inquietare lo spiri-
to (1).
(1) E. ut (t. vi, pp. 32-38, 40-41, 40-51).
768
§ 4. DELLA PAZIENZA.
Valore della pazienza.
Mediante la pazienza, dice il Figlio di Dio (1),
guadagnerete le anime vostre. Effetto della pazienza
è dunque l'essere padrone dell'anima propria; perciò
quanto maggiore è la pazienza, tanto maggiore di-
venta il nostro dominio su noi stessi. Ora la pa-
zienza è tanto più grande, quanto meno entra in
noi l'inquietudine e l'ansietà (2).
Le virtù che crescono in grembo alle prosperi-
tà, sono d'ordinario flosce e inconsistenti; forti in-
vece e solide sono quelle che nascono in mezzo alle
afflizioni; così diciamo che i vini migliori vengono
in terreni petrosi (3).
La tribolazione è specialmente scuola di umiltà.
Per mezzo di quella noi veniamo a conoscere le no-
stre miserie e debolezze e quanto siam vani, im-
pressionabili, infermi. Nelle malattie, per esempio,
si scoprono tanto bene le imperfezioni dell'anima!
E perchè mai allora, piuttostochè in altre circostan-
ze? perchè in altre circostanze stanno acquattate
(1) Lue., xxi, 19.
(2) L. CCLXXX (t. XIII, p. 2 8 ) .
(3) L. MCMLXXIIX (t. XXI, p. 1 8 ) . -
769
25. - E. CERIA, La vita religiosa ecc.
•M

39.10 Page 390

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nell'anima, mentre allora fan capolino fuori. L'agi-
tazione del mare rimescola talmente tatti gli umo-
ri, che, chi si mette a navigare credendo di non
averne in corpo, vogato che abbia un poco, si ac-
corge di esserne ripieno per le convulsioni e i vo-
miti provocati da quello scotimento fuor di misura.
Un gran vantaggio dell'afflizione è proprio questo,
di farci vedere il fondo del nostro nulla, tirandone
su la bruttura delle nostre male inclinazioni. La qual
cosa non deve turbarci: allora invece è tempo di
mondare e purificare vieppiù lo spirito, valendoci
a tal uopo più energicamente che mai della confes-
sione (1).
L'umiltà ha sì stretta relazione con la pazienza
che l'una virtù non può andare senza dell'altra:
chi vuol essere umile, bisogUa che sia paziente per
sopportare disprezzi, critiche, rimproveri, come fan-
no gli umili; viceversa per essere paziente biso-
gna essere umile, perchè non sarebbe possibile sop-
portare a lungo i travagli e le contrarietà della
vita senz'avere l'umiltà, che ci rende dolci e pa-
zienti (2).
Rifletti, in generale, che dalla mano di Dio non
vien nulla che non sia per il bene delle annue, le
(1) L. CCLXXIII (t. xmi, p. 5 ) .
(2) S. R. LXIV (t. -x, pp. 355-6).
70
quali lo temono; allorché manda loro tribolazioni,
lo fa o per purificarle o per affinarle nel suo santo
amore. Buon per te, se con cuore filialmente amo-
roso riceverai quello che con cuore paternamente
sollecito della tua perfezione il Signore ti manda!
Considera spesso la durata dell'eternità: così non
ti turberai per gli accidenti di questa vita mortale
(1). Certo le tribolazioni affliggono; ma, se non af-
fliggessero, non sarebbero più tribolazioni. Nep-
pure i servi di Dio ne vanno esenti : la loro felicità
è riservata per la vita futura (2).
Le pietre delle tribolazioni sembrano dure; ma oh
quanto sono preziose! Tutti i palagi della Gerusa-
lemme celeste, che sono così belli, così splendidi,
così deliziosi, son fatti di questi materiali, almeno
nel quartiere degli uomini; perchè in quello degli
Angeli le costruzioni sono d'altro genere, ma però
non egualmente eccellenti. Se l'invidia potesse
dominare nel regno dell'amore eterno, gli Angeli
invidierebbero agli uomini due beni preziosi, che
consistono in due sofferenze: una, quella sopportata
dal Signore per noi in croce e non per loro, almeno
con egual pienezza, e l'altra, quella che sopportano
gli uomini per il Signore: il soffrire di Dio per
(1) L. MCMLXXXII (t. XXI, p. 21).
(2) L. MDXVIII (t. XVIII, pp. 376-7).
771

40 Pages 391-400

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40.1 Page 391

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l'uomo, il soffrire dell'uomo per Iddio. Lasciamo,
lasciamo al nostro dolce Signore la disposizione
amorevole che ha di procurarci spesso maggior
bene con i travagli e le afflizioni che non con le
prosperità e le consolazioni (1).
Coraggio! bisogna passare attraverso i triboli e
le spine di questo deserto per arrivare alla terra
promessa (2). Benedette le afflizioni, che sollevano
e concentrano i nostri affetti in Colui, il quale è
Padre di misericordia e Dio d'ogni consolazione! (3)
(4). La Provvidenza eterna ha mezzi differenti per
retribuire i suoi. Che gran favore quando conserva
e riserva le sue ricompense per la vita eterna! (5).
Se poi il tuo soffrire è frequente, questa frequenza
ti faccia imparare l'arte di ben soffrire. Per questo
è necessario tener la mente rivolta alla santissima
volontà di Dio e riporre la propria speranza nella
beata eternità. La ressa delle pene e dei fastidi
passerà presto: è questione di momenti (6); alla fin
dei conti non abbiamo ancora versato il sangue (7)
(1) L. MDCCXXXI (t. xix, pp. 390-1.
( 2 ) L. MCDXCI (t. XVIII, p. 319).
(3) il Cor., i, 8.
(4) L. MDCCCXXIII (t. x x , p. 139).
( 5 ) L. MDCCCXXX (t. x x , p. 149).
(6) Cfr. 11 Cor., iv, 17.
(7) Cfr, Hebr., xn, 4.
772
per Colui che versò tutto il suo per noi sulla
croce! (1).
Coraggio! I rosai spirituali non sono come i
rosai materiali: in questi le spine restano e le rose
passano, mentre in quelli passeranno le spine e
resteranno le rose (2). Oh tribolazione, quanto
saresti desiderabile, se si vedessero le tue rose
come si vedono le tue spine! (3). Santa Caterina da
Siena, venendole presentate dal suo Salvatore due
corone, una d'oro e l'altra di spine, disse:— Io
voglio per questo mondo il dolore; l'altra corona
sarà per il Cielo (4). —
Coraggio! Dio ti sarà largo del suo favore, purché
tu ti mantenga a Lui fedele. Bella sorte la tua, che
il Signore voglia essere servito da te non solamente
con l'agire, ma anche col patire! Procura di conser-
vare la pace e la tranquillità del cuore; poi lascia
pure che rumoreggino e tumultuino le onde intor-
no alla tua barca: non temere, vi è Dio, e quindi
la salvezza. So bene che le piccole noie, a causa
della loro moltiplicità e importunità, riescono più
fastidiose delle grandi, e le domestiche più delle
(1) L. MDCCCXXXIV (t. XX, p. 157).
(2) L. MMH (t. xxi, p. 46).
(3) L. CCLXXVIII (t. XIII, p. 220.
( 4 ) L. MCCLXXVII (t. XVII, p. 340).
773

40.2 Page 392

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esterne; ma so altresì che la vittoria su di esse è
soventi volte più gradita a Dio che non tante altre
vittorie, le quali agli occhi del mondo sembrano
maggiormente meritorie (1).
Nè ti sgomenti il provare in te movimenti d'ira
e d'impazienza; basta che li rintuzzi di mano in
mano che li senti spuntare; cerca dunque di raf-.
frenarli, rimettendo il cuore in calma: così, quan-
d'anche la lotta durasse un giorno intero, questo
sarebbe per te un esercizio, non un danno (2).
Per mettere, in valore le sofferenze, procuriamo
di acquistare la tranquillità dello spirito, non già
perchè è madre di contentezza, ma perchè è figlia-
dell'amore di Dio e della rassegnazione alla sua
volontà. Le occasioni di esercitarla sono quotidiane,
non mancandoci mai contrarietà, dovunque ci tro-
viamo; e quand'anche nessuno ce ne sollevasse, ce
le procureremmo da per noi. Come saremmo santi
e cari a Dio, se sapessimo trarre partito, dalle cause
di mortificarci provenienti dalla nostra vocazione,
qualunque essa sia! (3). Ci assalgono, per esempio,
moti di collera e di antipatia contro coloro che ci
trattano con asprezza. Ebbene, calmiamo allora lo
(1) L. cccxix (t. XIII, p. 120).
(2) L. CCCLXXV (t. XIIII, p. 242).
(3) L. CDLXIX (t. x i v , p. 53).
74
spirito: purtroppo la natura freme e dà in risenti-
menti d'ogni sorta, quando si è assaliti, e l'amor
proprio suggerisce sempre tante cattive idee contro
gli assalitori. Ma con l'aiuto di Dio vi si resiste,
nè si è trascinati al male: per lo meno, se si hanno
delle scosse, non si cade. Ecco dunque tante buone
occasioni per umiliarci, per pacatamente confon-
derci e praticare l'abiezione di noi stessi (1).
Ti ho detto e ti ripeto: sta' in pace: protesta
sovente al Signore che vuoi essere quello che Egli
ti vuole, soffrendo quello che a Lui piace. Intanto
combatti risolutamente le tue impazienze, esercitan-
do non solo in tutte le occasioni, ma anche senza
occasioni, la santa indulgente dolcezza con chi ti è
più fastidioso: Dio benedirà la tua buona risolu-
zione (2).
Guardare in alto
Alza la testa e guarda nel Cielo: vedi i mortali
che ivi sono immortali: neppure uno è giunto lassù
se non passando per fastidi e afflizioni senza fine.
Fra le tue contrarietà va' ripetendo: — Quaggiù è la
via del Cielo; veggo là il porto ed ho la sicurezza che
(1) L. CMXCVI (t. x v i , p. 222).
(2) L. nccvn (t. xv, p. 90).
775

40.3 Page 393

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le tempeste non mi possono impedire d'arrivarvi (1).
— Piacesse a Dio che non guardassimo tanto alla
condizione della strada che si ha da calcare, ma te-
nessimo gli occhi fissi in Colui che ci guida, e nel
felicissimo paese, dov'egli ci conduce! Che cosa ci
deve importare, che il nostro cammino si faccia at-
traverso il deserto o per amene campagne, quando
sia con noi Dio e noi andiamo in Paradiso? (2).
interroga poi sovente il cuore del Signore, chie-
dendogli donde provenga la tua afflizione: egli ti farà
conoscere che essa ha le sue origini nell'amor suo
per te. È ben fatto rivolgere il pensiero alla giusti-
zia che ci punisce, ma è anche meglio benedire la.
misericordia che ci prova (3).
Ricordati spesso che il Signore ti ha salvato
soffrendo e sopportando e che anche noi dobbiamo
meritarci la salvezza, tollerando ingiurie, contrad-
dizioni, dispiaceri: prendiamo dunque tutto con la
massima tranquilità e rassegnazione, in quella mi-
sura che piace a Dio di mandarcene (4).
Pensa al grande abbandono sofferto dal nostro
Maestro nel giardino degli Olivi. Vedi come questo
(1) L. MCCLXXX (t. XVII, p. 347).
(2) L. CCLXXIII (t. XIII, p. 5).
(3) L. MCCCLXXI (t. xvii, p. 1140.
(4) L. MMLXIV (t. x x i , p. 146).
77
caro Piglio, avendo chiesto conforto al suo buon
Padre e conoscendo che Egli non glielo vuol dare,
non vi pensi più, non se ne affanni, non torni a
domandare; ma, quasi non avesse mai avuto quel
desiderio, compia energicamente e coraggiosamente
l'opera della nostra redenzione. Così tu, pregato
che abbi il Padre a confortarti nelle tue pene, se egli
non si compiace di farlo, non pensarvi più, ma rin-
franca l'animo a compiere l'opera della tua salute
sopra la croce, come se non ne dovessi scendere mai,
nè avessi mai più da vedere il cielo della tua vita
farsi chiaro e sereno. Che vuoi? bisogna veder Dio
e parlargli fra i tuoni e i turbini del vento (1); bi-
sogna vederlo nel roveto, in mezzo al fuoco e alle
spine e, per fare questo, è sempre vero che bisogna
scalzarsi, cioè rinnegare interamente i voleri e gli
affetti nostri (2). Ma la Bontà divina non chiama
nessuno a un dato tenore di vitaj senza fortificarlo
quanto basti: tocca a Dio compiere l'opera sua {3).
In conclusione, se cerchi l'onore di Dio, coni orma-
ti in tutto alla sua volontà senza darti a credere
che lo servirai meglio in altro modo; Dio si serve
bene soltanto, quando si serve nel modo da Lui vo-
(15 Exod., XIX, 16.
(2) Ib.. HI, 2-5.
(3) Cfr. Phil., i, 6.
777

40.4 Page 394

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luto. Se il modo che vuole in te è di servirlo senza
diletto sensibile, anzi con ripugnanze e spasimi di
spirito, questo modo di servirlo è privo di soddi-
sfazione per te, ma è di suo gradimento: non è con-
forme al tuo gusto, ma è conforme al suo (1).
Per altro, è costume di Dio (2) non mandare
afflizioni e pene a chi lo ama, senza mandargli in
pari tempo grandi consolazioni e, come dice il Sal-
mo (3), a proporzione dei molti dolori le sue conso-
lazioni letificano l'anima nostra (4).
Ma nel guardare al Signore poni mente a una
cosa. La Maddalena cercava il Signore, mentre
l'aveva presente, tanto che domandò di Lui a Lui
stesso. Non lo vedeva nella forma da lei voluta;
perciò non si sapeva indurre a vederlo così, ma lo
cercava per trovarlo sott'altra forma. Voleva veder-
lo nella sua veste di gloria, non in un vile abito
da giardiniere; cjò nondimeno alla fine conobbe che
era desso, quand'ei le disse: Maria (5). Tu fa' di
veder il Signore in abito di giardiniere, che ti vie-
ne incontro quotidianamente, or qua or là, ogni
(1) L. CCLXXIII (t. XIII, p. 6).
(2) Il Cor., i, 3-5.
(3) Ps. xeni, 19.
(4) L. CCLXXIV (t. XIII, p. 12).
(5) JOAN., xx, 14-16.
77
volta che ti si presentano occasioni di mortificazio-
ni ordinarie. A te piacerebbe che Egli ti offrisse al-
tre mortificazioni più belle; ma le più belle non
sono le migliori. Prima che tu lo vegga nella sua
gloria, Egli vuol piantare nel tuo cuore tanti fio-
rellini bassi bassi, ma di suo gusto; ecco perchè lo
incontri vestito così. I nostri cuori siano sempre
uniti al suo, le nostre volontà sempre unite al bene-
placito di Lui (1).
Per non turbarti di quanto ti accade in questa
vita temporale, guarda anche sovente alla sua bre-
vità e all'eternità di quella futura; guarda inoltre
alla Provvidenza di Dio che per vie sconosciute agli
uomini fa convergere tutti gli avvenimenti a bene
di coloro che lo temono. Richiama al pensiero quan-
to ti è accaduto di spiacevole fino al presente:
adesso tutto è svanito, tutto si è dileguato; così ha
da essere di quanto ti accadrà in futuro: abbi per-
ciò una dolce pazienza in tutti gli accidenti della
vita (2).
Finalmente, nel bisogno che senti di pazienza,
domandala di cuore a Dio, che, come io spero, te
la darà. Ma intanto sforzati di praticarla bene, pre-
parandoti a questo ogni mattina nella meditazione e
/
(1) L. CDIV (t. XIII, p. 299).
(2) L. MMLX'IV (t. x x i , p. 146).
779

40.5 Page 395

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rinnovando il fermo proposito di essere paziente
lungo la giornata tutte le volte che ti sentirai di-
sturbato (1).
Croce, Crocifisso, croci.
Rinnova con frequenza l'immolazione del tuo
cuore sull'altare medesimo della Croce, sul quale
il Salvatore immolò il proprio per amor tuo. La Cro-
ce è la porta regia per entrare nel tempio della san-
tità; chi ne va in cerca per altra via, non ne troverà
neppure un filo. Io non ti dico di non volgere lo
sguardo alle tue afflizioni: queste purtroppo con
la puntura del dolore si fanno guardare per forza;
ma ti dico di guardarle solamente attraverso la Cro-
ce: così le troverai piccole o almeno tanto gradevoli,
da preferire la sofferenza al godimento di qualsiasi
consolazione che ne sia priva (2).
Per chi sia risoluto di stare eternamente legato
alla santissima volontà di Dio e a Dio abbia con-
sacrato tutta la sua vita, qual grazia essere non
solamente sotto la croce, ma sopra della croce, e
almeno un po' crocifìsso col Signore! Coraggio! fa'
di necessità virtù, non lasciarti sfuggir occasione
alcuna di mostrare tutto il tuo amore verso Dio fra
( 1 ) L . CDLV (t. XIV, p . 21).
( 2 ) L . MCMLXXXIII ( t . x x i , p. 220.
7
le tribolazioni, com'Egli mostrò il suo verso di noi
fra le spine (1).
La semplice vista del nostro caro Gesù croci-
fisso può addolcire in un attimo tutti i nostri do-
lori, che sono tanti fiori al confronto delle sue
spine. Unisciti ognor più al Salvatore; inabissa il
tuo cuore nella carità del suo: diciamogli sempre
con tutto l'affetto: — Muoia io, e viva Gesù! (2).
— Non cesserà mai di essere vero, che, chi vuole
aver parte con Gesù glorificato, deve prima di tutto
aver parte con Gesù crocifisso (3).
In mezzo alle amarezze fatti coraggio: lo Sposo
divino delle anime è un mazzetto di mirra (4): chiun-
que lo ami, non può fare a meno di amare l'a-
marezza; i suoi più intimamente favoriti sono sempre
sotto le punture delle tribolazioni. Come sarebbe
possibile stringere al petto il Signore crocifìsso
senza che i chiodi e le spine che trafiggono Lui,
forassero anche noi? (5).
Non si seppe mai con certezza di che legno
fosse fatta la Croce del Signore; la ragione si è,
( 1 ) L . CMLXIX (t. x v i , p. 175).
( 2 ) L . MMVII (t. x x i , p. 54).
( 3 ) L . MDLV ( t . x i x , p . 2 6 ) .
(4) Cant., i, 12.
(5) L. MCLVI (t. xix, p. 27-8).
781

40.6 Page 396

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credo io, perchè noi amassimo egualmente tutte le
croci da Lui inviateci, di qualunque legno fossero
formate: non dicendo mai: — Questa croce, quel-
l'altra non mi piace, perchè fatta di questo o di
quel legno. —
Le croci migliori sono le più pesanti, e pesano
di più quelle che ci van meno a genio, secondo la
parte inferiore dell'anima. Le croci trovate per via
sono eccellenti, più ancora quelle trovate in casa;
le più fastidiose valgon più che non cilici, disci-
pline, digiuni, tutti insomma i ritrovati dell'auste-
rità. Ivi fanno vedere la loro generosità i figli
della Croce, gli abitatori del monte Calvario.
Le croci da noi fabbricate o escogitate lusin-
gano sempre un poco l'amor proprio, perchè con-
tengono qualche cosa di nostro; quindi son meno
crocifiggenti. Umiliati dunque, ricevendo con gioia
le croci a te imposte, malgrado tuo. La lunghezza
poi della croce ne aumenta il pregio: pena dura è
soltanto quella che dura. Sii fedele sino alla morte,
e avrai la corona della gloria (1). Tu vuoi essere
amante del Crocifisso; ebbene, che altro vuoi deside-
rare se non d'esser crocifisso? L'amore fa uguali gli
amanti (2). Ci vuole costanza e fermezza a stare
(lì Apoc., n, 10.
( 2 ) L. MMLXVIII (t. XXI, p. 150).
7
sulla croce, se a Dio piaccia di mettervici sopra.
Felici quelli che sono crocifissi, perchè saranno
glorificati (1).
Tu vorrai, sì, avere la croce; ma vorrai farne
da te la scelta. No, no: la nostra croce sia in tutto
e per tutto croce di Gesù Cristo (2), cioè tanto per
l'imposizione quanto per la scelta. Dio sa quel che
fa e perchè lo fa: tutto è certamente per il nostro
bene. Egli lasciò a Davide la scelta, della verga,
ehe doveva flagellarlo (3): Dio sia benedetto, ma
a me sembra che io non avrei scelto: avrei lasciato
fare tutto a Dio. Quanto più una croce è di Dio,
tanto più dev'essere a noi cara (4). Dirò di più:
le croci di Dio sono dolci e consolanti, ma a
condizione che vi si muoia sopra, coinè fece il
Salvatore (5).
Di una croce specialmente ti voglio parlare. Quan-
do hai da soffrire per causa di qualche persona assai
molesta, offri subito a Dio questa croce, accettan-
dola con tutto il cuore e rassegnandoti a portarla
anche per tutta la vita, se così piacerà a Lui; indi
(1) L . MCCCI.XIX (t. XVIII, p . 100).
( 2 ) JOAN., XIX, 2 5 ; Gal., v i , 14.
(3) li Reg., xxiv, 12-14.
( 4 ) L . CCXL (t. XII, p. 3 8 6 ) .
( 5 ) L . CDII ( t . XIII, p . 2 9 4 ) .
783

40.7 Page 397

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sta' tranquillo e sereno nella tua sofferenza e guarda
quella persona con onore e rispetto, come destinata
da Dio a esercitarti in ogni virtù, considerando la
grazia clie Dio ti concedo di farti trarre profitto
dalle colpe altrui. Se poi la persona venisse a più
miti consigli, volgiti prontamente a lei con soavità,
senza farle mai parola del passato (1).
Qualunque siano le croci che il Signore ti ha
poste sulle braccia, baciale con frequenza; non
guardare se siano di legno prezioso o aromatico:
sono maggiormente croci, quando sono di legno
vile, abietto, fetido. È una canzone che mi viene
sempre in mente, e io non ne so altra; ma è il
cantico dell'agnello (2), cantico un po' triste, ma
armonioso e bello: Padre min, si faccia, non come
voglio io, ma come vuoi tu (3) (4).
Pazienza nelle imperfezioni.
La virtù che maggiormente ci rassoda nella per-
fezione, è la pazienza (5), la quale, come con gli
altri, così dev'essere praticata con noi stessi. Anzi
(1) L. MMXCII (t. x x i , p. 180).
(2) Cfr. Apoc., v.
(3) MATT., XXVI, 39.
(4) L. CDIV (t. XIII, p. 298).
(5) JAC., I, 4.
74
coloro che aspirano al puro amor di Dio, hau biso-
gno di pazienza non tanto con gli altri quanto con
se medesimi. Per avere la perfezione fa d'uopo
soffrire la propria imperfezione: dico soffrirla con
pazienza, non già amarla o carezzarla: l'umiltà si
alimenta in questa sofferenza.
Confessiamo la verità: noi siamo poveri uomini,
poco o punto capaci di fare il bene; ma Dio, che
è infinitamente buono, si contenta dei nostri piccoli
servigi e gradisce la preparazione del nostro cuore
(1). Che cosa è questa preparazione del cuore? Se-
condo la divina parola (2), Dio è maggiore del no-
stro cuore, e il nostro cuore è maggiore di tutto
il mondo. Quando il nostro cuore da parte sua nella
meditazione prepara quello che deve fare in servi-
zio di Dio, quando cioè forma i suoi propositi di
servir Dio, di onorarlo, di aiutare il prossimo, di
mortificare i sensi esterni e interni e simili buone
risoluzioni, in quegli istanti fa magnificamente;
quello è fare preparazioni, cioè disporsi a fare le
proprie azioni in modo altamente perfetto. Ma tutta
questa preparazione non è punto proporzionata alla
grandezza di Dio, il quale è infinitamente maggiore
del nostro cuore; d'altra parte tale preparazione è
(1) Ps. IIX, ,3'7.
(2) I JOAN., ILI, 20.
785

40.8 Page 398

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d'ordinario maggiore del mondo, maggiore delle
nostre forze, maggiore delle nostre azioni esteriori.
Chi per un verso considera la grandezza di Dio,
la sua immensa bontà e dignità, non può esimersi
dal fare per lui grandi e straordinarie preparazioni.
Gli prepara una carne mortificata e non più ribelle,
un'attenzione nel pregare che sia libera da distra-
zioni, una dolcezza nel trattare che non abbia
niente di amaro, un'umiltà scevra di sentimenti
vanitosi. Ottime cose, buone preparazioni; ci vor-
rebbe anzi di più per servir Dio com'è nostro
dovere. Ma alla fine bisogna trovare chi sia capace
di fare questo; perchè all'atto pratico si resta a
mezzo e si vede che tutte queste perfezioni non
possono essere in noi nè tanto grandi nè tanto
assolute. Si può ben mortificare la carne,- ma non
così perfettamente che in essa non si sollevino
ribellioni; avremo nella preghiera un'attenzione
interrotta spesso da distrazioni e così dicasi del
rimaneute.
Orbene, bisognerà per questo inquietarsi, tur-
barsi, mettersi in affanno e in pena? Mente affatto.
Bisognerà ricorrere a un mondo di desideri per
istimolarsi a raggiungere quell'alto grado di per-
fezione? No, davvero. Si possono bensì fare sem-
plicemente dei voti che esprimano i nostri senti-
menti; io posso dire benissimo: — Oh, perchè non
7
ho il fervore dei Serafini per meglio servire e lodare
il mio Dio? — Ma non debbo perdermi in desideri
suggeriti dall'ipotesi che in questo moudo io debba
raggiungere quella squisita perfezione; non dirò
quindi mai: — Sì, lo desidero, voglio tentarlo; se
non vi riuscirò, ne rimarrò dolente. — Non inten-
do già dire che non bisogni mettersi in cammino
verso quella direzione; ma dico che non bisogna de-
siderare di arrivare tant'alto in un giorno, nel breve
giorno di questa vita mortale, perchè desiderar ciò
sarebbe solo un tormentarsi, e tormentarsi per nulla.
Per camminar bene bisogna sforzarsi di ben percor-
rere la stratta a noi più vicina, facendo bene il per-
corso della prima giornata, senza perderci in desi-
deri di fare l'ultima giornata di cammino, quando
ci resta ancora da terminare la prima.
Ti voglio dire uua parola da tener bene a mente:
noi certe volte ci diamo tanto da fare per essere
buoni Angeli, che trascuriamo di essere uomini
buoni, donne buone. La nostra imperfezione ci ac-
compagnerà fino alla tomba. Andare per la strada
senza toccar terra è impossibile: non bisogna ivi
adagiarsi nè voltolarsi, ma non bisogna nemmeno
pretendere di volare: siamo pulcini ancora senz'ali.
Mentre si muore a poco a poco, facciam morire
con noi giorno per giorno anche le nostre imperfe-
zioni. Care imperfezioni, le quali ci fanno conoscere
787

40.9 Page 399

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la nostra miseria, ci esercitano nell'umiltà, nel di-
sprezzo di noi medesimi, nella pazienza e diligenza,
e nonostante le quali Dio tiene conto della prepa-
razione del nostro cuore, la quale è perfetta.
Parlo così per coloro clie, avendo fatto grandi
preparazioni, al vedere poi la scarsezza dei risul-
tati e l'insufficienza delle forze per attuare desideri,
propositi, ideali, ne sentono dispiacere, impazienza,
inquietudine, turbamento, al che quindi tengono
dietro sconforti, spossatezze, avvilimenti e scora-
menti. Navighiamo rasente la terra; l'alto mare ci
dà vertigini e convulsioni. Stiamo ai piedi del Si-
gnore con la Maddalena, praticando piccole virtù,
proporzionate alla piccolezza nostra. A merciaino,
panierino. Pensiamo a quelle virtù che si pratica-
no più col discendere che col salire, e quindi sono
più fatte per le nostre gambe: aver pazienza, sop-
portare il prossimo, essere servizievoli, umili, man-
sueti, affabili, portar in pace la nostra imperfezione,
e simili. Si ascenda pure per mezzo dell'orazione,
ma a passo a passo.
Abbiamo un fermo e generale proposito di ser-
vir Dio con tutto il nostro cuore e con tutto il no-
stro vivere; fatto questo, non preoccupiamoci del
domani (1). Pensiamo solamente a far bene oggi;
(1) MATT., VI, 34.
7
quando poi il domani sarà venuto, anche quello si
chiamerà oggi, e allora vi penseremo. Abbiamo
inoltre una gran fiducia nella Provvidenza di Dio,
rimettendoci interamente in lei. Si faccia provvista
di manna giorno per giorno, e niente più (1). Dio,
non c'è dubbio, ne pioverà altra domani e posdo-
mani, e così tutti i giorni del nostro pellegrinag-
gio (2).
Pazienza nelle malattie.
Diciamo qualche cosa intorno alle infermità cor-
porali, da cui i religiosi e le religiose non vanno
esenti più degli altri, poiché le malattie fisiche en-
trano nelle Religioni nè più nè meno che nel mondo.
È cosa di grande importanza il sapere come farne
buon uso (3).
Coloro che giacciono infermi, possono servire
molto bene Iddio. Quando fu che il Signore servì
maggiormente il Padre? Senza dubbio quando sta-
va coricato sul legno della croce, trafitto i piedi e
le mani: quello fu il suo atto di maggior servizio
al Padre. E come lo serviva? Soffrendo e offrendo:
(1) Exod., XVI, 16-21.
(3) L. cxc (t. XII, pp. 203-6).
(3) S. R. LX (t. x. p. 281)
789

40.10 Page 400

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le sue sofferenze erano soave odore al Padre (1).
Ecco dunque il servizio che renderai a Dio dal
letto della tua infermità: soffrire e offrire le tue
sofferenze al Signore. Egli certamente sarà con te
nella tribolazione e ti consolerà (2). Quando viene
la malattia, è la tua croce che viene: abbracciala
ed abbila cara per amor di Colui che te la manda.
Diceva al Signore l'afflitto Davide (3): Ammutolii
e non apersi la mia bocca, perchè è opera tua, mio
Dio, il male che soffro. Quasi dicesse: — Quest'affli-
zione, se me l'avesse mandata un altro, mi riusci-
rebbe sgradita e la respingerei; ma poiché me la
mandi tu, non dico parola: io l'accetto, l'accolgo,
la venero. —
Preghiamo il Signore che ci faccia parte della
sua pazienza, giacché ci ha messi a parte delle sue
sofferenze. Or ecco appunto un balsamo prezioso
per lenire i tuoi dolori. Prendi ogni giorno una
goccia o due del sangue che stilla- dalle piaghe del
Signore e, facendole passare per la meditazione,
bagna riverentemente con l'immaginazione il dito
in quel liquore e applicalo al tuo male, invocando
il dolce nome di Gesù che è olio sparso, dice la
(1) Ephes., v, 2.
(2) Ps. xc, 15.
(31) Ps. XXXVIII, 10.
790
Sposa dei Cantici (1): sentirai come scemerà il tuo
dolore.
L'obbedienza prestata al medico sarà graditis-
sima a Dio e ti verrà ascritta a meritò per il giorno
del giudizio.
A quei che soffrono nel loro letto, si porti una
riverenza speciale e si renda straordinario onore,
come a creature visitate da Dio, adorne delle sue
vesti, e sue spose singolarmente dilette. Il Signore,
quando fu in croce, venne proclamato Re anche
dai suoi nemici; così le anime che sono in croce,
vengono salutate regine. Non sai di che cosa ci por-
tano invidia gli Angeli? Di nient'altro che del poter
noi soffrire per il Signore, mentr'essi non hanno
mai sofferto nulla per Lui. San Paolo, che era stato
nel Cielo e fra i gaudii del Paradiso, si sentiva
felice soltanto nelle sue infermità (2-) e nella Croce
di Nostro Signore (3) (4).
Altre volte mettiti alla presenza di Dio e soffri
dinanzi a lui i tuoi dolori. Se non puoi reprimere
i lamenti, sfogati con lui in modo filiale, come fa-
rebbe un tenero figliuolo con la madre sua; facen-
(1) Cant., I, 2.
(2() Il Cor., XII, 2-5, 9, 10.
(3) Galat., vi, 14.
(4) L. CCXLI (t. XII, pp. 392-4).

41 Pages 401-410

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41.1 Page 401

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dolo amorosamente, non vi è nulla di male a lamen-
tarsi, nè a domandare la guarigione, nè a chiedere
sollievo. Fallo soltanto con amore e rassegnazione
fra le braccia della santa volontà di Dio.
Non darti nemmeno pensiero di non compiere
bene in tale stato gli atti delle virtù: non cessano
di essere buoni i tuoi atti, ancorché compiuti con
languore, in modo pesante e quasi per forza. Non
potresti dare a Dio più di quello che hai: in tempo
di afflizione non hai di meglio. Isaia (1) chiama
il Signore uomo di dolori: egli ama i dolori e quei
che li soffrono. Perciò non affannarti per fare molto,
ma disponiti a soffrir con amore quanto avrai da
soffrire. O si languisca o si viva o si muoia, noi
siamo di Dio (2): nulla varrà a separarci dal suo
santo amore (3) mediante l'aiuto della sua grazia.
Il nostro cuore non avrà mai vita fuorché in Lui
e per Lui: Egli sarà per sempre il Dio del nostro
cuore (4) (5). Quale felicità non sarà mai la tua
se in mezzo alle croci ti manterrai con le tue riso-
luzioni fedele a Colui che sì costantemente ti amò
(1) I s . , Lira, 3.
(2) Rom., xiv, 8.
(3) Ib„ vili, 39.
( 4 ) Ps. LXXIII, 26.
(ò) L. CDLXIX (t. xiv, pp. 53-4).
72
fino alla morte, e morte di croce! (1) (2). Con questi
sentimenti indùciti non solo a volere, ma ad amare,
onorare, carezzare le tue infermità, come prove-
nienti dalla mano di quella somma Bontà, della
quale e per la quale noi siamo (£).
Nei momenti in cui i dolori si fanno più acerbi,
riesce difficilissimo fissar il pensiero sopra i trava-
gli sofferti dal Signore per noi. Ma non è neces-
sario di farlo; basta semplicemente che tu innalzi
più spesso che puoi il tuo cuore al Salvatore, facen-
do gli atti seguenti: primo, accettare i patimenti
dalla sua mano, come se tu lo vedessi in persona
che te li fa penetrare nell'organismo; secondo,
offrirti pronto a soffrire anche di più; terzo, scon-
giurarlo per i meriti dei suoi tormenti che accetti
le tue piccole sofferenze in unione ai travagli da
Lui patiti sopra la croce; quarto, protestare che
vuoi non solamente soffrire, ma amare e amare
teneramente i tuoi mali, perchè inviati da una ma-
no così buona e così dolce; quinto, invocare i Mar-
tiri e tanti servi e serve di Dio che godono in Cielo
per aver molto patito in questo mondo.
Nulla impedisce che si desiderino rimedi, anzi
(1) Philipp., n , 8.
( 2 ) L . CDLXVIII (t. x i v , p . 52).
( 3 ) L . DXLV (t. x i v , p . 1 9 3 ) .
793

41.2 Page 402

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bisogna farne accurata ricerca; perchè quel Dio che
ci ha dato il male, è pur anche l'autore dei rimedi.
Applicateli dunque; ma sempre con questa rasse-
gnata disposizione d'animo, che, se Dio volesse il
sopravvento del male, tu vi darai il tuo assenso, e,
se volesse la vittoria del rimedio, ne lo benedirai (1).
Abbraccia poi anche santamente le mortificazio-
ni causate dalla cura, ricevi le relative umiliazioni
con animo rassegnato e possibilmente con indiffe-
renza. Metti d'accordo immaginazione e ragio-
ne, istinto e discernimento, e nelle cose per sè spia-
cevoli ama la volontà di Dio, come l'ameresti in
quelle più gradite. Tu non prendi i rimedi per tua
elezione nè per sensualità, ma per obbedienza e per
suggerimento della ragione: vi può essere cosa più
accetta al Signore? (2)
Riguardo al tuo prossimo, quando sei infermo,
devi praticare non solamente l'amore forte, ma an-
che l'amore tenero, dolce e soave con quelli che ti
stanno d'attorno. Per mia esperienza io dico che
l'infermità, pur non togliendoci la carità, nondime-
no, se non istiamo bene in guardia, ci toglie la soa-
vità col prossimo (3).
(1) L. DCCXXXVIII (t. XV, p. 1411).
( 2 ) L . DCCCXXX (t. x v , p. 3 1 1 ) .
(3) L. MLXIX (t. xvi, p. 351().
74
Una persona malaticcia si fa sopportar volen-
tieri da quanti la conoscono, ispira anzi una tene-
rezza di affetto particolare, qualora mostri di por-
tare divotamente e soavemente 1et sua croce. Come
poi ci vuole dolcezza e coraggio a sopportar il
male, così ci vuole anche disinvoltura a prendere
e a chiedere i rimedi. Chi sa conservare la dolcezza
fra i dolori e gli acciacchi, al pari di chi serba la
pace in mezzo alla ressa e alla moltiplicità degli
affari, è un uomo quasi perfetto; e benché siano po-
chi, anche fra i religiosi, coloro che abbiano rag-
giunto una sorte così bella, pure ve ne sono e ve
ne furono in ogni tempo, e bisogna aspirare a tan-
to (1).
Le malattie lunghe sono buone scuole di carità
per quelli clie vi assistono, e di amorosa pazienza
per quei che le soffrono; poiché gli uni stanno a piè
della croce con la Madonna e san Giovanni, di cui
imitano la compassione, e gli altri stan sulla croce
con il Signore, del quale imitano la Passione (2).
L'umiltà, la pazienza, l'amore a Colui che ci dà
la croce, richiedono, è vero, che noi riceviamo que-
sta senza menarne lamento; ma bada che altro è dire
il proprio male, altro menarne lamento. Dirlo si può,
(1) L. MCCXXIII (t. xvii, p. 260D.
( 2 ) L . MCDIII (t. x v m , p. 1 7 4 ) .
795

41.3 Page 403

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anzi in molti casi si deve, com'è dovere di appor-
tarvi rimedio; ma questo si faccia con calma, senza
esagerare nè con parole nè con gemiti. Così dice
la Madre Teresa* (1); lamentarsi non è semplice-
mente palesare il proprio male, ma palesarlo con
querimonie, rammarichi, espressioni di viva doglia.
Dillo adunque con tutta schiettezza e secondo ve-
rità, senza scrupolo di sorta; ma in modo da non
dar a vedere che senti ritrosia a prendertelo in pace:
così non va, perchè vi ti devi rassegnare molto di
buon grado (2). •
Non attristarti nemmeno che lo stare a letto
t'impedisca di fare meditazione; poiché soffrire la
flagellazione del Signore non è opera men santa del
meditare. È meglio senza dubbio essere sulla croce
con il Signore che non stare soltanto a guardarla.
Del resto, obbedisci ai medici: quand'essi ti proi-
biranno qualche pia pratica, sii obbediente, perchè
così ha ordinato Dio (3). Guarito che sarai e bene
in forze, riprenderai bel bello il tuo cammino (4).
Intanto al trai asciamento della meditazione ri-
medierai raddoppiando le orazioni giaculatorie e
(1) Camm. della perf., XI.
(2) L. MDCCXVI (t. x i x , pp. 361-2).
(3) EcclL, XXXVIII, 1.
(4) L. CCLXXX (t. x m , p. 32).
796
rimettendo tutto a Dio mercè una piena conformità
al suo beneplacito, che ti separa un poco da Lui
con il presentarti quell'impedimento a meditare;
questo per altro ti unisce a Lui più strettamente
con l'esercizio della santa e tranquilla rassegnazione.
Che c'importa di star con Dio in un modo o in un
altro? Invero, poiché cerchiamo Dio solo e non lo
troviamo meno nella mortificazione che nell'orazione,
massime quando egli ci prova con qualche infermità,
dobbiamo giudicar buono per noi tanto l'uno che
l'altro modo; e ciò senza dire inoltre che le giacu-
latorie, gli slanci del cuore sono vere e continue
orazioni, e la sofferenza dei mali è la più preziosa
offerta che possiamo presentare a Colui che ci ha
salvati soffrendo. Puoi anche farti leggere talvolta
un buon libro, che è pure un mezzo per supplire
alla meditazione (1).
Finché abbiamo il corpo sofferente, riesce ma-
lagevole innalzar il cuore alla piena considerazione
della bontà divina; questa è cosa propria soltanto
di chi ha la mente tutta rivolta al Cielo. Ma noi, .
ancora tutti impressionabili, abbiamo anime, che
alla sensazione dei travagli e dolori fisici facilmente
si distraggono; nessuna meraviglia quindi se du-
rante le malattie interrompiamo la pratica dell'o-
(1) L. DXXXV (t. xiv, pp. 167-8).
77

41.4 Page 404

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razione interiore. In quel tempo adunque basta,
come dicevo, far uso di giaculatorie e di sante aspi-
razioni; tanto più che, facendoci il male sospirare
di frequente,.non ci costa nulla sospirare in Dio e
a Dio e per Iddio, anziché mandar sospiri per fare
lamenti inutili (1).
Sul declinare degli anni bisogna prepararsi alle
malattie e agli incomodi. Signore Gesù, qual be-
neficio non è mai per un'anima consacrata a Dio il
venir provata dalla tribolazione prima che si di-
parta da questa vita! IN che modo si dà a cono-
scere l'amore sincero e vivo, se non fra spine, croci,
infermità, massime quando le infermità siano ag-
gravate dalla lunga durata? Così appunto il nostro
caro Salvatore dimostrò il suo amore immenso, con
l'intensità de' suoi travagli e patimenti. Egli ha
contato tutti i tuoi dolori, tutte le tue sofferenze,
e a prezzo del suo sangue ha acquistato tutta la
pazienza e tutto l'amore che è necessario a te per
santamente indirizzare tutte le tue pene alla sua
gloria e alla tua salvezza (2).
( 1 ) L . DCXII (t. xxv, P . 3 3 3 ) .
(2) L. MXLIH (t. x v i , p. 3 0 0 ) .
7
CAPO NONO.
Semplicità, modestia,
pietà.
§ 1. DELLA SEMPLICITÀ RELIGIOSA.
In che consista la semplicità.
Vediamo prima in che consista la tanto neces-
saria virtù della semplicità. Comunemente si dice
semplice una cosa che sia senza frange, non addop-
piata nè variegata. Così per esempio si dice vestita
con tutta semplicità una persona ché" non abbia at-
tillatura o soppanno nell'abito (parlo di soppanno
ammanierato o vistoso), ma indossa un vestito for-
mato di una stoffa sola e senz'altre aggiunte. Or-
bene, la semplicità consiste in una carità pura e
schietta, che abbia cioè un fine unico, quello di
acquistare l'amor di Dio, e la nostr'anima è sem-
plice, quando noi non abbiamo altra mira fuori di
questa in tutto ciò clie facciamo.
11 racconto di Marta e Maria (1), quando accol-
ti) Lue., x, 38-42.
799

41.5 Page 405

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sero in casa loro il Signore, è notevolissimo per
questo riguardo. Non vedi infatti come Marta, ben-
ché avesse il fine devotissimo di trattar bene il Si-
gnore, pure non fu senza riprensione da parte del
divin Maestro! Oltre il fine ottimo che aveva in
quel suo darsi attorno, essa guardava ancora nel
Signore l'uomo, e quindi credeva che egli fosse co-
me gli altri, a cui una sola vivanda o una qualità
sòia di apprestamento non basta; di qui quel suo
affannarsi per apparecchiargli cose diverse. Per tal
modo il suo primo fine dell'amor di Dio si com-
plicava in pratica per via di tante altre intenzion-
celle, di cui venne ripresa dal Signore: — Marta,
Marta, tu ti affanni in molte cose, mentre una sola
è necessaria, ed è quella scelta da Maria, che non
le sarà tolta. — Il puro esercizio di carità, che in
tutte le nostre azioni ci fa desiderare unicamente
di piacere a Dio, è dunque la parte di Maria, quella
che è la sola necessaria: qui sta la semplicità, virtù
inseparabile dalla carità, perchè mira direttamente
a Dio senza mai tollerare veruna mescolanza d'in-
teresse proprio, che sarebbe cosa incompatibile con
la semplicità: è una virtù che non ammette conco-
mitanza di creature nè alcun riguardo alle mede-
sime: dov'è semplicità, ivi è Dio solo.
Questa virtù è puramente cristiana. I pagani,
anche quelli che hanno parlato meglio delle altre
800
virtù, non ne ebbero la menoma idea, come nem-
meno dell'umiltà. Della magnificenza, della libera-
lità, della costanza hanno scritto benissimo; ma del-
la semplicità e dell'umiltà, nulla di nulla. È disce-
so il Signore in persona dal Cielo per dare agli uo-
mini la nozione dell'una e dell'altra virtù; senza
di questo essi avrebbero sempre ignorato una dot-
trina cotanto necessaria. Siate prudenti come il ser-
pente, disse Gesù agli Apostoli: ma fate ancora un
passo, siate semplici come la colomba (1). Impara
dalla colomba ad amar Dio con semplicità di cuo-
re, prefìggendoti un intento solo, un solo fine in
tutte le tue azioni. Non imitare però le colombe
soltanto nella semplicità dell'amore, con cui si ten-
gono unite a un compagno solo, per lui facendo
tutto quel che fanno e a lui esclusivamente cercan-
do di piacere; ma imitale anche nella semplicità,
con cui praticano e attestano il loro amore: poiché
le colombe non fanno tante cose nè tante dimo-
strazioni esterne, ma semplicemente tubano ai pro-
pri colombi, paghe di tener loro compagnia, quan-
do se li veggono vicini.
La semplicità sbandisce dall'anima il pensiero e
la sollecitudine, che tanti si prendono inutilmente
in cercare pratiche e mezzi, con cui potere, come
(1) MATT., x, 16.
801
26. - E. CERIA, La vita religiosa ecc.

41.6 Page 406

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dicono, amar Dio, sembrando loro che, se non fan
tutto quello che fecero i Santi, non vivranno mai
tranquilli. Poveretti! si torturano il cervello per
trovar l'arte di amare Dio, e non sanno che l'uni-
ca arte è quella di amarlo; s'immaginano che biso-
gni aguzzare l'ingegno per conseguire questo amo-
re, mentr'esso si trova unicamente nella semplici-
tà. E dicendo che qui l'arte non c'entra, non lo
dico per iscreditare certi libri intitolati: Arte di
amar Dio; poiché questi libri insegnano appunto
che vi è un'arte sola di amarlo, ed è amarlo, cioè
mettersi a praticare le cose da lui volute, tale es-
sendo l'unico mezzo per trovare e acquistare que-
sto santo amore, a patto che il tutto si faccia con
semplicità, senza turbamento e affanno. La sempli-
cità è inseparabile dai mezzi che vengono a ciascu-
no prescritti dalla propria vocazione per l'acqui-
sto dell'amor divino: per essa nella ricerca dell'a-
more di Dio va escluso ogni altro motivo che non
sia questo scopo medesimo; in caso diverso, addio
semplicità. Questa semplicitànon comporta verun'al-
tra mira, quanto si voglia perfetta, che non sia il
puro amor divino, unico oggetto delle sue aspira-
zioni. Mi spiego con un esempio. Tu vai in chiesa
e ti si domauda dove vai. — Vado in chiesa —
rispondi. — Ma perchè ci vai? — Ci vado per lo-
dare Iddio. — Ma perchè piuttosto a quest'ora che
0
in altro momento? — Perchè, sonata la campana,
mi farei notare, non andandovi. — Ottimo è il li-
ne di andare in chiesa per lodare Iddio; ma que-
sto motivo non è semplice, perchè la semplicità
. vuole che ci sia vada mossi dal desiderio di far
cosa grata a Dio, senza verun'altra mira; e così
in tutto il resto.
Semplicità e prudenza.
Qui, prima di procedere innanzi, è necessario sco-
prire un inganno che è nella mente di molti riguar-
do a questa virtù. Si pensa che la semplicità sia
contraria alla prudenza e che questa si opponga a
quella; ma non è così: non si danno mai virtù fra
loro contrarie, ma tutte sono strettissimamente ri-
nite le une alle altre. La virtù della semplicità è
opposta e contraria al vizio dell'astuzia, da cui
procedono furberie, artifici, doppiezze. L'astuzia è
un cumulo di finzioni, inganni, malizie; per mezzo
appunto dell'astuzia si escogitano le arti, con < ui
gabbare il prossimo e condurlo al punto da noi va-
gheggiato, che è di dargli a intendere che abbia-
mo in cuore il sentimento da noi espresso con pa-
role e con certi altri sottintesi intorno alla cosa,
della quale si tratta. Tutto questo è l'opposto della
803

41.7 Page 407

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semplicità, la quale esige che si abbia l'interno in
tutto e per tutto conforme all'esterno.
Con ciò non voglio dire che nelle nostre inquie-
tudini noi dobbiamo palesare al di fuori i nostri
sentimenti, quali ci passano dentro; no, non è contra-.
rio alla semplicità, in quel tempo, far mostra di
niente. Bisogna sempre saper distinguere tra effetti
della parte superiore ed effetti delle parte inferio-
re nell'anima nostra. Certe volte, è vero, si prova-
no dentro forti commozioni in casi di rimproveri o
di altre contrarietà; ma son cose che non proven-
gono dalla volontà nostra: tutto quel turbamento
sta nella parte inferiore, mentre la parte superiore
non vi acconsente, anzi approva, accetta e prende
in bene l'accaduto. Abbiamo detto che la sempli-
cità mira costantemente all'acquisto dell'amor di
Dio; ora l'amor di Dio esige da noi che si raffre-
nino i nostri sentimenti, che si mortifichino, che
si facciano dileguare: non richiede quindi che li
manifestiamo o li lasciamo trasparire. Dunque non
è mancare di semplicità, quando ci sentiamo agi-
tati dentro, il fare esteriormente buona cera. —
Ma non è un ingannare chi ci vede, l'essere tan-
to immortificati, e venir da altri ritenuti per vir-
tuosi? — Cotesto badare a ciò che si dirà o si pen-
serà di noi, è contrario alla semplicità; dicevamo
infatti che la semplicità ha in mira solamente di
contentar Dio e non le creature, delle quali non
tien conto se non per quel tanto che l'amor di Dio
esige. Un'anima semplice, fatta un'azione che ha
giudicato di dover fare, non vi pensa più; venen-
dole poi in mente quello che si dirà o penserà,
tronca lì senz'altro, non potendo tollerare alcuno
sviamento nel proposito che ha di star attenta al
suo Dio per accrescerne in sè l'amore. Il pensiero
delle creature non la tocca nè punto nè poco, per-
chè essa riferisce tutto al Creatore.
Semplicità con i superiori.
Si potrebbe anche domandare, se sia lecito non
isvelare per prudenza ai superiori cose che pensia-
mo dover turbar loro o noi, dicendole. La sempli-
cità guarda solamente se convenga dire o fare una
data cosa e, trovato che sì, dice e fa senza perder
tempo a considerare se ne venga turbamento al su-
periore o a noi: la semplicità tira avanti, accada
poi quello che Dio vorrà. Fatto il mio dovere, io
non mi debbo preoccupare d'altro.
Non è sempre necessario avere tanta paura di
turbamenti nostri o altrui;'poiché il turbarsi non è
per se stesso peccato. Se io so che, andando con
qualcuno, udrò parole che mi saranno causa di tur-
bamento e d'inquietudine, non sono tenuto per que-
805

41.8 Page 408

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sto di evitare quell'incontro, ma vi debbo andare
armato di confidenza nell'aiuto di Dio, che mi darà
forza per vincere la mia natura, alla quale voglio
far guerra. Quel turbamento si produce solo nella
parte inferiore dell'anima nostra; quindi non c'è da
smarrirsi, purché non venga da noi secondata, vale
a dire quando non consentiamo a quello che ci met-
tesse nella mente: contro di questo, sì, bisognerebbe
stare in guardia. Ma donde crediamo noi che derivi
il nostro turbarci? Dalla mancanza di semplicità:
si è perchè ci mettiamo spesso a considerare, che
cosa si dirà o si penserà di noi, invece di guardare
a Dio e a quello che ci può rendere più accetti
alla sua Bontà.
Ma, replicherai, dicendo la tal cosa al superiore,
rimarrò appresso più angustiato di prima. Ebbene,
se non la vuoi dire nè vi è necessità di dirla, per-
chè non hai bisogno di norme in proposito, risol-
viti presto senza perder tempo a riflettere, se glie
la devi o non glie la devi dire; non c'è motivo di
fare un'ora di riflessione sopra tutte le azioncelle
della nostra vita. Per altro, secondo me, sarebbe
meglio e più opportuno parlare francamente al su-
periore. La difficoltà che senti a farlo deriva da
immortificazione. Te lo ripeto: la semplicità ricerca
una cosa sola, ricerca l'amor di Dio, e questo non
si trova se non nella mortificazione di noi stessi;
quanto più la mortificazione progredisce, tanto più
noi ci avviciniamo al punto, dove incontreremo l'a-
more divino. Temi di recar noia al superiore? I
superiori debbono essere perfetti o almeno fare le
opere dei perfetti, e quindi hanno le orecchie sem-
pre aperte per ascoltare tutto quello che. si voglia
dir loro senza che per questo si mettano grande-
mente in pensieri. La semplicità non s'impiccia di
quel che facciano o che siano per fare gli altri, ma
bada a sè; per sè inoltre ritiene soltanto i pensieri
veramente necessari: quanto agli altri, ce ne disto-
glie sempre e subito la mente. È una virtù molto
affine all'umiltà, la quale non ci permette di avere
cattiva opinione di nessuno fuorché di noi stessi.
Semplicità nel conversare.
Vorrai sapere adesso in che modo si debba pra-
ticare la semplicità nelle conversazioni, perchè con
tante indoli diverse è impossibile dire sempre cose
approvate o trovate buone da tutti. Certo, sarebbe
una bella cosa poter adattare sempre le nostre pa-
role al sentimento e all'umore di ciascuno, sicché
non vi si trovasse mai niente da ridire; ma questo
è impossibile, nè vale la pena sforzarsi di riuscir-
vi, non essendo punto necessario. Ma bisogna stu-
diare tutte le parole da dire per evitar di disgu-
80?

41.9 Page 409

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stare qualcuno? Niente affatto, purché si stia alla
regola parlando soltanto di quel che si deve e che
serve a ricreare e a tener viva l'allegria; se ti ve-
nisse in mente dì dire cose d'altro genere, non do-
vresti dirle. Benché poi ci voglia schiettezza nel con-
versare, non bisogna mai essere sconsiderato, dicen-
do per diritto e per traverso tutto ciò che salta in
testa.
Mi dirai: — E se mi trovo con uno che sia un
po' malinconico e non abbia voglia di ascoltar me,
che sono in vena di ricrearmi? — In tal caso non
occorrono tante preoccupazioni. Che farci? quel tale
adesso è serio e malinconico e un'altra volta sarai
così tu; adesso tu fai la ricreazione per te e per lui,
e un'altra volta egli farà altrettanto a tuo riguar-
do. Sarebbe bella se, dopo aver detto qualche pa-
rola di spasso, ci mettessimo a osservare tutti i pre-
senti l'un dopo l'altro per vedere se ridono e se
approvano, e vedendo che taluno non lo fa, ce ne
affliggessimo e ci dessimo a pensare che non abbia
trovato buono il nostro motto o che l'abbia preso
in mala parte. No, non bisogna fare così: sarebbe
l'amor proprio a farci fare tale indagine e non sa-
rebbe procedere con semplicità, perchè la sempli-
cità tiene costantemente per norma l'amore di Dio.
Ma quand'anche ti accadesse di dire cosa che ti
sembrasse non da tutti accolta bene come vorre-
sti, non sarebbe il caso per questo di perderti in
riflessioni ed esami su tutte le tue parole; è certa-
mente l'amor proprio che ci suggerisce d'investigare,
se le cose dette e fatte da noi vengono ben accolte;
la santa semplicità non corre dietro alle parole o
alle azioni proprie, ma ne lascia l'effetto alla Prov-
videnza divina, a cui incondizionatamente si rimet-
te. Essa non si volge nè a destra nè a sinistra, ma
tira avanti per la sua strada. Se le si presenta l'oc-
casione di praticare qualche virtù, la coglie con
premura, valendosene come di un mezzo per arri-
vare alla sua perfezione, che è l'amor di Dio; ma,
pur non disprezzando simili occasioni, non si af-
fanna a ricercarle. La semplicità, senza mai turbar-
si di nulla, si mantiene sempre calma e tranquilla,
sicura com'è che Dio conosce il suo desiderio di
piacere a lui, e tanto le basta.
Semplicità in caso di urti o di avversioni.
Dovremo rispondere con tutta semplicità, allor-
ché taluno ci domandi se siamo rimasti mortificati
per qualche cosa da lui detta o fatta a noi? È una
domanda che non si dovrebbe fare; tuttavia se si
tratta di persona che non venga a perdere per que-
sto la confidenza e se la cosa sta così, rispondi pure
con tutta semplicità affermativamente, soggiungen-
809

41.10 Page 410

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dole che non lasci dopo di trattarti sempre con
tutta libertà, perchè tu glie ne sarai grato. Ma se
dubiti che la persona si adombri, puoi benissimo
risponderle in modo che ti continui la sua fiducia.
È un errore di tanti il credere che usar modi carez-
zevoli e dar segni di amicizia a coloro, per i qual
si sente avversione, siano atti di doppiezza e di fin-
zione, mentre non è così; poiché le avversioni sono
involontarie e risiedono nella parte inferiore dell'a-
nima e vengono rigettate dalla volontà, benché per
altro non se ne vadano. I tratti di amorevolezza
usati con chi ci desta avversione, provengono dalla
ragione, la quale ci dice che bisogna mortificarsi
e passar sopra; quindi, sebbene abbiamo un senti-
mento del tutto contrario al nostro parlare e al no-
stro agire, non per questo manchiamo contro la sem-
plicità, perchè noi sconfessiamo simili sentimenti
come estranei: e tali sono in realtà. Dove si vede
quanto sia grande la follìa dei mondani, che si van-
tano di semplicità, perchè non fanno buon viso ai
loro nemici, dicendo che così procedono con fran-
chezza e senza infingimenti.
Non è male neppure far sembiante di non voler
fare una cosa, alla quale ci sentiamo fortemente in-
clinati ; perchè un tal desiderio, per quanto vivo, sta
nella parte inferiore, mentre nella parte superiore
si vuole altramente. Insomma, bisogna persuadersi
in tutte le cose che gli effetti della parte inferiore
e sensitiva dell'anima non si devono tenere in nes-
sun conto, nè più nè meno che se non ne avessimo
la percezione (1).
Semplicità nella direzione e vita spirituale.
Ora una parola intorno alla semplicità, con cui
dobbiamo lasciarci condurre nella nostra vita inte-
riore, tanto da parte di Dio che dei nostri superio-
ri. Vi sono anime, le quali, a sentir loro, vogliono
essere condotte solo dallo Spirito di Dio e così scam-
biano tutte le loro fantasie per ispirazioni e movi-
menti dello Spirito Santo, che le pigli per mano e
le conduca, come si usa coi bambini, in tutto quello
che vogliono fare; ma è certo che s'ingannano e di
grosso. Yi fu mai vocazione speciale più della vo-
cazione di San Paolo, quando il Signore gli parlò
egli stesso per convertirlo? Eppure non lo volle i-
struire, ma lo indirizzò ad Anania, dicendo: — Va',
troverai un uomo che ti dirà quello che devi fare (2).
— E sebbene San Paolo potesse rispondere: — Ma,
Signore, perchè non me lo dici tu? — non lo fece,
ma con tutta semplicità andò a fare come gli era
(1) E. xn (t. vi, pp. 202-212).
(2) Act., ix, 4-7.
811

42 Pages 411-420

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42.1 Page 411

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stato comandato. E noi altri ci crederemo favoriti
da Dio più di San Paolo, supponendo che ci voglia
condurre egli stesso senza intromissione di creatu-
re? Una buona figliuola si era fitto in mente di non
dover fare nulla fuori di quanto le avrebbe di mano
in mano detto o ispirato il suo Sposo celeste, sic-
ché per la madre era un bell'impiccio: la chiama-
va per andar a Messa o a mensa, e quella rispon-
deva che l'avrebbe fatto non appena lo Sposo vo-
lesse: cosicché ogni volta bisognava aspettare la
voce dello Sposo. Ma la voce dello Sposo per le
nostre anime dev'essere l'obbedienza; per mezzo
dell'obbedienza Dio ci guida: fuori di lì tutto è in-
ganno.
Non tutti certamente sono condotti per la me-
desima strada; ma non è nemmeno alla portata di
ognuno conoscere quale sia la strada per cui Dio
ci chiama. Questo spetta ai superiori, che da Dio
hanno lume per farlo. Nè si dica che non ci cono-
scono bene: persuadiamoci piuttosto che l'obbedien-
za e sottomissione sono sempre i veri contrassegni
della buona ispirazione. Può darsi che uon provia-
mo gusto negli esercizi che ci fanno fare, e che mol-
to gustiamo di altri; ma non dal gusto si giudica
della bontà delle nostre azioni. Non affezioniamoci
alle soddisfazioni personali, che sarebbe un affezio-
narci ai fiori e non al frutto. Seguendo nel tuo o-
perare le direttive de' tuoi superiori, n'avrai mag-
gior vantaggio che non secondando i tuoi impulsi
interni, provenienti ordinariamente dall'amor prò.
prio, il quale sotto colore di bene cerca il suo sod-
disfacimento nella vana stima di noi stessi.
La verità è questa, che il tuo bene consiste nel
lasciarti condurre e governare senza riserva dallo
Spirito di Dio: ecco quello che esige la vera sem-
plicità cotanto raccomandata dal Signore. Siate sem-
plici come le colombe, dice egli a' suoi apostoli; e
non si ferma lì, ma aggiunge: Se non diventerete
Semplici come fanciulli f non entrerete nel regno del
Padre mio (1). Un fanciullo, fintanto che è piccolo,
è tutto semplicità; non conosce altri che la madre,
non ama altri che la madre: in grembo a lei posato,
altro non chiede. Così l'anima che possegga la per-
fetta semplicità, ha un amore solo, ed è per Iddio;
ha un'unica aspirazione, quella di riposare sul pet-
to del Padre celeste; ivi come figlia amorosa fa sua
dimora, lasciando interamente la cura di sé al suo
buon Padre senza darsi più pensiero di nuli'altro
che di mantenersi in questa santa confidenza: non
la turbano nemmeno i desideri delle virtù e delle
grazie che le parrebbero necessarie. Non trasanda
nulla, è vero, di quanto incontra lungo il suo cam-
(1) MATT., XVIII, 3.
813

42.2 Page 412

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mino; ma neppure si affanna in cerca d'altri mezzi
di perfezione che non siano quelli prescritti. A che
prò inoltre tanti desideri ansiosi e inquieti di virtù,
la cui pratica non sia necessaria? La dolcezza, l'a-
more della nostra abbiezione, l'umiltà, la carità e
cordialità soave col prossimo, l'obbedienza sono vir-
tù, delle quali dobbiamo aver familiare la pratica,
essendoci esse tanto necessarie per le frequenti oc-
casioni che ci si presentano di esercitarle; ma del-
l'intrepidezza, della magnificenza e di virtù somi-
glianti, che non avremo forse mai occasione di pra-
ticare, non diamoci pensiero.
Il fin qui detto valga anche per l'orazione. An-
che qui bisogna procedere invariabilmente per via
di semplicità, rimettendo in tutto e per tutto al be-
neplacito di Dio anima, atti e risultati con un amo-
re di piena e assoluta confidenza, non già cercando
soddisfazioni e consolazioni. Queste non appagano
gli occhi di Dio, ma contentano solo il meschino amo-
re, la meschina sollecitudine che abbiamo di noi stes-
si, senz'alcun riguardo a Dio. I fanciullini, che il
Signore ci addita a modelli della nostra perfezione,
non si preoccupano generalmente di nulla, massime
alla presenza del padre e della madre, ai quali si
tengono stretti senza volgere il pensiero alle loro
soddisfazioni e consolazioni; se ne prendono, ma al-
la buona, godendole con semplicità, e non dandosi
cura d'indagarne le cause e gii effetti, assorbiti co-
me sono dall'amore, che non li lascia badare ad al-
tro. Così chi attende amorosamente a cercare il
beneplacito del celeste Amante, non ha nè voglia
nè agio di ripiegarsi su di sè, avendo la mente sem-
pre tesa dalla parte ove l'amore lo piega.
Questo esercizio del continuo abbandono di sè
nelle mani di Dio comprende nella sua perfettissi-
ma semplicità e purezza, e in grado eccellente, tut-
ta la perfezione degli altri esercizi; quindi finché Dio
ce ne fa la grazia, non dobbiamo pensare a cambiar-
lo. Le anime immorate di Dio si rimirano bensì di
quando in quando, come le colombe che stanno lun-
go i ruscelli delle acque più pure (1), per vedere se
sono in tale assetto da piacere al loro divino Aman-
te; e questo fanno negli esami di coscienza, in cui
si nettano, si purificano, si adornano meglio che pos-
sono, non per essere inappuntabili, non per propria
soddisfazione, non per il desiderio di progredire nel
bene, ina per obbedire allo Sposo, per il rispetto che
gli portano, per la brama di contentarlo. Questo è
amore puro e semplice; esse infatti non si purificano
per essere pure, non si acconciano per essere bel-
le, ma unicamente per piacere al divino Amante, al
(1) Cant., v, 12.
815

42.3 Page 413

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quale se piacesse che fossero brutte, vorrebbero
egualmente essere tali.
Concludiamo questo punto. San Francesco,
quando mandava i suoi figli in giro per le terre, da-
va loro per tutta scorta in luogo di denaro, questo
ammonimento: Gettate nel seno del Signore la vostra,
ansietà ed egli vi sostenterà (1). Io ti dico lo stesso:
getta interamente nel seno paterno di Dio cuore,
desideri, sollecitudini, affetti ed egli ti condurrà, an-
zi ti porterà dove il suo amore ti vuole.
Ascoltiamo e imitiamo il divin Salvatore che, qua-
le Salmista perfettissimo, canta i sublimi slanci del
suo amore dall'albero della croce, conchiudendoli
tutti con questi accenti: Padre, nelle tue mani racco-
mando il mio spirito (2). Detto questo, che altro ci
rimane se non spirare morendo di morte d'amore,
cioè non più vivendo per noi, ma lasciando che in
noi viva Gesù Cristo? (3). Avranno termine allora
tutte le inquietudini del nostro cuore, provenienti
dal desiderio ciie l'amor proprio ci suggerisce, e
dall'affettuosità che nutriamo dentro di noi per
noi stessi, donde il segreto affannarci nella ricerca di
personali soddisfazioni e perfezionamenti. Imbar-
(1) Ps., LIV, 23.
(2) L o c . , XXIII, 46.
(3) Galat., il, 19, 20.
816
cati, per dir così, negli esercizi propri della nostra
amorosa vocazione, sospinti dal vento di questa sem-
plice e amorosa confidenza, faremo senz'accorgerci
grandi progressi: senza camminare andremo innan-
zi, senza muoverci dal posto guadagueremo spazio,
come quei che vanno a gonfie vele in alto mare. Al-
lora avvenimenti e varietà di casi sono accolti con
dolcezza e soavità; perchè, quand'uno è fra le brac-
cia di Dio e riposa nel suo grembo, tutto abbando-
nato al suo amore e affidato al suo beneplacito, che
cosa lo potrebbe mai scuotere e commuovere? In
qualsiasi occorrenza egli non istarà punto a filosofa-
re sopra le cause, le ragioni, i motivi di quel che
avviene, ma con assenso cordiale ripeterà le parole
del Salvatore: Sì, o Padre, perchè così è piaciuto a
te (1).
Allora anche ci struggeremo di dolcezza e soavi-
tà con i nostri fratelli di religione e gli altri prossimi,
perchè ne vedremo le anime nel petto del Salvatore.
Chi guarda il prossimo fuori di lì, corre pericolo di
non amarlo con purezza, costanza e uniformità; ma
nel petto del Salvatore chi non lo amerebbe, chi non
lo sopporterebbe, chi non ne tollererebbe le imperfe-
zioni, chi lo troverebbe sgraziato, chi noioso? Orbe-
ne, questo prossimo sta davvero nel petto del Salva-
t i ) MATT., XI, 26.

42.4 Page 414

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tore; vi sta amatissimo e cotanto amabile, che il
suo Amante muor d'amore per lui. Guardando così
il prossimo, anche ogni amor naturale ne verrà puri-
ficato e subordinato all'amore purissimo del divino
beneplacito. Per le anime che aspirano alla perfe-
zione, sarebbe certo una gran bella cosa il desiderare
di essere amate dalle creature unicamente con quel-
l'amore di carità che fa voler bene al prossimo non
solo secondo il grado di ciascuno, ma anche nel
modo voluto dal Signore.
Prudenza nella semplicità.
Prima di terminare, bisogna aggiungere ancora
una parola al già detto intorno alla prudenza del
serpente; poiché, fermandomi quasi solo alla sem-
plicità della colomba, mi sentirei tosto tirar fuori il
serpente. Si è domandato che serpente fosse quel-
lo, da cui il Signore voleva che noi imparassimo la
prudenza. Omettendo tutte le altre risposte che si
potrebbero dare a questa domanda, prendiamo qui
le parole del Salvatore: Siate prudenti come il ser-
pente, nel senso che dobbiamo imitare il serpente
allorché esso, venendo assalito, espone tutto il corpo
per salvare la testa. Così dobbiamo fare noi, ri-
schiando tutto, allorché la necessità lo richiede, per
conservare sano e salvo in noi il Signore e l'amor
suo; egli infatti è il nostro capo (1) e noi siamole
sue membra (2). Ecco la prudenza della nostra sem-
plicità.
Aggiungerò un'osservazione. Vi sono due sorta
di prudenza, una naturale e l'altra soprannaturale.
La naturale venga mortificata, perchè non è sempre
interamente buona, suggerendoci talora considera-
zioni e accorgimenti non necessari, che portano lo
spirito ben lungi dalla semplicità. Ma la vera virtù
della prudenza si pratichi davvero, perchè è un sale
spirituale che dà gusto e sapore a tutte le altre
virtù (3).
§ 2. DELLA MODESTIA RELIGIOSA.
La vera modestia.
Che cosa è la vera modestia! Per rispondere a
questa domanda io dirò che quattro virtù portano
ciascuna il nome di modestia. La prima, e questa
lo porta per eccellenza fra le altre, è la compostezza
nel contegno esteriore; due vizi le si oppongono, la
leggerezza, cioè l'eccessiva libertà nei gesti e'lie-
ti) SpA., IV, 15; Col., i, 18.
(2) / Cor., vi, 15.
(3) E. XII (T. vi, pp. 214-222).
819

42.5 Page 415

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gli atteggiamenti, e l'affettazione. La seconda virtù
che porta il nome di modestia è la compostezza in-
teriore dell'intelletto e della volontà: anche a que-
sta si oppongono due vizi, uno dei quali è nell'in-
telletto la curiosità cou la moltitudine de' suoi de-
sideri di sapere e intendere tutte le cose e con l'in-
costanza in ciò che prendiamo a fare, passando da
questo a quello senza mai fermarci in nulla; l'altro
vizio è una certa apatia e accidia di spirito, che
non si cura nemmeno di sapere nè di apprendere
le cose necessarie alla nostra perfezione, difetto uon
men pericoloso del precedente. La terza specie di
modestia sta nel nostro modo di parlare, conver-
sando col prossimo; essa ci fa evitare due imper-
fezioni che le si oppongono, e sono la rustichezza
e la loquacità: la rustichezza che c'impedisce di por-
tare il nostro contributo al ricreameuto di un lieto
conversare, e la loquacità che ci mette talmente in
moto la lingua da non dar tempo anche agli altri
di parlare. La quarta è la decenza e correttezza nel
vestire; i due vizi ad essa contrari sono la sciat-
teria e la superfluità.
Modestia esteriore.
La prima specie di modestia, ossia la compo-
stezza nel contegno esteriore, è sommamente com-
0
mendevole per parecchi motivi, e anzitutto perchè ci
tiene molto bene a dovere; non c'è virtù che ri-
chiegga un'attenzione così minuta: e in questo far-
ci stare a segno consiste il suo gran pregio, per-
chè tutto quello che ci mette a posto dinanzi a Dio,
ci riesce assai meritorio e torna a Dio mirabilmeu-
te accetto. 11 secondo motivo è che non ci fa sta-
re in regola soltanto per qualche tempo, ma in
ogni tempo e in ogni luogo, da soli e in compagnia
e financo dormendo. Devi coricarti con modestia
alla presenza di Dio, come faresti, se il Signore
fosse ancora in vita, e tu ricevessi da lui il coman-
do di metterti a letto e di dormire alla presenza
sua. Benché infatti tu non lo vegga e non lo oda,
pure non omettere di fare tutto come se lo vedessi,
perchè in realtà egli ti è presente e ti guarda, men-
tre tu dormi. O mio Dio, con quanta modestia e di-
vozione non ci coricheremmo, se vi vedessimo! Ce
ne staremmo senza dubbio con le braccia divotissi-
mamente incrociate sul petto. La modestia dunque
ci fa star a dovere in ogni occasione e per tutto
il tempo della nostra vita, grazie alla considerazio-
ne che ci sono ognora presenti gli Angeli e Dio
medesimo, gli òcchi del quale fanno sì che ci por-
tiamo dovunque con modestia.
Questa virtù è grandemente raccomandata an-
che per l'edificazione del prossimo: infatti la sem-
821

42.6 Page 416

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plice modestia esteriore ha convertito molti. Così
san Francesco passò una volta per una città con
tanta modestia nel suo contegno, che, senza eli'ci
dicesse una parola, buon numero di giovani, attratti
solamente dal suo esempio, lo seguirono per ascol-
tarne gl'insegnamenti. La modestia è una predica-
zione muta; è virtù altamente raccomandata da san
Paolo ai Filippesi (1) con quelle parole: Fate che
la vostra modestia sia visibile a tutti gli uomini. Fi
dove dice al discepolo san Timoteo (2) che un Ve-
scovo dev'essere ornatus, bisogna intendere adorno
di' modestia, non di ricche vesti, affinchè con la
modestia del fare ispiri a tutti la confidenza di ac-
costarlo, schivando egualmente la rusticità e la leg-
gerezza, sicché, mentre si rende accessibile ai mon-
dani, questi non lo credano mondano al par di loro.
A tre cose sta attenta la modestia: al tempo, al
luogo e alla persona. Dimmi: chi in ricreazione non
volesse ridere se non come si ride fuori di quel tem-
po, non riuscirebbe importuno? Vi sono tratti e
atteggiamenti che fuori d'allora sarebbero contrari
alla modestia, ma che allora non sono tali uient'af-
fatto. Così, chi volesse ridere durante occupazioni
serie, esilarando lo spirito com'è ragionevolissimo
(1) PAH., iv, 5.
(2) / Tim., HI, 2.
822
di fare nelle ricreazioni, non passerebbe per leg-
gero e privo di modestia? Bisogna anche tener con-
to del luogo, delle persone, delle conversazioni a
cui si prende parte, ma in modo particolarissimo
della qualità speciale d'ogni individuo. La mode-
stia di una donna del mondo non è quella di una
religiosa; una fanciulla che, vivendo nel mondo,
volesse stare con gli occhi bassi come fanno le
suore, non vi sarebbe tenuta in stima, del pari che
le suore, se non li tenessero bassi più delle fan-
ciulle del mondo. Quello che è modestia per un
uomo, sarà immodestia per un altro a motivo della
differente condizione; la gravità, che s'addice gran-
demente a una persona attempata, sarebbe affet-
tazione in altra più giovane, alla quale conviensi
un fare più andante e deferente.
Bacconterò un fatto, che si riferisce al nostro
argomento (1). Il grande sant'Arsenio, scelto dal
Papa san Damaso a istitutore di Arcadio, figlio
dell'Imperatore Teodosio e destinato a succedergli
nel governo dell'impero, dopo essere vissuto parec-
chi anni molto onorato in corte, benché fosse favo-
rito dell'imperatore e uomo di mondo, finì con an-
noiarsi di tante vanità; sicché, quantunque vivesse
colà non meno da buon cristiano che da uomo d'o-
(1) SURIO; sotto il 19 luglio.
2

42.7 Page 417

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nore, risolvette di ritirarsi nel deserto con quei
santi Padri dell'eremo. Con gran coraggio mandò
ad effetto il suo divisamento. I Padri, clie cono-
scevano per fama la virtù di quel gran Santo, fu-
rono ben lieti e contenti di averlo in loro compa-
gnia. Egli prese a frequentare specialmente due
religiosi, uno dei quali aveva nome Pastore, strin-
gendo con essi intima amicizia. Un giorno, mentre
i Padri stavano adunati per una conferenza spiri-
tuale (vi è stato sempre il costume di tenerne fra
le persone pie) qualcuno fece osservare al superiore
come Arsenio fosse solito commettere un'immode-
stia, tenendo una gamba cavalcioni sull'altra. —
È vero, disse il Padre, l'ho notato anch'io; ma è un
buon uomo, vissuto a lungo nel mondo: ha portato
quest'abitudine dalla corte; che farci? — Lo scu-
sava così, perchè gli dispiaceva fargli dispiacere,
riprendendolo per una coserella simile, nella quale
non c'era peccato; ma d'altro canto aveva deside-
rio di vedernelo corretto, perchè non trovava, in lui
altra cosa da riprendere. Il religioso Pastore allora
disse: — Padre, non datevi pensiero; non ci vorrà
tanto a dirglielo, egli ne sarà ben contento; perciò
domani, se mi lasciate fare, durante la riunione io
mi metterò nella stessa positura, voi mi correggere-
te dinanzi a tutti, e così egli capirà che non bisogna
più farlo. — Quando pertanto il Padre fece la cor-
824
razione a Pastore, -il buon Arsenio gli si gettò ai
piedi, chiedendo umilmente perdono e dicendo che,
sebbene la cosa non fosse stata notata, pure egli
aveva sempre commesso quel difetto; che quello
era stato il suo atteggiamento consueto alla corte;
che ne chiedeva la penitenza. Penitenza non gli
fu data, ma non lo si vide mai più in quell'attitu-
dine.
In questo fatto io trovo parecchie cose molto
degne di considerazione. Prima di tutto, la pru-
denza del superiore nel non voler disgustare il
buon Arsenio con una correzione di sì poca impor-
tanza, ma nondimeno cercando il mezzo di farnelo
corretto; nel che si vede come quei Padri antichi
fossero tutti esattissimi in ogni minima cosa che
riguardasse la modestia. Rilevo poi la bontà di Ar-
senio nel chiamarsi in colpa e la sua prontezza a
correggersi, benché si trattasse di cosa tanto leg-
gera, che non costituiva immodestia a corte, men-
tr'era giudicata al contrario fra quei Padri. Fac-
cio inoltre osservare che non dobbiamo stupirci noi
di aver ancora qualche vecchia abitudine mondana,
se aveva ancora quella Arsenio, dopo essere dimo-
rato a lungo nel deserto in compagnia di quei santi
uomini. Non è possibile sbarazzarsi tanto presto
di tutte le proprie imperfezioni, nè bisogna che
facciam le meraviglie di vederne molte in noi stessi,
2

42.8 Page 418

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purché vi sia la volontà di combatterle. Nota di
più come non sia giùdicar male il pensare che dal
superiore si faccia ad alcuno la correzione di una
colpa che tu commetti al par di quello, affinchè
tu senza ricevere correzione ti emendi da per te;
ma devi umiliarti profondamente al vedere come
il superiore riconosca la tua debolezza e sappia
purtroppo che ti risentiresti della correzione, se te
la facesse. Bisogna infine aver cara in tali circo-
stanze l'abiezione, umiliandoci come Arsenio col
confessarci colpevoli, ma facendo sempre questo
atto di umiltà con dolcezza e tranquillità di spirito.
Modestia interiore.
Veniamo alla seconda specie di modestia, quel-
la interiore, la quale produce nell'anima gli stessi
effetti che l'altra nel corpo. Questa atteggia i mo-
vimenti, i gesti, i portamenti della persona in mo-
do da evitare i due estremi, cioè i due vizi contra-
ri della leggerezza o soverchia libertà e dell'affetta-
zione. Così pure la modestia interiore ci mantiene
le potenze dell'anima in tranquilla compostezza,
facendoci evitare, come dicevo, la curiosità dell'in-
telletto, sul quale esercita particolarmente il suo
influsso, e sbandendoci dalla volontà la folla dei
desideri col tenerla santamente occupata in quella
826
sola cosa che Maria scelse e che non le terrà, tolta
(1), cioè nel proposito di piacere a Dio. Marta rap-
presenta benissimo l'immodestia della volontà, per-
chè si affanna, mette m moto i servi della casa., va
in qua e in là senza posa, tanta voglia ha di trat-
tar bene il Signore, e non le sembra mai che ba-
stino le vivande per apprestargli una lauta mensa.
Così la volontà non tenuta in freno dalla modestia
salta di cosa in cosa a fine di eccitarsi all'amore
di Dio, andando in cerca di mezzi svi mezzi per
servirlo, mentre non è necessario affaccendarsi
tanto. Val meglio stringersi a Dio come la Madda-
lena standosene a' suoi piedi e domandandogli il
suo amore, anziché pensar continuamente ai modi
e ai mezzi di acquistarlo. Questa modestia mantie-
ne salda la volontà nell'uso di quelli fra i mezzi
di progredire nell'amor di Dio che sono propri del-
la nostra vocazione.
Ho detto che questa modestia esercita il suo
influsso specialmente sull'intelletto. Da una parte
ne rintuzza la tanto pericolosa curiosità naturale,
che non ci lascia mai approfondire abbastanza le
cose, perchè non ci permette d'impiegarvi il tempo
necessario per ben apprenderle. Dall'altra parte
schiva l'estremo opposto che è l'apatia e accidia
(1) Lue., x, 42.
2

42.9 Page 419

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dello spirito, non curante di conoscere quello che è
necessario. Ora questa disciplina dell'intelletto è
cosa della massima importanza per la nostra per-
fezione; perchè se, mentre la volontà si affeziona
a un oggetto, l'intelletto si fa a mostrarle la bel-
lezza di un altro, la viene a distogliere dal primo.
Le api non istanno ferme, finché sono senza re-
gina; quindi allora non fan che svolazzare per l'a-
ria, dissiparsi, smarrirsi, senz'avere quasi mai un
momento di requie nell'alveare; ma, appena sia
nata la regina, le • stanno tutte radunate intorno,
uscendo solo per la raccolta e*secondo l'ordine del-
la sovrana. Così, intelletto e volontà, passioni e
facoltà dell'anima, a guisa di api spirituali, finché
non abbiano un re, fino a quando cioè non si sia-
no scelto per Ee il Signore, non godono quiete;
i sensi non cessano di sbizzarrirsi dietro le curio-
sità, tirandosi appresso le facoltà interne a dissi-
parsi ora sopra un oggetto ora sopra un altro; don-
de un continuo travaglio di spirito, una continua
inquietudine che ci fanno perdere la pace e la tran-
quillità, cotanto a noi necessarie. Ecco l'effetto
del non aver modestia nell'intelligenza e nel volere.
Ma non appena le nostre anime si siano scelto il
Signore per unico e supremo Ee, le potenze si cal-
mano a guisa di caste api mistiche, si mettono vi-
cino a lui, non escono più dall'alveare, fuorché per
raccogliere atti di carità, che il santo Ee ordina
loro di praticare col prossimo; poi ecco che subito
rientrano nella modestia, in un'amabile e santa cal-
ma, per formare e mettere insieme il miele dei san-
ti e amorosi pensieri e affetti, che vengono rica-
vando dalla sua sacra presenza. Con ciò eviteran-
no i due estremi suddetti, stroncando da un lato
la curiosità della mente con il rivolgerne tutta l'at-
tenzione a Dio, e dall'altro l'apatia e accidia del
cuore con il praticare le opere di carità verso il
prossimo, secondochè esigeranno le circostanze.
Abbiamo un esempio notevole intorno a questa
materia. Domandò una volta un religioso al gran-
de san Tommaso in che modo avrebbe potuto diven-
tare assai dotto. — Leggendo un libro solo, — n'eb-
be in risposta. Sant'Agostino nella sua Eegola per
religiose (1) dice espressamente che le Suore non
leggano mai altri libri fuori di quelli dati loro dalla
superiora; è una raccomandazione che egli ripete
poi anche a' suoi religiosi (2), tanto bene conosce-
va il male causato dalla curiosità di voler sapere
cose diverse da quelle che ci sono necessarie per
servir meglio Iddio, e che si riducono a ben poco,
giacché, camminando con semplicità nell'osservan-
ti) Epist. ccxi, 13.
(2) Reg. ad servos Dei, 9.
829

42.10 Page 420

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za della tua Regola,, tu servirai Dio a perfezione,
senza bisogno di esaurirti nello sforzo di apprende-
re tante cose. Non occorre scienza per amare Dio,
come disse già san Bonaventura; poiché una don-,
nicciuola è capace di amarlo così come gli uomini
più dotti del mondo. In quello che riguarda la
perfezione, poca scienza ci vuole e molta pratica.
A proposito del pericolo che s'incontra nella
curiosità di voler conoscere tanti mezzi di perfezio-
ne, mi ricordo d'aver parlato con due persone re-
ligiose, appartenenti a due Ordini molto osservanti,
una delle quali a forza di leggere libri di santa Te-
resa, imparò così bene a parlare com'essa, che sem-
brava una piccola Madre Teresa; si credeva anzi
addirittura di essere tale, rappresentandosi in ma-
niera così viva all'immaginazione quanto aveva
fatto la Santa nel corso della sua vita, che si fi-
gurava di fare essa pure il medesimo, e di fare, e
di sperimentare in sè financo gli effetti mistici, di
cui leggeva nella Santa, sicché ne parlava magnifi-
camente. L'altra religiosa invece aveva tendenze
molto diverse, perchè non finiva mai di cercare e
desiderare la via della perfezione, e per quanto
faticasse a tale scopo, le sembrava sempre che ri-
manesse qualche altro metodo di perfezione diver-
so da quello insegnatole. La prima almeno viveva
soddisfatta della sua santità immaginaria, senza
cercare o desiderare di meglio; la seconda invece
passava i suoi giorni scontenta, perchè, non veden-
do mai in sè la perfezione^ aveva sempre nuove
brame. La modestia interiore tiene l'anima in uno
stato di mezzo fra questi due estremi, limitando i
desideri di sapere a quello che è necessario, e nul-
la più.
Si noti ancora che la modestia esterna giova
grandemente a quella interna, non che ad acqui-
stare la pace e tranquillità dell'anima. Prova ne sia
la testimonianza di quelli fra i santi Padri, che fe-
cero professione specialissima di orazione: poiché
tutti furono d'avviso che la positura più modesta
fosse in questo di gran giovamento, come lo stare
in ginocchio, il tenere le mani giunte o in croce, e
simili.
Domanderai se sia contro la modestia tenere la
testa curva o piegata sulla spalla o voltare in su
gli occhi. Rispondo che se si fa così senza pen-
sarvi, non c'è gran male; l'importante è che non si
affettino questi modi di fare, quasiché fossero cose
di rilievo per la divozione; il contegno affettato
si deve aborrire schivando studiosamente di fare
il mnctificetur, qualora non vi sia dietro il nomen
tuum, di fare cioè i di voti e santi 50I0 all'esterno,
come feci io una volta. Da giovane studente mi
venne un desiderio acceso di essere santo e per-
831

43 Pages 421-430

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43.1 Page 421

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fetto; cominciai quindi a mettermi in testa che per
riuscirvi mi bisognasse torcere il collo nel dire le
Ore, perchè un altro studente, che era santo dav-
vero, faceva così; lo feci dunque anch'io con ogni
diligenza per qualche tempo, senza per questo di-
venire più santa.
Modestia nel parlare.
La terza specie di modestia concerne le parole
e la maniera del conversare. Vi sono parole che
costituirebbero immodestia in qualsiasi altro tem-
po che non fosse quello di ricreazione, in cui è giu-
sto e ragionevolissimo allentare un poco l'attenzione
dello spirito: e chi pretendesse allora di parlare o di
far parlare solo di cose alte e rilevanti, commette-
rebbe immodestia; non abbiamo noi detto che la mo-
destia tiene conto dei tempi, dei luoghi e delle per-
sone? San Pacomio prima di andare al deserto per
far vita monastica, ebbe gravi tentazioni, nelle quali
gli spiriti maligni gli comparivano sovente sotto di-
verse forme. Dice il suo biografo che un giorno, an-
dando il Santo per un bosco a tagliar legna, gli si
fece incontro un grosso stuolo di spiriti infernali per
incutergli spavento, schierandosi davanti a lui come
soldati che montino la guardia, armati fino ai denti
e gridandosi l'uno all'altro: — Largo al santo! —
832
San Pacomio, che conosceva benissimo le fanfaro-
nate dello spirito maliguo, sorrise e disse: — Voi
altri volete burlarvi di me; ma io, a Dio piacendo,
mi farò santo davvero. — Allora il demonio, visto
che non l'aveva potuto trarre in inganno nè far ca-
dere in tristezza, pensò di prenderlo dal lato del-
l'allegria; se n'andò pertanto a legare grosse funi alla
foglia di un albero e parecchi demordi si attacca-
rono a quelle funi, come per tirare con gran vio-
lenza, gridando e sudando, quasi vi durassero stra-
ordinaria fatica. Il buon Santo, alzando gli occhi
e scorgendo tanta follia, si richiamò alla mente il
Signore confitto sull'albero della croce; sicché i de-
monii, vedendo che il Sauto badava al frutto del-
l'albero e non alle foglie, se ne partirono confusi
e scornati.
Vi è il tempo di ridere e il tempo di non ride-
re; così pure vi è il tempo di parlare e di tacere
(1), come ci ha mostrato il glorioso Santo in
quelle tentazioni. Questa modestia accomoda la
nostra maniera di parlare in gu:sa da renderla pia-
cevole; la quale cosa si ottiene col parlare non trop-
po adagio nè troppo in fretta, ma stando nei limiti
di una santa moderazione e lasciando parlare chi
parla, senza punto interromperlo, che sarebbe lo-
ti) Eccles., Ili, 4, 7.
833
2". - E. CERIA, La vita religiosa ecc.

43.2 Page 422

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quacità, ina parlando tuttavia a vicenda per evita-
re la rustichezza e quell'aria di sufficienza che è di
ostacolo alla pratica del bel conversare. Spesso an-
che ci troviamo in occasioni, nelle quali è necessario
dire molto tacendo, serbando cioè modestia, sere-
nità, pazienza e calma.
Modestia nel vestire.
La quarta specie di modestia si riferisce agli
abiti e all'abbigliamento. Qui non c'è molto da dire.
Si eviti nelle vesti la sciatteria e la sconvenienza,
come pure l'estremo opposto della soverchia attil-
latura e affettazione; da san Bernardo era assai
raccomandata la nettezza, come buon indizio di
anima pura e monda. Nella vita di sant'Ilarione si
lègge una cosa chè a primo aspetto sembra contrad-
dirci su questo punto; giacché, parlando un gior-
no con persona di riguardo venuta a visitarlo, il
Santo disse non essere necessario pretendere la net-
tezza in un cilicio, volendo significare che non bi-
sogna poi cercare tanto la nettezza nei nostri cor-
pi, i quali sono cadaveri fetenti e uient'altro; ma in
quel gran Santo era questa una cosa più da am-
mirare'che dà imitare. -Non ci vuole troppa ricer-
catezza, ma nemmeno sudiceria. Ciò che moveva
il Santo a parlare così, era, se io non m'inganno,
4
il vedersi davanti dei cortigiani tanto inclinati alla
ricercatezza che bisognava usare con loro simile lin-
guaggio un po' più forte del consueto; così, quei che
vogliono raddrizzare un arboscello, non lo raddriz-
zano solo fino a dargli la piega voluta, ma lo cur-
vano in senso opposto, perchè di poi torni alla po-
situra giusta (1). .
§ 3. DELLA PIETÀ RELIGIOSA.
Le anime religiose devono applicarsi con cura
speciale a nutrire lo spirito di una pietà che sia
intima, forte e generosa.
Pietà intima.
Dico intima la pietà delle persone religiose,
quando la volontà loro va d'accordo con le buone
azioni che fanno esternamente, siano queste piccole
o grandi. Nulla si faccia per abitudine, ma per de-
terminazione e con attenzione della volontà; che
se l'azione esterna talvolta previene l'interna di-
sposizione a motivo della consuetudine, questa di-
sposizione la segua almeno subito. Se, prima di far
(1) E. ix (t. vi, pp. 131-143).
835

43.3 Page 423

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inchino col capo al superiore, non mi sono chinato
dentro di me con l'umile proposito di stargli sot-
tomesso, almeno questa risoluzione accompagni o
segua immediatamente l'inchino esterno. Certe Con-
gregazioni hanno pochissime regole su cose este-
riori, poche austerità, poche cerimonie, poche fun-
zioni; vi conformino dunque tanto più di buona
voglia il cuore, facendo nascere l'esterno dall'in-
terno e alimentando l'interno con l'esterno; così ap-
punto vediamo che il fuoco produce la cenere e la
cenere mantiene il fuoco.
Pietà forte.
Bisogna inoltre che la pietà dei religiosi sia
forte.
1. Forte a sopportare le tentazioni, che non man-
cano mai a chiunque voglia per davvero servire
Iddio.
2. Forte a sopportare la diversità dei caratteri,
che si troveranno nella Congregazione; la qual
prova è difficile quant'altra mai per gli spiriti de-
boli.
3. Forte a sopportare ognuno le proprie imper-
fezioni, per nou perdere la tranquillità nel vedersi
ognora soggetti ad esse.
836
4. Forte a combattere le imperfezioni proprie.
Come infatti ci vuole un'umiltà forte per non iscorag-
giarsi, ma riporre tutta la fiducia in Dio fra le
nostre debolezze, così ci vuole animo gagliardo per
metter mano a correggere ed emendare interamente
noi stessi.
5. Forte a disprezzare parole e giudizi del mon-
do, il quale non tralascia mai di sindacare i pii
istituti, massime nel loro cominciare.
6. Forte a serbarsi immune da affezioni, amici-
zie o simpatie particolari, per non vivere a secon-
da delle medesime, ma alla luce della vera pietà.
V. Forte a serbarsi indipendente da tenerezze,
dolcezze, consolazioni, che provengano da Dio ov-
vero dalle creature, di guisa che non si sia mai
schiavi di quelle.
8. Forte a ingaggiare una guerra continua con-
tro le nostre cattive incl'nazioni, disposizioni, abi-
tudini e tendenze.
Pietà generosa.
Bisogna infine che la pietà sia generosa, per non
lasciarsi spaventare dalle difficoltà, ma anzi pigliar
ardire da esse; perchè, al dire di san Bernardo (1),
(1) Epist. ccvi, ad Eug., 1.

43.4 Page 424

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J
non è valoroso olii non si sente rincorare in mezzo
alle pene e alle contraddizioni. Generosa per non
lasciar di aspirare al più alto grado della perfezio-
ne cristiana, nonostante tutte le imperfezioni e de-
bolezze presenti, riponendo ogni fiducia nella mise-
ricordia divina, sull'esempio di colei che diceva al
suo Diletto (1): Traimi; correremo all'odore de' tuoi
profumi; quasi volesse dire: — Da me sola resterei
immobile; ma, traendomi tu, correrò. — Il divino
Amante delle nostre anime ci lascia non di rado
come impaniati nelle nostre miserie, affinchè cono-
sciamo che la nòstra liberazione viene da lui e, ot-
tenuta che l'abbiamo, ce la teniam cara, qual dono
prezioso della sua bontà. Quindi è che la pietà ge
nerosa, come non cessa mai di gridare a Dio: Trai-
mi, così mai non cessa di aspirare, di sperare, di
promettere animosamente che correrà, dicendo: Cor-
reremo dietro di te. Nè bisogna affliggersi, se da
principio non si corre dietro al Salvatore, purché
si ripeta sempre: Traimi, e si abbia tanto buon
ardire da soggiungere: Correremo. Poiché, sebbene
adesso non corriamo, ci basti la fiducia che con
l'aiuto di Dio correremo poi. Una Congregazione
religiosa non è mai un aggregato di gente perfetta,
ma di anime che tendono alla perfezione; non è una
(1) Cant., i, 3.
schiera di persone correnti, ma vogliose di correre
e che quindi imparano prima ad andare adagio,
poi ad accelerare il passo, poi a trotterellare, poi
finalmente a correre.
Questa pietà generosa non disprezza nulla, ma
fa sì che noi senza punto scomporci osserviamo
ognuno a camminare, a correre, a volare differen-
temente, secondo la diversità delle aspirazioni e
secondo i vari gradi della grazia divina, a ognuno
concessi. Tale è l'ammonimento del grande Apostolo
san Paolo ai Romani (1), quando dice: L'imo cre-
de di poter mangiare d'ogni cosa, un altro pur de-
bole non mangia che erbe. Chi mangia, non disprezzi
chi non mangia, e chi non mangia, non voglia giu-
dicare chi mangia. Ognuno nella propria mente abbia
la sua piena sicurezza. Chi mangia, mangia per il
Signore, e chi non mangia, s'astiene per il Signore;
e tanto l'uno che l'altro ne ringrazia Dio. Se le tue
Regole non impongono tanti digiuni, potrà darsi
che alcuni per bisogni speciali ottengano di farne
più spesso; ebbene, chi digiuna, non disprezzi chi
mangia, e chi mangia non disprezzi chi digiuna. Così
pure in tutte le altre cose nè comandate nè proibite,
ognuno segua il proprio parere; ognuno cioè si goda
e faccia uso della propria libertà senza condannare
- (1) Rom., XIV, 2, 3, 5, 6.
839

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nè sindacare chi agisce diversamente da lui, nè
pretenda che il suo modo di agire venga ricono-
sciuto per migliore; ben può darsi infatti che un
tale mangiando rinunci alla propria volontà nè più
nè meno di chi digiuna, e che un altro non dicen-
do la sua colpa rinneghi sé stesso non meno di chi
la dice.
La pietà generosa non cerca compagni in tutto
quello che fa, ma soltanto in quello che è il suo
fine, vale a dire nel procurare la gloria di Dio e
l'avanzamento del prossimo nell'amore divino; pur-
ché si vada dritto a questa meta, non si dà pen-
siero della via da percorrere. Quando, chi digiuna,
digiuni per Iddio, e chi non digiuna, si astenga per
Iddio, essa è contentissima nell'un caso e nell'al-
tro. A lei non importa di trarre gli altri al suo
modo di procedere, ma se ne va tutta semplice,
umile e tranquilla per la sua strada. E se pure
avvenisse che taluno mangiasse non per Iddio, ma
per inclinazione, o rifuggisse da certe mortificazio-
ni non per Iddio, ma per naturale avversione, anche
in quei casi bisognerebbe che chi pratica il contra-
rio, non condanni, ma senza censurare tiri avanti
con dolcezza e soavità per la sua strada, non di-
sprezzando nè biasimando i deboli. Parimente chi
seconda così le proprie inclinazioni e avversioni, si
guardi bene dal dir parole o far atti di disgusto,
40
quando vede che i fratelli fanno meglio, perchè
commetterebbe una grave sconvenienza; piuttosto,
considerando la dobolezza propria, osservi chi fa
meglio, òon un santo, dolce e cordiale rispetto: così
dalla sua debolezza trarrà mediante l'umiltà un
profitto pari a quello che altri cavano dai loro eser-
cizi. L'intendere e praticar bene questo punto man-
terrà nella Congregazione una pace e tranquillità
straordinaria. Marta sia pure attiva, ma non si
metta a sindacare Maria; Maria contempli, ina non
ispregi Marta, perchè il Signore prenderà le difese
di colei che verrà censurata.
Per altro, se qualche persona religiosa sentisse
avversione a cose pie, buone e approvate, o aves-
se inclinazione a cose meno pie, ascolti me, si fac-
cia violenza, combatta più che può tali avversioni
e inclinazioni, per diventare veramente padrona di
sè e servir Dio con perfetta mortificazione. La-per-
fetta mortificazione sta appunto nel ripugnare alle
proprie ripugnanze, nel contraddire alle proprie
contraddizioni, nel declinare dalle proprie inclina-
zioni, nel divertire se stesso dalle proprie avversio-
ni, facendo in tutto e per tutto regnare la ragione,
specialmente dove si abbia agio di determinarsi e
deliberare. Per conchiudere, dico ai religiosi: pro-
curino di aver uh cuore delicato e trattabile, arren-
devole e condiscendente in lutte le cose lecite, pronto
841

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a mostrarsi in ogni incontro docile e caritatevole,
a somiglianza della colomba, che riceve, tutte le iri-
descenze datele dal sole. Felici i cuori pieghevoli,
perchè non si spezzeranno giammai! (1).
(1) E. i (t. vi, pp. 13-17).
CAPO DECIMO.
Il pensiero della morte.
§ 1. SE E COME SÌ DEBBA TEMERE LA MORTE.
Sentenze di Filosofi e di Padri.
La prima osservazione che io faccio intorno alla
morte è se la si debba o no temere. Vi furono fi-
losofi antichi, i quali vollero sostenere che non bi-
sognava temerla e che il temerla proveniva da poco
intelletto o da mancanza di coraggio. Ma i nostri
santi Padri hanno risposto che questo non può es-
sere: benché i Cristiani non debbano temere la morte,
perchè hanno sempre da star preparati a morire
bene, essi tuttavia, dicono i Padri, non possono
per questo andare esenti da timore: chi infatti è
certo di trovarsi nelle condizioni volute per far bene
quel passaggio, dal momento che per morir bene è
necessario esser buono? e chi è sicuro di essere buo-
no, cioè di avere la carità richiesta per essere trovato
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tale nell'ora del suo transito? Non vi è nessuno che
lo possa sapere senza una rivelazione speciale; anzi,
quelli pure clie ebbero questa rivelazione, non an-
darono immuni dal timore della morte.
Gli Stoici che dicevano essere il timore della
morte indizio di scarsa levatura e di poco animo,
come mai potevano asserire questo, se i loro più
coraggiosi e sapienti filosofi, navigando, impallidi-
vano dallo spavento al vedere le onde burrascose
del mare, clie minacciavano vicina la morte? Il fatto
è narrato da sant'Agostino (1), il quale riferisce
la risposta data da uno di essi in quel frangente:
— Voi siete canaglie; siete gente che non ha uè
cuore nè anima da perdere, avendoli già perduti;
ma io, sì, ho un'anima, e pavento la morte per
tema di perderla. — In conclusione, i nostri santi
Padri dicono che bisogna temere la morte senza
temerla. Per farti comprendere questo, ecco che
vengo ad una seconda osservazione.
Chi vuol traversare ruscelli o fiumi passando su
palàncole, rischia grandemente di cadervi dentro,
se porta lenti. Queste o ingrandiscono o rimpiccio-
liscono gli oggetti. Le lenti d'ingrandimento rap-
presenterebbero la palàncola più larga di quello
che sia, e chi se ne fidasse, correrebbe pericolo di
(1) De Civ. Dei, rx, 4.
4
mettere il piede fuori e piombare giù, perchè, in-
contrando il vuoto, andrebbe a finire nel precipizio.
Chi invece usasse lenti che impiccioliscono le cose,
al vedere la palancola più ristretta, non oserebbe
mai passarvi sopra o passando sarebbe preso da
tanto spavento che basterebbe a perderlo. Gli estre-
mi sono sempre molto pericolosi. Orbene, per evi-
tare nella considerazione della morte simili incon-
venienti, bisogna fare in modo da temerla, sì, ma
senza temerla.
La morte è per sè temibile.
Temerla, bisogna certamente; chi infatti non ne
sarebbe impaurito, se tutti i Santi l'hanno paven-
tata e, quel che è più, anche il Santo dei Santi,
il Salvator nostro? (1). La morte non è cosa natu-
rale per l'uomo, che vi fu condannato a causa del
peccato (2). Ora, dopo la colpa di Adamo gli uo-
mini sono soggetti al peccato, e ognuno verrà giu-
dicato così come si troverà in punto di morte: sap-
piamo bene che in quell'istante medesimo si deve
rendere conto di tutta la vita ed essere giudicati
di quello che si sarà fatto (3)- e di qui appunto na-
tili MARC., XIV, 33.
(2) Gen., HI, 19; Sap., IL, 23, 24.
(31 Ps. LXI, 11; MATT., XVI, 2 7 ; Rom., n , 6 ; Il Cor., v, 10.
845

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sce il timore della morte. Perciò chi non teme la
morte, è in pessimo stato e in gran pericolo; il sa-
pere che il luogo, dove si audrà dopo la morte, è
eterno, sicché noi saremo in eterno salvi o dannati,
è la ragione per cui i maggiori servi di Dio hanno
temuto quel passaggio, come cosa in verità pauro-
sissima.
Nè mi si venga a dire che tanti Santi non te-
mettero la morte, ma che anzi la desideravano e in-
vocavano, e financo gioirono al suo appressarsi, e
che quindi non bisogna paventarla, essendo questo
timore troppo opprimente. Sì, è vero, vi furono
Santi che ci sembrano aver desiderato la morte; ma
non significa che non l'abbiano temuta uè che
non ne abbiano avuto paura; si può benissimo de-
siderare quello che si teme e domandare quello che
non piace. Qual è il malato che non tema il ferro,
quando bisogna che il chirurgo lo adoperi per am-
putargli un membro putrido, affinchè non infetti e
non rovini gli altri? Ma, per timore che ne abbia,
non lascia di desiderarlo e anche di domandarlo,
per tema che il membro infetto non vada in can-
crena; questo è che gli fa invocare il fèrro temuto
e che lo fa in certa guisa gioire, quando se lo vede
accostare. Così, quantunque vi siano stati Santi
i quali desideravano e domandavano la morte, non si
deve però credere che non ne avessero timore: non
846
vi è nessuno, per santo che sia, il quale non l'ab-
bia seriamente temuta, eccezion fatta di coloro che
avessero ricevuto assicurazioni del tutto particolari
intorno alla propria salvezza per via di specialis-
sime rivelazioni.
Ma giacché sono ben pochi quelli che abbiano
avuto rivelazioni di tal genere, pochi altresì anda-
rono esenti da timore. Ti presenterò nondimeno l'e-
sempio di due Santi che ebbero questo privilegio.
Uno è il grande Apostolo san Paolo, il quale rice-
vette assicurazioni così indubitabili riguardo alla
sua beatitudine, che sembra non aver avuto verun
terrore della morte; dice infatti (1): — Son messo
alle strette da due desideri del tutto opposti, che
mi travagliano senza posa e mi danno molta pena:
il desiderio di uscire «la questa vita per andar a
godere la do'ce presenza e vista del mio Maestro.
Chissà quando sarà mai ch'io lo vegga faccia a
faccia? (2) chi mi libererà da questo corpo di mor-
te? (3). — E parecchie altre espressioni simili, con
le quali il grande Apostolo vuol manifestare l'ar-
dente sua brama di esser disciolto e svincolato dal
corpo, affinchè l'anima, infiammata dalla brama di
(1) Ph.il., i, 23-25.
(2) I Cor., XIII, 12
(3() Rom., vìi, 24.

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vedere il suo Signore, non ne sia più a lungo trat-
tenuta dalla carne. Tardava a lui moltissimo, come
a servitor buono e fedele (1), di andar a trovare il
suo caro Sigjiore per godere della sua dolce pre-
senza; sicché ci sembra che la vita gli fosse insop-
portabile, perchè gl'impediva l'appagamento del
suo desiderio. Ma vedi com'ei parli con tutta sicu-
rezza, affermando che, appena disciolto dal suo
corpo di morte, vedrà Dio. L'assillante sua brama '
è questa per l'appunto di vedere il suo Maestro.
— Chi mi farà questa grazia, esclama, ch'io muoia
e me ne vada a vedere il mio Signore Gesù Cristo!
— Ciò dimostra dunque che egli non aveva il me-
nomo timore di dover essere ila lui separato, mo-
rendo, ma che nutriva per conto suo la massima
certezza di andarlo a godere nella beatitudine eter-
na: ecco il motivo che gli faceva desiderare e in-
vocare la morte.
Nota però che egli ha pure un altro desiderio,
con cui mette al precedente una condizione, ed è (
se tale sia la volontà di Dio. — Io, dice, sono pre-
so da un altro desiderio, quello di restare in mez-
zo a voi, o carissimi figli, perchè sono stato man-
dato a istruirvi; sicché, fino quando la mia presen-
za vi sarà come che sia necessaria, io mi sento in
(1) MATT., xxv, 21, 23,
4
obbligo di nou separarmi da voi, privandomi della
soddisfazione incomparabile e ineffabile che aspet-
to dopo la morte, anziché lasciare voi, mentre so
di potervi ancora essere utile e di far eosa anche
solo un po' conforme al beneplacito del mio Mae-
stro. Non desidero già la morte per venir liberato dai
travagli che sopporto: oh no, non per questo, e
neanche per mettere fine alla pena causatami dal-
la sete di vedere il mio Signore: desidero la mor-
te solo per vedere lui, ben sapendo che dopo la
presente vita io lo vedrò. Con tutto ciò sento pu-
re l'altro desiderio di non morire se non quando a
Lui piaccia, e per conseguenza di starmene qui con
voi fino a che Egli vorrà, fino a che Egli conosce-
rà essere a voi necessaria la mia presenza. — Quin-
di, se questo gran Santo sospirava la morte, lo fa-
ceva perchè era sicurissimo della felicità eterna; e
se la invocava, lo faceva solo in quanto fosse cosa
conforme alla volontà di Dio.
Vi sono tanti che domandano al Signore la mor-
te, e che, interrogati del perchè, rispondono: — Per
essere liberati dalle miserie di questa vita. — Già!
e sapete voi con certezza, se una volta liberati dai
travagli di questa vita, entrerete nel riposo dell'al-
tra? No, certamente. Di qui viene poi il dire di al-
tri, che non si preoccuperebbero della morte, purché
fossero sicuri di andar in paradiso. Han mille ragio-
849

43.10 Page 430

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ni, perchè con una sicurezza di tal fatta la morte
non incuterebbe davvero alcun timore. Ma, quan-
d'anche tu avessi la sicurezza di andare in paradiso,
non dovresti desiderare nè domandare la morte per
venir affrancato dalle miserie di questo mondo; non
dovresti mai farlo senza mettervi la condizione che
ciò sia conforme alla volontà diYDio. Insomma, non
bisogna nè desiderare nè domandare la morte, non
bisogna rifiutarla quando viene: ecco il compendio
della perfezione cristiana, nulla domandare e nulla
rifiutare.
Quell'uomo insigne di Giobbe è un altro Santo
che mostra di aver bramato la morte e di averla
trovata più dolce della vita; poiché, vedendosi piom-
bato iu tante angosce e tribolazioni, aveva, sembra,
motivo di desiderare più la morte che la vita. Qua-
li accenti non gli strappò di bocca il dolore ecces-
sivo, iu cui era immerso? Certo è che, se i lamen-
ti di Giobbe non fossero usciti da un cuore fieramen-
te trambasciato, gli avrebbero meritato forti biasi-
mi. Guarda un po' quelle parole: Perisca il giorno in
cui nacqui, con le altre che seguono (1). Lo avreb-
bero reso colpevole, se Dio non avesse preso in ma-
no la sua causa, dichiarando che egli non peccò (2)
(1) Job., 111,1 sgg. ; Cfr. vi, 8, 9; VII, 15, 16, 21.
(2) lb., i, 22; XI.II, 7, 8.
0
in tutto il tempo che stette sopra il letamaio, op-
presso da tutti i travagli immaginabili.
Le sue parole, che sembrano strane, sono paro-
le amorose, non da tutti intese; quei che non san-
no che il suo è un linguaggio d'amore, non capi-
scono che cosa abbia voluto dire il sant'uomo. Acca-
de nell'amore divino come nell'amore umano; agli
amanti esaltati del mondo spesso avviene di pro-
ferir parole, che sarebbero certamente ridicole, se
non uscissero da cuori dominati da passione: dicono
quello che fa dir loro la forza dell'amore, ed è un
linguaggio inteso unicamente da chi sappia che co-
sa sia amore. Così è dell'amore divino, la cui vee-
menza suggerisce espressioni che sarebbero biasime-
voli, se non fossero intese nel loro significato da chi
conosce il linguaggio proprio del celeste amore.
Essendo pertanto Giobbe un grande amante di
Dio, tutte le parole da lui proferite là sul letamaio
erano senza dubbio parole amorose; la fiamma che
gli accendeva il cuore, lo faceva dare in istravagan-
ze; ma il Signore, che di quel cuore penetrava il
fondo, vedeva bene come non fosse dispetto nè im-
pazienza che lo faceva parlare in tal guisa, ma l'a-
more, da cui era ispirato: il nostro caro Maestro sa
benissimo che cosa sia amare, e conosce perfet-,
tamente il linguaggio dell'amore, e perciò dichiara
che Giobbe non ha peccato in tutto quello che ha
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44 Pages 431-440

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44.1 Page 431

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detto. Bisognava bene.ch'ei conoscesse quanto quel
Santo lo amava, giacché l'aveva scelto per darlo
quale prodigio di pazienza alla posterità; io penso'
quindi che gli facesse capire che lo trattava a quel
modo per lasciarlo come specchio e modello di san-
tità a tutti gli uomini e che, se gl'inviava tante sof-
ferenze e lo riduceva in tale stato, lo faceva per a-
more verso di lui; il che quell'uomo santo doveva
comprendere ottimamente.
Dunque il santo Giobbe parla il linguaggio del-
l'amore, quando dice: Perisca il giorno in cui nacqui.
Nota* però che, sebbene con questa espressione e con
altre simili egli sembri desiderare e chiedere la mor-
te, pure non manca di rassegnazione e di sottomis-
sione alla volontà divina, giacché non vuole la mor-
te se non in quanto sarà cosa gradita a Dio; l'amo-
re nondimeno lo fa parlare così, perchè troppo gli
tardava di vedere Colui, che gl'inspirava tanto a-
more (1). Ma, senza tener conto di questi due esem-
pi eccezionali, io torno a conchiudere che tutti deb-
bono temere la morte.
Oltre al fin qui detto, noi vediamo nelle paro-
le rivolte da Dio ai nostri progenitori nel paradiso
terrestre, che la morte incute naturalmente timore
all'uomo. Allorché Dio vietò ad Adamo di mangiare
(1) Job., xix, 27.
852
il frutto dell'albero della scienza, gli disse: — lo so-
no il tuo Signore, e quindi bisogna che tu mi ob-
bedisca; come tuo Signore, io ti fo un comando, che
non mangi il frutto di quest'albero; se ne mangi,
morrai (1). — Ecco quale castigo Dio minacciò al-
l'uomo: un castigo considerato come il più formida-
bile di tutti e il più contrario alla sua natura. Que-
sto volle significare Eva, allorché, tentata dal ser-
pente d'infrangere il divieto, gli rispose: — Ma Dio
ci ha detto che, se mangiamo di questo frutto, noi
moriremo (2). — Nel qual modo di parlare ella fa
vedere la paura che avevano della morte. E non mi
si vengano a tirar fuori le testimonianze di coloro
che dicono doversi cacciar via il pensiero della mor-
te per vivere allegramente, perchè quel pensiero è
terrificante; si tratta di un timore che non è catti-
vo, ma buono e vantaggioso, e noi dobbiamo di
quando in quando spaventare con esso le anime no-
stre e al medesimo ricondurle per causa dei nostri
peccati, purché questo si faccia nei debiti modi.
/
Temere la morte senza temerla.
I nostri Padri antichi c'insegnano che dobbia-
mo temere la morte senza temerla; e che vuol dire
(1) Gen., il, 16, 17.
(2) Ib., in, 1-3.
I
853

44.2 Page 432

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ciò? Vuol dire che, quantunque bisogni paventare
la morte, non bisogna però averne un'apprensione
soverchia, che ci levi la tranquilità. I Cristiani han
da camminare .dietro lo stendardo della provvidenza
di Dio, pronti sempre ad abbracciare tutto quello
che loro venga da questa dolce provvidenza, la qua-
le ben saprà prendersi cura di noi. Non diamoci dun-
que in preda a spaventi pieni di ansietà e di tri-
stezza, che turbino anche le nostre relazioni col
prossimo.
Non è questa- la maniera di pensare alla morte,
come neppure conviene preoccuparsi tanto del quan-
do e del dove si morrà: se in campagna o in cit à,
andando a cavallo o a piedi, ovvero colpiti da un
sasso, nel proprio letto con l'assistenza di qualcuno
o senz'avere presso di sè neanche una persona. Di
tutto questo che cosa c'importa? Lasciamone la cu-
ra alla divina Provvidenza, che si occupa financo
degli uccelli dell'aria, dei quali non cade .piuma sen-
za la sua permissione (1). Dio ha contato tutti i ca-
pelli del nostro capo (2); si prenderà dunque cura di
noi (3). A me basta di essere tutto suo, non solo
per dovere, ma per amore. A che darmi pensiero di
(1) MATT., VI, 26; x, 29.
(2) lb., x, 30.
(3) I PETR., v, 7.
4
tan e cose? Basta che mi abbandoni alle cure di
questa dolce Provvidenza, la quale non mi verrà
meno giammai nè in vita nè in morte.
Temerò dunque l'estremo passaggio, ma senz'an-
sietà e senza inquetudine, con un timore che mi ser-
va a prepararmi e mi tenga sempre pronto a morir
bene. E come fare? Come insegna sant'Agostino (1),
il quale ha una massima Ordinarissima e comune,
ma molto acconcia: dice che « per morir bene biso-
gna vivere bene ». Qual è la nostra vita, tale sarà
la nostra morte. Duuque, per chiudere tutto questo
discorso, diciamo che la regola generale per fare una
buona morte è condurre buona vita. Anche viven-
do bene, è vero, temerai la morte, ma ne avrai un
timore dolce e tranquillo, sorretto dai meriti della
Passione del Signore, senza della quale c'è dubbio
che la morte sarebbe terribile e spaventosa. Coloro
che muoiono nel proprio letto, si dispererebbero cer-
tamente, se non vedessero l'immagine del Crocifis-
so, che richiama loro alla memoria come il Salva-
tore sia stato per essi inchiodato sulla croce, e se non
rivolgessero a lui mentalmente la parola o il pensie-
ro. L'orrore dell'ultimo passaggio e la vista dei tan-
ti peccati commessi li spingerebbe alla disperazio-
ne; ma i meriti della Passione del Signore li riem-
(1) Ser. cu.
855

44.3 Page 433

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piono di fiducia, perchè con la sua morte Egli ha
soddisfatto per tutti i nostri traviamenti.
Temiamo dunque la morte senza temerla, te-
miamola cioè con un timore tranquillo e pieno di
speranza, avendoci Iddio lasciato tauti mezzi per
morir bene, fra gli altri il mezzo della contrizione,
il quale si estende così largamente da scancellare
le macchie dei peccati d'ogni specie. Oltre a questo,
noi abbiamo ancora per lavare le nostre iniquità i
Sacramenti della santa Chiesa: essi sono i canali,
per cui i meriti della Passione del Signore scor-
rono dentro di noi e che ci fanno così ricuperare
la grazia perduta. Ciò posto, che cosa ci rimane da
fare se non vivere affidati alle disposizioni della
Provvidenza divina, senza nulla domandare e nulla
rifiutare 1? Poiché, lo ripeto, qui sta tutta la perfe-
zione cristiana; nulla domandare a Dio, nulla rifiu-
tare da Dio: non domandargli la morte, ma nep-
pure rifiutarla, quando verrà. Fortunati coloro che
si trovano in questa santa indifferenza e che, men-
tre aspettano quel che Dio vorrà disporre di loro,
si preparano con una vita buona a morir bene!
Hanno fatto così tutti i Santi. Ye ne sono sta-
ti anche di quelli che usarono la pratica di de-
stinare qualche tempo dell'anno per applicarsi in
modo specialissimo alla considerazione della morte:
chi una volta al mese, chi ogni settimana, chi tutti
quanti i giorni, fissando un'ora determinata per
pensarvi, di sera o di mattina: con un ricordo così
frequente si disponevano a far bene il gran passo.
Utilissimo riflesso è pure, tutte le volte che si va
a letto, pensare, come fanno alcuni, che quell'atto
rappresenti il modo con cui ci metteranno nella
tomba. La considerazione si può svolgere così: —
Il sonno mi raffigura la morte. Io dunque morrò,
sarò steso nella tomba, vi sarò coperto di terra, mi
ridurrò in polvere e cenere. Io mi corico stasera
in questo letto; ma non so se domani mi troverò
ancora in vita. — In pensieri simili gioverà trat-
tenersi anche durante il giorno, per essere ogni gior-
no preparati a morire, passando quel dato giorno in
cui viviamo, come lo passeremmo se sapessimo di
dovere nel dì stesso uscire da questo'mondo.
Il re di Spagna mandò a fare un'ispezione in
una provincia de' suoi Stati, dove tutti gl'impie-
gati del governo furono colti in fallo per qual-
che cosa; perciò gl'ispettori usarono molta severità
nel punirli. Agli uni inflissero multe, altri esone-
rarono delle loro cariche, parecchi anche misero in
galera. Alla fine, uno solo trovarono, in cui non
fosse nulla a ridire, un buon vecchio apparso del
tutto irreprensibile. Gl'ispettori, fattegli molte fe-
ste, gli chiesero come mai fosse riuscito a mantenersi
così fedele da non dar luogo al menomo rimprovero
85?

44.4 Page 434

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sulla sua condotta. Al che rispose di aver fatto una
cosa sola: pensare che sarebbe venuta l'ispezione
e che gl'ispettori avrebbero adempiuto rigidamente
l'ufficio loro; essersi perciò regolato sempre come
avrebbe desiderato d'aver fatto al loro sopraggiun-
gere. Iu questo modo erasi ben premunito; il timo-
re di venir sorpreso in mal punto l'aveva fatto vi-
vere giorno per giorno come se allora gli dovesse
toccare di render conto. Buon per noi, se tutti i
giorni della vita pensassimo talmente al conto da
rendere, che ci tenessimo del continuo nella condi-
zione, in cui vorremmo essere nell'ora della morte!
Sarebbe questo un buon mezzo per vivere bene e non
essere poi colti in fallo nell'ultimo giorno.
Una grande principessa, parlandomi un giorno
de' suoi affari, mi disse di un consigliere ecclesiasti-
co, che erasi ritirato dal tribunale per liberarsi da
tante e tante brighe. — Andai a trovarlo, mi sog-
giunse, per trattare con lui di una mia causa, della
quale aveva egli in mano i documenti. Giunta a casa
sua, lo feci chiamare; ma egli mi rimandò le carte,
facendomi dire che si era sbarazzato di tutti gli
affari del tribunale, per aver tempo di pensare alla
propria coscienza e allestire i suoi conti, e che mi
restituiva le mie carte, pregandomi dal Signore un
esito felice della mia causa e ia vittoria del mio
buon diritto. Qualche tempo dopo tornai, ed egli
mi ripetè che stava sempre occupato a fare i suoi
conti nell'attesa del momento che verrebbe chia-
mato a renderli. Un anno appresso m'informai se
quel signore fosse passato di vita. Mi si rispose di
no; allora mi recai un'altra volta da lui; ma lo tro-
vai ancora immerso nella sua occupazione, sicché
io ne conclusi che avrebbe fatta un'ottima line.
Noi felici, se pensassimo in tal modo al conto
da rendere e se, liberatici da ogni altra faccenda,
stessimo sempre apparecchiati per il giorno che a
questa operazione ci verrà fissato! Sì, facciamolo;
perchè la morte ha i piedi foderati di ovatta e si
avvicina pian piano senza che alcuno se ne accor-
ga, e così ci sorprende. Stiamo dunque bene in
guardia, affinchè, quando verrà, ci trovi pronti.
Pensiamo alla morte sènza paure esagerate; ma ras-
segnamoci a morire, giacché trattasi di cosa che
si deve fare, e con cuore calmo e tranquillo vivia-
mo nello stato, in cui vorremmo essere trovati il dì
della morte: ecco il mezzo dei mezzi per prepa-
rarci a ben morire. Ciò facendo, arriveremo all'e-
ternità beata; così, lasciati questi giorni di morte,
andremo a quelli della vita (1).
(1) S. R. LXII (t. x, pp. 316-321, 322-327).
859

44.5 Page 435

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§ 2. DIECI SUGGERIMENTI
A CHI TEME TROPPO LA MORTE.
Tormento straordinario è per certuni il timore
della morte improvvisa e del giudizio di Dio. La
mia anima che lo sopportò per lo spazio di sei set-
timane (1), è in grado di compatire chiunque ne
sia afflitto. Ecco però il mio sentimento. Chi ha vero
desiderio di servire il Signore e fuggire il peccato
non si torturi lo spirito col pensiero della morte e
dei giudizi divini; perchè sebbene siano due cose da
temersi, non deve tuttavia questo essere un timore
terribile e spaventevole, che abbatta e fiacchi le
energie spirituali, ma sia un timore talmente mi-
sto a confidenza nella bontà di Dio, che ne rimanga
addolcito (2).
Nel soverchio timore della morte non vi è alcun
peccato; ma ne riceve nocumento il cuore, che,
turbato da questa pena, non può unirsi amorosa-
mente a Dio, come farebbe se non ne fosse trava-
gliato con tanta veemenza. Ti suggerirò alcuni
(1) È nota la prova interiore sofferta dal Santo, quand'era
studente a Parigi. Egli allora corse pericolo di vita. Ne fu
liberato per intercessione di Maria SS. nella chiesa di Santo
Stefano.
(2) L . MCMLXXIV (t. x x i , p. 12).
860
mezzi, che ti serviranno a mitigare l'eccessivo ti-
more della morte.
1. Coltiva Ja pietà. Così facendo, io ti assicuro
che a poco a poco ti sentirai grandemente solleva-
to da questa tribolazione; poiché la tua anima,
tenendosi per tal modo sgombra da male affezioni
e unendosi ognora più a Dio, si troverà meno at-
taccata a questa vita e ai suoi vani diletti. A.van-
ti dunque, di bene in meglio, per la via suddetta;
vedrai che in breve i tuoi terrori si affievoliranno,
finché non te ne sentirai più così fortemente scosso.
2. Prendi l'abitudine di pensare alla dolcezza
e misericordia grande, con la quale Dio, nostro
Salvatore, accoglie le anime nel loro transito, al-
lorché durante la vita abbiano confidato in Lui e
procurato di servirlo e amarlo, ciascuna nella sua
vocazione. Quanto è buono il /Signore con quelli che
sono di cuor retto! (1).
3. Solleva spesso il cuore con una santa confi-
denza, mista a profonda umiltà, verso il tuo Re-
dentore, dicendo, per esempio: — Io sono meschi-
no, o Signore, e voi riceverete la mia miseria nel
seno della vostra misericordia, conducendomi con la
vostra mano paterna al possesso della vostra eredi-
tà. Io sono meschino, spregevole, abietto; ma voi
(1) Ps. LXXII, 1.

44.6 Page 436

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ini avrete caro in quel giorno, perchè avrò sperato
in voi e desiderato di essère vostro.
4. Tieni vivo, quanto più potrai, l'amore del
Paradiso e della vita celestiale, facendo su tale ar-
gomento frequènti considerazioni, che troverai suffi-
cientemente abbozzate nella Filotea (1); quanto più
avrai in pregio e amore la felicità eterna, tanto
meno starai in travaglio per dover abbandonare la
la vita mortale e caduca.
5. Non leggere libri o parti di libri deve si parli
di morte, di giudizio e d'inferno; perchè, avendo tu,
grazie a Dio, la ferma risoluzione di vivere bene,
non hai punto bisogno di esservi stimolato con mo-
tivi di terrore e di spavento.
6. Moltiplica gli atti d'amore alla Madonna, ai
Santi e agli Angeli del Cielo; piglia dimestichezza
con loro, rivolgendo con frequenza ai medesimi pa-
role di lode e di affetto; la grande familiarità con
i cittadini della Gerusalemme celeste ti diminuirà
il dispiacere di dover lasciare quelli della terrestre
e bassa città del mondo.
7. Adora sovente, loda e benedici la santissima
Morte del nostro Signore crocifìsso e riponi ogni
tua fiducia nel suo merito, in grazia del quale sa-
rà consolata la morte tua, e va' ripetendo: — O
(1) Parte I, cc. xvi e xvu.
862
morte divina del mio dolce Gesù, tu benedirai la
mia, e la mia sarà benedetta; io benedico te, e tu
benedirai me, o morte più amabile della vita! —
Così san Carlo, nella malattia di cui morì, si fece
porre dinanzi agli occhi l'immagine della sepoltura
del Signore e quella dell'orazione sul monte degli
Olivi, per confortarsi in quegli estremi pensando
alla Passione e Morte del suo Redentore.
8. Rifletti qualche volta che sei figlio della
Chiesa cattolica, e rallégratene; i figli di questa Ma-
dre, che vogliono vivere secondo le sue leggi, muo-
iono sempre bene: la beata Madre Teresa dice che
è una grande consolazione in punto di morte l'esse-
re figlio della santa Chiesa.
9. Termina tutte le tue orazioni con un senti-
mento di confidenza, dicendo a mo' d'esempio: Si-
gnore, tu sei la mia speranza (1); in te io ho posto
la mia confidenza (2). O Signore, chi mai sperò in
te, e rimase confuso? (3). Io spero in te, o Signore,
e non resterò confuso giammai (4). Nelle tue giacu-
latorie durante il giorno e nel ricevere la santissi-
ma Eucaristia usa sempre parole d'amore e di spe-
l i ) Ps. CXLI, 6.
(2) Ps. EVI; 2. •
(3) Eccli., il, 11.
(4) Ps. xxx, 1.

44.7 Page 437

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ranza verso il Signore, dicendo: — Voi siete il mio
Padre, o Signore! o Dio, voi siete il Re del mio
amore e il Diletto dell'anima mia! O Gesù dolce,
voi siete il mio caro Maestro, il mio aiuto, il mio
rifugio!
10. Considera sovente le persone clie ami di più
e dalle quali ti rincrescerebbe di venire separato,
come persone delle quali godrai la compagnia eter-
namente nel cielo (1).
§ 3. COME SI DEBBA PENSARE ALLA MORTE.
Pensarvi in ogni tempo.
Coloro che si armano prima che venga dato l'al-
larme, sono sempre armati meglio di coloro i quali
nel momento del trambusto coirono di qua e di là
ad afferrare piastra, corazza ed elmo. Bisogna pren-
dere commiato dal mondo a bell'agio, staccando
a poco a poco gli affetti dalle creature.
Gli alberi sradicati dal vento non sono buoni
per essere trapiantati, perchè lasciano le radici nel
suolo; ma chi li vuol trasportare da uno ad altro
terreno, bisogna che con destrezza ne stacchi ada-
(1) L. MCCXCV (t. XVII, pp. 271-4).
864
gio adagio e a una a una le radici. Cosi, poiché
da questa misera terra noi dobbiamo venir trapian-
tati nella terra dei viventi (1 ),"caviamo fuori e sra
dichiamo l'uno dopo l'altro i nostri affetti da que-
sto mondo. Non dico di strappare bruscamente le
relazioni qui contratte, ma di scucirle e sciorle.
Meritano sempre grave rimprovero i mortali che
muiono senz'avervi pensato; ma doppiamente gra-
ve se lo meritano coloro, ai quali il Signore abbia
largito il dono della vecchiezza. Chi parte all'im-
provviso, è scusabile, se non ha preso commiato
dagli amici, andandosene con un bagaglio da poco;
non cosi chi sapeva approssimativamente il tempo
del viaggio. Teniamoci pronti, non già per partire
prima che sia l'ora, ma per aspettare quell'ora con
maggior tranquillità.
L'anima che vuol andare a Dio, dice san Ber-
nardo (2), baci prima i piedi del crocifìsso, purifi-
cando i suoi affetti e risolvendo di staccarsi bel
bello dal mondo e dalle sue vanità; poi ne baci le
mani, rinnovando il suo operare iu armonia con il
mutamento de' suoi affetti; da ultimo lo baci sul-
la bocca, unendosi con ardente amore a quella som-
ma Bontà.
(1) PS. XXVI, 13.
(2) Scr, LXXXVII (De diversis).
865
SS. - E. CEKIA, La cita religiosa ecc.

44.8 Page 438

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Pensarvi in vista dell'eternità.
Dicono che Alessandro Magno, navigando in alto
mare, scoprisse da solo e per il primo l'Arabia
Felice per l'odore delle piante aromatiche di quel
paese; quindi ne pretendeva il dominio. Così quei
che aspirano al paese dell'immortalità, benché navi-
ghino nell'alto mare degli affari di questo mondo,
hanno un certo sentore del Cielo, che li rinfranca
e li rincora oltremodo; ma bisogna stare a prua e
con le nari volte da quella parte.
Si dice che siam debitori di noi stessi a Dio, alla
] latri a, ai parenti, agli amici. Sta bene, prima a
Dio e poi alla patria; ma prima alla patria celeste
e poi a quella terrestre. Dopo, ai nostri prossimi;
ma « nessuno ti è prossimo come tu stesso », dice
il nostro Seneca cristiano (1). Infine, agli amici:
ma non sei tu il primo de' tuoi amici? Io trovo
che san Paolo dice al suo Timoteo: Attende tibi et
gregi: prima a te, e poi al gregge (2) (3).
I figli del mondo sogliono confessare in punto di
morte, che questa vita ha un valore soltanto di fron-
te all'eterna; ma i figli di Dio tengono presente
(1) S. BERN., De consid., I, 5; II, 3.
(2) / Tim. IV, 16; cfr. Act., xx, 28.
(3) L. ccxxx (t. xn, pp. 329-331).
866
tale verità nel corso di tutto il viver loro. Tu nella
moltiplicità delle gravose occupazioni, a cui per la
tua condizione sei obbligato di attendere e di metter
mano, vivi nella seconda maniera; e come quei che
viaggiano alla volta della patria, non isperano
riposo prima di esservi giunti, così tu aspira conti-
nuamente a quella pace duratura, alla quale muovi
incontro anelante e per la quale ti affatichi a cam-
minare (1).
Passano gli anni e scorrono, scorrono insensibil-
mente gli uni dopo gli altri, e svolgendo il loro
corso si portano via la nostra vita mortale, e il
lor finire è la fine dei nostri giorni. Quanto di gran
lunga più amabile è l'eternità, che ha una durata
senza fine e i cui giorni sono senza notte e i cui
godimenti sono senza mutazioni! (2). Non so proprio
come noi possiamo da senno credere nostra patria
questo mondo, nel quale si sta così poco tempo,
e non piuttosto il Cielo, dove si sta in eterno (3).
Felici coloro che non mettono il cuore in una vi-
ta cotanto fallace e incerta qual è la vita presente,
ma la considerano come semplice valicatoio per
passare alla vita celeste! In quella bisogna riporre
(1) l HCCCV (t. XVII, p. 396).
(2i L. CMXXXIX (t. x v i , p. 119).
(3) L. MMXXXIV (t. xxr, p. 112).
86?

44.9 Page 439

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speranze e aspirazioni (1). Oh, in punto di morte
tutto il mondo non sembra altro più che un po' di
fumo (2).
Ti sia familiare il pensiero che quaggiù si cam-
mina fra il paradiso e l'inferno, e che l'ultimo pas-
so è quello che ci mette nella casa dell'eternità, e
che nessuno sa quale debba essere l'ultimo, e che
per far bene l'ultimo bisogna cercare di far bene
tutti gli altri. Oh, santa e interminabile eternità,
felice chi pensa a te! Che cosa è mai il passatem-
po da fanciulli, che ci è dato godere in questo mon-
do per non so quanti giorni? Un bel nulla, se non
fosse che è il passaggio all'eternità. Facciamo quin-
di buon uso del tempo ehe dobbiamo vivere quag-
giù, procurando di far servire tutte le nostre oc-
cupazioni all'acquisto di quel bene che dura per
sempre (3).
Pensarci in Gesù Cristo.
Nel dì della nostra morte non sarà una gran
fortuna per noi, se morremo con il dolce Salvator
( 1 ) I... MMXXXVII ( t . XXI, p. 1 1 9 ) .
( 2 ) L . MMXCVI ( \\ x x i , p . 1 8 4 ) .
(3) L. DCXXXVII (t. XIV, pp. 380-381).
8
nostro nel mezzo del nostro cuore? Ebbene, teniam-
velo abitualmente, mediante la perseveranza nelle
nostre pie pratiche, nei nostri buoni desideri, nelle
nostre risoluzioni, nelle nostre proteste di fedeltà.
Val mille volte meglio morire col Signore che vive-
re senza di'Lui. Viviamo lieti e animosi in Lui e per
Lui e non isgomentiamoci della morte. Io non dico:
non temiamola punto, ma dico: non ce ne turbia-
mo. Se la morte del Signore ci verrà in aiuto, la
morte nostra sarà buona; pensiamo quindi con
frequenza alla sua, amandone teneramente la Croce
e la Passione (1).
Buon per noi se nell'ora della morte pronunce-
remo il santo nome del Salvatore, che sarà la pa
rola d'ordine per il nostro libero ingresso nel Para-
diso, essendo il nome della nostra redenzione. Nel-
l'ultima ora, se Dio ci farà tanta grazia che non
moriamo di morte subitanea, avremo accanto a noi
un sacerdote, il quale, tenendo la candela bene-
detta nelle mani, ci suggerirà: — Ricordati del no-
stro Redentore: di' Gesù, di' Gesù! — Felice chi lo
ripeterà con divozione e con la più sentita grati-
tudine per averci il Salvatore riscattati a prezzo del
suo sangue e della sua Passione: perchè chiunque
lo nominerà come si deve in quei momenti, sarà
( 1 ) L . CDXXXIX (t. XIII, p . 3 8 2 ) .
869

44.10 Page 440

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salvo. Ripetiamolo dunque spesse volte nel corso
della nostra vita (1).
Conclusione.
Procuriamo di essere come i garofani, il cui
odore si affina e cresce in soavità sul cadere del
giorno. Ci faccia Dio la grazia che, con l'avvici-
narci sempre più alla nostra sera, andiamo crescen-
do dinanzi à lui in odore di soavità (2).
Non è mai troppa la diligenza che mettiamo a
prepararci per la partenza da questa vita, data
l'incertezza dell'ora. Se lo stato religioso non ar-
recasse altro vantaggio che quello di una prepara-
zione ininterrotta alla morte, sarebbe già questa
una grazia non piccola (8).
(1) S. R. L.II (t. x, p. 163).
( 2 ) L. DCCCLXXXVIII ( t . xvi, p. 29).
( 3 ) L . MDCLXX ( t . x i x , p. 2 6 0 ) .
870
INDICE
Al Lettore
INTRODUZIONE: La vita spirituale
.
....
CAPO PRIMO: Della perfezione. — § 1. Tre gradi di
perfezione. Rinnegare se stesso, 7. Prendere la sua
. croce, 9. Seguire Gesù Cristo, 14. -— § 2 .Le tre
grandi rinunzie. Rinunzia al mondo, 16. Rinunzia
alla carne, 19. Rinunzia- a se stesso, 21. — § 3.
Tre segreti per arrivare all'acquisto della perfe-
zione, 25. Primo segreto: Tutto per Dio e niente
per sè, 25. Secondo segreto: Quanto più venga
tolto, tanto più fare. 34. Terzo segreto: Egua-
glianza di spirito, 38.. Conclusione, 40. — § 4.
Centro della perfezione è fare la volontà di Dio.
La volontà di Dio è tutto, 41. Come si riconosce
la volontà di Dio, 45. Volontà di Dio e libertà
spirituale, 55. — § 5. Desideri e risoluzioni nel
cammino della perfezione. I troppi desideri, 61.

45 Pages 441-450

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45.1 Page 441

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Desideri e risoluzioni superficiali, 64. Due specie
di pii desiderii, 68. Desideri e risoluzioni effi-
caci, 69. La risolutezza è il coltello della cir-
concisione spirituale, 73. — § 6. Due buoni mezzi
per progredire nella perfezione. Primo mezzo: La
vita ordinaria- e comune, 77. Secondo mezzo:
La correzione reciproca, 83. •— § 7. Alcuni im-
pedimenti all'acquisto della perfezione. 1° Attac-
camento al proprio giudizio, 86. 2° L'esser troppo
tenero di sè, 94. 3° Il troppo sottilizzare, 101.
4° Eccessiva fretta, 105. 5° Scoraggiamenti, 120.
6° Voler essere quello che non si è, 126. 7° Molte-
plicità d'occupazioni, 132. 8° Dire: È il mio ca-
rattere! 134. — | 8. Delle imperfezioni in chi
attende alla perfezione. Le imperfezioni nei reli-
giosi, 135. Le imperfezioni nei Santi, 140. Alcune
norme pratiche, 151. — § 9. Maria SS. modello
di perfezione religiosa, 155. — § 10. Gesù Cristo
modello di perfezione religiosa, 161. — § 11. Com-
battimento spirituale. La lotta, 167. La resisten-
za, 169. I vantaggi, 175
.......
: : av . •
'' ' - •' : - *'
CAPO SECONDO: Dello stato religioso e della vita reli-
giosa. — § 1. / Consigli Evangelici negl'insegna-
menti della Scrittura e nella pratica della Chiesa.
Insegnamenti della Scrittura, 179. Pratica della
Chiesa, 185: Conclusione, 188. — § 2. Voca-
zione religiosa. Come conoscere le vere voca-
zioni, 189. Come Dio chiama allo stato religioso,
872
192. Perseveranza nella vocazione, 196. Si chiari-
scono alcuni dubbi, 198. Corrispondenza alla voca
zione, 202. — § 3. Obiettivi della vita religiosa.
Spogliarsi dell'uomo vecchio e rivestirsi del nuovo,
204. Erigere in sè la dimora di Dio, 207. Vivere
unicamente a Dio, 208. Praticare fedelmente la
regola, 211. Non dar tregua alle passioni, 213. —
§ 4. Alcuni beni dello stato religioso. Punto di par-
tenza, 215. Stato molto perfetto, 216. Stabile con-
dizione di vita, 223. Stato religioso e martirio, 225.
Tutti per ognuno e ognuno per tutti, 227. Stati
di privilegio e di predilezione, 228. Alcune cons
derazioni per godere dei beni dello 9tato religioso,
231. Le gioie della vita religiosa, 234. -— § 5. Dei
voti religiosi in generale. Emissione: triplice mor-
te, 237. Rinnovazione: utilità e maniera di farla,
241. — § 6. Del noviziato. Ammissione al novi-
ziato, 252. Che cosa bisogna dire chiaramente ai
novizi, 254. Parole a chi entra nel noviziato, 251
Opera del noviziato, 259. — § 7. Ammissione allt
professione religiosa. Tre cose da osservare, 264
Alcuni casi particolari, 267. Norma fondamentale,
270. — § 8. Delle regole. La via diritta per au
dare a Dio, 270. Spirito delle regole, 271. Tra
sgressioni delle regole, 279. Comunità osservanti
e non osservanti, 289. — § 9. Superiori e infe-
riori religiosi. Umiltà dei superiori, 290. Fiducia
del superiore in Dio, 292. I superiori nel governo
delle anime, 296. Superiori e inferiori nelle cor-
rezioni, 300. Deli riferire al confratello parole sfa-
F

45.2 Page 442

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vorevoli dette dal superiore, e viceversa, 302, Del
voler essere amato dal superiore, 303. Il superiore
è per i suoi, 305. Le particolarità nei superiori,
306. I difetti dei superiori, 307. Le qualità per-
sonali dei superiori, 310. Alcune norme pratiche
per i superiori, -318. — § 10. Amore al proprio
Istituto e alla propria casa, 317 . . . .
179-320
(
CAPQ TERZO: Dei tre voti religiosi in particolare.
321. -4- § 1. Della povertà. Esempi di Gesù, Maria
e Giuseppe, 323. I disagi della povertà, 325. Le di-
spense e le particolarità, 328. Bisogna combat-
tere i difetti contrari alla povertà, 330. Ai veri
poveri Dio provvede, 336. — § 2. Della castità.
Prima e dopo il voto, 339. La castità si ottiene
con la preghiera e si conserva con l'umiltà, 342.
Il pudore, guardiano della càstità, 344. Pensieri
contrari alila castità, 344. Le amicizie, 345. —
§ 3. Dell'obbedienza. Libertà e obbedienza, 348.
Obbedienza apparente e obbedienza reale, 349.
Obbedire senza sofisticare, 353. Obbedienza di
Gesù e di Maria, 358. Obbedienza del religioso,
360. Volontà e giudizio nell'obbedire, 363. Obbe-
dienza pronta, 368. Obbedienza cieca, 374. Obbe-
dienza perseverante, 388. — § 4. Effetto dei tre
voti: distacco universale. Il mio e il tuo, 390.
Spogliamenti di vario genere, 398. L'affetto alle
persone, 393. L'affetto alle imperfezioni; 395. L'af-
fetto alle creature, 396. Compiacimento del bene
7
• spirituale altrui, 399. Niente domandare e niente
rifiutare, 400 . .
321-408
/
CAPO QUARTO: Dell'orazione, 409. § 1. Dei metodi
nell'orazione, 410. — § 2. Nell'orazione bisogna
procedere senza inquietudini, 418. — § 3. Della
meditazione, 423. — § 4. Causa finale dell'ora-
zione, 428. — § 5. Causa efficiente dell'orazione,
430. —• § 6. Condizioni dell'orazione, 433. -—
§ 7. L'orazione dei peccatori, 438. — § 8. Ma-
teria dell'orazione, 441. — § 9. Forma dell'ora-
zione, 444. -—- § 10. Riverenza esteriore nell'ora-
zione, 443. — § 11. Ancora una parola sull'Uf-
ficio divino, 450. — § 12. Orazione mentale, 453.
—- § 13. Pensieri sutl'orazione, 461 . . . 409-465
CAPO QUINTO: Dei sacramenti della Penitenza e del-
l'Eucaristia, 466. — | 1 . Della Penitenza e del-
l'Eucaristia in generale. La preparazione, 467. I
fini, 471. I frutti, 473. — § 2. Della Confessione,
474. Esame ordinario e annuale, 474. Norme per
l'accusa, 478, Contrizione e ringraziamento, 486.
Del cambiar confessore, 487. —- i 3. Della Comu-
nione. Frequenza, 488. Buona digestione spiri-
tuale, 491. Disposizioni, 492
466-494
CAPO SESTO: Delle virtù teologali, 495. I. La Fede.
i l . Oggetto e atto della fede, 495. - § 2. Al-
cune qualità dell", fede. Fede morta, fede mori-
875

45.3 Page 443

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bonda, fede viva, 487. Fede vigilante e fede son-
nacchiosa, 500. Fede attenta, 505. Fede nuda e
semplice, 507. •— § 3. Nella fede è verità, fuori del-
la fede vanità, 510. — § 4. Tentazioni contro la
fede, 517. — § 5. La parola di Dio. Chi la pre-
dica, 521. Chi -l'ascolta, 525. La parola interiore,
536 .
495-538
II. La Speranza. — § 1. Fondamento della spe-
ranza, 538. — | 2. Fiducia in Dio. Fiducia dei re-
ligiosi, 540. Fiducia in Dio e conoscenza della pro-
pria miseria, 541. Cinque massime per la fiducia
in Dio, 545. Pensieri sulla fiducia in Dio, 549. —
§ 3. Abbandono di noi stessi in Dio. In che con-
siste e come si pratica, 552. Lodi di questo ab-
bandono, 555. Disposizioni interne di chi si abban-
dona in Dio, 557. Ancora del nulla domandare e
'nulla rifiutare, 560 . . . . . .
538-563
III. La Carità. Parte prima: Amore di Dio. —
§ 1.11 comandamento dell'amor di Dio, 563. t -
§ 2. Come praticare questo comandamento, 566.
— § 3. Come conoscere se amiamo Dio, 572. —
§ 4. Amore affettivo ed effettivo, 574. — § 5.
La pratica dell'amare la volontà di Dio, 577. —
§ 6. Dell'essere tutti di Dio, 578. — § 7. L'amor
di Dio e le virtù, 579. — § 8. Unione con Dio,
581. — § 9. Pensieri sull'amor di Dio, 586. —
§ 10. Della divozione, 589. Prima cosa: fare la vo-
876
lontà di Dio con prontezza, 589. Seconda cosa:
fare la volontà di Dìo con allegrezza, 593. Alcune
norme pratiche, 594. — § 11. / sette doni dello Spi-
rito Santo, 597. 1° Il timore, 598. 2° La pietà,
604. 3° La scienza, 606. 4° La fortezza, 608. 5° Il
consiglio 611. 6° L'intelletto, 614. 7° La sapienza,
617
563-618
Parte seconda: Amore del prossimo. —• § 1.
Amore di Dio e amore del prossimo. La parola di
Gesù, 618. La parola dell'Apostolo, 621. Insepa-
rabilità dei due precetti, 623. — % 2. Il coman-
damento nuovo. Nuovo perchè rinnovellato dal Si-
gnore, 626. Nuovo, per gli obblighi nuovi, 628. —
§ 3. Come amare il prossimo. Vicendevoli dimo-
strazioni d'affetto, 631. Sacrificarsi senza riserva,
633. Amarci come ci ha amati il Signore, 637.
Esortazione all'amore del prossimo, 639. — § 4.
Cordialità religiosa. Sua origine e natura, 642.
Due doti della cordialità religiosa, 645. Le fami-
liarità troppo spinte, 648. La stessa misura con
tutti, 650. Sopportarsi a vicenda, 653. Mutua
confidenza, 656. — § 5. Zelo delle anime. Aposto-
lato dei sacerdoti, 658. Apostolato dei religiosi
non sacerdoti, 662. — § 6. Carità nei pensieri e
nelle parole. Carità nei pensieri, 665. Carità nelle
parole, 668. § 7. Carità nelle correzioni. Perchè
e come si deve correggere, 671. Come ricevere le
correzioni, 674. — § 8. Carità e avversioni. Origine.
678. Rimedi, 680. — § 9 . L a «souplesse», 682 618-686
877

45.4 Page 444

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CAPO SETTIMO: Dell'umiltà. — § X. Necessità di que-
sta virtù. Necessaria per le altre virtù, 687. Ne-
cessaria per tutta la vita, 689. Necessaria per ogni
stato di vita, 694. — § 2. Cinque gradi d'umiltà,
695. — § 3. Umiltà e amor proprio, 697. — § 4.
Umiltà e vanità. Gran male della vanità, 700. Ri-
medi contro la vanità, 704. — § 5. Alcune nor-
me pratiche. Umiltà esteriore, 711. Umiltà carita-
tevole, 712. Umiltà nelle imperfezioni, 713. Spi-
rito di umiltà, 715. — § 6. Umiltà e abiezione.
In che consiste l'abiezione, 716. Esortazione alla
pratica, 720. — § 7. Esemplare umiltà di sant'Ago-
stino, 723
687-728
CAPO OTTAVO: Mitezza, tranquillità, uguaglianza d'a-
nimo, pazienza. — § 1. Della mitezza, d'animo.
Con se stesso, 729. Col prossimo, 730. Alcuni
mezzi pratici, 735. — § 2. Della pace e tranquil-
lità di spirito. Osservazioni generali, 739. Tran-
quillità in mezzo alle faccende, 741. Tranquillità
durante pene, prove e insuccessi, 744. Tranquillità
nelle imperfezioni, 749. Alcuni consigli pratici,
751. Nell'umiltà la pace, 754. — § 3. Uguaglian-
za di spirito. Uguaglianza nelle cose temporali,
758. Uguaglianza nelle cose spirituali, 761. Ugua-
glianza indispensabile ai religiosi, 765. — § 4.
Della pazienza. Valore della pazienza, 769. Guar-
dare in alto, 775. Croce, Crocifìsso, croci, 780.
Pazienza nelle imperfezioni, 784. Pazienza nelle
malattie, 789 . .
729-798
878
CAPO NONO: Semplicità, modestia, pietà.— § 1. Della
semplicità religiosa. In che consista la semplicità,
799. Semplicità e prudenza, 803. Semplicità coi
superiori, 805. Semplicità nel conversare, 807.
Semplicità in casi di urti o di avversioni, 809.
Semplicità nella direzione e vita spirituale, 811.
Prudenza nella semplicità, 818. — § 2. Della
modestia religiosa. La vera modestia, 819. Mode-
stia esteriore, 820. Modestia interiore, 826. Mo-
destia nel parlare, 832. Modestia nel vestire, 834.
—• § 3. Della pietà religiosa, 835. Pietà intima,
835. Pietà forte, 836. Pietà generosa 837 . . 799-842
CAPO DECIMO: Il pensiero della morte.— § 1. Se e
come si debba temere la morte. Sentenze di Filo-
sofi e di Padri, 843. La morte è per sè temibile,
845. Temere la morte senza temerla, 859. — § 2.
Dieci suggerimenti a chi teme troppo la morte,
860. — § 3. Come si debba pensare alla morte.
Pensarvi in ogni tempo, 864. Pensarvi in vista del-
l'eternità, 866. Pensarvi in Gesù Cristo, 568.
»
Conclusione, 870
843-870