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Revista
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Segunda
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Il Rettor Maggiore
Spiritualità e missione
Don Pascual Chávez Villanueva, Rector Mayor
Cari neo missionari della spedizione n. 140!
La riflessione che vi offro prende le mosse dal testo più classico del mandato missionario che il Signore affida ai suoi discepoli, ossia dalla pericope che conclude il Vangelo di Matteo (Mt. 28,16-20). Si tratta di un passo che ogni missionario porta certamente nel suo cuore come chiave di lettura della propria esistenza e come impulso interiore del proprio agire, perché in queste poche parole la natura autentica della missione cristiana viene espressa in una sintesi meravigliosa, la cui ricchezza deve essere sempre di nuovo riscoperta nella profondità della preghiera, nell’impegno della riflessione e nell’obbedienza della vita.
Ascoltiamo anzitutto con rinnovata apertura del cuore e freschezza della mente le parole che il Risorto ha rivolto agli Undici, in quello che nel Vangelo di Matteo è il suo ultimo incontro con loro e si presenta come il punto sintetico e la chiave di lettura dell’intera narrazione evangelica:
Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.
Con riferimento al tema “Con Cristo nella missio ad gentes”, colpisce in modo molto vivo il fatto che l’imperativo con cui il Risorto assegna agli apostoli e alla Chiesa di ogni tempo il mandato missionario (“Andate e fate discepoli tutti i popoli”) sia racchiuso entro due affermazioni all’indicativo che riguardano Lui stesso e esprimono la sua identità: una dichiarazione sulla sua autorità universale (“A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”) e una parola di assicurazione (“Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”).
La struttura letteraria del discorso trascrive così in modo molto efficace la natura teologica della missione: il mandato apostolico è incastonato tra le sentenze che si riferiscono al Risorto, perché il luogo entro cui comprendere la natura e il senso della missione è proprio Lui. Ciò che gli apostoli e i missionari di ogni epoca devono fare deriva totalmente da ciò che Lui è.
Cerchiamo perciò di svolgere alcune riflessioni su questo tema, sviluppando quattro spunti che questo denso passo propone: (1) l’origine pasquale della missione, (2) il suo dinamismo esistenziale, (3) le sue modalità di attuazione, (4) la sua mistica profonda.
Origine pasquale della missione
La prima affermazione del testo è una solenne dichiarazione di Gesù circa la propria signoria (εξουσία) di Risorto. Essa esprime in maniera ricca e illuminante la novità dell’evento pasquale: Gesù mediante la risurrezione è costituito nel pieno esercizio del suo potere e condivide a pieno titolo, anche nella propria umanità, la signoria salvifica di Dio sul cosmo e sulla storia. Per questo a Lui può essere attribuito il nome che in Mt 11, 25 viene rivolto al Padre: “Signore del cielo e della terra”. Sentiamo in quest’affermazione l’eco della profezia di Daniele sul Figlio dell’uomo (cfr. Dn. 7, 14), che Gesù aveva applicato a sé di fronte al Sinedrio: “Vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo” (Mt. 26, 64) e comprendiamo così che Gesù annuncia solennemente ai discepoli la propria vittoria sulle potenze del male e della morte e si presenta loro come portatore di rinnovamento per tutta la creazione.
È molto importante per un missionario, che quotidianamente viene a contatto con le più varie e dolorose forme della povertà umana, materiale e spirituale, un’ assidua contemplazione interiore di questo mistero. Il lavoro pastorale, soprattutto nelle zone più desolate e povere del pianeta, fa toccare con mano la potenza brutale dell’egoismo e della sopraffazione, da cui deriva la condizione disumana in cui sono costretti a vivere tanti fratelli e sorelle. Il confronto quotidiano con quest’aspra realtà può condurre fino alla sfiducia e al logoramento interiore delle forze o alla tentazione di cercare vie di soluzione che non sono quelle suggerite dal Signore Gesù. Lo sguardo di fede di un missionario deve dunque tenersi sempre profondamente indirizzato verso Colui che ha pieno potere in cielo e in terra, per potersi confermare nella convinzione profonda che Gesù è la sorgente escatologica da cui zampilla il rinnovamento del mondo (cfr. Gv. 7 ,37-39; 19,34): in Lui e solo in Lui è presente un potere (εξουσία) che si rivela più forte di qualsiasi potenza mondana, perché è la forza stessa di Dio, cui nulla può resistere.
Bisogna poi aggiungere, come insegna la Lettera agli Ebrei, che tale potere è stato acquisito da Cristo proprio attraverso il cammino che l’ha portato a rendersi intimamente solidale con l’uomo e con la sua condizione di fragilità. Nella prospettiva sacerdotale tipica di questo scritto del Nuovo Testamento si afferma che Gesù è stato “reso perfetto” nella sua identità di mediatore tra Dio e l’uomo proprio attraverso la sofferenza (cfr. Eb. 2, 10; 5,9). Il Sommo Sacerdote che ha attraversato i cieli ed è stato intronizzato dal Padre alla sua destra, è colui che si è reso “in tutto simile ai fratelli” (Eb. 2, 17) ed “è stato messo alla prova in ogni cosa come noi” (Eb. 4, 15).
Per questo l’autore di questa splendida omelia può incoraggiare i cristiani perseguitati ricordando loro che Gesù “proprio per essere stato messo alla prova e aver sofferto personalmente, […] è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (Eb. 2, 18). Si tratta di un messaggio sconvolgente, di grande forza e consolazione: la potenza vittoriosa del Risorto è quella di Colui che si è fatto fratello di ogni uomo, solidale con il livello più basso della miseria umana e proprio per questa via è divenuto vincitore. “La gloria di Cristo”, afferma in un suo commento il Card. Vanhoye, “non è la gloria di un essere ambizioso soddisfatto delle proprie imprese, né la gloria di un guerriero che ha sconfitto i nemici con la forza delle armi, ma è la gloria dell’amore, la gloria dell’aver amato sino alla fine, di aver ristabilito la comunione tra noi peccatori e suo Padre”.1
Quando dunque Gesù annuncia agli Undici che gli è stato dato ogni potere, non lo fa certo per informarli su un suo successo personale, ma per trasmettere loro, e attraverso di loro a ogni uomo, la più bella notizia della storia: Egli ha vinto per noi. Per questo siamo tutti chiamati ad abbandonare il mondo vecchio, il mondo della corruzione e del peccato, della menzogna e del non senso, per entrare nella creazione nuova, in quello che potremmo chiamare un nuovo habitat, di cui Gesù è appunto Signore. È l’habitat del Regno di Dio, Regno di giustizia, di pace e di amore, in cui si entra rivestendosi dell’uomo nuovo. La testimonianza dei missionari deriva precisamente dall’aver scoperto nella propria vita questa beatitudine del Regno, dall’aver sperimentato su di sé la potente solidarietà di Cristo e la sua signoria di amore che rinnova e trasforma con potenza.
Il carattere totalizzante di questa signoria di amore è messo fortemente in risalto dal fatto che in questi versetti ricorre per ben quattro volte l’aggettivo “tutto” (πάς): “tutta la potenza”, “tutti i popoli”, “tutto ciò che vi ho comandato”, “tutti i giorni”. Con l’insistenza su questo aggettivo, l’evangelista vuole certamente mostrare come non vi sia dimensione nello spazio e nel tempo che si sottragga all’influsso del Signore Gesù, che possa risultare estranea al rinnovamento che Egli ha introdotto nella storia, che non sia destinataria della sua azione.
Tra le varie considerazioni che questo dato potrebbe suggerire, a noi interessa in particolare mettere in rapporto la signoria salvifica di Gesù con l’universalità della missione. Il testo matteano è quanto mai esplicito: l’evangelizzazione deve essere indirizzata a “tutti i popoli”. Già nell’ultima cena Gesù aveva chiaramente espresso la dimensione universale della sua azione salvifica, affermando che il suo sangue, nel quale si realizzava la nuova e definitiva alleanza, veniva effuso “per le moltitudini” (Mt. 26, 28). Era dunque chiaro per la comunità nascente che, a seguito della morte e risurrezione di Gesù, era necessario superare ogni forma di esclusivismo della salvezza; ma la fatica per tradurre in atteggiamenti e scelte concreti questa certezza non fu certo piccola. Era richiesto un vero capovolgimento di mentalità, in cui ebbe un ruolo rilevante proprio l’azione del grande Apostolo delle genti, che è il modello di ogni missionario, Paolo di Tarso. Al pensiero che “uno è morto per tutti” (2 Cor. 5, 14) egli si sentì posseduto e spinto dall’amore di Cristo: caritas Christi urget nos. pur essendo nato e cresciuto nella mentalità del più rigido esclusivismo ebraico, Paolo imparò a guardare gli uomini di altri luoghi e culture con occhi totalmente nuovi, perché “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1 Tim. 2, 4).
Cari fratelli, anche per noi oggi l’orizzonte universale della missione continua a essere una sfida aperta e un traguardo tutt’altro che raggiunto. Non si tratta evidentemente di una colonizzazione ecclesiale del pianeta, ma del servizio dell’amore e della verità nei confronti di milioni, miliardi di uomini che non conoscono la novità di Cristo e l’esperienza dolcissima del suo amore e della sua compagnia. Giovanni Paolo II nella grande enciclica Redemptoris missio, riferendosi alla buona novella del Vangelo, scriveva: “tutti di fatto la cercano, anche se a volte in modo confuso, ed hanno il diritto di conoscere il valore di tale dono e di accedervi. La Chiesa e, in essa, ogni cristiano non può nascondere né conservare per sé questa novità e ricchezza, ricevuta dalla bontà divina per essere comunicata a tutti gli uomini”.2
Nel contesto di un mondo sempre più caratterizzato dalla globalizzazione, con tutti i fenomeni che ne derivano (incontro di culture e tradizioni diverse, fenomeni migratori, egemonia del mercato, ...), la sfida dell’universalità della missione si ripropone con estrema urgenza. L’indifferentismo religioso e il relativismo culturale che segnano in particolare l’Occidente, tendono a spegnere la percezione dell’assolutezza di Gesù Cristo e a favorire un riflusso della fede nel privato e perfino nel soggettivismo di una religione “fai da te”, da cui ovviamente non può venire alcuna spinta missionaria. Anche le nostre comunità cristiane rischiano di esserne contagiate fino a non avvertire più l’urgenza di evangelizzare, di aprirsi all’esterno, di incontrare il fratello diverso, di osare il rischio di un coinvolgimento della testimonianza in prima persona.
Anche noi missionari potremmo risentire di questo clima e lasciarci affascinare da impegni meno direttamente centrati sulla testimonianza di Gesù, per accontentarci di qualcosa che nell’immediato sembra essere più efficace che non la semina evangelica della Parola di Dio. Oppure potremmo essere tentati di restare in posizioni stagnanti, lontane dalla frontiera del primo annuncio. Quella parola che nasce dal cuore di Cristo e ci comanda di condurre a Lui tutti i popoli deve inquietare le nostre coscienze, risvegliarci da ogni inerzia e pigrizia e ridarci il coraggio della temerarietà.
Dinamismo esistenziale della missione
Dall’affermazione della signoria di Cristo deriva l’imperativo della missione. È significativo il modo in cui il testo evangelico si esprime. Affermata la signoria di Gesù, esso prosegue: “Andando dunque fate discepoli …”. Quel “dunque” (οΰν) esprime la consequenzialità che sussiste tra la prima affermazione e la seconda. È come se l’instaurarsi della signoria di Cristo, che è poi il movimento con cui l’amore di Dio viene incontro all’uomo, suscitasse il movimento della missione. L’andare dei discepoli in tutto il mondo deriva precisamente dall’eterno andare di Dio incontro ad ogni uomo, e proprio per questo deve rispecchiarlo in profondità: non può essere un cammino deciso sulla base di calcoli umani, ma deve lasciarsi continuamente plasmare dalla docilità al volere del Signore Gesù.
È questo, penso, l’insegnamento che ci trasmettono quegli episodi degli Atti degli Apostoli in cui il Signore sembra indicare in maniera molto diretta i luoghi dove il missionario deve recarsi. Al diacono Filippo, ad esempio, un angelo dice “Alzati e va’ verso il mezzogiorno, sulla strada che scende a Gerusalemme a Gaza” (At. 8, 26), dove incontrerà il funzionario della regina Candace. A Paolo e Timoteo, che dalla Misia volevano passare in Bitinia, “lo Spirito di Gesù non lo permise” (At. 16, 7) e, mentre si trovavano a Triade, una visione notturna dice all’Apostolo di dirigersi in Macedonia. È significativo che lungo l’intera storia del cristianesimo i Santi abbiano in diversi modi sperimentato che il Signore indicava loro un particolare territorio verso cui indirizzare le proprie energie. Non posso, ad esempio, non fare cenno, a questo punto, ai sogni missionari di Don Bosco. Anche nella nostra storia salesiana Don Bosco sognò con molta precisione alcuni popoli cui avrebbe dovuto inviare i suoi primi missionari. È il segno che l’andare del discepolo è realmente mosso dal venire di Dio. Naturalmente queste esperienze straordinarie d’illuminazione divina non possono essere la forma normale del discernimento. Ordinariamente, infatti, la luce per le scelte pastorali va cercata nell’ascolto orante della Parola, nell’accoglienza delle indicazioni e delle richieste della Chiesa, nell’attenzione ai segni dei tempi. Ma la loro presenza nella storia della Chiesa, e in particolare nei momenti di fondazione degli Istituti, rimane il segno eloquente di come l’azione apostolica richieda docilità assoluta ai voleri di Dio e al soffio dello Spirito.
Se sotto il profilo “geografico” la missione non ha confini, poiché tutti i popoli devono essere raggiunti dall’annuncio della signoria di Cristo, potremmo chiederci: sotto il profilo esistenziale, fin dove deve arrivare il cammino del missionario? La risposta non può che essere identica: fino al dono di sé senza limiti, senza confini. Anche al missionario, infatti, come a Pietro, il Signore dice: “Duc in altum, prendi il largo” (Lc. 5, 4). Il “largo” non è certamente un punto preciso verso cui dirigersi, ma è una situazione in cui ci si è lasciati alle spalle le sicurezze della riva, per sfidare il mare aperto. Esso è il luogo in cui l’unica sicurezza proviene dalla compagnia del Signore e dall’obbedienza al suo volere; è il luogo in cui non si andrebbe mai sulla base di consolidate prudenze mondane; è il luogo verso cui si è diretto il cammino dei grandi personaggi biblici, indipendentemente dalle strade della terra che hanno percorso. Cari fratelli, dicendovi “Andate”, il Signore chiede a voi come singoli e come Istituto religioso di raggiungere anzitutto questo luogo, cui si arriva solo con un profondo atto di fede e di disponibilità. L’esperienza di vita missionaria ad gentes deve fare proprio questo cammino, perché è solo andando là dove Dio ci conduce che, come Filippo e come Paolo, si diviene capaci anche di capire i luoghi e le situazioni concrete in cui ci si deve recare condotti da Dio.
D’altra parte non è stata questa, forse, l’esperienza di Paolo? Ben prima dei suoi viaggi missionari, ha dovuto fare un viaggio molto più impegnativo: quello verso le profondità del proprio cuore, accettando un radicale capovolgimento della sua precedente visione del mondo e della vita. Un viaggio avviato sulla strada per Damasco, che l’ha visto arrivare alla meta in modo completamente diverso da come lo aveva immaginato: non più con la baldanza dell’uomo sicuro di sé e della propria giustizia, che va a mettere in atto i propri progetti, convinto di agire nel nome di Dio, ma con l’umiltà di chi si è arreso e consegnato a un Mistero più grande e trepida per capire che cosa il Signore si aspetti da lui. Senza questo primo e fondamentale viaggio, non avremmo il grande apostolo delle genti, il viaggiatore instancabile che ha percorso le strade del mondo, fino al centro dell’Impero, per annunciare la stoltezza e la debolezza della croce come sapienza e forza di Dio. Non avremmo colui che, alla fine, annunciò Cristo soprattutto con il martirio, portando la consegna della sua vita fino alle estreme conseguenze. E qui non possiamo fare a meno di chiederci fino a che punto noi, questo primo e fondamentale viaggio della fede, l’abbiamo davvero fatto e fino a che punto siamo convinti che questa è la condizione fondamentale perché nel nostro molteplice andare per il mondo si possa realmente usare un termine cristianamente così alto, come è quello di “missione”: il termine che Gesù stesso usa per indicare ciò che il Padre ha fatto con Lui, che ne è l’Inviato, il Mandato, l’Apostolo.
L’andare degli apostoli e dei missionari, messo in moto dall’andare di Dio stesso, non è però l’unico movimento che viene messo in risalto in queste parole. Nell’affermazione “fate discepoli” (μαθητεύσατε) è infatti incluso il movimento di coloro che, diventando appunto discepoli (μαθητάι), si apriranno a Cristo e andranno incontro a Lui. È noto che il contenuto della missione viene esplicitato con sfumature diverse dai quattro evangelisti, come è riconosciuto anche da Redemptoris missio n.23, e che in Matteo l’accento è posto sulla fondazione della Chiesa; ma non è questa la sede per una discussione di tal genere. Interessa piuttosto rilevare che, poiché il discepolato cristiano non può avere in alcun modo la forma di un’appartenenza indotta con la forza, l’espressione “fate discepoli”, mentre affida l’impegno di un insegnamento autorevole, apre l’orizzonte di un limpido cammino di libertà. Diventare discepoli di Gesù, infatti, significa diventare discepoli della vera sapienza, e quindi essere raggiunti nel profondo del proprio spirito dallo splendore della luce divina. Significa allo stesso tempo entrare nella grande famiglia dei discepoli che è la Chiesa, scoprendo la compagnia di tanti altri fratelli non solo nella comunione sincronica di una comunità che si estende in tutti i continenti, ma anche nella comunione diacronica con tutti i cristiani che ci hanno preceduto e che già sono presso Dio, a cominciare dalla Vergine Santissima e da tutti i Santi del cielo.
Quale meraviglioso movimento è quello di una libertà che entra nel discepolato cristiano e respira l’aria fresca del Vangelo, lasciandosi ossigenare dallo Spirito di Cristo! È come una danza, una festa della libertà, che coinvolge non solo i singoli, ma intere comunità e culture. Esse, aprendosi a Cristo, non perdono nulla dei valori autentici che portano dentro di sé, ma li ritrovano ad un livello più elevato, nel discepolato cristiano, purificati da ciò che avevano di ambiguo e di caduco. Comprendiamo quanto sia delicato ed esigente il ruolo dei missionari in questo servizio all’autentica libertà di coloro che incontrano, quanta intima sintonia con il Signore, quanta preparazione teologica e culturale richieda, quale capacità di ascolto e di dialogo supponga. Veramente la superficialità e l’improvvisazione in questo ambito potrebbero produrre solo danni, perché rischiamo sempre di “fare discepoli” delle nostre idee e delle nostre abitudini, delle nostre strategie e dei nostri progetti, della nostra mentalità e dei nostri schemi culturali, più che discepoli di Cristo e della sua Parola. E allora anziché favorire il movimento dei popoli verso la gioia della fede, potremmo rischiare di ostacolarlo o di rallentarlo.
Modalità di attuazione della missione
Affidando la missione, Gesù indica anche agli apostoli quelli che in qualche modo saranno i loro “strumenti di lavoro”: la parola e i sacramenti. Egli dice infatti che dovranno “insegnare a osservare tutto ciò che ha comandato” e che dovranno “battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Questo abbinamento di parola e di gesto sacramentale, di insegnamento e di azione salvific,a caratterizza da sempre il mandato di Gesù. Già i racconti evangelici di vocazione narrano che Egli mandò i Dodici “a predicare con il potere di cacciare i demoni” (Mc. 3, 14-15) e nel Vangelo l’annuncio del Regno è sempre accompagnato dai gesti di liberazione e di salvezza che ne attestano l’effettiva venuta.
Nell’accostamento di questi due elementi fondamentali della missione cristiana, emerge con chiarezza il fatto che la Parola di Dio, che il missionario deve trasmettere agli uomini, non è mai semplicemente una dottrina teorica, un insieme di verità astratte, un codice di comportamento, ma è l’espressione del comunicarsi vivo e attuale di Dio. La Parola di Dio è viva ed efficace, essa opera con forza, tanto che il Signore può presentarsi di fronte all’umanità asserendo solennemente: “Ho detto e ho fatto!” (Ez. 37, 14). E in effetti tutta la storia del mondo, dalla creazione in poi, è messa in moto da quella Parola creatrice di Dio, che nell’incarnazione prende il volto umano di Gesù.
Quando dunque il missionario annuncia Cristo agli uomini, non introduce nella loro vita qualcosa di estraneo e di avventizio, ma piuttosto rende accessibile quella Parola che da sempre fonda la loro esistenza e ne svela in modo definitivo il significato e il valore. La Chiesa, come ha ricordato autorevolmente il recente Sinodo dei Vescovi, è stata costituita casa della Parola non per trattenerla, ma piuttosto per diffonderla nel mondo intero.
Vale la pena riascoltare a questo riguardo alcuni passaggi del Messaggio al Popolo di Dio.
«Da Sion uscirà la Legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2, 3). La Parola di Dio personificata “esce” dalla sua casa, il tempio, e si avvia lungo le strade del mondo per incontrare il grande pellegrinaggio che i popoli della terra hanno intrapreso alla ricerca della verità, della giustizia e della pace. C’è, infatti, anche nella moderna città secolarizzata, nelle sue piazze e nelle sue vie - ove sembrano dominare incredulità e indifferenza, ove il male sembra prevalere sul bene, creando l’impressione della vittoria di Babilonia su Gerusalemme - un anelito nascosto, una speranza germinale, un fremito d’attesa. Come si legge nel libro del profeta Amos, «ecco verranno giorni in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore» (8, 11). A questa fame vuole rispondere la missione evangelizzatrice della Chiesa. Anche il Cristo risorto agli apostoli esitanti lancia l’appello a uscire dai confini del loro orizzonte protetto: «Andate e fate discepoli tutti i popoli… insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt. 28, 19-20). La Bibbia è tutta attraversata da appelli a “non tacere”, a “gridare con forza”, ad “annunciare la parola al momento opportuno e non opportuno”, ad essere sentinelle che lacerano il silenzio dell’indifferenza.3
E dopo aver ricordato le sfide che derivano dai nuovi mezzi di comunicazioni, in cui deve anche risuonare la voce della parola divina, il Messaggio prosegue efficacemente:
In un tempo dominato dall’immagine, proposta in particolare da quel mezzo egemone della comunicazione che è la televisione, significativo e suggestivo è ancor oggi il modello privilegiato da Cristo. Egli ricorreva al simbolo, alla narrazione, all’esempio, all’esperienza quotidiana, alla parabola: «Parlava loro di molte cose in parabole … e fuor di parabola non diceva nulla alle folle» (Mt. 13, 3.34). Gesù nel suo annuncio del regno di Dio non passava mai sopra le teste dei suoi interlocutori con un linguaggio vago, astratto ed etereo, ma li conquistava partendo proprio dalla terra ove erano piantati i loro piedi per condurli, dalla quotidianità, alla rivelazione del regno dei cieli. Significativa diventa, allora, la scena evocata da Giovanni: «Alcuni volevano arrestare Gesù, ma nessuno mise le mani su di lui. Le guardie tornarono dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: Perché non lo avete condotto qui? Risposero le guardie: Mai un uomo ha parlato così!» (7, 44-46).4
Si aprono qui orizzonti spirituali veramente meravigliosi di comunicazione del Vangelo, in cui il missionario, immedesimandosi nei sentimenti e nei pensieri di Cristo, impara a divenire sempre più suo portavoce, secondo la splendida immagine di Paolo: “in nome di Cristo siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta” (2 Cor. 5, 20). E se talora possiamo avere l’impressione che la Parola che annunciamo rimanga da molti non compresa e non accolta o che troppo piccolo sia il risultato delle nostre fatiche, ricordiamoci la parabola del seminatore. Gesù l’ha raccontata proprio per fare fronte allo scoraggiamento dei discepoli che, dopo i primi entusiasmi suscitati dal profeta di Nazareth, vedevano gradualmente ridursi di numero il gruppo di coloro che Lo seguivano. Essi iniziavano addirittura a chiedersi come avrebbe potuto nascere la salvezza di Israele da un’azione così umile, come la predicazione indirizzata a gente semplice e senza prestigio nella società. Gesù, proprio attraverso la parabola, voleva infondere ottimismo e fiducia: chi ha la pazienza del contadino può constatare che la fatica ingrata di una semina generosa, anche se è esposta al rischio di terreni sterili, viene ripagata con abbondanza.
Commentando questa parabola, in una sua meditazione sulla spiritualità sacerdotale, l’allora teologo J. Ratzinger affermava: “dobbiamo pensare alla situazione spesso quasi disperata dell’agricoltore di Israele, che strappa il raccolto ad una terra che in ogni momento minaccia di tornare deserto. Eppure, per quanto siano stati fatti sforzi vani, ci sono sempre semi che maturano per il raccolto e crescendo attraverso tutti i pericoli pervengono al frutto, ripagando abbondantemente di tutte le fatiche. Con questa allusione Gesù intende dire: tutte le cose veramente utili in questo mondo cominciano nella modestia e nel nascondimento […] Ciò che è piccolo inizia qui nelle mie parole e crescerà sempre più, mentre ciò che oggi si mette in gran mostra è già da tempo affondato”.5
Nell’annuncio della parola, dunque, c’è una logica di piccolezza e di umiltà che ogni missionario deve imparare. Egli non di rado “nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da gettare”, ma lui o chi lo seguirà avrà la gioia di “tornare con giubilo, portando i suoi covoni” (cfr. Sal. 125/126). Ciò che gli è chiesto, dopo tutto, non è il successo, ma la fedeltà al suo Signore anche quando comporta incomprensioni e prezzi da pagare. Solo questa fedeltà alla Parola, alla fine, non delude. Facciamo nostre dunque le parole con cui Paolo, prendendo le distanze dai falsi missionari che turbavano la chiesa nascente, ha espresso la propria linea di condotta nell’annuncio del Vangelo: “abbiamo rifiutato le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunciando apertamente la verità e presentandoci davanti a ogni coscienza umana, al cospetto di Dio” (2 Cor. 4, 2).
Su questa linea si colloca anche la celebrazione dei sacramenti e più ampiamente della liturgia della Chiesa, cui il testo di Matteo fa riferimento introducendo il tema della Battesimo con la formula trinitaria. Alla mentalità efficientista dell’uomo moderno non c’è nulla che risulti altrettanto scandaloso come la logica della liturgia. Con tutti i problemi urgenti che ci sono nel mondo - così gli viene spontaneo ragionare - non è forse una perdita di tempo dedicare il proprio tempo a celebrare? Eppure proprio la celebrazione liturgica, e in modo speciale la celebrazione dei sacramenti, porta dentro di sé la forza della Pasqua di Cristo, il dinamismo potente della vita di Dio.
Battezzare “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” significa non solo fare appello ad un’autorità giuridica che ci ha affidato la sua rappresentanza (significato profano di “agire nel nome di”), ma riferirsi alla presenza viva e alla potenza operante del Dio trinitario (significato biblico di “agire nel nome di”). Qui più che mai la missione raggiunge la propria meta, perché conduce gli uomini a incontrare non solo la testimonianza su Dio, ma Dio stesso, nei suoi misteri. E gli uomini devono essere appunto battezzati, cioè immersi attraverso la fede, nel seno della Trinità che è la loro casa; devono essere introdotti in questa potenza di amore, che si è rivelata nella εξουσία pasquale di Cristo. È questa la vera “efficienza” che rigenera il mondo, quella senza di cui invano ci alzeremmo di buon mattino e tardi andremmo a riposare, per mangiare solo pane di sudore, mentre il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno. Di qui nasce la vita della Chiesa, quell’umanità rinnovata dalla grazia pasquale che il Signore fa crescere nella storia anche attraverso di noi.
Mistica profonda della missione
L’ultima parola che Gesù dice agli Undici, dopo aver affidato loro il mandato missionario, è una parola di rassicurazione: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. È una grande promessa, che vale come garanzia di incoraggiamento e di fiducia. In essa risuona l’eco del sostegno che Dio ha sempre garantito nell’Antico Testamento a coloro che aveva chiamato per una vocazione speciale: “Non temere, io sono con te”. In essa si compie soprattutto l’identità di Gesù, che fin dall’inizio del Vangelo di Matteo, nei racconti dell’infanzia, è presentato come l’Emmanuele, il “Dio con noi”. Gli eventi della passione, morte e risurrezione di Gesù non hanno dunque cancellato la sua presenza dalla storia, ma l’hanno resa definitiva e permanente, nel tempo e nello spazio, fino alla fine del mondo.
Percepiamo certamente quanta consolazione e forza proviene da queste parole. Ogni giornata della nostra vita si apre e si chiude nella luce di una presenza rassicurante, più forte di ogni solitudine e di ogni paura. La gioia del nostro celibato, la ricchezza di una vita che rinuncia ai beni terreni, la libertà della nostra obbedienza trovano qui il loro più autentico fondamento e proprio di questo mistero vogliono essere segno eloquente. Cristo è con noi e riempie la nostra vita in modo traboccante. La pienezza interiore che ne deriva è in fondo il vero tesoro del missionario e il dono più grande che egli può trasmettere a coloro cui è inviato. Nulla è più persuasivo e convincente di una vita che si rivela abitata dalla presenza luminosa di Cristo, fino a lasciarlo trasparire nella serenità del volto, nella profondità dello sguardo, nell’umiltà del tratto, nella verità dei gesti e delle parole. Come Gesù è stato per i discepoli trasparenza del Padre, così il vero missionario è chiamato a essere trasparenza del Risorto. E lo può essere perché Cristo è veramente con lui, in una compagnia che diviene vera inabitazione.
Così la missione raggiunge veramente la profondità mistica che le compete. Fin dall’inizio, infatti, chiamando i Dodici, Gesù li aveva costituiti “perché stessero con lui e per mandarli a predicare” (Mc. 3, 14). Sappiamo tutti per esperienza personale quanto sia facile avvertire nella concretezza della nostra esistenza una certa tensione tra questi due elementi e come si possa oscillare in una sorta di spaccatura interiore tra preghiera e opere, contemplazione e azione, raccoglimento e dono di sé. Ora già fin dall’inizio della chiamata dei Dodici, le due dimensioni sono invece presentate insieme e intimamente connesse tra di loro: solo entrando in una profonda familiarità con Gesù si può irradiare agli altri la sua presenza e portare veramente la sua Parola. Lo stare con Gesù non può in alcun modo essere inteso come qualcosa che si realizza di tanto in tanto, nelle pause dell’attività. Il Vangelo di Giovanni è molto chiaro a questo riguardo, quando parla di una necessità assoluta di rimanere in Lui, perché senza di Lui non si può nulla. Ed in effetti, proprio in forza della novità della risurrezione, per cui la presenza di Cristo pervade ogni tempo e ogni luogo, l’intima unità tra preghiera e annuncio diviene a nuovo titolo sperimentabile. Contemplazione e testimonianza vengono così profondamente a compenetrarsi, richiamandosi a vicenda in un movimento simile a quello di sistole e di diastole del nostro cuore.
Naturalmente nel cammino personale di ogni singolo missionario, questa intima compenetrazione di preghiera e annuncio non sono mai il punto di partenza, ma piuttosto il traguardo da raggiungere. Esso richiede un cammino formativo adeguato e una costante vigilanza interiore. Solo così si può evitare un falso spiritualismo, che sottrae al lavoro apostolico e illude di una vicinanza a Dio che viene poi smentita dai fatti, e nello stesso tempo superare uno sterile attivismo, che ottiene l’unico risultato di svuotare una vocazione, e magari di condurre fino all’abbandono. L’urgenza fondamentale e il cuore stesso della missione consistono pertanto nell’apprendere l’arte suprema, quella di vivere in Gesù, nella sua signoria, profondamente immedesimati con Lui, con i suoi pensieri.
Interrogandosi sugli orizzonti della Chiesa nel Terzo Millennio, dopo la celebrazione del Grande Giubileo, Giovanni Paolo II scriveva nella Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte:
Ci interroghiamo con fiducioso ottimismo, pur senza sottovalutare i problemi. Non ci seduce certo la prospettiva ingenua che, di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi! Non si tratta, allora, di inventare un « nuovo programma ». Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste. È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio.6
E poi proseguiva disegnando come vera urgenza della Chiesa le linee di una pedagogia della santità, come “misura alta della vita cristiana ordinaria”,7 sulla base della convinzione che “questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1 Ts. 4, 3). Egli stesso sentiva risuonare l’obiezione che una tale prospettiva sembra troppo generica e alta per ispirare una programmazione pastorale, ma con estrema chiarezza rispondeva che solo assumendo con serietà e coerenza questa prospettiva, i diversi nodi della vita pastorale concreta possono trovare il bandolo di soluzione. La dimensione della santità non può aggiungersi in un secondo tempo a una programmazione apostolica impostata su altre basi, ma deve essere l’ispirazione originaria che muove l’intero discernimento pastorale. Altrimenti il rischio di perdersi in discussioni sterili e in progetti vani, che non rispecchiano il pensiero di Dio, diviene purtroppo reale.
Conclusione
Fratelli carissimi, alla vita consacrata del nostro tempo è talora rivolto il rimprovero di produrre molti servizi, ma poca santità. Forse proprio su questo è necessario confrontarsi, perché la nostre famiglia salesiana, le nostre comunità apostoliche possano essere vere scuole in cui si apprende concretamente l’arte della santità, cioè l’arte della vita cristiana autentica, come il nostro Santo Fondator Don Bosco l’ha praticato e come ce l’ha trasmesso.
Insieme a voi affido questo avvenimento pentecostale della spedizione missionaria alla Madonna, a Maria Ausiliatrice, Madre della Chiesa. Ella è stata presente sempre nella nostra storia e non ci farà mancare la sua presenza ed il suo aiuto in questa ora. Come nel Cenacolo, Maria, l’esperta dello Spirito, ci insegnerà a lasciarci guidare da Lui «per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm. 12, 2b).
Roma, 17 settembre 2009.
Bolonia y los estudios de teología8
Ildefonso Camacho y M. Juncal Guevara
Sumario: El año 2010 entrará en vigor el llamado Proceso de Bolonia. La firma por la Santa Sede de los Acuerdos de Bolonia en 2003, está obligando a las Facultades de Teología de Europa a asumir las reformas que el cambio trae consigo. El artículo analiza algunos cambios que docentes, gestores y alumnos de dichas Facultades tienen que asumir para hacer posible la plena realización de la reforma.
Palabras clave: Espacio Europeo de Educación Superior (EEES); Proceso de Bolonia; ECTS;Teología; Facultades de Teología.
Que la Santa Sede se haya incorporado al proceso de Bolonia es una decisión que merece ser destacada. Puede interpretarse, en principio, como una convicción y como un compromiso. Una convicción: la de que los estudios eclesiásticos, yen primer lugar los teológicos, deben situarse en el mismo espacio universitario que todos los demás saberes científicos para poder entrar en diálogo con ellos. Un compromiso: el de que los centros eclesiásticos tienen que funcionar de acuerdo con los estándares de una universidad en lo que se refiere a nivel de exigencias tanto para profesores como para alumnos.
Nuestro objeto en estas páginas es analizar cómo se está produciendo esta integración de los estudios eclesiásticos en el Espacio Europeo de Educación Superior (EEES). Ello nos obligará a ofrecer una panorámica previa, que habrá de ser breve, de lo que significa Bolonia. Y no queremos sólo exponer lo que está ocurriendo: deseamos también indicar algunas tareas pendientes y ofrecer algunas pistas concretas sobre cómo trabajar.
1. El proceso de Bolonia: sus hitos principales
El nacimiento formal y solemne del proceso tiene lugar al año siguiente (1999) con motivo de la celebración del quinto centenario de la Universidad de Bolonia. Es en aquella ciudad italiana donde 29 ministros de Educación europeos firman la Declaración de Bolonia: en ella se comprometen a coordinar sus políticas para alcanzar en el ario 2010 un "Espacio Europeo de Educación Superior".
Ya entonces se fijan cinco objetivos específicos. Ellos constituyen como el armazón de todo lo que se ha desarrollado posteriormente:
Adoptar un sistema de títulos académicos de fácil lectura y comparabilidad (a lo que contribuirá el "Suplemento Europeo al Título", que describa los estudios realizados).
Estructurar todos los estudios universitarios en un esquema único compuesto por dos ciclos (Grado y Posgrado, con tres y un año de duración mínima respectivamente).
Introducir un sistema para el cómputo de lo que cada título implica que se base en una unidad de medida clara y común a todos: lo que luego sería el "crédito europeo" (ECTS: "European Credit Transfer System").
Promover la movilidad de profesores y estudiantes reconociendo los periodos de estudio que se hayan pasado en otros países europeos.
Establecer un control de la calidad, aplicable tanto a centros como a profesores, que emplee criterios y métodos comparables.
Como se ve, hay una clara intención de homologar, que no unificar, de forma que todo obedezca a criterios comunes: a nivel de las titulaciones impartidas, gracias a un método uniforme de expresar los contenidos de éstas y de medir la dedicación que cada una supone para el estudiante; y a nivel también de la calidad de los centros, estableciendo criterios comunes para su medición. En una palabra, la transparencia informativa será un rasgo destacado de todo el sistema universitario, y eso redundará en beneficio de todos.
Pero esta Declaración constituye una pieza más en el proceso de construcción europea que tiene algunos precedentes dignos de ser mencionados. Nos referimos a tres.
El primero es la Declaración de la Sorbona, firmada un año antes por los ministros de educación de Francia, Italia, Alemania y Reino Unido. En ella afirmaban:
"El aniversario de la Universidad de París, hoy aquí en La Sorbona, nos ofrece una oportunidad solemne de participar en una iniciativa de creación de una zona Europea dedicada a la Educación Superior, donde las identidades nacionales y los intereses comunes puedan relacionarse y reforzarse para el beneficio de Europa, de sus estudiantes y en general de sus ciudadanos"9.
Diez años antes (el 18 de septiembre de 1988), más de cuatrocientos Rectores de universidades europeas habían firmado en Bolonia la Carta Magna de las Universidades europeas. En ella se decía:
"Depositaria de la tradición del humanismo europeo, pero con la constante preocupación de atender al saber universal, la Universidad, para asumir su misión, ignora toda frontera geográfica o política y afirma la necesidad imperiosa del conocimiento recíproco y de la interacción de las culturas".
A un nivel más general, pero también en ese mismo contexto histórico, conviene mencionar el que se conoce como Informe Delors. Reflexionando sobre las grandes coordenadas de los proyectos educativos del s. XXI, se señalaba en primer lugar el tránsito "de la comunidad de base a la comunidad mundial":
"Nuestros contemporáneos experimentan una sensación de vértigo al verse ante el dilema de la mundialización, cuyas manifestaciones ven y a veces sufren, y su búsqueda de raíces, referencias y pertenencias. La educación debe afrontar este problema porque se sitúa más que nunca en la perspectiva del nacimiento doloroso de una sociedad mundial, en el núcleo del desarrollo de la persona y de las comunidades''10.
Los diez años transcurridos desde la firma de la Declaración de Bolonia se han visto jalonados por sucesivas conferencias de los países implicados, cuatro en total se han celebrado por ahora. Un dato significativo en ellas es que el número de países participantes ha ido aumentando de una a otra: en la Conferencia de Praga (2001) estuvieron 32 países representados por sus ministros de Educación; en la de Berlín (2003) llegaron a 40 países; en la de Bergen (2005), a 45; en la de Londres (2007) se alcanzó la cifra de 46. La última Conferencia se ha celebrado en Leuven los días 28 y 29 de abril.
Se ha dicho —y no sin razón— que el objetivo fundamental del EEES es la movilidad en el mercado de trabajo, de modo que la diversidad de los sistemas universitarios europeos no sea un obstáculo para la contratación de las personas en el espacio europeo. Es comprensible que así sea dado el proceso globalizador en que nos encontramos inmersos que va diluyendo las fronteras territoriales entre los pueblos y la aceleración de todo ello en el espacio europeo como consecuencia, en gran parte, de la construcción de la Unión Europea. Sin embargo, hay que reconocer también que la excesiva preocupación por el mercado de trabajo introduce ciertos sesgos problemáticos en todo el proceso, sobre todo cuando las exigencias de dicho mercado obligan a priorizar unilateralmente la capacitación técnica reduciendo en consecuencia otros aspectos de una formación más completa, como corresponde a la mejor tradición de la universidad europea'11.
En todo caso, ante este peligro indiscutible de que la universidad se desvirtúe de su verdadera esencia ante la presión de lo económico, no está de más recordar la Carta Magna de las Universidades, firmada en 1988 por los Rectores de las universidades europeas, que establecía en su primer principio esta magnífica definición de lo que es una universidad:
"La universidad —en el seno de sociedades organizadas de forma diversa debido a las condiciones geográficas y a la influencia de la historia— es una institución autónoma que, de manera crítica, produce y transmite la cultura por medio de la investigación y de la enseñanza. Abrirse a las necesidades del mundo contemporáneo exige disponer, para su esfuerzo docente e investigador, de una independencia moral y científica frente cualquier poder político, económico e ideológico".
Tocamos aquí uno de los problemas de fondo que subyace todo el proceso de Bolonia: el de la autonomía de la universidad frente al poder político. No es un problema de ahora, ni hay que achacárselo a Bolonia. Pero se ha agravado con la reforma. La universidad nació en la Edad Media como una institución autónoma, que buscó su legitimidad en una autoridad internacional que estaba por encima de los príncipes temporales, la de la Iglesia. Con el advenimiento del Estado moderno y el afán centralizador de éste, las universidades, ya en la Edad Moderna, pasaron a depender cada vez más de la autoridad estatal, viendo limitada esa autonomía de la que tanto se enorgulleció durante siglos'12. Bolonia puede ser una vuelta de tuerca en esta sumisión de la universidad al Estado, que no lleva sino a instrumentalizarla en función de intereses políticos. El hecho de que la iniciativa de la reforma que comentamos haya venido de los gobiernos es ya significativo; aunque las universidades han querido implicarse luego en el proceso y asumir un protagonismo creciente, no es evidente que lo hayan logrado. ¿Es éste un paso más en convertir la universidad en otro instrumento al servicio de los intereses políticos de los gobiernos?
2. La Santa Sede se adhiere al proceso de Bolonia
La Santa Sede se adhirió a la Declaración de Bolonia con ocasión de la Conferencia de Berlín, el 19 de septiembre de 2003. En el comunicado final se dice literalmente:
"Los ministros deciden aceptar las peticiones de ser miembro de Albania, Andorra, Bosnia y Herzegovina, Santa Sede, Rusia, Serbia y Montenegro, `la antigua República de Macedonia' y da la bienvenida a estos Estados como nuevos miembros, expandiendo de esta forma el proceso a 40 países europeos".
Para la incorporación se pide a los aspirantes "su compromiso de buena voluntad para el cumplimiento de los objetivos del proceso de Bolonia en sus propios sistemas de educación superior". Y se añade que "sus peticiones deberían contener información sobre como ellos implementarán los principios y objetivos de la declaración".
Desde entonces la Santa Sede, principalmente a través de la Congregación para la Educación Católica, ha tomado distintas iniciativas para avanzar por la senda del EEES y responder a los compromisos implícitos en su adhesión a la Declaración de Bolonia. En tres campos se puede estructurar su actividad: la acción directa de la Congregación citada para la transformación de los centros eclesiásticos, su presencia en los eventos internacionales organizados como hitos del proceso, y la puesta en marcha de la agencia de calidad de la Santa Sede. Describiremos lo más importante que se ha hecho en cada uno de esos campos.
2.1. La transformación de los centros eclesiásticos
Es éste el ámbito donde la actividad desarrollada ha sido más continua desde el comienzo, aunque no siempre acompañada por la agilidad deseable en procesos tan complejos y que cuestionan tan a fondo inercias de muchos años. Esta acción está jalonada por seis circulares que la Congregación ha dirigido a los responsables de centros eclesiásticos y a los Presidentes de las Conferencias Episcopales.
La
primera
circular (3 marzo 2004) se
limitaba a dar cuenta de la adhesión de la Santa
Sede al proceso explicando en líneas generales lo que el EEES
significaba. Después de
cuatro páginas dedicadas a esta exposición, se comunicaba
escuetamente la creación de una "Comisión Proceso de Bolonia"
con el encargo de asumir las tareas derivadas de la
adhesión, "salvaguardando siempre el carácter eclesiástico
propio de nuestros estudios".
Dicha comisión quedaba compuesta por 10 miembros, cuatro
pertenecientes a la
198ILDEFONSO
CAMACHO-M. JUNKAL GUEVARA
La segunda circular (28 octubre 2004) dejaba claro que se mantendría la estructura de los estudios eclesiásticos en tres ciclos, de acuerdo con la constitución apostólica Sapientia christiana: el quinquenio de estudios teológicos (que incluye los necesarios presupuestos filosóficos), un segundo ciclo de especialización (dos años) y un tercer ciclo para el doctorado. Esta decisión suponía no tocar el currículo establecido desde 1979, que en realidad se adapta a los criterios de Bolonia aunque con más años de los ahí exigidos. Pero la Congregación anunciaba al mismo tiempo que está en estudio un segundo currículo de estudios, que no acabará con un título en teología sino en alguna de las ciencias afines: sólo se añade que tendría un primer ciclo de tres años y un segundo ciclo de dos.
Por lo demás, se recomendaba a los centros ir preparándose en tres puntos establecidos en el proceso de Bolonia: el suplemento europeo al título, que podría ser exigido por los estudiantes a partir de 2005; el crédito europeo, adaptando los currículos actuales a las exigencias del nuevo sistema; la certificación de la calidad, que la Congregación está estudiando con detalle a partir de los acuerdos que en el mismo proceso se están tomando.
La tercera circular (12 julio 2005) llamaba la atención sobre dos tareas que los centros debían iniciar a partir del curso académico 2005-2006. La primera es doble y más concreta: hay que aplicar el sistema comparable de créditos (es decir, traducir otras mediciones sobre dimensiones de las asignaturas y los cursos al sistema nuevo) y hay que tener a punto el suplemento al título. La segunda tarea es más compleja y va a ir adquiriendo cada vez una mayor atención por parte de la Santa Sede: el sistema de evaluación de la calidad. De momento se pide a los centros que hagan la autoevaluación durante el curso siguiente, para lo que se dan algunas pautas en un documento anexo, quedando la heteroevaluación para un "Agencia de evaluación" que la propia Santa Sede constituirá. La circular concluye recomendando que se mantenga intacta la estructura de los estudios de teología, que se adaptan en su estado actual a las exigencias de Bolonia.
La cuarta circular (30 octubre 2006) se hizo esperar más de un año. La circular comenzaba saliendo al paso de dudas y de interpretaciones incorrectas que se han hecho del proceso de Bolonia. Concretamente se subraya que no existe un organismo supraestatal con competencia reguladora sobre los Estados que se adhirieron a Bolonia, sino sólo acuerdos intergubernamentales, de modo que cada gobierno (y, por tanto, la Santa Sede) conserva todas las competencias legislativas relativas a la educación universitaria. Es más, la Congregación indicaba que ni para la acreditación de profesores ni para la evaluación de la calidad de los centros se acudiera a agencias civiles porque ambas cuestiones son competencia de la Santa Sede, que proveería oportunamente.
Punto central de esta circular era la doble cuestión de la acreditación y la calidad, aunque todavía la Congregación no tiene a punto los procedimientos que seaplicarán en un caso y otro. Por otra parte la Congregación solicita a todos los centros envíen información sobre los títulos particulares que se imparten (no los ordinarios) y sobre otros extremos del funcionamiento de los centros.
La quinta circular (20 diciembre 2007) anunciaba la creación de la "Agencia para la verificación y la promoción de la calidad" (AVEPRO): creada por la Secretaría de Estado, no por la Congregación, se pretende con ello una mayor neutralidad en el ejercicio de sus tareas. La circular insistía quizás con más fuerza que en ocasiones anteriores, en la preocupación de la Congregación por la calidad de los estudios eclesiásticos. Por lo demás, se anuncia también la próxima publicación de un Manual (Handbook) donde se incluirán todas las disposiciones relativas al proceso de Bolonia. De momento se recordaba la necesidad de haber cumplido todas las disposiciones emanadas en circulares anteriores de la Congregación.
Por fin la última circular (30 marzo 2009) tiene como objetivo "Algunos principios y orientaciones generales, referidos expresamente a las Facultades teológicas", principios que serán "canónicamente vinculantes para todas las Facultades de teología católica": ésta es la condición para garantizar "la unidad de los estudios y de los grados académicos en Teología católica". Es manifiesto el interés por dejar claro que la única competente en este terreno es la Santa Sede, teniendo como referencia siempre la Sapientia christiana; y la Congregación para la Educación Católica se encargará de publicar ulteriores "traducciones" o aplicaciones. Se insiste todavía en dos puntos: la especificidad de la teología católica (frente a otras confesiones cristianas), como objeto de los estudios seguidos en centros eclesiásticos, y la diferencia entre los currículos de las Facultades de teología y los de otros centros (como pueden ser los Institutos Superiores de Ciencias Religiosas). Se anuncian ulteriores circulares sobre la Agencia de Calidad (AVEPRO) y sobre otros estudios eclesiásticos distintos de la Teología.
La única exigencia más inmediata para las Facultades de teología se formula así: "las Facultades están obligadas, desde este momento, a formular sus propios currículos, explicitando el trabajo efectivo de los estudiantes a través de la forma de créditos (ECTS), y a definir – con precisión y realismo – los `resultados del aprendizaje', a los cuales un curriculum de estudios, una materia entera o también un solo curso, miran de preparar a través de un ciclo académico dado".
2.2. Presencia de la Santa Sede en los eventos internacionales organizados
Las circulares han ido también dando cuenta sistemáticamente de la presencia de representantes de la Santa Sede en los distintos seminarios que se han organizado en estos años sobre distintos aspectos del proceso en diferentes lugares de Europa. Esta presencia quiere subrayar la importancia que concede la Santa Sede al papel que puede desempeñar la Iglesia en el diseño de los estudios universitarios para el futuro de Europa.
Pero hay un aspecto donde la Iglesia piensa que su contribución puede ser más decisiva, paradójicamente uno de los que menos atención ha recibido en todo el proceso: la dimensión humanista. Con este fin la propia Congregación promovió un seminario (en colaboración con las universidades romanas, la Academia Pontificia de las Ciencias, la UNESCO y el Consejo de Europa), que se celebró en Roma del 30 de marzo al 1 de abril de 2006. El tema escogido fue: "El patrimonio cultural y los valores académicos de las universidades europeas como base de atracción del Espacio Europeo de Educación Superior''13. Se trabajó en él en una doble dimensión: abrir la universidad a las grandes cuestiones en que se concentra el debate cultural y la investigación científica, y promover el diálogo interdisciplinar frente a la fragmentación y especialización de los saberes. De este modo se puede evitar que todo el esfuerzo se ponga en una buena formación profesional condicionada por las necesidades inmediatas del mercado de trabajo, para atender a una formación humana más integral.
2.3. Puesta en marcha de la agencia de calidad de la Santa Sede
La AVEPRO es quizás la realidad que visualiza mejor el compromiso de la Santa Sede con el proceso de Bolonia. A pesar de la lentitud con que se está realizando su puesta en marcha, no cabe duda que la Santa Sede quiere abordar con seriedad uno de los efectos más problemáticos que ha tenido la constitución apostólica Sapientia christiana: el deterioro de la calidad de los estudios eclesiásticos y de los centros donde se imparten. La facilidad que se reconoce a los obispos para crear centros se ha traducido en una multiplicación de los mismos en tiempos donde los aspirantes al sacerdocio lejos de aumentar, disminuyen; pero además a más centros se precisan más profesores, los cuales muchas veces no pueden dedicar al estudio el tiempo que una institución universitaria requiere o tienen que simultanear su actividad docente en varios centros. Se puede dudar que la resultante de todo esto esté a la altura de lo que Bolonia exige para todo centro que aspira a ser universitario.
De este problema es muy consciente la Santa Sede, y no es extraño oír hablar en altas instancias de la necesidad de acometer una reforma en profundidad de la Sapientia christiana. De momento, la puesta en marcha de la AVEPRO debe ser contemplada como una apuesta esperanzadora.
Qué ha hecho la AVEPRO en su más de año y medio de existencia? Lo más concreto ha sido la puesta en marcha de un proyecto piloto para la heteroevaluación de ocho centros en toda Europa. A finales de 2008 dicha evaluación debía estar concluida y dar pie a una iniciativa más ambiciosa para la evaluación de los más de 400 centros eclesiásticos que existen en Europa. En España ha sido la Facultad de Teología de Burgos la que fue seleccionada para ser evaluada en este proyecto piloto. Esperamos tener pronto noticias de cómo enfocará la Agencia la ingente tarea que tiene por delante.
3. Las grandes líneas que definen Bolonia y los estudios de Teología
Hasta hora hemos examinado por separado el proceso de Bolonia y la incorporación de la Santa Sede al mismo. Llega el momento de estudiar conjuntamente ambas cuestiones. Para ello hemos escogido dos de las grandes líneas-fuerza que delinean la filosofía de esta reforma: la convergencia y el protagonismo del alumno. Pensamos que estos dos principios ofrecen oportunidades de gran alcance para los centros universitarios de la Iglesia en Europa.
3.1. La convergencia
Este reto de la convergencia se ha ido manifestando progresivamente, no sólo en el deseo de facilitar la movilidad de profesores y alumnos en un único espacio europeo de educación, sino también en la consideración de esa movilidad como dinámica que debe alentar toda la actividad académica. De hecho, esa dinámica de la convergencia, que conlleva una relativización de las fronteras, se percibe detrás, por ejemplo, de la revisión de la oferta académica que obliga a replantear los catálogos de titulaciones: los perfiles de cada titulación, su versatilidad (grados manor y minor que complementa la formación del estudiante en un ámbito diferente al del título de grado que cursa), el carácter interdisciplinar...
Esta dinámica de movilidad y convergencia obliga a considerar en el marco de la educación la capacidad para integrar en la reflexión, los interrogantes que se plantean en contextos económicos, socio-políticos y culturales diferentes; la exigencia de aprendizaje de lenguas extranjeras; el uso de las TIC; la toma de conciencia de la interdependencia que marca las relaciones entre los miembros de la comunidad humana.
La convergencia busca también hacer al sistema universitario europeo capaz de competir con el mundo académico de los Estados Unidos en clave de igualdad para hacer atractivo el EEES a alumnos de todo el planeta, y poder superar, así, la excesiva endogamia que ha podido caracterizar la comprensión de los estudios universitarios en Europa. Es más, la convergencia se juega también en la capacidad de atraer hacia la Universidad grupos hasta ahora tradicionalmente apartados de ella, como los ancianos y las minorías culturales.
¿Qué retos se desprenden de esta convergencia para las Facultades de Teología? No son pocos ni desdeñables. Y es el momento ahora de abordarlos en profundidad.
El proceso en el que la Santa Sede se ha implicado es "un reto para sus instituciones [...] ya que la Santa Sede se ha adherido a la declaración de Bolonia por su comprensión de la historia y del funcionamiento del sistema educativo eclesiástico, por compartir los objetivos principales del Proceso, y por el hecho de que la Iglesia siempre ha estado comprometida en crear y difundir instituciones de educación superior"14.
Convergencia significaría entonces para las Facultades de Teología dos cosas distintas pero complementarias.
Ante todo, estaríamos hablando de una convergencia formal o jurídica: consistiría en que las Facultades de Teología vuelvan a la universidad, de la que salieron en muchos países europeos –entre ellos España– bajo la presión del pensamiento liberal y laicista del siglo XIX, pero también con el beneplácito de la Iglesia que veía así garantizada la autonomía de sus centros. Se generalizaría así en toda Europa una situación parecida a la que ya poseen Alemania o Bélgica, donde las Facultades de Teología están integradas en la red pública de enseñanza universitaria15.
En su discurso en la Universidad de Ratisbona, Benedicto XVI, a partir de su experiencia como docente universitario, decía:
"la teología, no sólo como disciplina histórica y ciencia humana, sino como teología auténtica, es decir, como ciencia que se interroga sobre la razón de la fe, debe encontrar espacio en la universidad y en el amplio diálogo de las ciencias. Sólo así se puede entablar un auténtico diálogo entre las culturas y las religiones, un diálogo que necesitamos con urgencia''16.
Estas palabras del Papa apuntan en la dirección de la otra forma de convergencia que sugeríamos: convergencia de fondo, podríamos llamarla. Si apostamos por un espacio único de educación, ha llegado el momento de aceptar el reto de una investigación y docencia de condición interdisciplinar: y es ahí donde la teología tendrá que encontrar su lugar propio desde el que entrar en diálogo con todos los saberes científicos.
Ni en un sentido ni en el otro esta convergencia supone algo inédito, porque la teología ocupó un lugar indiscutible y decisivo en los orígenes de la institución universitaria. El retorno habría que hacerlo hoy en unas coordenadas distintas a las de entonces, las de nuestro mundo secular y pluralista. Pero la presencia de la teología en la universidad contribuiría a hacer realidad esa laicidad positiva que, en palabras de Benedicto XVI significa: "un compromiso para garantizar a todos, individuos y grupos, en el respeto de las exigencias del bien común, la posibilidad de vivir y manifestar las propias convicciones religiosas''17.
En esta convergencia de fondo, la teología tiene retos propios, que derivan de las tendencias dominantes en el mundo científico actual. En alianza con los estudios humanísticos le cabe la tarea de reivindicar una concepción de la ciencia que supere el solo empirismo o el puro economicismo, que luche por dotar a la formación de otras dimensiones distintas de la competitividad y la utilidad que hoy tanto se cultivan. Valga como ilustración de la formación humanista estas reflexiones.
“Las disciplinas humanísticas no son científicas del mismo modo que las materias experimentales. Y en lo que se refiere al sistema educativo, en todos sus grados, tienen una función distinta de ellas. Las ciencias experimentales están destinadas a dotar al joven escolar de nuestros días de un lenguaje para leer el libro de la naturaleza y para estudiar la enciclopedia de las innumerables aplicaciones de la tecnología, comprendidas las que permiten que el hombre, con su acción material o con su fuerza mental, penetre en la naturaleza, utilice su potencial o modifique su curso. Son, por así decir, los saberes del «texto» o ciencias de la naturaleza. Las Humanidades, por el contrario, si se me permite seguir utilizando este lenguaje, serían las disciplinas del «contexto», o los saberes –no me gusta decir ciencias– de la cultura. Las primeras enseñan a uno cuál es su medio y lo sitúan en él, las segundas le explican qué hace uno ahí, y por qué y para qué está donde está"18.
Reto es también para la teología como ciencia de lo sagrado propiciar espacios para el diálogo sobre la experiencia religiosa, tantas veces excluida del mundo científico, como denunciaba Benedicto XVI:
"En el mundo occidental está muy difundida la opinión según la cual sólo la razón positivista y las formas de la filosofía derivadas de ella son universales. Pero las culturas profundamente religiosas del mundo consideran que precisamente esta exclusión de lo divino de la universalidad de la razón constituye un ataque a sus convicciones más íntimas. Una razón que sea sorda a lo divino y que relegue la religión al ámbito de las subculturas, es incapaz de entrar en el diálogo de las culturas"19.
Este encuentro de la experiencia religiosa con el saber científico será, por otra parte, de especial valor para contribuir a neutralizar los movimientos de signo fundamentalista, que tantas veces rehúyen toda confrontación con la ciencia.
Este enfoque interdisciplinar de los saberes es más decisivo en un mundo tan plural en ámbitos como la cultura, la raza, la religión o la lengua. Este pluralismo es una nueva razón para no acentuar indebidamente los límites que acotan los campos de conocimiento y que impiden el flujo de la investigación, tendencias esas que son signos inequívocos de una forma anacrónica e inútil de entender la función social de la universidad. Esta apertura al pluralismo de todos los órdenes debe encontrar espacio particularmente en los estudios de posgrado, ofreciendo espacios de reflexión e investigación plurales en el campo de la ética, el hecho religioso, la antropología...
Tampoco puede olvidar la teología, en este marco de la convergencia, el discernimiento de los signos de los tiempos, imprescindible para poder hacer un discurso sobre Dios —una teo-logia— a la altura de una época como la nuestra, que más que una "época de cambios" es un "cambio de época".
En otro orden de cosas, la convergencia puede ser una buena ocasión además para neutralizar la tendencia de los últimos años de multiplicar los centros agregados y afiliados a las Facultades de Teología, y para animar un proceso que rentabilice sinergias y que multiplique las relaciones de colaboración efectivas entre los centros vinculados.
En un nivel ya muy diferente, ciertas circunstancias que se dan hoy en las Facultades de Teología se convierten en oportunidades para la aplicación de Bolonia. Entre ellas, el número reducido de alumnos o la presencia de alumnos de otros contextos culturales. En los grupos son más reducidos los docentes pueden acompañar más de cerca los procesos de aprendizaje de los alumnos. Si los estudiantes, por sus necesidades de formación personal, empiezan sus estudios en centros diferentes de aquellos donde los concluyen, el Suplemento Europeo al Título puede ahorrar muchas de las dificultades actuales de convalidación o revalidación. Si la presencia de alumnos no nacionales es cada vez más numerosa20, el diseño de un aprendizaje basado en competencias recibe desafíos mucho mayores.
3.2. El protagonismo del alumno
Una reforma educativa como la de Bolonia tiene detrás una nueva concepción teórica de lo que la educación significa. Como hace notar el profesor J. Noguera,
... durante décadas, la universidad española ha desarrollado un modelo de enseñanza centrado en la transmisión unidireccional de conocimientos, del profesor al alumno. En este modelo, inspirado en la teoría conductista del aprendizaje, la lección magistral ha sido, y todavía es en algunos casos, la técnica más utilizada, mientras que el alumno adopta una función pasiva, de mero recetor de los conocimientos elaborados e “incuestionables” que aporta el profesor"21.
El proceso en el que estamos inmersos supone el paso de un sistema y una metodología centrados en la actividad del profesor y en tareas presenciales unidireccionales, de clara inspiración conductivista, a un sistema de corte cognoscitivo, que mira al trabajo del alumno, a su necesidad de "aprender a aprender", y que entiende la educación como un proceso en el que el estudiante está totalmente implicado en la construcción y la gestión del conocimiento. Porque el aprendizaje está concebido como un camino que implica la adquisición o reorganización de las estructuras cognoscitivas por medio de las cuales se procesa y almacena la información. Se habla así de un aprendizaje basado en competencias. Su objetivo es formar a las personas sobre los conocimientos científicos y técnicos, pero también desarrollar su capacidad de aplicarlos en contextos diversos y complejos, integrándolos con sus propias actitudes y valores en un modo propio de actuar tanto en lo personal como en lo profesional"22.
Esta comprensión del aprendizaje obliga a revisar elementos clave del proceso formativo como son la metodología, la forma de computar la actividad académica y la evaluación.
En cuanto a la metodología, los cambios son sustanciales ya que desplaza el peso de la actividad académica desde el profesor hacia el alumno. Por eso la nueva organización académica sustituye un tercio de la docencia presencial por actividades que contribuyan a la asimilación de las lecciones e introduzcan el desarrollo de habilidades instrumentales. Más aún, la propia docencia presencial exige una revisión en profundidad: la clase magistral no monopoliza la actividad del docente; desaparece la sincronía en el tiempo en el que uno enseña y otro aprende, porque se introduce la enseñanza telemática; se ponen en manos de los alumnos otras fuentes y recursos de aprendizaje que favorezcan ese "aprender a aprender" como tensión a lo largo de toda su vida profesional. La tradicional formación permanente, entendida como un tiempo extraordinario de formación durante la vida profesional, cambia para convertirse en una responsabilidad personal de aquel que aprendió en la universidad dónde y cómo aprender y que desarrolla esas habilidades en momentos oportunos de su vida laboral.
También cambia la forma de computar la actividad académica: ahora pasa a serlo el trabajo personal del alumno en su tarea personal de construcción del conocimiento. Bolonia introduce un sistema ECTS de cómputo del esfuerzo académico, en el que el crédito es una unidad de medida del trabajo personal del alumno y engloba tanto la enseñanza teórico-práctica más tradicional, como cualquier otra actividad, presencial o no, que desarrolle para conseguir sus objetivos de aprendizaje.
Y todo lo anterior se traduce en una revolución del proceso ele evaluación. En primer lugar, queda superado el examen final presencial como única medida del aprendizaje, para pasar a una evaluación procesual que considera todo el trabajo personal que el alumno realiza: asistencia a sesiones teórico-prácticas, teleformación, investigación autónoma, tutorías, estudio personal... Además, el examen tradicional, pensado para evaluar principalmente la capacidad memorística, tiene que ser sustituido por un sistema que valore también la adquisición de habilidades y el progreso que el alumno realiza en su capacidad de organización y su responsabilidad en el proceso de aprendizaje. Por último, ha de encontrarse el modo de evaluar también la asunción de los valores que se han propuesto entre las competencias actitudinales23.
Esta comprensión del aprendizaje tiene, naturalmente, grandes opositores. Especialmente, en los estudios universitarios, algunos llegan a afirmar que "la universidad tiene cosas más importantes que hacer que formar usuarios de ordenador”24. Pero hay una crítica más de fondo: la de que Bolonia implica una vinculación absoluta entre la universidad y la empresa, la cual desvirtúa y entiende erróneamente lo que significan el conocimiento, la investigación y la función social de la universidad. He aquí una expresión radical de esa crítica:
"La mercantilización de las universidades se debe detener. El objetivo de los poderes no es privatizar las universidades, sino gestionarlas con criterios procedentes de las empresas privadas. Por eso las autoridades juran que las universidades no se privatizarán. Callan que les basta el objetivo de que funcionen como empresas en un mercado de servicios educativos. Las universidades han de ser la sede principal de la crítica intelectual, cultural y política de su actual conformación. Y han de promoverla las gentes más disponibles para ello: los universitarios"25.
Convertir la universidad en empresa, imponerla su lógica, sería, en efecto, un empobrecimiento del que no estamos a salvo ni en la universidad ni en otros ámbitos de la sociedad. Pero esto no debería llevarse al extremo de que no se dé una relación fecunda entre ambas instituciones, que para ser fecunda exige que la universidad conserve la propia identidad.
A las Facultades de Teología el paso a un aprendizaje basado en competencias les va a suponer un cambio sustancial. La preocupación por los contenidos de lo que se enseña y por la ortodoxia de los mismos ha desplazado a un muy segundo término las cuestiones metodológicas y la atención a la innovación docente. La puesta en marcha del EEES es la oportunidad para tomar conciencia de lo que exige un aprendizaje basado en competencias a los docentes de las Facultades de Teología26. Cosas tan importantes como éstas:
Ser conscientes y comprender las distintas fórmulas en que un alumno aprende.
Conocer las metodologías apropiadas para dar respuesta a los nuevos retos que se plantean como docentes.
Disponer de conocimientos, destrezas y actitudes necesarias para emplear la evaluación de los alumnos como una herramienta para favorecer el aprendizaje.
Emplear las posibilidades que brindan el desarrollo de las tecnologías de la información y la comunicación.
Dominar las técnicas de tutoría, tanto presenciales como a distancia.
Todo esto supone, ante todo, un cambio de talante, pero también la adquisición de conocimientos y destrezas que van más allá de los contenidos de lo que se enseña"27. En palabras de la profesora M. A. de la Cruz:
"Hoy no es posible una docencia universitaria de calidad sin una formación profesional específica que aporte los conocimientos, destrezas y actitudes que el oficio de profesor universitario requiere. Como a todos los oficios, a éste le ha llegado el momento de la profesionalización. La actividad docente, para ser eficaz, exige unos conocimientos teóricos y prácticos que no se identifican con los conocimientos de la disciplina que se enseña"28.
Pero no basta con pensar en el profesor, es preciso también interrogarse sobre el alumno. Porque éste posee hoy un perfil distinto. Los alumnos de Teología han dejado de ser principalmente candidatos al sacerdocio, como ocurría hace unas décadas, y se han diversificado: religiosos no sacerdotes, religiosas y laicos. También se han diversificado sus motivaciones: animados, desde luego, por un deseo de saber dar razón de aquello en lo que creen, muchos aspiran además a capacitarse profesionalmente como profesores de religión, catequistas, coordinadores de pastoral o animadores de la fe. Con todo, la adquisición de estas competencias profesionales no puede ahogar lo que es esencial en toda formación: la dimensión humana de ésta, el que se trata de formar personas y no sólo trabajadores. En palabras del P. Adolfo Nicolás:
"La implantación del EEES se sitúa también en una frontera porque el trabajo de aprendizaje de competencias puede estar orientado solamente a satisfacer las necesidades inmediatas del mercado o puede proponerse también alcanzar un desarrollo integral e integrado de los alumnos en función de un concepto de persona capaz de enfrentarse a las necesidades profundas de la sociedad actual"29.
No está pensando él sólo en los alumnos de teología, pero sus palabras nos ayudan también a recordar la necesidad de preparar a todo estudiante universitario para responder a las demandas profundas de nuestro tiempo, aquéllas que rebasan el estrecho perfil de competencias muy especializadas. A la teología, y al estudiante de teología, le es preciso sensibilizarse a los interrogantes de nuestra sociedad: de este modo incluso podrían ayudar a nuestros contemporáneos a explicitar las cuestiones más profundas, que más difícilmente afloran a la conciencia. La teología como saber científico tendría que materializarse en unos currículos de estudios más abiertos a otras materias complementarias. Incluso sería oportuno plantear si no cabrían posgrados donde se diera más explícitamente el encuentro de la teología con otras ciencias (el arte, la medicina, el derecho, las humanidades, etc.). ¿Cabría pensar en unos posgrados concebidos, no como especialización teológica y para graduados en teología, sino desde otros campos profesionales que quieren enriquecerse con las aportaciones de la teología? Estaríamos pensando entonces en alumnos con una sólida formación interdisciplinar, que ayudarían al encuentro de la teología con otros saberes profanos.
De este modo estaríamos asumiendo un hecho que, a primera vista, desconcierta a no pocos. Se refería a él el P. Adolfo Nicolás en la intervención antes citada:
"Afortunadamente, el `espíritu' y la espiritualidad van dejando de ser patrimonio exclusivo de las religiones y de los creyentes. Muchos hombres y mujeres de nuestro tiempo, alejados por múltiples motivos de las grandes tradiciones religiosas, no renuncian por ello a cultivar su espíritu. Estamos en un mundo plural y en cambio y por lo tanto la definición del espíritu es difícil de precisar. Pero parece que los distintos itinerarios confluyen en algunos puntos fuertes: el cultivo de una sensibilidad humana profunda que dé a la vez empatía y capacidad de discernimiento; la salida de la perspectiva espontáneamente egocéntrica con la que nos situamos ante las personas y ante toda realidad; la búsqueda de una manera de ver y vivir el mundo de una manera pacificada, compasiva y solidaria. Trabajar el espíritu puede significar también desarrollar `calidad humana'. En todo caso, la persona `espiritual' es la que busca; discierne; e intenta dar cuerpo a las grandes opciones de la vida desde una gran libertad inspirada en el amor"30.
4. Algunas experiencias concretas
Fue nuestra intención desde que nos propusimos redactar este artículo no quedarnos en la exposición más teórica de lo que significa Bolonia, sino aportar también los pasos que hemos podido dar para la aplicación de este nuevo método de trabajo. Partimos para eso de la jornada de reflexión y estudio que celebró en claustro la Facultad de Teología de Granada en febrero de 2005. Fue el principio de un proceso de diálogo y búsqueda que fue fraguando documentos como el perfil del egresado en nuestra Facultad, el diseño de competencias por departamentos, la encuesta interna de calidad...
A comienzos del curso 2006/7 algunos profesores comenzaron una serie de experiencias docentes que pretendían ir aplicando ya las propuestas didácticas del proceso. A lo largo de los cursos siguientes, otros profesores se fueron incorporando a la experiencia y se fueron consolidando ciertas prácticas docentes.
Los autores de este artículo queremos exponer el trabajo que hemos ido realizando en algunas de las asignaturas que impartimos. Lo que presentamos no tiene un carácter definitivo; sólo pretende ilustrar sobre cómo se puede ir poniendo en práctica lo que Bolonia exige con el convencimiento de que esa práctica nos irá dando pistas para corregir y mejorar.
4.1. Pentateuco
La asignatura Pentateuco está incluida en el paradigma del ciclo institucional, en el curso tercero y tiene asignados 4,5 créditos ECTS.
Los alumnos recibieron el primer día de curso la correspondiente Guía Docente con el programa desarrollado y el cronograma del mes de octubre. Se les pidió entregaran su dirección de correo electrónico para recibir el material complementario y para mantener una línea abierta de contacto profesor/alumno que permitiera el envío de materiales y los cronogramas de cada mes.
4.1.1. Guía Docente
La Guía Docente siguió el esquema utilizado generalmente en la Universidad de Granada31, con algunas adaptaciones a nuestras circunstancias.
En el apartado dedicado a las competencias, que es donde se juega el carácter más particular de la asignatura que se ofrece (pues se supone tiene detrás el perfil del egresado elaborado en la Facultad y las competencias seleccionadas en el Departamento), la Guía señalaba las siguientes:
Cognitivas
la historia de la investigación en torno al Pentateuco,
el proceso de composición del Pentateuco,
la visión de conjunto del Pentateuco: tradiciones, geografía, mensajes religiosos,
la visión global de cada uno de los libros del Pentateuco, su estructura, las tradiciones, documentos y teologías presentes en cada uno de ellos;
la imagen que de Dios y del hombre se presentan en el Pentateuco,
los itinerarios geográficos propios del Pentateuco,
que existe una literatura bíblica, apócrifa y parabíblica que relee las tradiciones del Pentateuco.
Instrumentales
reconocer a los personajes y acontecimientos fundamentales del Pentateuco,
relacionar el Pentateuco-Torá con el conjunto de la literatura bíblica, encuadrar los libros del Pentateuco en la estructura actual del mismo, identificar las grandes tradiciones y sus líneas teológicas fundamentales,
identificar el espacio geográfico de las tradiciones,
explicar las teorías sobre la composición del Pentateuco,
encuadrar los textos propuestos para análisis en el conjunto de las tradiciones y analizarlos exegéticamente siguiendo un esquema previo,
buscar información en las revistas bíblicas de lengua castellana
Actitudinales
que la Biblia debe ser considerada desde un triple punto de vista: literaria, histórico-geográfica y kerigmática,
que la Biblia debe animar cualquier tarea evangelizadora de la Iglesia En el apartado referente a la evaluación, la Guía Docente señalaba lo siguiente:
Tipo de tareas |
Instrumento de evaluación |
Criterios de evaluación |
Clases presenciales |
Control de asistencia |
Actitud, motivación y |
exposición magistral |
Recogida y corrección de |
participación del alumno |
sesión de seminario |
trabajos |
Entrega de los trabajos |
Trabajo personal del |
Entrega de la ficha de |
Rigor en la elaboración de las |
alumno |
seguimiento |
prácticas de los seminarios: si |
estudio personal |
Examen final sobre |
se ha seguido el esquema, si se |
trabajo de sem inario |
competencias cognitivas |
ha consultado bibliografía, si |
trabajo síntesis |
Corrección de los trabajos |
se entrega limpio y claro. |
|
|
Si la ficha recoge lo tratado |
|
|
Baremo del nivel de conocimientos cognitivos alcanzados |
|
|
Valoración de los conocimientos instrumentales |
4.1.2. Correcciones a partir de la experiencia
Un primer dato: el 77% de los alumnos superó la asignatura. El porcentaje es bueno aunque la profesora es consciente de que debe mejorar el sistema de evaluación de algunos trabajos concretos y que ayudaría a los alumnos que en la ficha-guía de los mismos incluyera un apartado sobre criterios de evaluación. Debe, así mismo, hacer constar claramente en la Guía Docente cuáles son los criterios de evaluación de las sucesivas convocatorias. Por último, puede ayudarle pedir a los alumnos hagan una evaluación final y detallada de todas las propuestas, metodologías y materiales que se han puesto en juego durante el desarrollo de la asignatura.
Todos los alumnos reconocieron que tuvieron que imponerse un fuerte ritmo de trabajo personal semanal y que resultó difícil compaginar el ritmo que imponían las asignaturas que trabajan en la pedagogía de Bolonia con el ritmo de aquéllas que aún no se han incorporado al plan, dado que, a la hora de la verdad, ni se había reducido el porcentaje de presencialidad, ni se había producido una sintonía en la exigencia. Es bueno mantener en las fichas de trabajo de seminario el apartado en el que se pide al alumno que haga constar el tiempo que ha dedicado a la preparación del mismo. Es necesario también que la profesora tenga un diario de clase, consultas, correcciones y preparación de los materiales docentes que le permita objetivar el volumen de trabajo y dedicación —parece que en esta experiencia inicial, mayor— que conlleva para el profesor la asunción de la metodología de Bolonia.
La línea de comunicación por correo electrónico abierta entre profesora y alumnos favoreció satisfactoriamente consultas, avisos e intercambios. Debe mantenerse, aunque es bueno marcar un código de comportamiento que ni sature el flujo de información por un uso indebido, ni se convierta en una vía muerta. Con todo, la Facultad de Teología tiene que dar pasos efectivos para adaptar su portal web a las exigencias de una metodología como la que está detrás del Plan de Bolonia: intranet, plataformas (joomla, dokeos...), enlaces...
Los alumnos consideraron especialmente interesantes y novedosas las propuestas de algunos seminarios, como los que trabajaron sobre relecturas de los textos bíblicos dentro de la Biblia y en algunas manifestaciones culturales, y el que se dedicó a la investigación sobre revistas de tema bíblico. La profesora cree que debe incluir entre las competencias cognitivas el conocimiento por el alumno de las principales revistas de tema bíblico; debe además corregir en las competencias instrumentales la que dice "Buscar información en las revistas bíblicas de lengua castellana", suprimiendo "lengua castellana", puesto que tiene alumnos que no vienen de países de lengua hispana y que deben conocer las revistas de tema bíblico de su país.
Así mismo, la profesora tendrá en cuenta la publicación del primer volumen de la traducción al castellano de la Septuaginta, a cargo de los profesores N. Fernández Marcos y Ma V. Spottorno, sobre todo al revisar el listado de competencias.
Por otro lado, la profesora entregará el curso próximo un elenco de artículos de revistas recientes donde se reflexionan desde los textos del Pentateuco temas concretos sobre los que se debate actualmente (violencia, género, familia...).
Por último, la profesora está barajando la posibilidad de implantar la elaboración de un portfolio32 que ayude a aprovechar mejor los planteamientos metodológicos
4.2. Doctrina Social de la Iglesia
Esta asignatura está también incluida en el paradigma del ciclo institucional, pero en los cursos cuarto y quinto (es cíclica); tiene asignados 4'5 créditos ECTS.
En la primera sesión presencial se explicó a los alumnos la Guía Docente y se pidió a todos su dirección electrónica para enviar inmediatamente dicha Guía y los ulteriores materiales a lo largo de todo el cuatrimestre. En la Guía Docente se incluyó el cronograma de todo el cuatrimestre.
4.2.1. Guía Docente
Las competencias o resultados del aprendizaje quedaron formuladas de la siguiente forma:
El alumno debe saber/comprender
Los contenidos fundamentales del pensamiento oficial de la Iglesia en materia social.
El marco histórico en que este pensamiento se ha ido elaborando en la sociedad moderna.
El alumno debe ser capaz de:
Leer directamente los documentos de la Doctrina Social de la Iglesia, encuadrando cada uno en su contexto histórico para comprender la problemática a la que pretende dar respuesta.
Descubrir y valorar la relación entre estos textos y la situación histórica en que se escribieron.
Descubrir la dimensión histórica de la Doctrina Social, y a través de ella su dinamismo propio, gracias al cual se ha ido constituyendo un patrimonio doctrinal que ha llegado hasta nosotros.
Acercarse
a los problemas sociales, políticos y económicos de hoy
desde
la perspectiva que ofrece la Doctrina Social de la Iglesia.
El alumno debe ser (actitudes y valores):
Interesado en acercarse a los problemas sociales, políticos y económicos de nuestro mundo desde una sensibilidad cristiana.
215
Crítico, pero con un espíritu crítico constructivo, hacia la realidad social y hacia la respuesta que se ha ido dando a ella.
Consciente de la dimensión social de la fe cristiana y de la responsabilidad de la Iglesia en contribuir a la construcción de un mundo más humano y más acorde con el Evangelio.
Respecto al sistema de evaluación, la Guía precisaba que lo que se pretende evaluar es el conocimiento de la Doctrina Social de la Iglesia atendiendo especialmente a su carácter dinámico; asimismo, la capacidad de proyectar todo esto sobre la situación actual. La evaluación se basaría en tres elementos: la participación en clase, en los comentarios de textos y ejercicios que se propongan (10%); alguna(s) prueba(s) a lo largo del cuatrimestre (20%); las tutorías (20%); una prueba final, para la que se pedirá una visión de conjunto de toda la materia (50%). Este sistema de evaluación se completaba con una "ficha de autoevaluación" mensual, donde el alumno tenía que dejar constancia de tiempo dedicado a trabajo personal, el grado de satisfacción alcanzado en la lectura y comprensión de los documentos y su propia valoración del avance en las competencias: esta ficha servía de base para el diálogo personal de cada alumno con el profesor.
4.3. Una valoración inicial de la experiencia
Es evidente que la aplicación de este nuevo método supone un cambio de mentalidad tanto para el alumno como para el profesor. Ni uno ni otro pueden improvisarlo. Es necesario, ante todo, percibir que el cambio es inevitable; pero también que hay que ir aprendiendo a trabajar con este nuevo método.
A partir de la ficha de autoevaluación y del contacto subsiguiente del profesor con el alumno se constata: por una parte que el alumno percibe diferencias importantes en el ritmo en que va alcanzado las competencias; que el dedicar un tiempo para realizar este pequeño "autoexamen" permite corregir el propio método de trabajo.
Es preciso mejorar los sistemas objetivos de evaluación para tener una más fehaciente verificación de que las competencias se van alcanzando, sobre todo en las que no tienen carácter cognitivo.
El mantenimiento de la prueba final exige, para que no parezca que es un aferrarse al sistema tradicional del examen, clarificar bien su sentido y objetivo: no se trata de dar cuenta memorísticamente de todos los contenidos de la asignatura, sino de volver sobre lo que se ha ido trabajando durante el cuatrimestre, pero ahora con una mirada de conjunto que permita una visión sistemática y una mayor conciencia de la relación entre los distintos aspectos de la materia. Para eso esta prueba se realiza con todos los libros y materiales que el alumno haya utilizado en su trabajo personal.
5. A modo de conclusión
Hemos querido unir la teoría y la práctica. La reforma de Bolonia tiene una filosofía que se traduce en un método nuevo para el estudio. Como la misma Bolonia explica, las cosas no se aprenden sólo de modo teórico ni la teoría se asimila sin alguna forma de aplicación práctica. Por eso hemos comenzado exponiendo la teoría para aportar luego algunas experiencias prácticas. Estas experiencias no pretenden erigirse en modelos de lo que hay que hacer: sólo aspiran a mostrar a modo de ejemplo un camino iniciado que abra pistas a quienes aún no han entrado por esta vía, suscite una crítica constructiva y facilite a cada uno roturar su propia senda.
Todos estamos aprendiendo, unos con más fe en la novedad de Bolonia y otros con mayores dosis de escepticismo. El puro debate teórico nos parece que siempre corre el peligro de derivar en situaciones de bloqueo. El conocimiento de las bases teóricas en que Bolonia se apoya es necesario, pero no es suficiente. Es más útil "lanzarse al agua" y trabajar en equipo con otros para que las luces de unos y las oscuridades de otros, la ilusión de unos y el escepticismo de otros, se complementen y permitan avanzar con realismo y con constancia. Siempre viene bien el tantas veces citado "Caminante, no hay camino, se hace camino al andar".
Jornada de las Comunicaciones Sociales
Nuevas tecnologías, nuevas relaciones33
Mons. Raúl Berzosa
Un año más, coincidiendo con la memoria de san Francisco de Sales, patrón de los periodistas, Benedicto XVI nos ha regalado su mensaje para la 43 Jornada de las Comunicaciones Sociales, Este año el Mensaje del Papa pide que la generación digital promueva una cultura del respeto, del diálogo y la amistad.
Un año más, coincidiendo con la memoria de san Francisco de Sales, Benedicto XVI, nos ha regalado su mensaje para la Jornada Mundial de las Comunicaciones Sociales. En esta ocasión, sobre el tema: «Nuevas tecnologías, nuevas relaciones. Promover una cultura de respeto, de diálogo y amistad». ¿Por qué? Porque las nuevas tecnologías digitales están provocando hondas transformaciones en los modelos de comunicación y en las relaciones humanas. Estos cambios se notan sobre todo entre los jóvenes, quienes se sienten a gusto en el mundo digital; se puede hablar por ello de generación digital. Por eso, el Papa, este año ha querido compartir con los jóvenes algunas reflexiones. Y comienza por lo positivo, cuando afirma que estas tecnologías son un verdadero don para la humanidad y por ello debemos hacer que se pongan al servicio de todos los seres humanos y de todas las comunidades, sobre todo de los más necesitados y vulnerables.
El acceso a teléfonos móviles y ordenadores, cada vez más sofisticados, con el apoyo de Internet, ha descubierto a los jóvenes el enorme potencial de los nuevos medios para facilitar la conexión, la comunicación y la relación entre personas y colectivos.
El Papa subraya que estos medios se utilizan para estar en contacto con los amigos, para encontrar nuevas amistades, para crear redes de contacto, para buscar información y noticias, y para compartir ideas y opiniones. Gracias a esta nueva cultura de la comunicación las familias pueden permanecer en contacto aunque sus miembros estén muy lejos unos de otros; los estudiantes e investigadores tienen acceso más fácil e inmediato a documentos, fuentes y descubrimientos científicos, y pueden así trabajar en equipo desde diversos lugares; la interactividad de los nuevos medios facilita formas más dinámicas de aprendizaje y de comunicación que contribuyen al progreso social.
El Papa, con agudeza, nos hace caer en la cuenta de que esta necesidad de comunicación y amistad tiene su raíz en nuestra propia naturaleza humana. A la luz del mensaje bíblico, descubrimos que, cuando sentimos la necesidad de acercarnos a otras personas, o cuando deseamos conocerlas mejor y darnos a conocer, estamos respondiendo a la «llamada divina» que está grabada en nosotros porque somos imagen y semejanza de Dios. Un Dios, que al ser comunidad trinitaria, es El mismo, comunicación y comunión.
En realidad, cuando nos abrimos a los demás, realizamos una de nuestras más profundas aspiraciones y nos hacemos más plenamente humanos. Amar es aquello para lo que hemos sido concebidos por el Creador. Naturalmente, el Papa no habla de relaciones pasajeras y superficiales sino del verdadero amor: «Amarás al Señor tu Dios con todo tu corazón, con toda tu alma, con toda tu mente y con todas tus fuerzas», y «amarás a tu prójimo como a ti mismo» (cf Mc 12,30-31).
Por es el Santo Padre, desea animar a todas las personas de buena voluntad, y que trabajan en el mundo de la comunicación digital, para que se comprometan a promover una cultura del respeto, del diálogo y de la amistad. ¿Qué quiere decir respeto? Que quienes dirigen dichas tecnologías y quienes utilizan dichos medios eviten palabras e imágenes degradantes para el ser humano, y excluyan por tanto lo que alimenta el odio y la intolerancia, envilece la belleza y la intimidad de la sexualidad humana, o lo que explota a los débiles e indefensos.
¿Qué quiere decir diálogo? Que en el ciberespacio, se hagan posibles encuentros y formas honestas y correctas de expresión, además de una escucha atenta y respetuosa. El diálogo debe estar basado en una búsqueda sincera y recíproca de la verdad, para potenciar el desarrollo en la comprensión y en la tolerancia. La vida no es una simple sucesión de hechos y experiencias; es más bien la búsqueda de la verdad, de la bondad y de la belleza. No hay que dejarse engañar por quienes tan sólo van en busca de consumidores a los que se puede manipular.
¿Qué significa amistad? Siempre se ha considerado la verdadera amistad como una de las riquezas más grandes que puede tener el ser humano. No se puede banalizar. Sería una pena que las amistades on line se tradujera en una obsesiva necesidad de conexión virtual continua, alterando también los ritmos de reposo, de silencio y de reflexión necesarios para un sano desarrollo humano. La amistad verdadera es un gran bien. Es hermoso ver surgir redes digitales que tratan de promover la solidaridad humana, la paz y la justicia, los derechos humanos, el respeto por la vida y el bien de la creación. Estas redes pueden facilitar formas de cooperación. Se ha de procurar que el mundo digital en el que se crean esas redes sea realmente accesible a todos y no dividiera en el futuro el mundo entre poderosos-ricos y pobres-marginados.
El Papa finaliza sus reflexiones dirigiéndose especialmente a los jóvenes católicos. Desea comprometerlos a sembrar en la cultura digital los auténticos valores, y la necesidad de evangelizar «con y desde» los nuevos medios. El don más valioso que se puede ofrecer es compartir la «buena noticia» de un Dios que se hizo hombre, padeció, murió y resucitó para salvar a la humanidad. El corazón humano anhela un mundo en el que reine el amor, donde los bienes sean compartidos, donde se edifique la unidad, donde la libertad encuentre su propio sentido en la verdad y donde la identidad de cada uno se logre en una comunión respetuosa. La fe puede dar respuesta a estas aspiraciones. El Papa finaliza con una llamada: «iSed mensajeros!».
¿Es así la generación digital?
La lectura del rico y sugerente mensaje del Papa, me invita a unas reflexiones más personales sobre los jóvenes de la generación digital y sobre la denominada «infoética». Comienzo con unas pinceladas sobre el planeta joven digital. Durante los últimos meses he tenido ocasión de ver diversas series juveniles en televisión y participar en diversos juegos virtuales para internautas. Esta vez con ojos más críticos. Confieso, con sinceridad, que me defraudaron. ¿Los valores de fondo? - Aparte de unos jóvenes, ellos y ellas, con unos cuerpos más o menos bellos, cuatro realidades se repetían: sexo, comida, violencia y superficialidad. Prima lo subjetivo y narcisista por encima de casi todo.
Me resisto a creer que los jóvenes que se reflejan en las series y en dichos juegos sean así. Y que, incluso, los problemas supuestamente reales que se plantean, se resuelvan por derroteros tan superficiales. ¿Cuándo los jóvenes de la generación digital harán sus propios guiones? ¿Cuándo dirán «basta» a esos estereotipos que les ridiculiza? Se comienza a hablar de una generación «Y», que, más allá del consumismo y búsqueda de placer fácil, o de la violencia como respuesta generalizada y fanática, busca su propia personalidad y la defensa de su dignidad; quiere calidad de vida y amor verdadero a lo natural y genuino. Los define su visión solidaria y ecológica de la vida y la vuelta a los valores que merecen la pena. Estos son los auténticos cimientos para una existencia realizada. Entonces, sólo entonces, el vivir alcanzará su grado más alto y la expresión más verdadera. Todo ello más allá de modas o mitos alimentados por la caja tonta televisiva ola mesa y consola nintendo, con toda la gama de juegos virtuales, o las posibilidades de la Wifi.
Algunas reflexiones sobre la infoética
El mensaje del Papa también me sugiere este año algo sobre la infoética. Suelen afirmar los políticos que va en su sueldo el desayunar cada mañana con más de un sapo al leer la prensa cotidiana; sapos con nombres y apellidos. No ocurre lo mismo en la red. Cuando se leen los comentarios a los blogs, nacen preguntas cómo éstas: ¿Por qué se necesita, amparados en el anonimato, arremeter de forma prepotente y dogmática contra las personas? ¿Qué necesidad existe, en quien lo escribe, de hacer públicas sus propias psicopatías?
¿Qué se pretende conseguir en la opinión pública y, en su caso, eclesial con ello?
Se viene hablando del «micro-poder» o de la fuerza del ciudadano en la era digital (J. Cremades). Habrá que insistir, al menos, en dos principios: uno, de moral: «la verdad, sin caridad deja de ser verdad». Otro, de sentido común: «la ocasión hace al ladrón» (o, en la red, al neurótico y psicópata).
Es cierto que, con la cibernética, se ha hecho realidad el intercambio de información a bajo coste y en tiempo real. El acceso a la información globalizada, la posibilidad de participar (o incluso de crear) redes está modificando las relaciones de poder en nuestra sociedad. El ciudadano ha encontrado en las nuevas tecnologías, canales para participar activamente en la configuración de la opinión pública. Con expresión de acreditados analistas, «es como si se estuviera produciendo una transferencia de poder de las instituciones a las personas que actúan, a su vez, «cooperativa u holísticamente» (en red)». Este es el verdadero micropoder. Con una llamada de atención muy sugerente y oportuna: los que no perciban este cambio, o no sepan participar en él, se despertarán un día como «Gulliver»: enredados (nunca mejor dicho) en los infinitos hilos de los aparentemente «insignificantes» liliputienses.
Habrá que insistir, por lo tanto, en pedir como lo hacen los últimos Papas, Luz y Amor para que no perdamos, o al menos podamos recobrar, el sentido común, la elegancia de le caridad cristiana y la infoética. Sobre todo la infoética. No hagamos de la Red un vertedero de basura y de negatividades; sino un instrumento privilegiado de comunicación y entendimiento y, para los creyentes, de comunión y evangelización.
Claves para ser «auténtico» en el mundo digital
El punto anterior pudiera dar la impresión de haber subrayado más lo negativo. Quiero finalizar, aportando algunas claves para los internautas y navegadores más jóvenes. No son mías. Son patrimonio de los sabios. Pero sirven para hoy, porque no pasan de moda. No hay actitud más necia y pretenciosa que ignorar la sabiduría de los demás, venga de quien venga, o fuere de la época que fuere. Hoy he desempolvado un manuscrito medieval encontrado en Salszburgo. Me permito una traducción muy libre y actualizada:
Si quieres ser persona, sé noble de espíritu como si fueras descendiente real, y simple y sencillo como un hijo de campesino.
Sé héroe que ha logrado dominarse a sí mismo, y a la vez, pobre y necesitado, como mendigo y peregrino.
No adores a nadie, pero ten misericordia de los más necesitados. Sé discípulo del único Maestro, el Señor, y guía y luz de quienes te encuentres en el camino.
Ten las manos siempre abiertas en actitud de plegaria, y a la vez dispuestas sobre el arado para trabajar en las más duras tareas.
Sé adulto en la contemplación de las cosas, pero niño en el confiar de los demás.
Tiende a las cosas más elevadas, pero nos desprecies las pequeñas y las más cotidianas. Goza con la alegría, y familiarízate con el dolor.
Muéstrate claro y transparente en el pensar y en el comunicarte, pero moderado en el hablar.
Sé amigo de la paz y la justicia, y enemigo de la rutina y de la polémica.
Ten muchos amigos, y, a la vez, gusta la soledad. Ama el estudio y busca la sabiduría, pero no te olvides de reconocer siempre tus errores y equivocaciones.
Vive con ilusión el mañana, pero no renuncies al presente, y no olvides las lecciones del pasado.
Hasta aquí más o menos lo que el manuscrito decía. Si interesante es todo ello, más impresiona el final de dicho escrito: «sé totalmente diferente de quien esto escribe...» Tal vez no es falsa modestia. Me recuerda lo que afirmaba nuestra gran Santa Teresa: «la humildad es andar en verdad». Necesario más que nunca. Y, sin pretenderlo, nos muestra las claves que el Papa nos solicitaba: Que la generación digital promueva una cultura del respeto, del diálogo y de la amistad. Todo un reto y una esperanza.
La vida cristiana como vocación
Gabino Uríbarri, SJ34
1. INTRODUCCIÓN
En la Iglesia postconciliar se habla mucho de la crisis de vocaciones, todavía con mayor intensidad a partir de los años 90. Quienes se han preocupado de estudiar las estadísticas y la documentación anterior constatan, sin embargo, que tal crisis, sin alcanzar la envergadura actual, ya se percibía antes del concilio Vaticano II. Muchas diócesis europeas y congregaciones religiosas se encuentran a comienzo:, del siglo XXI en una situación muy precaria en cuanto a sus efectivos de personas. No cabe duda de que muchos institutos religiosos, sobre todo los que no están implantados en geografías vocacionalmente fecundas (América Latina, África, Asia y países del Este europeo), no lograrán superar la actual coyuntura.
Ante esta situación, tan grave para el conjunto de la Iglesia y su misión evangelizadora, son muchas las voces que claman, incluso con cierta desesperación y angustia, por una pastoral vocacional fecunda. Bajo esta preocupación sincera por la misión evangelizadora de la Iglesia y la extensión del Reino son muchas y muy diversas las actividades que se emprenden, particularmente en la pastoral juvenil, en un plano general de iniciación a la vida y el compromiso cristiano adulto y responsable, sin descuidar tampoco iniciativas de contenido y tono explícitamente vocacional. Dentro de este conjunto general, y como exponente de la preocupación eclesial general, destaca, tanto por su análisis como por su propuesta, el documento final del Congreso Europeo sobre las Vocaciones al Sacerdocio y a la Vida Consagrada en Europa (Roma, 5-10 mayo 1997), titulado Nuevas vocaciones para la nueva Europa. Este documento está bajo el patrocinio de la "Obra Pontificia para las Vocaciones Eclesiásticas" y fue preparado por varias congregaciones romanas: para la Educación Católica, para las Iglesias Orientales, para los Institutos de Vida Consagrada y las Sociedades de Vida Apostólica.
Más allá de las diversas estrategias pastorales necesarias y de los elementos culturales de nuestra sociedad que juegan muy fuertemente en contra de una cultura de la vocación, he llegado a la conclusión de que el factor clave detrás de la crisis vocacional de las comunidades cristianas de las Iglesias occidentales radica en una deficiente comprensión de la teología, la antropología, la cristología y la eclesiología de la vocación cristiana y por ende, de las vocaciones particulares. Es decir, da la impresión de que el elemento vocacional, intrínseco a la fe cristiana, se ha desplazado en la vivencia de la fe de muchas comunidades a una zona marginal, sin que constituya parte del núcleo esencial, del terreno firme, de los explícitos gozosos, evidentes y celebrados, desde los que se configura el entramado elemental y la armazón interior de la vida cristiano. Si esto es así, como sospecho, las estrategias pastorales y las propuestas vocacionales más explícitas corren el riesgo de caer sobre un terreno yermo, poco dispuesto o preparado, y, entonces, o bien simplemente rebotar sobre él, sin posibilidad de echar raíces, o bien resultar incomprendidas. Y, sin embargo, un análisis atento, sin una profundidad exhaustiva y sin atender a detalles nimios o marginales, indica que la vida cristiana es constitutivamente vocacional. En consecuencia, recuperar una comprensión vocacional del cristianismo en su conjunto me parece que puede ser el mejor cauce para que las propuestas vocacionales más concretas y la pastoral vocacional más explícita encuentren un terreno abonado y propicio en la comunidad cristiana.
En este apunte me limitaré, pues, a proporcionar algunos trazos destacados que demuestran hasta qué punto el aspecto vocacional es inherente a la misma vida cristiana. Voy a pasar revista, someramente, a elementos tan centrales de nuestra fe como la imagen de Dios y, correlativamente, de la persona humana que vertebra la fe cristiana. Seguidamente, aportaré unas breves pinceladas en torno a la figura de Jesús de Nazaret, su propia persona y su modo de relación vocacional con los discípulos a quienes llama. A continuación haré unas breves calas en la eclesiología, donde descubriremos que la comunidad cristiana es un grupo de elegidos, de llamados; esto es: un grupo vocacional. Para terminar ofreceré una conclusión recopilando parte del recorrido y formulando unos rasgos propios de la espiritualidad cristiana en general como espiritualidad vocacional.
2. ASPECTOS TEOLÓGICOS Y ANTROPOLÓGICOS
Voy a tratar conjuntamente el tema teológico y el antropológico puesto que la imagen de Dios y la comprensión de lo que sea la persona humana se condicionan e interpenetran recíprocamente. Deslindar ambos aspectos nos llevaría a una consideración más prolija, repetitiva e inadecuada de las cuestiones implicadas.
2.1. Dios crea llamando
a) La fe en Dios creador
La fe en el Dios creador forma parte integrante y fundamental de la doctrina bíblica y, consecuentemente, constituye un pivote central de la fe cristiana. Esta fe se recoge solemnemente en el credo, en su primer artículo. El relato del Génesis, que no presentaré en toda su complejidad, nos retrata a un Dios soberano y libre, que crea mediante la fuerza de su palabra: "dijo Dios... y así fue". También según el NT la palabra de Dios es creadora: "Por la fe comprendemos que los mundos quedaron organizados por la palabra de Dios, de forma que no ha sido hecho a partir de cosas vivibles lo que se ve" (Heb 11,3). Si atendemos a otras expresiones en Isaías resulta que una de las maneras de proclamar esta fe en la creación reside en considerar que el acto creador de Dios es un acto de llamada, de llamada al ser precisamente:
"En varios lugares se habla de la creación por la palabra. Como Dios llamó a Israel para hacer de él su pueblo (Is 45,3-4; 48,12; 54,6), así llama a las cosas al ser (Is 48,13: Yahvé llama a los cielos y éstos comparecen ante él). ...este crear «diciendo» las cosas, llamándolas al ser va a constituir uno de los trazos característicos de la teología de Gn 1".
La llamada de Yahvé resulta, pues, constituyente de la realidad. Toda la realidad existente ha sido llamada; se retrotrae a la llamada divina al ser, a la existencia. Lo que instaura la creación, que hace que aquello que no era sea, es, precisamente, la llamada divina. Pablo, hablando de la fe de Abrahán, empareja la fe en la resurrección y en la creación, pues ambas manifiestan la misma fuerza vivificadora y la inaudita potencia creadora de Dios. Así, Abrahán es padre de muchas generaciones: "ante Dios, a quien creyó como al que da vida a los muertos y llama a la existencia a lo que no existe" (Rom 4,17).
Así, pues, la creación surge y se debe a la poderosa llamada de Dios, capaz de engendrar, de crear, de dar vida, de hacer surgir de la nada. Esta fe de Israel se enraiza en una doble experiencia cotidiana. Por una parte, para la mentalidad semítica lo que no tiene nombre no existe; llamar o nombrar implica, de alguna manera, crear:
"...téngase presente que... en las culturas semitas el acto de nombrar conlleva una potestad casi omnímoda, que lo que no tiene nombre no existe, y que el nombre de una cosa, al notificar su identidad, le otorga su capacidad funcional, es el ser mismo de la cosa".
Desde aquí se comprende tanto el profundo significado de la potestad que el hombre recibe en la creación, de nombrar el resto de los seres creados (Gn 2,19-20; cf 1,28). Implica ciertamente un dominio, una sujeción de los mismos al servicio del hombre y, sobre todo, un cierto paralelismo con la actividad creadora divina, que el hombre de alguna manera continúa y completa. Pero también se capta en todo su significado que el acto creador de Dios sea, precisamente, un acto de llamar, de nombrar. Aquí se percibe también la fuerza de la llamada, de la vocación, que a veces va acompañada de un nombre nuevo (Simón será Cefas, latinizado como Pedro; Saulo de Tarso será Pablo), con toda la implicación que supone de una nueva existencia, de una nueva realidad que se recibe en la llamada y que se constituye en ella y a través de ella. Esta es una de las razones por las que en muchas congregaciones religiosas se acostumbraba, sobre todo antes del Concilio, a cambiar el nombre ya fuera en el momento de la profesión o de la toma de hábito. Se expresa que la llamada ha constituido radicalmente un nuevo ser, una nueva existencia, por más que esté arraigada en el bautismo, lo profundice, continúe y lleve a término. Pero también se entiende que sea precisamente en el bautismo cuando se reciba el nombre según el cual somos ya en Cristo criatura nueva (Gal 6,15; 2 Cor 5,17); pues en el bautismo somos regenerados, renacemos, nos hacemos verdaderamente hijos de Dios. En el bautismo muere el hombre viejo y nace una nueva realidad en Cristo. De ahí la fuerza metafísica de lo que sucede en el bautismo, parangonaba a la creación o a la resurrección de los muertos: la concesión de un nuevo ser, por la fuerza vivificadora y vivificante de la gracia. Por otro lado, el ser mismo de Jesús y de Juan el Bautista se expresan a través de sus respectivos nombres, puestos por Dios mediante una acción extraordinaria (cf Lc 1,31 y 13, respectivamente).
En segundo lugar, la experiencia primigenia del pueblo de Israel radica en que la llamada y la elección gratuita por parte de Yahvé, para establecer con él la alianza, es un factor determinante de su misma identidad y de la propia existencia en cuanto pueblo. No entro en la polémica sobre el puesto de la fe en la creación para el pueblo de Israel. No cabe duda de que el pacto, la alianza es el factor preponderante que recubre la experiencia religiosa de Israel. Esta acción soberana de Dios, que al llamar al pueblo lo constituye como suyo y como pueblo, y que lo acompaña a lo largo de su caminar histórico, es el aspecto más arraigado y más central de la relación de los israelitas con Dios; determina absolutamente su imagen de Dios. Así, entienden que al relacionarse con Dios se ponen en contacto con el Dios Yahvé que les ha llamado y elegido, con un Dios que, radical y constitutivamente, es un Dios que llama y elige. De tal suerte que la fidelidad a la elección y al pacto vertebra la lógica de la actuación de Dios en la historia a favor de su pueblo, ya sea liberándolo de la opresión del faraón en Egipto, ya sea conduciéndolo hacia la tierra prometida y entregándosela, ya sea castigando a Israel por su infidelidad, ya sea escogiendo caudillos, reyes y profetas que guíen al pueblo en nombre de Yahvé, ya sea prometiendo un Mesías futuro y definitivo, que renueve el pacto y la elección sobre bases más firmes y definitivas (cf Jer 31,31-34; Ez 36,24ss). La acción del Dios Yahvé en la historia y el despliegue de su mismo ser se vertebra, como veremos más adelante, en forma de elecciones y de llamadas. Por lo tanto, no tiene nada de particular que la misma fe en la creación, en la que el pueblo de Israel profundiza desde la situación del exilio en Babilonia, que pone en crisis la convicción de ser el pueblo elegido, se vertebre desde la categoría de la fuerza soberana de la llamada de Dios, por sí misma generadora de vida, de existencia, de vinculación perenne con el mismo Yahvé.
b) Una antropología vocacional
Demos un paso más, fijándonos ahora en esa realidad particular de la creación que es la persona humana, el hombre. Me voy a fijar sesgadamente en los posibles elementos de rasgo vocacional que contiene la comprensión bíblica, en el AT y en el NT, de lo que es la persona humana. Ya anticipo que la Escritura maneja una antropología vocacional. Es decir, la Escritura entiende lo que la persona humana es, en su núcleo más radical, desde el destino de lo que está llamado a ser: reproducir la imagen del Hijo. Ese es el logro definitivo e insuperable del ser humano, su última razón de ser, el secreto de su existencia y de su felicidad tanto histórica como eterna.
1. Dentro del AT, y para el asunto que ahora a nosotros nos interesa, destacan los siguientes rasgos con respecto a la comprensión del hombre. En primer lugar, el relato sacerdotal de Génesis 1 introduce así la creación del hombro: "Y dijo Dios: «Hagamos al ser humano a nuestra imagen, como semejanza nuestra...»" (Gn 1,26; cf 28). Resalto este elemento, sin comentarlo de momento, porque será recogido y profundizado por el NT. Baste con señalar, como elemento propio de un camino vocacional, que los Padres entendieron la vida cristiana como el paso de la imagen, que constitutivamente somos, al logro de la semejanza, que estamos llamados a alcanzar gracias al seguimiento y la imitación de Cristo. Los Padres combinan un elemento más estático, la imagen, con otro de carácter más dinámico, la semejanza.
Desde el punto de vista de la antropología filosófica diversas escuelas de pensamiento recogen de alguna manera esta estructura de la persona humana, que realiza su propio ser, de algún modo ya en germen en sí mismo, en el decurso de su existencia y su caminar. Curiosamente la persona humana se alcanza a sí misma en el despliegue de su propio ser.
En segundo lugar, a este hombre creado se le impone un mandato (Gn 2,16-17), una prohibición. ¿Qué sentido puede tener? Sigamos, de nuevo, a Ruiz de la Peña:
"De él [se. de Dios] ha recibido la vida, y sólo la conservará en la obediencia de su voluntad".
"De otro lado, imponiéndole este precepto, Dios le descubre al hombre su carácter de ser libre, ratifica su índole personal y responsable; Adán está frente a Dios como un sujeto, un dador de respuesta, no como un objeto de su voluntad".
Este aspecto, el mandato, pone de relieve que la antropología bíblica es una antropología relacional y de diálogo. El hombre solamente se entiende en su relación con Dios, que para él y el logro de su propio ser resulta absolutamente constitutiva. La persona humana es relación abierta con Dios. Una relación que podemos concretar aún más. La antropología relacional de la Biblia se manifiesta como una antropología obediencial y vocacional.
En cuanto antropología obediencial, la Escritura considera que en la relación del hombre con Dios el segundo no solamente tiene la primacía, en cuanto creador, sino también en cuanto Señor al que obedecer y adorar, al que admitir y reconocer como Dueño y Señor, a quien escuchar y atender, en definitiva, como Dios, que por lo tanto, puede disponer y dispone soberanamente de sus criaturas. El reconocimiento del propio ser creatural y del ser creador de Dios revierte positivamente sobre la persona humana, abriéndola a una relación obediencial con Dios como lo más suyo propio.
El mandato expresa la posibilidad de que el hombre no siga ese camino. Así, pues, se indica claramente la responsabilidad de la persona, de sus decisiones, de su libertad, según la cual irá trazando una identidad orientada conforme el plan de Dios y elaborada desde la relación con El (que para el NT será una relación filial); o una identidad de desobediencia, que conduce al pecado y a la frustración del propio ser. La respuesta personal, la responsabilidad y la libertad adquieren un peso sustantivo y fundamental, pues en ellas y a través de su ejercicio se juega el logro o el fracaso de lo que el hombre es. Por lo tanto, la respuesta a Dios, positiva o negativa, es ineludible y constitutiva del fundamento metafísico de la libertad humana. Pero, además, resulta la clave de bóveda de la consecución del propio ser, puesto que el hombre, según la Escritura, es radicalmente aquello que está llamado a alcanzar, a ser. Por lo tanto, la antropología obediencial se trastoca en antropología vocacional.
La respuesta obediencial positiva es, en el fondo y como hemos visto, una respuesta vocacional, pues consiste en asentir libremente a la llamada de Dios, al plan de Dios, a la finalidad de Dios con la creación del hombre; una creación que es llamada a la relación y la comunión con Él. La antropología obediencial es vocacional. Y el seguimiento de la vocación, por su parte, implica el logro personal más profundo,' la realización más auténtica y verdadera del propio ser.
Estos elementos ahora indicados, de una manera sumaria y un tanto abstracta, encuentran un respaldo formidable en el NT. De modo más eminente, en la figura y la historia de Jesús de Nazaret. Pues Jesús vive desde la relación filial estrecha, íntima, cercana y constructora de su identidad con su Padre Dios, a quien denomina Abbá. Jesús responde con toda su vida a la voluntad del Padre (cf Jn 4,34; heb 10,5-10) de tal manera que en un resumen de su vida, se puede decir de él que fue obediente hasta la muerte en cruz (cf Filp 2,8). Así, la relación de Jesús con Dios aparece como una relación obediencial y vocacional. Pues el acontecimiento Cristo Jesús en su conjunto se puede leer como el cumplimiento por parte del enviado del encargo del Padre y la respuesta a la misión recibida (cf Jn 5,36; 12,28; 20,21). Y así, la vida cristiana en su conjunto se puede entender como obediencia a la fe (Rom 1,5; 16,26).
2. En el NT, como acabo de insinuar, se profundizan, continúan y radicalizan los aspectos centrales de la antropología del AT que acabo de presentar sucintamente. El punto medular, con el que mejor se articula la antropología neotestamentaria, consiste en la profundización del tema del hombre como imagen de Dios.
El famoso y denso texto del himno de la carta a los colosenses (1,15-20) nos presenta, entre otros aspectos, a Cristo como la imagen arquetípica según la cual se realizó la creación:
"que es imagen del Dios invisible, primogénito de toda creatura;
porque en él fue creado el universo
(en el cielo y sobre la tierra, lo visible y lo invisible: tronos, señoríos, principados, potestades),
el universo ha sido creado por medio de él y para él".
(Col 1,15-16)
Este texto no sólo sitúa a Cristo como origen, prototipo y arquetipo originante, sino también apunta hacia la participación de toda la creación en Cristo. Cristo no es solamente la imagen arquetípica a situar en el origen de la creación, sino el punto omega (Ap 1,8; 21,6; 22,13) hacia el que la creación camina. De tal manera que el sentido de la historia y del cosmos es su cristificación, su incorporación a Cristo, la cabeza de todo el cuerpo, de todo el cosmos, el principio recapitulador y consumador de la historia y del mundo (cf 1 Cor 15,24; Ef 1,9).
Una serie de textos neotestamentarios de denso contenido doctrinal formulan de una manera más expresa que el ser propio de la persona humana es alcanzar a ser verdaderamente imagen de Cristo (Rom 5,12-19; 1 Cor 11,7; 15,49; 2 Cor 3,18; 4,4. 6; Filp 3,21; Col 3,10). Los Padres entendieron que la imagen de la que el Génesis nos hablaba es precisamente Cristo. En el fondo es la misma idea central que se puede expresar a través de otra serie de imágenes, como ser hijos en el Hijo; o participar de la misma filiación de Jesús, el Hijo (Rom 8,15; Gal 4,5; Ef 1,5); o recibir el mismo Espíritu del Hijo (Rom 8,15; Gal 4,7). Quizá la formulación más condensada sea ésta de la carta a los romanos:
"porque [Dios] a los que conoció de antemano, también los predestinó a ser copias de la imagen de su Hijo, para que éste fuera primogénito de muchos hermanos; y a los que predestinó, a ésos también los llamó; y a los que llamó, a ésos también los justificó; y a los que justificó, a ésos también los glorificó" (Rom 8,29-30).
En esta formulación Pablo nos indica diversos aspectos. El primero y más claro es que el destino de la persona humana, según el plan de Dios, es reproducir la imagen del Hijo: la cristificación. Luego el hombre es radicalmente camino hacia un destino, una finalidad. En el corazón de la esencia de la persona humana está grabada una finalidad escatológica. Reafirmando este elemento, segundo, se insiste en que Dios llama a cada uno hacia este destino. Es decir, que la meta que constituye nuestro ser no es solamente como el germen original de nuestra esencia, sino que Dios sigue activándola mediante la llamada. El término vocación, como se sabe, procede del latín vocare, que significa llamar. Y la llamada, tercero, está acompañada de la oferta tremenda de la gracia de la justificación, del perdón y la reconciliación gratuita con Dios en Cristo mediante el Espíritu, tal y como acontece sacramentalmente en el bautismo. Por eso, cuarto, la finalidad a alcanzar, la meta a conseguir es, paradójicamente, la recepción del don de la glorificación.
Queda claro, con esta serie de rasgos elementales, rápidamente esbozados, de la antropología neo-testamentaria, que la persona humana se entiende radicalmente desde la vocación: la llamada a la cristificación, a la configuración con Cristo como camino para copiar su imagen, para hacernos en la fuerza de la gracia mediante el don del Espíritu semejantes a Cristo para dar gloria a Dios Padre. Así, la antropología cristiana es una antropología vocacional y de destino; o, dicho más técnicamente, más marcadamente escatológica que protológica. Es decir, la persona humana se entiende mejor y más radicalmente no desde lo que es ahora, ni siquiera desde su origen, sino desde la llamada a lo que graciosamente está destinada a ser y será en su culminación escatológica.
Evidentemente, entonces el decurso de la vida humana, contando con la providencia y el amor divino, consiste básicamente en la disponibilidad y la apertura al plan de Dios para ponerse en camino de cristificación hasta que esta marcha se consume con la culminación escatológica de esta cristificación. La vida humana nos aparece ahora como una respuesta responsable, mediante la libertad ayudada y sostenida por la gracia, a la llamada de Dios: como vocación. La vida, el ejemplo y la doctrina de Jesús de Nazaret constituyen la norma fundamental para esta andadura. Sin embargo, como veremos más adelante, caben itinerarios diversos, según el plan de Dios para cada uno dentro de su obra de salvación para el mundo.
2.2. Dios actúa llamando y eligiendo
Desde lo que llevamos recorrido no podrá extrañar que la elección sea una de las categorías fundamentales que recorre la historia de Israel y la historia de la salvación en su conjunto, junto con otras, como promesa y alianza. Pone de manifiesto cómo la llamada de Dios no se sitúa solamente en el origen, en la creación, sino que conforma su modo de actuar. El Dios bíblico es un Dios de elección, de llamada; Yahvé es un Dios que actúa y salva llamando, eligiendo.
Así, por poner solamente algunos de los ejemplos más destacados, podemos considerar la llamada o vocación de Abrahám (Gn 12-25; Rom 4; Gal 3; Heb 11,8-19), la vocación de Moisés (Ex 2,23-4,18; 6,2-12; 7,1-8), de Josúe (Jos 1,1-18), de Gedeón (Jue 6,11-24), de Isaías (Is 6), Jeremías (Jer 1), Ezequiel (1,1-3,15). También los reyes se pueden considerar como elegidos y llamados por Dios para esa misión de gobernar al pueblo, lo cual se expresa a través de la unción (1 Sam 10,1; 16,3; 1 Re 1,39; 2 Re 9,7).
Sobre todo el pueblo de Israel se considera a sí mismo, como ya dije, el pueblo graciosamente elegido y llamado a vivir en alianza con Yahvé (Ex 19,1. 4-6; Deut 6,4-9; 7,6; 14,2; Jos 24,24). Y dentro de Israel, Yahvé ha elegido la tribu de Leví, para que los sacerdotes pertenezcan a ella (2 Cor 29,11), la tribu de Judá y el monte Sión para habitar en él (Ps 68,17; 78,68; 132,13. 17). El "siervo de Yahvé" s el elegido: "He aquí mi Siervo, a quien sostengo, mi elegido, en quien se complace mi alma" (Is 42,1). Como se puede comprobar, en la acción divina que recoge la Escritura la llamada general y la particular no se excluyen; al contrario, se complementan y se refuerzan. En la Iglesia nos encontraremos con una realidad equivalente a ésta del pueblo elegido.
Estas historias vocacionales ponen de manifiesto que la elección y la llamada particular o singular, de un profeta o de un caudillo por ejemplo, no se concentran sobre sí mismas. La actuación generosa y universalista de Dios se vertebra como una articulación de la bendición para la alteridad. Es decir, la llamada supone la elección gratuita de un individuo, una tribu, un pueblo o un resto, que queda así separado y singularizado. Pero su finalidad última estriba en ampliar esa bendición recibida hacia los demás, hacia los otros que no han sido depositarios de la gracia de la llamada, y no solamente porque la vocación incluya como uno de sus componentes esenciales una misión a favor de otros.
Esta dinámica se percibe claramente en el caso de Abrahán. Él ha sido llamado a salir de su tierra, ha sido probado, se le ha prometido una descendencia numerosa y una tierra. Por lo tanto, no cabe duda de que la vocación de Abraham implica una bendición para él y .ir. descendientes. Sin embargo, ni modo do actual Yahvé combina elección particular y deseo salvífico universal. Este deseo no se realiza a través de una universalidad indiferencia-da, tratando a todos por igual; ni tampoco metafísica, como lo sería si no estuviera dirigida a individuos concretos, sino a la esencia metafísica de la naturaleza humana en general. Sino que se cumple a través de una universidad de alteridad. En Abrahán lo apreciamos llanamente puesto que en él serán benditas todas las naciones de la tierra (Gn 12,3; 18,18; 22,18), no solamente su propia descendencia. Por ello Pablo le considera el Padre de todos los creyentes y el prototipo desde el cual se puede entender que la Iglesia esté constituida tanto por judíos como también por los gentiles. Así manifiesta Dios su libertad (que es una libertad de elección y de llamada, sin quedar circunscrito ni atado a nuestras deducciones especulativas, ni a los derroteros que nosotros prefijemos a la llamada: bendición y llamada de Israel con exclusión de los gentiles) y su gracia. Pues la gracia llega a todos, pero de diversa manera y por caminos diferentes.
De igual manera, la Virgen María es "bendita entre las mujeres" (Lc 1,42). Pero esta bendición está al servicio do una gran alegría, que lo será para todo el pueblo: el nacimiento del Mesías, del Señor (cf Lc 2,10-11).
Así se manifiesta cómo la libre respuesta vocacional no solamente se sitúa en el plano de la intersección entre la libertad humana y la divina, sino que configura la columna vertebral del plan salvador de Dios. Dios ha hecho depender la salvación de la libre respuesta vocacional de las personas. ¿Acaso puede dársele un peso y una importancia mayor a la cuestión vocacional? ¿Cabe insertar la respuesta vocacional generosa y liberal en un marco más grandioso?
Evidentemente, toda esta estrategia de actuación salvífica de Dios culmina en Jesús de Nazaret, el Mesías escatológico elegido por Dios.
3 ASPECTOS CRISTOLÓGICOS
Mientras que los aspectos antropológicos me parecen que están más difuminados en nuestras comunidades cristianas, la perspectiva cristológica goza de mayor vitalidad. Por ello, seré mucho más parco en este apartado, simplemente enumerando las cuestiones pertinentes.
3.1. Jesucristo es el Enviado
La línea de elecciones vocacionales que hilvana todo el AT culmina en el esperado de los tiempos, en el elegido por antonomasia, Cristo Jesús. No entro en el tema debatido de si el bautismo de Jesús es o no un relato vocacional o hasta qué punto recoge lo que pudo ser una experiencia vocacional por parte de Jesús de Nazaret. Desde un punto de vista general, más todavía situándonos dentro del marco de la fe bíblica que acabamos de trazar, sería lo más lógico que Jesús tuviera algún tipo de experiencia de corte más o menos vocacional, particular e intensa, que fuera de algún modo desencadenante del inicio de su ministerio público. De todas formas, como la vocación supone una ruptura con la trayectoria anterior, el NT se ha cuidado mucho de subrayar la continuidad de la vida y la conciencia de su misión por parte de Jesús, desde el nacimiento, pasando por su madurez a los doce años (niño perdido en el templo) hasta toda su vida pública y su muerte. Más allá de estas consideraciones, para el NT Jesús es el elegido de Dios (Le 9,35; cf Is 42,1; Deut 18,15; Le 23,35; 1 Pe 2,4. 6) en quien Dios se complace (Le 3,22; cf Ps 2,7; Jer 31,20).
Aparte de estas expresiones más literales, donde a Cristo se le designa expresamente como "elegido", el tenor del relato neotestamentario resalta que Jesucristo es el Hijo predilecto, el unigénito enviado por el Padre para la salvación del mundo. La vida de Cristo Jesús es misión, cumplimiento y respuesta al encargo salvífico del Padre, de predicar la buena noticia de salvación, la llegada en poder del reino de los cielos, cuya irrupción está vinculada a su persona, se manifiesta en exorcismos y curaciones, se explica en parábolas, los pobres, niños y necesitados son quienes más posibilidades tienen de entrar en él, etc.
3.2. Jesucristo llama
A lo largo de su ministerio público, Jesús llama al seguimiento, de tal manera que no falta una reflexión sobre Cristo con quien llama a los hombres sus hermanos, haciéndolos así partícipes de la salvación (cf Heb 2,10-11). El relato neotestamentario nos ha transmitido diferentes llamadas particulares, que son muy conocidas. Por recoger algunas, destaca la llamada a los Doce (Me 3,13-16), a los cuatro primeros discípulos (Me 16,1-20 y par.); la vocación de Andrés, Pedro, Felipe y Natanael (Jn 1,35-51), la vocación de Leví (Mt 9,9 y par.) o la frustrada del joven rico (Mt 19,16-22 y par.).
El NT también conoce la vocación de Pablo (Hch 9,1-30; 22,3-21; 26,9-23; Gal 1,11-24; 1 Cor 15,8-11). El mismo apóstol de los gentiles se entiende a sí mismo como escogido y designado por Dios para una misión particular, de modo gratuito, gracioso, generoso y grandioso. La presentación que hace de sí mismo al comienzo de algunas de sus cartas, por limitarnos a este caso, es de lo más elocuente: "Pablo, siervo de Cristo Jesús, apóstol por vocación, escogido para el evangelio de Dios" (Rom 1,1); "Pablo, llamado a ser apóstol de Cristo Jesús por voluntad de Dios" (1 Cor 1,1; cf 2 Cor 1,1; Ef 1,1; Col 1,1;2Tim 1,1).
De un modo más general, el discipulado en su conjunto se entiende hoy en día desde la categoría general de seguimiento, que implica la respuesta a la llamada y a la invitación del mismo Jesús. Esta llamada, que es personal e intransferible, que se dirige a cada uno y de cada uno pide algo diferente, que sitúa a cada uno de un modo personalísimo y propio dentro del plan de salvación, supone una relación específica, especial e intransferible con la persona de Jesús. Como vemos con el magnífico ejemplo de Pablo, la llamada al seguimiento, la llamada vocacional, no cesó con la muerte del Jesús terreno. El Cristo resucitado sigue llamando y la vida cristiana se juega su calidad, su ser o no ser, en la respuesta a la llamada personal e intransferible de parte del Señor Jesús.
4. ASPECTOS ECLESIOLÓGICOS
A pesar de que los elementos eclesiales que completan los rasgos de la comprensión de la vida cristiana en clave vocacional no descuellan por su claridad y fuerza en la vivencia de la fe hoy en día, no obstante, voy a tratar de ser breve en el tratamiento de este menester. Por una parte, conviene tomar conciencia de que el NT entiende la comunidad cristiana, la Iglesia, como el conjunto de los llamados. De tal manera que se viene a identificar cristiano con llamado. En segundo lugar, el marco eclesiológico resulta propicio para aterrizar en algunas indicaciones muy sucintas en torno a las vocaciones particulares.
4.1. La Iglesia como la comunidad de los llamados
La Iglesia, en general, se entiende como el conjunto de los llamados. El mismo término "Iglesia" lo refleja. Procede del latín ecclesia, que a su vez deriva del griego ekklesia. Detrás de ekklesia está el verbo kaleo, que significa precisamente llamar, convocar. Klesis significa llamada en griego. En los LXX (versión griega del AT) "ekklesia" traduce el hebreo qahal: asamblea. Este término, tanto en hebreo como en su uso en el NT, tiene una doble significación. En primer lugar, expresa la convocación o llamada. Se recoge el sentido activo del término. Así, la "ekklesia" designaría al grupo de los llamados; hoy diríamos de los llamados por Dios con la fuerza del Espíritu al seguimiento del Señor Jesús. En segundo lugar, también se refiere a la congregación; el sentido pasivo del término. Representa el aspecto más institucional: el grupo de los convocados o llamados, el grupo congregado en torno a la llamada. Así, pues, la Iglesia brota de la llamada, de la convocación de Dios, que se hace un pueblo, el pueblo de Dios; y consiste en el grupo de los que han sido activamente llamados, convocados y, como resultado, convertidos en congregación, en comunidad.
La constitución dogmática sobre la Iglesia del concilio Vaticano II, Lumen gentium, ha reflexionado sobre el asunto. En continuidad con Israel, el pueblo elegido por Dios, constituido por la elección y vocación divina, como ya hemos dicho, la Iglesia se entiende a sí misma como el nuevo pueblo de Dios (LG 9), el pueblo de la nueva alianza en Cristo. Esta realidad nueva, el nuevo pueblo, se constituye precisamente por la llamada. De tal manera que a partir del vulgo (plebs) se instituye un nuevo pueblo (populus) de convocados a una nueva alianza, tal y como estaba anunciado (cf Jer31,31-34):
"[Nuevo] Pacto que estableció Cristo, es decir, el Nuevo Testamento en su sangre (cf 1 Cor 11,25), convocando un pueblo de entre los judíos y los gentiles (ex ludeis ac gentibus ple-bem vocans), que se condensara en unidad no según la carne, sino en el Espíritu, y constituyera un nuevo Pueblo de Dios (esset-que novus Populus Dei)" (LG 9).
Nos encontramos, pues, con que la Iglesia surge de la llamada, de la convocación; con que es un pueblo de llamados, una comunidad de llamados; y, finalmente, con que la llamada divina tiene la fuerza de constituir una realidad nueva, transforma lo que era un grupo más bien indiferenciado (plebs) en un pueblo (populus) articulado y estructurado, conformado con un pacto.
Esta realidad se refleja lingüísticamente en el NT. En diversas ocasiones y con relativa frecuencia en el NT se habla de la Iglesia en general como de los llamados. Los cristianos son llamados a un banquete, con significación escatológica (cf Ap 19,1; Le 14,15-24 y par.), también presente en otros textos (Me 13,20. 22. 27 y par. de Mt; Col 3,12). Todos los que creen en Cristo han sido llamados (1 Cor 1,2; Rom 1,7) tanto entre judíos como gentiles (Rom 9,24). Esto supone que detrás de la vida cristiana hay un llamamiento y una elección (Rom 8,28-30). Pues Dios ha elegido a lo débil para confundir a los fuertes (1 Cor 1,26-31). Otros textos insisten en el conjunto de la comunidad como el grupo de los llamados al reino y gloria de Dios (1 Tes 2,12), a la gracia (Gal 1,6), a la salvación en Cris to (Gal 5,8), a la libertad (Gal 5,13), a la paz (1 Cor 7,15). En definitiva, los cristianos son los santos por vocación (Rom 1,1. 7; 1 Cor 1,2), los llamados (Rom 1,6.7; 1 Cor 1,24).
Dentro de esta temática destacan la carta a los efesios y la primera de Pedro, documentos ambos en los que la vida cristiana como llamada presenta un énfasis particular. Según la carta a los efesios hemos de vivir de modo digno conforme a la vocación de cristianos (4,1); una vocación que alienta e incluye la esperanza final de la gloria (4,4; 1,18). La primera carta Pedro, dirigida a una comunidad que padece momentos de persecución, alienta a sus miembros subrayando los tonos escatológicos de la llamada. Pues los cristianos han sido llamados de las tinieblas a la luz (2,9), para vivir con una conducta conforme con Aquel que los llamó (1,15; 2,5. 9). La llamada es a heredar la bendición (3,9); objeto que no se podrá alcanzar sin compartir los sufrimientos de Cristo, que forman parte de aquello a lo que los cristianos son llamados (2,20 s.). Pero Dios se mostrará fiel, restableciendo, fortaleciendo, robusteciendo y consolidando a los que han sido llamados (5,10).
Estos apuntes, que se pueden completar y ampliar en cualquier estudio bíblico de detalle, manifiestan con claridad suficiente que la Iglesia es una comunidad vocacional de vocacionados. En la Iglesia se ingresa por la respuesta a la llamada de Dios o de Jesucristo al seguimiento. Esta realidad conforma un nuevo pueblo de Dios, que es un pueblo vocacional, llamado, elegido y convocado. Esta vocación, tanto colectiva como individual, posee una fuerte tonalidad escatológica. Pues el llamamiento no termina en el decurso de una vida terrena, sino que adquiere su cumplimiento y consumación en la vida celestial, con la entrada y la participación plena en el reino y gloria del Señor Jesús: "Por tanto, hermanos santos, partícipes de una vocación celestial, considerad al apóstol y Sumo Sacerdote de nuestra fe, a Jesús" (Heb 3,1).
4.2. Vocaciones particulares en la Iglesia
Si en la consideración que hacíamos del AT descubríamos que, de un lado, el pueblo enteró se entendía en su conjunto y globalidad como el pueblo elegido, con el que Dios establece su alianza; y, de otro lado y simultáneamente, que había algunas "vocaciones particulares", como la de los profetas (Moisés, Isaías, Jeremías, etc.), no resultará nada extraño encontrar este mismo doblete en la Iglesia, el nuevo pueblo de Dios. De esta suerte, una consideración de lo vocacional que lo restrinja exclusivamente al ámbito de las vocaciones particulares, al sacerdocio y la vida consagrada, como ha sido frecuente, restringe unilateralmente la amplitud, la fuerza y la transcendencia de lo vocacional en la ta y vida cristiana. Todo cristiano es un llamado, un vocacionado, y toda la vida cristiana es vocación. Pero, segundo elemento, como cada uno es llamado, habrá de abrirse libremente y en disponibilidad a la voluntad y llamada de Dios. Y esta llamada puede adquirir, como vemos en el NT y a lo largo de la historia de la Iglesia, tonos diferentes, particulares y específicos. De tal manera que recortar el horizonte de lo vocacional en la Iglesia a la vida cristiana en general, excluyendo el ámbito expreso y específico de las vocaciones particulares, especialmente al sacerdocio y la vida consagrada, también recorta y mutila la realidad vocacional de la fe y la vida cristiana.
El concilio Vaticano II ha insistido en que cada uno recibe una llamada de Dios, trazando líneas incipientes de una vida cristiana entendida radicalmente como vocación, subrayando, a la par, la insistencia en el discernimiento y el fomento de las vocaciones particulares, especialmente al sacerdocio. Hablando de los padres cristianos, indica:
"En esta especie de Iglesia doméstica los padres deben ser para sus hijos los primeros predicadores de la fe, mediante la palabra y el ejemplo, y deben fomentar la vocación propia de cada uno, pero con un cuidado especial la vocación sagrada" (LG 11; cf AA11).
No solamente los padres, también los pastores más en contacto con los fieles cristianos, los sacerdotes, han de cuidar el fomento de las vocaciones, para que cada uno descubra y siga la suya personal y propia:
"Por lo tanto, a los sacerdotes, en cuanto educadores en la fe, atañe procurar, por sí mismos o por otros, que cada uno de los fieles sea llevado, en el Espíritu Santo, a cultivar su propia vocación de conformidad con el Evangelio..." (PO 6).
Así, según el concilio, todo cristiano tiene vocación. Una vocación que ha de indagar a la luz de lo que el Espíritu le vaya indicando. Una vocación que es personal y que aporta un colorido singular a la vivencia del evangelio. Y dentro de las vocaciones en general, destaca como vocación particular la vocación al ministerio ordenado, a la que podemos sumar la vocación a la vida consagrada. Ya vimos cómo, de un lado, todos los cristianos son llamados. Pero, del otro, Jesús distinguió, separó, apartó a unos pocos para darles una misión especial: a Pedro, a los Doce, a Pablo.
Hoy en día nos hayamos, en líneas generales, ante un déficit de comprensión de la especificidad de cada una de las vocaciones eclesiales. Resulta ya un tópico manido afirmar que después del concilio Vaticano II resulta más difícil definir con precisión la identidad teológica de la vida consagrada. Por otro lado, la nueva identidad de los laicos no termina del todo de cuajar en la vivencia de las comunidades cristianas y de reflejarse en las prácticas eclesiales. La única vocación que parece mantener una cierta identidad más definida, por su especificidad en la celebración litúrgica y sacramental, parece ser el ministerio ordenado. Sin embargo, ni siquiera este aspecto está exento de problemas. Por una parte, una reducción del ministerio ordenado a su servicio sacramental supondría una grave mutilación del mismo. Pero, además, cada vez resulta más frecuente encontrar ministros laicales presidiendo celebraciones litúrgicas y comunitarias.
A pesar de ello, la Lumen gentium, proporciona bases suficientes, que otros documentos tanto conciliares como postconciliares amplían, para expresar esta realidad. Toda la Iglesia en su conjunto es el nuevo pueblo de Dios (LG, cap. II), un misterio que procede del Padre, del Hijo y del Espíritu Santo (LG, cap. I). En este pueblo todos están llamados a la santidad (LG, cap. V), a través de vocaciones y servicios diversos, que modulan la existencia y la relación con Dios. Así, unos sirven a Jesucristo y la Iglesia desde el ministerio ordenado (LG, cap. III), otros desde una vocación de especial consagración e identificación con el modo de vida escogido por Jesús (LG, cap. VI) y otros viven su vida cristiana desarrollando la vocación bautismal (LG, cap. IV).
Las vocaciones particulares poseen una importancia especial para la Iglesia. No porque se trate, en primer lugar, de cuerpos especializados con un servicio funcional importante que realizar, aspecto que no se niega. Sino porque la Iglesia, como pueblo y comunidad vocacional es llamada a testimoniar a Cristo. Y cada vocación en la Iglesia se polariza en torno a un aspecto central y destacado de la figura de Cristo Jesús, de la que se convierte en memoria viva, de tal manera que la Iglesia en su conjunto pueda realizar esta misión. Por lo tanto, la Iglesia vive de la complementariedad de las diversas vocaciones y las necesita (cf 1 Cor 12; Ef 4,7-16).
Los laicos realizan la vida cristiana en las condiciones ordinarias del mundo, de la familia, de la secularidad, del trabajo. Y ahí caben muchas posibilidades para que cada uno descubra su camino particular: en la opción profesional, en la administración del dinero, en el ocio y el empleo del tiempo libre, en la participación parroquial, en el compromiso político o el voluntariado, etc. Como definición teológica más genérica, recuerdan que este mundo, que Cristo habitó y a cuyas condiciones ordinarias se sometió, es el ámbito donde vivir y testimoniar la fe y la salvación cristiana; que la realidad mundana es la que está llamada a convertirse en reino de Dios.
El ministerio ordenado recuerda a toda la Iglesia que la fe procede de fuera de ella misma, de la revelación de Jesucristo, palabra definitiva del Padre, testimoniada por la Iglesia apostólica. Ellos se configuran más específicamente con Cristo Cabeza y Pastor y manifiestan que la Iglesia es un cuerpo con múltiplos miembros, cuya cabeza y principio constructor es Cristo, un don del Padre, y que ella misma está dirigida por el Espíritu. Así, son memoria específica de la realidad teándrica de la Iglesia.
Los religiosos, por su parte, se hacen memoria viva del estilo y modo de vida que el Hijo de Dios, Jesucristo, eligió para desarrollar su misión, plasmado en tres radicales totalizantes de la vida de Jesús: su opción por la virginidad por el Reino de los cielos; su pobreza voluntaria para enriquecernos; su constante obediencia a la voluntad del Padre, en despojo de sí mismo. Recuerdan de modo expreso a todos los cristianos, con esta existencia profética y escatológica, que el espíritu de los consejos evangélicos habría de atravesar toda forma de vida cristiana que quiera inspirarse en la fidelidad al ejemplo de Jesús da Nazaret.
En todo caso, las vocaciones particulares, en las que el aspecto vocacional general de la vida cristiana adquiere mayor espesor, recuerdan y son memoria para toda la Iglesia del carácter vocacional de la vida cristiana en general.
5. CONCLUSIÓN
Es hora de recoger los resultados de esta rápida encuesta. Me voy a centrar en dos puntos: lo vocacional, como clave de bóveda de la fe cristiana y, como corolario, la importancia de una espiritualidad vocacional para la vida cristiana
5.1. Lo vocacional en la fe cristiana
Como hemos visto, lo vocacional no pertenece al margen de la fe cristiana. No es un aspecto despreciable o insignificante. Al contrario, si el elemento vocacional se deja de lado, todo el conjunto de lo que es la fe y la vida cristiana sufre un recorte y se deteriora. La fe, entonces, pierde uno de sus componentes esenciales; el rostro del cristianismo se desdibuja, desaparece uno de sus rasgos específicos. Como consecuencia de esta pérdida de parte de su propia sustancia dogmática, el vigor de la fe cristiana padece un serio detrimento, tiende a languidecer y apagarse. No extraña que al tratar el tema vocacional surjan los temas centrales de la fe y la vida cristiana, pues lo vocacional está en el núcleo mismo de nuestra fe.
Con el elemento vocacional entran en juego aspectos tan decisivos como la imagen de Dios; la concepción de la vida humana y de la persona, los términos propios de la relación entre Dios y el hombre, la consideración de lo que sea el bien y la finalidad última del ser humano; la comprensión de la Iglesia, de su constitución por medio de Jesucristo y de su composición interna, el sentido de la articulación de los diferentes carismas y vocaciones en su seno. Incluso la misma imagen del Senoi Jesús se pone en juego con el tema vocacional, pues implica una lectura de la vida y misión de Jesús de Nazaret, del modo de llevar adelante su ministerio público y la forma como continúa alentando las comunidades paulinas después de la pascua.
5.2. Corolario: La espiritualidad cristiana es vocacional
De la antropología vocacional que he esbozado se deduce una espiritualidad vocacional. Me limito a presentar algunos de sus rasgos sobresalientes.
1. De la antropología vocacional brota espontánea la alegría por la propia vocación, cuando se reciba y descubra, y por todas las demás vocaciones en la Iglesia. Lo lógico es que la comunidad cristiana vibre, se alegre y festeje la diversidad de vocaciones que se den en su seno. Todavía más, que se celebren más aquellas vocaciones más totalizantes, con un contenido teológicamente más definido y que prestan un servicio teológico y funcional destacado en la Iglesia, como son las vocaciones al ministerio ordenado y a la vida consagrada. Ya hemos puesto de relieve la dinámica de bendición por la al-teridad, inherente a las vocaciones particulares. La existencia de una vocación particular representa un don y un bien para el conjunto de la comunidad.
2. De la antropología vocacional brota el agradecimiento por la propia vocación, no el rechazo de la misma. Pues descubrir la propia vocación supone encontrar una gracia especial. La vocación es una bendición particular. El logro de la plenitud personal va vinculado, como hemos visto, a la respuesta vocacional. Encontrar la propia vocación implica encontrar el cauce más adecuado de personalización, de respuesta a Dios, de servicio a los hermanos, de testimonio y de compromiso, de realización a la propia libertad.
3. De la antropología vocacional se deriva una concepción de la libertad humana y su sentido. La libertad humana no se cumple ni se realiza encerrándose en sí misma, dictándose su propia ley, autodefiniendo sus propios fines. Al contrario, la libertad es fiel a su propia lógica cuando se abre a la llamada, cuando responde libremente, en obediencia y disponibilidad al plan de Dios. Normalmente no se entiende así la "autorrealización personal". Desde el punto de vista de la antropología vocacional cristiana la persona se realiza en la alteridad, en la entrega de la libertad a Dios, al Cristo, al Reino, a la Iglesia, a los pobres.
4. La vida cristiana adquiere un fuerte tono pneumatológico, pues la respuesta vocacional se da en la fuerza del Espíritu, siguiendo sus inspiraciones y dones. Así cada uno se apropia el modo de ser imagen de Cristo que el Espíritu le concede, para glorificar a Dios y servirle en el compromiso en el mundo por los hermanos.
5. El discernimiento vocacional aparece como una realidad imperiosa e imprescindible dentro del transcurso ordinario de la vida cristiana. La elección de estado, de pareja, de profesión, de lugar de vivienda, de estilo de vida, de compromiso conforman un conjunto de factores mínimos e imprescindibles si se quiere vivir como cristiano.
6. Los diferentes relatos da vocación, tanto en el AT como en el NT, ponen de relieve una serie de constantes, que pueden resultar útiles en tal discernimiento. La iniciativa vocacional siempre procede de Dios, de modo gratuito Aquel que es llamado se siente in digno, incapaz y superado poi la llamada; de tal manera que se lo pide que dé un paso en la fe, en soledad delante de Dios, apoyado sólo en la fe. A la persona le compete una respuesta libre, pues no se le fuerza, sino que se la Invita Es más común en el AT que haya algún signo confirmatorio por parte de Dios. La vocación lleva parejo un éxodo, una salida la patria conocida, hacia un lugar desconocido y nuevo; implica un cambio de vida. A la vocación le acompaña una misión: un encargo al servicio de Dios para el bien del pueblo. La vocación implica y suscita una relación íntima, personal e intrasferible con Dios o con el Señor Jesús, el inicio de un tono singular en la amistad con Dios o con el Señor Jesús. La misión no se realizará desde las propias fuerzas o cualidades, sino con el auxilio de Dios, de su Espíritu y de su gracia. La vocación es un camino de abandono y confianza en Aquel que llama.
Introducción
El propósito de la vida35
Joan Chittister
Es una mañana de enero en el condado de Kerry. El océano Atlántico, que lame la costa de las escarpadas islas que se extienden a mis pies, está encrespado, alborotado con olas espumosas y furibundas murallas de agua que rompen contra los diminutos islotes emergentes de su rocoso seno. Los temporales de las dos últimas noches han empapado las colinas a las que se aferra esta pequeña casa irlandesa de piedra; las desnudas ramas de los árboles han estado goteando durante horas, y un diminuto arroyuelo de agua corre ladera abajo desde el exterior de mi ventana hacia el valle. Es un día normal de invierno en este condado.
Pero, para algunos, no es un día normal. En estos dos últimos días de viento batiente y bramante, se comunicó la desaparición en el mar de cinco pescadores irlandeses y su barca de faena. Esta mañana han sido declarados oficialmente muertos, puesto que el mar está todavía demasiado enfurecido para ver siquiera de recuperar sus cuerpos.
No sé quiénes eran, ni qué edad tenían. Pero lo que sé es que la vida y el tiempo son criaturas fantasmales para todos nosotros. Nos pertenecen y, al mismo tiempo, no son nuestras. Algunos, como estos pescadores atrapados en una tempestad estacional, pierden la vida de manera inopinada. La mayoría de nosotros, como tú y yo, querido lector, querida lectora, avanzamos paso a paso por la vida, seguros, por una parte, de que nunca terminará, con la certeza, por otra, de que para nosotros probablemente pronto concluirá.
E n tales momentos de serena toma de conciencia, es importante confrontarse con lo que significa envejecer, hacerse mayor, ser viejo, convertirse en un anciano en la sociedad. Es importante que la edad no sea un obstáculo para el imán de vida que hay en nosotros. Pero la vida no consiste sólo en respirar. De lo que se trata en la vida es de devenir más de lo que somos, de ser todo lo que podemos ser. Con independencia de a qué nos dediquemos, de cuál sea nuestra edad, de qué posición ocupemos en la escala socio-económica.
Este libro se dirige a quienes están al borde de la «tercera edad», a quienes acaban de recibir la primera carta del club de jubilados y, sintiéndose jóvenes y sanos, se han llevado una buena sorpresa.
Pero este libro está escrito igualmente para quienes se hallan preocupados por sus padres y por la clase de preguntas que la ancianidad puede suscitar en ellos. Y también para quienes desean reflexionar sobre los efectos graduales del proceso de envejecimiento en su propia vida.
Es éste, por último, un libro para quienes, cualquiera que sea su edad cronológica, no se «sienten» viejos, pero un día se percatan con abrumadora estupefacción de que no han conseguido eludir el envejecimiento. Son más viejos de lo que nunca pensaron que llegarían a ser. La gente joven a su alrededor los llama «personas de la tercera edad», «mayores», «la generación mayor» o incluso «ancianos», a pesar de que, en su interior, no se sienten diferentes de como se sentían hace un año. Excepto por el cómputo de los años, por supuesto. Y, al cabo, son éstos los que marcan la diferencia.
En efecto, son mayores, y cada día lo serán más. Al menos, por lo que respecta al calendario. Pero, en su interior, saben que están saliendo de una etapa de la vida e ingresando en otra, que se aferran a aquélla, aun cuando son incapaces de detener el deslizamiento hacia ésta. Y no saben qué pensar al respecto. ¿Es el fin de todo lo que les consta que es bueno y plenificante en la existencia? ¿Deberían plegarse sencillamente a lo inevitable y aceptar su extenuado estado? ¿O se trata tan sólo del comienzo de una clase de vida totalmente nueva? ¿Han llegado al momento en que todo carece de finalidad? ¿O es ahora cuando está empezando a hacerse visible el propósito de la vida? Puesto que muchos de nosotros podemos pasar casi tantos años de nuestra existencia laboralmente inactivos como activos, sin duda es necesario, sin duda es conveniente, detenerse a pensar qué es lo que deparan esos años, qué lo que exigen, qué lo que tienen que ofrecernos. Pero eso depende de que sepamos qué es lo que hemos de buscar cuando lleguen.
Es posible que lo peor de este libro radique en que quizá soy demasiado joven para escribirlo. Después de todo, no tengo más que setenta años. Así, en aras de un desvelamiento más pleno, me reservo el derecho de revisar esta edición cuando cumpla noventa.
Por el momento, sin embargo, escribiré sobre cómo se siente uno al afrontar la etapa de la vida para la que no existen planes profesionales.
Voy a escribir sobre lo que he visto en las personas mayores con las que he vivido a lo largo de mi vida, personas que se esfuerzan por vivir llenas de vitalidad incluso una vez rebasada esa época de la existencia que la mayoría de la gente calificaría de años «productivos».
Voy a escribir sobre la transición hacia este último periodo de crecimiento humano y sobre cómo puede ser vivido como una etapa cimera de la vida.
Los gerontólogos nos dicen que, en nuestra sociedad, existen tres estadios de «vejez». Están los viejos-jóvenes, desde los sesenta y cinco a los setenta y cuatro años; los viejos-viejos, desde los setenta y cinco a los ochenta y cuatro años; y los viejos-viejísimos, a partir de los ochenta y cinco años. Estos tres estadios tienen varias cosas en común; y, sin embargo, al mismo tiempo, cada uno de ellos afronta cuestiones específicas.
A diferencia de lo que ocurre con las primeras fases de la existencia –desde el nacimiento hasta los veintiún años–, en realidad siempre se ha sabido relativamente poco sobre la ancianidad. De hecho, como ciencia, la gerontología –el estudio de los aspectos biológicos, psicológicos y sociales del envejecimiento– ni siquiera surgió hasta después de la Segunda Guerra Mundial. Hasta entonces, todo interés por la edad se concentraba por entero en
los medios para prolongar la juventud o revertir los efectos del envejecimiento. Lo que, sin embargo, todavía le falta a la gerontología es la conciencia de las dimensiones espirituales de la única etapa de la vida que nos concede los recursos necesarios para llevar a cabo una evaluación a largo plazo de la naturaleza y el sentido de la existencia misma.
Voy a escribir sobre la vida más allá de su dimensión física, fijándome en su desarrollo espiritual. De hecho, conforme decrece la dimensión física de la existencia, su dimensión espiritual suele cobrar más y más relevancia. Pero no voy a escribir sobre los cambios físicos que se producen con la edad, por importantes e impactantes que sean. En lugar de ello, voy a escribir sobre las actitudes mentales y espirituales con que acometemos estos desafíos, pues son ellas las que realmente determinan en quiénes nos convertimos a medida que avanzamos de un estadio de envejecimiento a otro.
No voy a escribir sobre la muerte en sí. Muerte y vejez no son sinónimos. La muerte puede presentarse en cualquier momento. La vejez sólo les llega a los bienaventurados de verdad. Por supuesto, voy a escribir sobre qué significa saber consciente y claramente que nosotros mismos nos estamos aproximando a ese momento.
Voy a escribir sobre ti y sobre mí y sobre la importancia de esta etapa tanto para los años que quedan a nuestras espaldas como para los días que aún tenemos delante de nosotros. Y de éstos, habrá muchos.
El don de los años se concede a muchas más personas de las que se percatan de que estos años finales son un don, no un lastre. No todo el mundo que vive estos años los entiende, ni los acoge con agrado. El presente libro trata de la empresa de aceptar las bendiciones de esta etapa de la vida y de superar las cargas que conlleva. Tal es la tarea espiritual del otoño de la vida.
Es un periodo especial de la existencia, quizá el más especial. Pero, con él, se presentan los miedos y las esperanzas de toda una vida. Para poder vivir bien estos años, hemos de mirar a cada uno de nuestros miedos y esperanzas de frente y con vitalidad. Lo importante en la vida no es la edad, el número de años que conseguimos arrancarle. No; lo importante es la forma de envejecer, el ir viviendo los valores que se nos ofrecen en cada estadio de la vida. Como escribe E. M. Forster, «debemos estar dispuestos a desasimos de la vida que hemos planeado, a fin de poder disfrutar de la vida que nos aguarda».
Es hora de desasimos tanto de las fantasías de la eterna juventud como del miedo a hacernos mayores, es hora de descubrir la belleza de lo que significa envejecer bien. Es hora de comprender que la última fase de la vida no es una no-vida; antes bien, se trata de un nuevo estadio de la existencia. Estos años crepusculares –razonablemente activos, mentalmente despiertos, avezados y llenos de curiosidad, socialmente importantes, espiritualmente significativos– están pensados para ser años buenos.
Pero quizá la dimensión más importante de envejecer bien radica en la conciencia de que envejecer tiene una propósito. Existe una razón para la ancianidad, con independencia de cuál sea nuestro estado en la vida y cuáles nuestros recursos sociales. A cada estadio de la existencia, y a éste en no menor medida que a cualquier otro, le es inherente una intención. «El crepúsculo de una vida cabalmente vivida –escribe el moralista francés Joubert– trae consigo su propia lámpara». La ancianidad ilumina... y no sólo a nosotros mismos, por muy importante que ello sea, sino también a quienes nos rodean. Nuestra tarea consiste en darnos cuenta de ello. De hecho, la etapa final de la vida es una de las mejores, una de las más importantes. La pregunta es: ¿por qué?
¿Quién de nosotros no ha oído decir de ordinario que «sólo se vive una vez»? Esta frase sugiere que la vida es una línea interminable, siempre derecha; lo que hicimos ayer, lo que hacemos hoy, no es reversible. Las implicaciones de esta clase de pensamiento para el conjunto de la existencia pueden ser funestas. Encierran el futuro en cemento, congelan nuestros éxitos o fracasos en medidas eternas, cortocircuitan el mañana de forma irreparable. Después de todo, si cada acto determina el siguiente, no hay novedad, no existe cambio. Sólo hay tiempo biológico, la inextricable e interminable predestinación de un día tras otro. Lo que es ahora determina lo que vendrá.
Pero yo no lo he vivido así. Al contrario. Mi vida no ha sido sino una serie de nuevos comienzos.
Ahora que he alcanzado los setenta años sé por qué nunca me he tomado demasiado en serio la noción de que la vida es una continua prolongación del ayer. De hecho, la idea misma me incomoda. Es una de esas reprimendas que los adultos insisten en que no son en absoluto reprimendas, pero que la gente joven enseguida detecta como perros de caza sobre la pista. El quid del asunto es el supuesto de que toda decisión que la persona toma en un caso particular salva o arruina su vida para siempre. ¡Como si la «vida» fuera una suerte de momento monocromático de partes indivisibles cuyo futuro disponemos de antemano a través de cada uno de sus fragmentos actuales!
Con el tiempo he llegado a la conclusión de que, en realidad, no es cierto eso de que sólo se viva una vez. El hecho es que cada vida es sencillamente una serie de vidas, provista cada una de ellas de su propia tarea, su propio sabor, su propia clase de errores, su propio tipo de pecados, sus propias glorias, su propia clase de profunda, fría y húmeda desesperación, su propia plétora de posibilidades, todas diseñadas para conducirnos al mismo fin: la felicidad y la sensación de cumplimiento.
La vida es un mosaico compuesto de múltiples piezas, cada una de las cuales es completa en sí misma y representa un peldaño en el camino hacia el resto de ellas.
Lo que más evidente me resulta ahora es que cada una de esas nuestras vidas, por más que formen parte de una línea continua de la vida, es diferente. Cada una de ellas posee algo distintivo y constituye, de hecho, una parte singularmente aprehensible de la totalidad de la existencia. Cada una de ellas nos hace nuevos. Y cada una de ellas tiene un propósito específico.
Primero, uno llega a dominar qué significa estar vivo. Aprende a hablar y a caminar, a no derramar cosas, a no gritar demasiado fuerte ni patalear mientras dice: «¡No!», por mucho que, de todas formas, desee hacerlo.
Luego, en la siguiente fase, aprende a ser estudiante y a entablar amistades. O quizá constata que es incapaz de hacer amigos, que hay algo en su persona que no agrada a los demás. Así, al final, es posible que no llegue a convertirse en un personaje popular. En vez de ello, se las arregla, no obstante, para dar forma –a partir de algún núcleo incorruptible en su interior que insiste una y otra vez en que, no importa lo que digan los demás, es él quien lleva razón– a un terrón de autoestima mucho más compacto. Empieza a descubrir un «yo» dentro de sí.
Por último, crece. Los demás lo declaran adulto. Y, curiosamente, él mismo piensa que en verdad lo es.
Así, se acredita en alguna materia, bien en una institución académica, bien por medio de su propio aprendizaje en la vida. Se convierte en vendedor o en gerente, en cocinero jefe de un restaurante o en médico dermatólogo, en bombero o en maestro, en ayudante de dentista o en soldador. Tiene una carrera, una profesión, una habilidad, un trozo del mundo en el que señaliza su presencia. Conoce a alguien cuya visión de la vida coincide con la suya, encuentra a una compañera o compañero que pone la misma energía que él o ella en hacer realidad esa visión, funda una familia y se establece con la persona querida para compartir muchos años. O bien opta por la soltería, por viajar y ver mundo, por dedicarse a su profesión o a un ministerio eclesiástico. Sea como fuere, con suerte, tiene una meta en la vida.
Pero, con demasiada frecuencia, lo que uno aprende sobre la vida en esta fase se pierde en el frenesí de alcanzar la meta. Lucha por conseguir empleo y por no perderlo. Encuentra empleos y los deja... o los pierde. Se agota haciendo todo lo posible para poder comprar la casa o esforzándose por obtener un título o creando la seguridad que esta cultura gusta de pensar que durará por siempre.
Hasta que, inopinadamente, el tiempo comienza a hacerse notar con una venganza. Ahora ya sólo queda tal número de años para pagar la hipoteca. Sólo queda tal número de años para ahorrar en un plan de pensiones. Hay una serie de recortes de personal y de cierres de empresas o, por algún acaso, promociones, bonificaciones y modélicos logros profesionales.
Luego, con la misma sencillez con que comenzó, todo se acaba. Llega la primera paga de la pensión o la tarjeta de transporte de la tercera edad. Es la jubilación: esa sensación de libertad que, para muchos, puede tornarse con la misma rapidez en una sensación de impuesta inutilidad.
Es ese elevado muro gris que llamamos los «últimos años». Los profesores universitarios escriben eruditos artículos sobre la calidad psicológica o los cambios físicos de esos años. Pero cuando nos encontramos en plena transición de una fase de nuestra vida a otra, lo único que sabemos es que envejecer consiste sencillamente en envejecer.
¿Qué sentido tiene todo esto? «Conforme envejecemos, nos hacemos a la vez más necios y más sabios», dijo el escritor francés La Rochefoucauld.
Así pues, ¿qué sentido tiene? ¿Cuál es la finalidad de todos estos años extra, los que pasamos al margen de sistemas, más allá de instituciones empresariales? ¿Es tiempo de agonía? ¿Se trata tan sólo de esperar a que desaparezcamos? Y si es así, ¿qué podemos hacer para afrontarlo con cierta alegría, con algo de dignidad?
Únicamente puedo estar segura de lo que veo a mi alrededor. Con noventa y cinco años, Margaret, quien en su día fue una maestra costurera, todavía va por ahí buscando trabajo. «Acepto encargos», dice mientras inquiere a sus amistades si tienen pantalones a los que haya que hacerles el dobladillo o nuevas cortinas que coser. Habla con todos lo que la rodean e incluso los busca si se les pasa acudir a visitarla. Lee y escucha música. Mantiene el contacto con viejas discípulas. Escucha nuevas conferencias en discos compactos. Vive. Tiene algo en ella que santifica el tiempo, que lo hace creativo antes que ajado. Me permite vislumbrar la parte de mi propia vida que yo aún no puedo ver. Me transmite que la vida no se mide por los años.
Cada periodo de la vida tiene una finalidad. Esta última etapa me concede tiempo para asimilar todas las anteriores. La tarea de este periodo de la existencia, me enseña Margaret, no consiste sin más en aguardar la llegada del fin de mis días. Se trata de cobrar una vitalidad que nunca antes he experimentado.
Este libro considera las múltiples dimensiones del proceso de envejecimiento, sus propósitos y retos, sus luchas y sorpresas, sus problemas y su potencial, su dolor y sus alegrías. Se ocupa de la sensación de rechazo que brota de sentirse desconectado del resto de la vida. Analiza la diferencia existente entre «hacer» y «ser» y sostiene que se trata de dos dimensiones importantes de la vida. Tanto lo uno como lo otro forman parte esencial de la urdimbre de la vida y se supone que representan dones para la sociedad, en vez de ser lo uno importante e insignificante lo otro. Este libro examina la tentación de aislarnos de los cambios que ocurren a nuestro alrededor. Se fija en lo que nos acontece cuando nuestras antiguas relaciones terminan y se modifican, cambian y ceden paso a la gran cantidad de personas y retos nuevos que vienen a ocupar su lugar. Habla sobre el miedo del mañana y el misterio de la eternidad. Indaga en cómo abordar todo eso. Es una panoplia de cuestiones vitales que afloran con la edad para traernos plenitud de vida, para renovarnos una vez más.
Éste es un libro que no está escrito para ser leído de una sentada, ni siquiera para ser leído siguiendo el orden de sus capítulos. Como los años de la ancianidad mismos, pide ser asumido de forma más lenta, más reflexiva, más seria. Tema por tema. Está pensado para ser leído una y otra vez, bien que sólo sea para tomar el pulso a la vida a medida que pasamos de una cuestión a otra, de una década a otra.
Estos son los años cimeros, el tiempo en que toda una nueva vida está otra vez en ciernes. Pero el don de estos años no se reduce a estar meramente vivos: es el don de llegar a estar vivos con mayor plenitud que nunca.
Los cristianos en un mundo secularizado: la propuesta de Charles Taylor
Charles Taylor, A Secular Age, Harvard U.P., Cambridge (MA)- London (UK) 2007, 874 PP.
Lluís Oviedo Torró OFM
Charles Taylor es uno de los filósofos vivos más apreciados en los ambientes de lengua inglesa. No esconde su fe católica ni elude los debates más candentes en la modernidad. Es quizás esa combinación de catolicismo y modernidad una de las características más sorprendentes y quizás fecundas de su obra: el ser católico no lo ha aislado de un ambiente dominado por ideas bastante ajenas a la tradición cristiana, sino que lo ha vuelto un protagonista de la gran discusión cultural. Su talante ha acontribuido a recuperar otras matrices de la modernidad que habían sido descuidadas en la cultura dominante, como: la dimensión emocional y comunitaria de la persona, la inextinguible demanda de trascendencia, y la raíz histórica de toda forma de vida. Seguramente su nuevo libro añade una pieza de gran valor al análisis de la condición personal y social moderna.
La secularización se percibe cada vez más como un proceso problemático; de hecho uno de sus efectos es que las cosas ya no están tan claras como antes. Sin embargo, en general, era vista como un desarrollo normal de las sociedades avanzadas. Los teólogos no advertían en ella un peligro o amenaza para la fe; la Iglesia tenía en todo caso una oportunidad para madurar y modernizarse. Algo ha cambiado: el análisis y reflexión de los últimos años han puesto en evidencia dilemas, paradojas y peligros latentes de la secularización, no sólo para los creyentes, sino para todos. Entre otras cosas, las expresiones culturales y el mundo de valores se han visto muy afectados. A pesar de los avances registrados aún estamos lejos de comprender las consecuencias de dicho proceso. A menudo se ofrecen diagnósticos inadecuados respecto de las causas, los desarrollos y las respuestas ante la crisis religiosa que se asocia a la secularización social. Seguimos necesitando estudios amplios capaces de profundizar en el tema, de iluminar sus varios aspectos y de orientar las respuestas.
El nuevo libro de Charles Taylor constituye una aportación imprescindible de cara a comprender mejor la secularización, de describir sus límites y debilidades, y de proveer un diagnóstico ajustado sobre las circunstacias culturales en las que hoy se inscribe la decisión religiosa. Esta magna obra puede ser leída en distintas claves, y da lugar a varias líneas de recepción. En primer lugar, se trata de una buena historia del pensamiento occidental, desde la baja Edad Media hasta nuestros días. Por otro lado, pasa por un intento de reconstrucción de los marcos culturales que configuran las tendencias sociales y las opciones personales, es decir una especie de historia de la cultura en el sentido de los “imaginarios colectivos”. También admite una lectura en clave antropológica y hermenéutica, en el sentido de Clifford Geertz, es decir una “descripción espesa” de las distintas concepciones sobre la naturaleza y significado del ser humano, y sobre todo, de los valores, códigos y usos que lo definen en cada ambiente histórico. El libro, en sus últimos capítulos, constituye una profunda revisión de las relaciones entre la fe cristiana y la cultura en las sociedades avanzadas, y una propuesta de comprensión de aquella ajustada al nuevo ambiente. De todos modos, considero que la lectura más pretenciosa es la que identifica una especie de claves universales, casi de arquetipos cognitivos, sociales e históricos, dentro de los cuales se mueve la realidad personal, y que cabe codificar en antinomias elementales, en dilemas de sentido último e ineludibles.
La presente recensión quiere presentar sistemáticamente los capítulos del libro y reconstruir la trama de una narración cuyo desenlace no es en absoluto previsible. Para ello seguiré el orden de los títulos de las cinco partes que comprende la obra, tras la introducción que plantea el programa conjunto. Reservo para el final un comentario y valoración desde el punto de vista de otros intentos de hacer las cuentas con la secularización.
No es posible abordar el tema de la secularización sin una previa clarificación semántica, sin distinguir los distintos significados del término, y sin discernir los más adecuados. Las primeras páginas del libro recogen tres acepciones. La primera implica la separación del ámbito religioso respecto de otros ámbitos sociales; la segunda expresa la caída de los niveles de creencia y de práctica religiosa; y la tercera, más ideológica, se refiere al carácter libre de la opción creyente e incluso a la creciente dificultad para abrazar la fe en el ambiente occidental. Vienen a la mente otros ejercicios similares de distinción y clasificación de la secularización, como es el caso de Dobbelaere y sus tres niveles: macro, micro y meso. Taylor asume el primero, es decir el clásico de diferenciación social; identifica el segundo con el nivel empírico de ese proceso; y reduce el tercero al nivel de la conciencia creyente, que se acerca mucho al tipo “micro”. De todos modos, lo más importante a tener en cuenta ya desde el inicio del libro es que el énfasis se pone ante todo en la evolución del pensamiento y de su repercusión en los individuos, para proyectarse a otros niveles.
Taylor identifica la secularización como una especie de “horizonte de comprensión” en sentido muy amplio: un nuevo contexto cultural, tradiciones, tendencias más o menos explícitas, en las que se inscribe cualquier “experiencia moral, espiritual y religiosa” (3). En cierto sentido, su empresa apunta a reconstruir los “mundos de experiencia” o las “visiones” que presiden las distintas opciones, sean en el sentido de creer, que de no creer, “como condiciones de vida, y no tanto como simples teorías o conjuntos de creencias a los que nos adscribimos” (8). Se trata de “fondos” cambiantes, que sufren una evolución a lo largo de la historia, y que el autor se propone reconstruir, o hacer patentes más allá de su carácter presupuesto o asumido de forma aproblemática. Taylor declara que su objetivo es describir la transformación que ha llevado de un estado en el que la fe religiosa era la opción normal para todos, a otro en el que esa opción se vuelve problemática e incluso difícil. Se trata de un cambio radical que condiciona todos los niveles de experiencia, y que debe ser explicado en todas sus consecuencias.
Naturalmente, la cuestión semántica exige una mejor descripción de lo que se entiende por “religión”: es lo que se asocia a la distinción entre trascendencia e inmanencia. De este modo las cosas son más sencillas: la secularización configura y afirma un horizonte de inmanencia, es decir un ámbito en el que la plena realización personal puede alcanzarse dentro de los límites del mundo y de la historia presente, o, en otras palabras, el ideal de un “humanismo auto-suficiente y exclusivo”. Taylor declara desde el inicio, de forma polémica, que dicho horizonte no debe ser interpretado como una “historia de substracción”, o de recuparación de aspectos humanos que la fe religiosa había relegado, sino de nuevas propuestas que emergen en un monento singular (22).
1. La obra de reforma
Taylor inicia su narración histórica con una descripción del horizonte cultural que dominó en Occidente hasta al menos el año 1500, cuando prácticamente todos integraban su vida dentro de una concepción religiosa. Aquel mundo tenía su propia lógica, sus códigos y sus modos de armonizar estructura y anti-estructura, orden y caos. El ejemplo de los carnavales sirve para apuntar una línea de secularización, por cuanto el viejo código requería dicha dinámica de “anti-estructura” para funcionar, y el nuevo implanta un sistema único que no necesita alternativa o dialéctica, pues se plantea como un “código nuevo y perfecto” (53). Otras líneas de análisis de los cambios que marcan aquella transformación epocal son el paso de un cosmos ordenado y jerarquizado a un universo con su propio orden inmanente, sin referencia a un orden eterno. Ahora bien, el cambio más importante se sitúa en el nivel personal: se trata del paso del individuo “poroso”, es decir, permeable y en continuidad con el cosmos y la trascendencia, a un individuo “amortiguado” (buffered), en discontinuidad con el resto de la realidad, y capaz de definir su propia identidad. Todo ello se puede describir con el término weberiano de “desencantamiento”.
El libro apunta a otro factor histórico en ese tiempo crucial: la voluntad de reforma dentro de la Iglesia, en el sentido de reorganizar el individuo y la sociedad, que se perciben como poco ajustadas a los ideales o la concepción de la fe madurada en el curso de la baja Edad Media. Dicha ansia de reforma no era sólo religiosa, sino que se extendía a toda la realidad. Sin embargo, al final del proceso termina por afirmarse más el aspecto secular, que pone el acento en la realización humana (human flourishing) por sí misma, independientemente de la referencia religiosa. El proceso puede ser ahora descrito en términos de “racionalización”, como hizo Weber. En todo caso aparece como la lógica continuación de la voluntad de reforma iniciada en el siglo XVI, y que conduce en su máxima expresión al “Estado-policía”. Taylor observa dicho proceso en la afirmación de la “sociedad disciplinada”, que todavía conecta la fe religiosa y la búsqueda de orden en un mismo paquete, destinado a combatir caos y ansiedad, y que va perfilando un nuevo ideal de “civilización”. Ese ideal comprende una visión de dominio de la naturaleza, la superación de la violencia, y nuevos códigos de conducta centrados en la excelencia personal y el “carácter”, guiados por un confiado voluntarismo. El ideal de orden asume al fin un tono marcadamente antropológico, y se prefigura a menudo en términos antagónicos a todo aquello que impide su afirmación. El ser humano se define por su autonomía y capacidad de auto-control, no por su dependencia de un orden superior. Se trata del punto de llegada del “yo amortiguado”, es decir desconectado de un orden externo y capaz de definir su propio proyecto. Dicha definición pasa por un largo periodo de pruebas y propuestas: en primer lugar, tratando de restar influencia a los viejos ideales, y de desmarcarse del previo orden moral y social, del cosmos, y de las imágenes prevalentes sobre el bien humano. En segundo lugar, se ensayan nuevos programas identificados como “imaginarios sociales modernos”.
Taylor describe el nuevo orden o “imaginario” alternativo. Ante todo se propone en el campo moral, que surge como resultado de un “contrato social” que anula las jerarquías y promueve una armonía de intereses. De ahí derivan otros imaginarios y prácticas sociales; sus mejores expresiones son la objetivación de la economía; la promoción de la “esfera pública”, o de abierto intercambio de información; y la auto-regulación democrática. Las tres esferas configuran una especie de “agencias colectivas” y constituyen las bases de la sociedad moderna y de un orden autónomo (181). Todo ello contribuye a la erosión de la ideas tradicionales, a la marginación del orden divino o de sus prestaciones fundacionales, pues esos tres ámbitos van afirmándose como capaces de organizar mejor la sociedad, y consuman la tendencia secularizadora.
Hay algo de bastante weberiano en esta narración, pues el impulso parte de ansias claramente enmarcadas en los ideales cristianos de alcanzar un orden prometido. La racionalización parece ser también la clave del proceso, que va alejándose cada vez más de su inspiración religiosa, al notar que para alcanzar los fines deseados, era mejor descargar el fardo de la herencia confesional. Sin embargo Taylor describe de forma más detallada esa evolución, narra mejor la historia, y acentúa mucho más su carácter consciente, ideológico, no tanto estructural. El individuo y la conciencia juegan un papel mayor en este caso.
2. El punto de inversión
En la segunda parte, el autor se plantea por qué el humanismo exclusivo acabó por imponerse y se convirtió en una opción accesible a todos, no sólo un asunto de minorías. La primera respuesta apunta al deísmo, y a su intento de configurar una religión natural y que se corresponde mejor con los ideales de orden moderno, de mutuo respeto y armónica colaboración. De todos modos el elemento central es el giro antropológico, que se percibe en cuatro direcciones: la reducción del proyecto humano a la propia realización personal; el eclipse de la gracia; la pérdida del sentido de trascendencia; y el eclipse del ideal cristiano de divinización. Al fin, la idea de Dios ya no es necesaria para concebir el orden humano y social. Al principio sólo pensaban así algunas élites europeas de los siglos XVII y XVIII, pero terminó por convertirse en una percepción mayoritaría. Los ideales de urbanidad, orden moral y socialidad se impusieron a otros de honor y heroísmo. Se desautorizó el fervor religioso por su fanatismo, el pesimismo vinculado al pecado, y se exaltó la tolerancia y la benevolencia; el ascetismo dio paso a ideales de realización personal; a la moral confesional sucedió una inmanente y racional.
Se estaba fraguando en aquel tiempo la llamada “historia de substracción”, es decir, la idea de que la naturaleza humana puede florecer mejor si es liberada de creencias y prácticas tradicionales que ofuscan y bloquean sus fuentes de expresión más genuinas: una vez se “substraen” las tradiciones represoras, el ser humano puede alcanzar espontáneamente su plenitud (253). El ideal de “amor propio” encierra en sí las condiciones de benevolencia y de vida buena, y es capaz de fundar un orden moral autónomo, y prescindir de refuerzos trascendentes. Dicha percepción, junto a la conciencia del progreso cognitivo que promueve la ciencia, determinan una retirada de la religión, en un sentido muy similar al que apuntó Weber. Pero a diferencia del sociólogo alemán, Taylor insiste en el sentido de “potenciamiento” (empowerment) individual que propició dicha dinámica, lo que justifica su éxito, junto a la sensación de que las cosas funcionaban mejor que en épocas anteriores, cuando eran guiadas por criterios tradicionales.
Taylor está decidido a deconstruir la “teoría de la substracción”, y mostrar más bien la elaboración intencional de los ideales ilustrados apenas descritos. En primer lugar se evidencian los puntos de tensión de la propuesta cristiana respecto del modelo anterior. El paso sucesivo es mostrar cómo los ideales deístas afectaron negativamente a algunos valores del modelo cristiano, como el de comunión, lo que condujo a un retorno al tono impersonal del orden pagano. Este componente impersonal del nuevo orden refleja una característica central de la modernidad. Taylor propone una genealogía ya bastante extendida que explica dicho proceso de despersonalización, y que habría iniciado con el maestro franciscano Duns Escoto y el nominalismo posterior, y que algunos sitúan en la base de todo el proceso de secularización. La narración muestra en ese caso escenarios que nutren una cierta insatisfacción – a pesar de todo – ante los resultados logrados, y da pie a un desarrollo más complejo.
3. El efecto “nova”
La tercera parte expone la paulatina expansión del humanismo exclusivo, como una especie de explosión estelar, que se diversifica en varias tendencias, y al fin alcanza a la masa de población. Esta parte aprovecha las tesis ya desarrolladas en su anterior obra Sources of the Self. La idea central es que a partir de fines del siglo XVIII y durante todo el siglo XIX se siente el cansancio ante los imperativos de orden y disciplina modernos y surgen ideales alternativos que apuntan a la autenticidad, la expresión de los sentimientos, el estetismo y todos los motivos que concurren en el movimiento romántico. En principio se percibe un sentido de “vulnerabilidad”, pero también de insatisfacción ante la alternativa entre el viejo orden y el nuevo humanismo exclusivo. Se busca una “tercera vía” en grado de proveer nuevo significado a un mundo desencantado y frágil, superficial y vacío.
Taylor habla del “malestar de la inmanencia” (malaise); un sentido de benevolencia pálido y flojo, un moralismo descarnado, que de todos modos no reclama necesariamente un retorno a la trascendencia, sino que proyecta un nuevo horizonte de sentido. Una respuesta apunta al ideal romántico de belleza, aunque teñido a veces de motivos trágicos, y presidido por una fuerte ambigüedad. Otra vía recurre a un cierto sentido sublime que se descubre en las dimensiones de la naturaleza y el estupor que despierta su nueva descripción en clave científica. Una nueva sensación de misterio se abre paso para animar a una antropología demasiado reductiva y a una ética demasiado impersonal, lo que promueve una suerte de “espacio intermedio” y una “espiritualidad indefinida” a medio camino entre ateísmo y teísmo (360). En la nueva concepción el altruismo natural encierra una nota de excelencia respecto de la moral cristiana. La dimensión moral vuelve a jugar un papel central, en un sentido distinto: de grandeza al aceptar nuestra condición dentro de los límites que aporta la ciencia. La vida asume en este contexto un gran significado, a la que deben servir todos los esfuerzos.
La primacía apenas invocada provoca otra reacción, esta vez también desde el interior del humanismo inmanente, una especie de contra-Ilustración que emerge en tonos de protesta y revuelta, y que no disimula su fascinación ante el poder, la violencia y la muerte. De aquí resultan trayectorias un tanto diversificadas a lo largo del siglo XIX e inicios del XX: se retoman, por un lado, formas de humanismo ilustrado (utilitarismo); se celebran por otro las emociones románticas y se rechazan las éticas de la disciplina; y además se registran exaltaciones ambiguas que confluyen en el paroxismo de la Gran Guerra, y tensiones entre orden y desorden que encuentran su expresión en el fascismo.
4. Narrativas de secularización
La cuarta parte plantea una revisión de algunas teorías de la secularización disponibles. Muestra la insatisfacción ante la poca capacidad explicativa de la mayor parte de ellas, para apuntar a una mejor reconstrucción histórica. Es fundamental para el autor hacer explícitas las dimensiones latentes del proceso (the unthought), y deconstruir ciertas asunciones de la teoría clásica, que da por descontados los efectos negativos de la ciencia y la cultura del bienestar y la auto-determinación. En la nueva forma de narrar los hechos emerge un panorama distinto, en el que una cultura dominante impone ciertos gustos y criterios, con consecuencias dispares. El paisaje histórico y social se vuelve mucho más complejo, aunque no intransitable, y de este modo se evidencian las lógicas vinculadas a las tendencias creyentes y las increyentes, como una tensión irresolvible en la modernidad. En todo caso, no es la “historia de transformación” la mejor versión de los hechos, es decir, el paso de una cultura creyente a otra secular, sino que cabe observar desplazamientos en la visión de lo sagrado y de nuevos horizontes de trascendencia (437). Algunos escenarios a lo largo de la segunda mitad del siglo XIX y principios del XX testimonian dicha complejidad y una multitud de transacciones.
Otra forma de contar ese periodo se concentra en la llamada “edad de la movilización”: un impulso generalizado para adaptar masas de población a nuevas condiciones sociales y culturales (445), y que se puede identificar en distintos contextos nacionales y en diversos fenómenos del ámbito religioso: la multiplicación de denominaciones religiosas en USA y las frecuentes conversiones o revivals. De todos modos dichos procesos no significan un retorno a las viejas formas religiosas, sino que expresan claras conexiones con las nuevas sensibilidades, y se sitúan en los amplios marcos de tensiones entre las tres fuerzas ya señaladas: humanista, expresiva y heroica. En este mismo marco hay que considerar las formas “neo-Durkheimianas” de vinculación entre un sentido patriótico y de unidad nacional con un fondo religioso común o que aúna distintas confesiones.
A la era de la “movilización” sucede la era de la “autenticidad”, ya dentro del siglo XX. Ahora emergen factores más centrífugos, como el egoísmo y el hedonismo, que asumen una carta de legitimación cultural. La dimensión religiosa debe plegarse a las convicciones y gustos de cada cual. Surge el modelo “post-Durkheimiano”, en el que lo religioso ya no está conectado con la sociedad (490), ni tiene un valor civilizador, como en el pasado. La situación actual de la religión configura varios modelos, sobre todo el autoritario, por un lado, con sus fuertes valencias terapéuticas, y el de la libre búsqueda, por otro, con su carácter vago y acomodado. En todo caso los modelos anteriores – étnico-nacional y moral-movilizador – parece que han dejado de funcionar, y se abre un panorama mucho más ambiguo e indefinido. Ahora se imponen la cultura de la autenticidad y de la búsqueda personal, dando origen a nuevas formas religiosas no siempre de carácter institucional. La situación parece favorecer un ulterior declive religioso, pues la nueva cultura choca contra formas religiosas que van en sentido opuesto ¿O no? El autor reconoce un límite a dicha visión cuando contempla el caso de América del Norte (530). Quizás una pista la da el hecho de que la sed de trascendencia sigue estando presente en muchos, lo que se traduce en formas de “religiosidad mínima” o “vicaria”, pero no se extingue. Taylor está convencido de que la narración estándar sobre la secularización moderna está siendo cada vez más contestada, lo que abre nuevos horizontes de búsqueda (535).
5. Condiciones de la creencia
Esta última parte se abre con una descripción del llamado “marco inmanente”, es decir, el fondo u horizonte en el que se inscribe nuestro conocimiento de lo real. Se trata de una condición casi “natural”, producto de la evolución moderna, a la que contribuye ciertamente el éxito de la ciencia, y excluye la dimensión trascendente (542). Para Taylor ese marco permanece abierto y no es algo obvio, cuando se percibe, por ejemplo, la necesidad de escapar de las “estructuras cerradas del mundo”. La deconstrucción de dichas estructuras pone en evidencia los valores y las opciones que les subyacen, lejos de un ideal de neutralidad. No es que el viejo orden moral tuvo que “plegarse a los hechos”, sino que “una visión moral dio paso a otra” (563). No es más “natural” ni científica la visión inmanente, es sólo una opción posible que las nuevas condiciones históricas y culturales vuelven más normal, pero no la imponen como la única, entre otras cosas porque es relativamente fácil evidenciar sus límites o las insatisfacciones que sigue provocando. La idea de la “muerte de Dios” no es una consecuencia de la evolución de las cosas, sino de nuevas propuestas y elaboraciones que simplemente adquieren cierta “aura” de logro histórico. Por otro lado, la evolución moderna de las formas religiosas es mucho más compleja de lo que afirma la versión estándar de su oposición al progreso y a la realización personal.
El presente se plantea como un escenario en el que se cruzan distintas presiones, dando origen a varios dilemas. El hecho es que en el nuevo contexto no se pueden sostener las viejas formas religiosas, que han sido profundamente desestabilizadas, con el resultado de una fragmentación religiosa e inestabilidad, pero también de una recomposición y de nuevas propuestas (594).
A partir de esos datos se fragua la reflexión más original y provocativa de Taylor, al menos desde un punto de vista teológico. La tesis central puede ser formulada en estos términos: en la situación actual la fe religiosa debe constantemente confrontarse con opciones seculares o inmanentes, sin poder reivindicar soluciones seguras. Las propuestas cristianas resultan a los ojos del autor precarias e incluso ineficientes; a menudo los desarrollos seculares aportan mejores ventajas para todos. La fe cristiana se vive entonces de forma un tanto escindida, en una especie de “conflicto de intereses” o de “ni contigo ni sin ti”, algo que afecta también a la cultura secular y a sus pretensiones.
Como puede intuirse, la situación se describe mejor a base de dilemas, que resultan de esas fuerzas entrecruzadas que presiden la conciencia contemporánea. A menudo los habitantes de este mundo en tensión se ven obligados a combinar tendencias que antes parecían contrapuestas, o tenían su ámbito singular. Ahora las posiciones se vuelven más inestables y las combinaciones más probables; la austera visión científica reclama en muchos casos la responsabilidad moral o la expresión artística, y, por qué no, la trascendencia o aspiración a la reconciliación y la totalidad.
El resto de la quinta parte expone los dilemas centrales que derivan de esta situación incómoda, en la que nada está decidido, ni para los creyentes, ni para los humanistas seculares. Una primera tensión se establece entre la visión terapéutica y la espiritual, y se expresa de muchas formas: entre atender a las necesidades humanas elementales, o abrirse a la trascendencia, que para muchos es algo necesario; entre vitalismo y sentido trágico; entre auto-afirmación y sacrificio. Al volvernos conscientes de estos dilemas, y sobre todo del problema de la violencia y de sus raíces religiosas, se hace inevitable la revisión de las ideas teológicas tradicionales, que a menudo constituyen “claramente versiones erróneas de la fe cristiana” (643). Deriva un estatuto de falibilidad en la tarea teológica, cuya condición es “operar con una cierta proporción de poca claridad y confusión” (643). Taylor debilita conscientemente a la luz de nuestras ideas más maduras una teología demasiado segura de sí misma. Las propuestas tradicionales dejan en buena parte de conservar la validez que tenían, una vez se evidencia su desfase con las exigencias modernas más plausibles. El mismo problema del sufrimiento y sus explicaciones plantea un flanco débil, que no puede imponerse como la solución mejor, o, en sentido epistemológico, “completa”, a la luz de muchas ambivalencias y dilemas ineludibles. Esta situación deja a los cristianos un tanto desprovistos y limitados, sin soluciones definitivas (675), una debilidad que no tendría por qué ser negativa.
Las últimas secciones del libro dan una clara impresión de “deconstrucción” de las ideas cristianas tradicionales, es decir de una crítica que muestra motivos ocultos o desplazados, y que revela aspectos negativos. Del mismo modo que Taylor “deconstruye” las visiones y los programas del “marco inmanente” o secular, así también aplica su ácido crítico a las ideas de matriz cristiana. Todo es ambivalente y deja de tener valor absoluto; varias experiencias históricas en el siglo XX muestran las limitaciones intrínsecas a todo proyecto cristiano de reorganización y transformación social; el sentido del tiempo presenta límites; la experiencia de conversión no siempre apunta en la justa dirección; los proyectos humanistas cristianos, la necesidad de organizar el amor de agape... todo presenta inconvenientes y objeciones. El profundo diálogo que el autor establece con muchos de los protagonistas de ese malestar del creyente moderno aporta casos ejemplares. “Cuanto más se reflexiona, las fáciles certezas de cada propaganda (spin), transcendental o inmanentista quedan socavadas” (727). Taylor evoca un futuro en el que ninguna de las dos tendencias predomina, y en el que se abre un espacio también para la trascendencia como aspiración a la totalidad, y una escapada ante las tendencias a la homogenización.
El epílogo sorprende al recensor al reivindicar la reconstrucción histórica de Milbank y su Radical Orthodoxy, como complementaria de la propia, e incluso al asumirla desde una “gran simpatía” (772). En mi opinión puede haber alguna convergencia en el análisis histórico; ahora bien, las conclusiones y propuestas de cada uno no pueden ser más dispares y excluyentes, lo que deja un halo de sospecha en torno a esa pretendida afinidad.
Algunas consideraciones al margen
La magna obra de Taylor permite contemplar de forma panorámica la evolución de la increencia en Occidente, hasta alcanzar un predominio cultural. Se propone una narración siguiendo una trama que apunta a un desenlace incierto. No obstante este inmenso esfuerzo de erudición y de reconstrucción histórica, los estudiosos de la secularización pueden quedar un tanto insatisfechos, a causa del carácter sólo ideológico de esa narración, que no es ni mucho menos la única posible, ni probablemente la mejor, a la hora de establecer las causas y el desarrollo de ese proceso. La otra gran narración, aquí ausente, es la de tipo estructural o sistémico, es decir la que observa la secularización como resultado de procesos sociales, que tienen una lógica interna, y que no siempre puede ser reducida a sus “semánticas culturales”, o a las formas más conscientes de la historia del pensamiento y a los casos paradigmáticos.
En los últimos años el estudio de los procesos de crisis religiosa se ha enriquecido además con la aportación de estudios sociológicos, económicos e institucionales. En unos casos aprovechan el axioma de la “decisión racional”, que aporta una interesante capacidad explicativa, sobre todo en casos como el americano, que Taylor observa con perplejidad, como “una ficha que no encaja”. Los estudios institucionales han relevado dinámicas de secularización interna que no deberían ser ignoradas si se desea tener un cuadro más completo. Ciertamente no contamos con una “teoría unificada y completa” de la secularización, si no con diferentes narraciones que tratan de iluminar aspectos parciales de la misma. De todos modos, el procedimiento de Taylor plantea algunas dudas que no deberían dejar de considerarse, en el mismo nivel en el que opera, es decir, el ideológico e intencional.
Seguramente la historia que se narra tiene un precedente claro en Max Weber y su reconstrucción del proceso de secularización occidental como racionalización diferenciada, y consiguiente desencantamiento, que es un efecto sobre todo de la ciencia. Lo que sin embargo resulta problemático, es la posibilidad de reconstruir una genealogía que remonte a causas muy lejanas procesos que resultan de una gran complejidad de factores. Ya Popper advirtió de los peligros de esas “teorías de la conspiración histórica”, como la que ofrece Milbank culpando a Escoto y otros maestros franciscanos de los derroteros más negativos del pensamiento moderno. En ese sentido Taylor debería haber sido más prudente, y dejar más espacio a la contingencia y a un juego de variables no siempre fácilmente vinculables a antecedentes históricos o ideológicos.
De todos modos el reto principal que lanza Taylor en los últimos capítulos tiene que ver con esa pretendida simetría entre los límites del humanismo secular y del modelo cristiano. No parece que sea muy leal dicha maniobra, en especial si se aplican ciertos parámetros. Desde mi punto de vista no se da tal simetría, sino un peso mayor de negatividad en los proyectos meramente humanistas, o en general en las propuestas que parten de un esquema completamente secular; la historia de los desastres del siglo XX es reveladora a ese respecto. De todos modos, el autor debería ser consciente de que la fe consiste precisamente en romper esa simetría o hipotético equilibrio, para conceder más plausibilidad, capacidad heurística, y eficacia antropológica y social a la propuesta cristiana. Eso no implica anular la dimensión de la duda y de la búsqueda.
Ciertamente es saludable revelar los límites de programas cristianos modernos y dar cuenta de la intrínseca debilidad de toda teología, pero no creo que sea justa una crítica que desplaza a menudo el tema religioso a otras dimensiones; sería como juzgar a un médico por su capacidad de tocar el piano o de pronunciar una arenga política. Da la impresión de que no está clara la consecuencia de los procesos de diferenciación: cada subsistema social se especializa en un sector y opera dentro de un código limitado. El de la religión es la comunicación de trascendencia, y no la transformación política o la gestión económica. Tiene razón Taylor al evidenciar los límites del programa cristiano cuando trata de aplicarse a campos ajenos, como el político, o de organizar la vida común y personal. Sin embargo creo que el autor está operando todavía dentro de un esquema mental típico del “catolicismo orgánico”, que justamente revela como inadecuado y con fallos insuperables en la modernidad. No creo que ese sea el único modo posible de entender el cristianismo, tampoco católico, y que entre los extremos de un cristianismo liberal y secularizador, por un lado, y los proyectos orgánicos de recuperación global de la relevancia cristiana (Milbank), por otro, se dan alternativas y vías intermedias que apuntan más bien a aprovechar y hacer bien la propia competencia básica: la comunicación de trascendencia y de salvación en sentido definitivo. Seguramente, si las cosas se miran de otro modo, y se narra la historia desde otra perspectiva, podríamos aprender de Escoto y de otros maestros franciscanos, alejados de los ideales tomistas, que existen alternativas para la fe también cuando la razón asume su legítima autonomía y se difumina el ideal de orden.
En el fondo de la obra de Taylor se percibe un hegelianismo truncado, que se expresa en los distintos escenarios de una dialéctica que no acaba de reconciliarse entre la tesis cristiana y la antítesis humanista secular; y que se proyecta en una historia de la razón en constante tensión y aún inacabada. Se trata de un modelo posible, que muestra la fecundidad de la herencia del maestro alemán. Pero quizás eso es lo máximo que podemos ofrecer: modelos hipotéticos para organizar una historia que a menudo escapa a las construcciones racionales.
Por lo demás, el libro de Taylor debería constituir una preciosa ocasión para profundizar el tema de la secularización, sus causas y consecuencias, y para plantear estrategias realistas capaces de hacerle frente. En ese sentido sería hora de abandonar diagnósticos simplistas sobre la crisis religiosa actual y sus posibles culpables, y para iniciar una reflexión más serena y eficaz, en grado de proveer a la Iglesia con ideas pertinentes y con la movilización que conviene en un tiempo tan difícil.
1 A. VANHOYE, Accogliamo Cristo nostro Sommo Sacerdote. Esercizi Spirituali con Benedetto XVI, LEV, Città del Vaticano 2008, 28.
2 GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris missio, 11.
3 Messaggio al Popolo di Dio della XII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 10.
4 Ivi, 11.
5 J. RATZINGER, Servitori della vostra gioia. Meditazioni sulla spiritualità sacerdotale, Ancora, Milano 1989, 18s.
6 GIOVANNI PAOLO II, Novo Millennio Ineunte, 29.
7 Ivi, 31.
8 «Proyección. Teología y mundo actual» 56 (2009) 193-215.
9 Declaración conjunta para la armonización del diseño del Sistema de Educación Superior Europeo (25 de mayo de 1988).
10 J. DELORS, La educación o la utopía necesaria, en: La educación encierra un tesoro. Informe a la UNESCO de la Comisión Internacional para la educación en el siglo XXI, Santillana-Ediciones UNESCO, Madrid 1996, p. 12.
11 Algunas críticas hacia Bolonia pueden verse recogidas en A. GALINDO GARCÍA, Objetivos de Bolonia y evaluación continua en el interior de las Facultades de Teología, en J.R. FLECHA ANDRÉS (coord.), El Proceso de Bolonia y la Enseñanza Superior en Europa, Universidad Pontificia de Salamanca 2008, pp. 183-187.
12 Puede verse sobre esta cuestión histórica de indudable interés para comprender lo que ha significado la institución universitaria en la construcción de Europa: H.de RIDDER-SYMOENS, L’université comme héritage culture européen: une approche historique, Seminarium (aprile-giugno 2007) 419-432; J. M. MILLER, “The cultural heritage and academia values of the European university and the attractiveness of the European Higher Educational Area”, l.c., pp. 561-602.
13 Los materiales presentados en dicho seminario están recogidos en Seminarium 47/2(aprile-giugno 2007).
14 C. GARCÍA LLATA, “El futuro de la teología en la enseñanza superior en Europa”, Lumen 58 (2008) 333.
15 Notemos que en España se ha intentado, precisamente al amparo de Bolonia, ofrecer un curso de prosgrado conjunto titulado “Religiones y diálogo”, entre la Universidad Pompeu Fabra y el Instituto de Ciencias Religiosas de Barcelona.
16 BENEDICTO XVI, Discurso en la Universidad de Ratisbona, 12 de septiembre de 2006.
17 BENEDICTO XVI, Libertad y laicidad, intercambio epistolar con M. Pera.
18 A. FONTÁN, “El retorno a las Humanidades”, Nueva revista de política, cultura y arte 73 (2001) 91-100.
19 BENEDICTO XVI, Discurso a la Universidad de Ratisbona, 12 de septiembre de 2006.
20 En la Facultad de Teología de Granada llegan este curso al 24.5% de los alumnos matriculados.
21 J. NOGUERA TUR, “Oportunidad, posibilidad e imposibilidad de las transformaciones que propone el proceso de Bolonia. Una experiencia desde la geografía, Cuadernos de geografía 76 (2004) 252.
22 A. VILLA-O. VILLA, “El aprendizaje basado en competencias y el desarrollo de la dimensión social en las universidades, Educar 40 (2007) 17.
23 Sobre lo relativo a la evaluación puede verse: I. TELLO DÍAZ-MAROTO, “Evaluación de aprendizajes TICen el EEES”, Miscelánea de Comillas 64 (2008) 197-212.
24 A. DE LA HERRÁN GASCÓN, “Después de Bolonia”, Educación y futuro 16 (2007) 179-224.
25 J. R. CAPELLA, “La crisis universitaria y Bolonia”, El viejo topo 252 (2009) 15.
26 J. NOGUERA TUR, “Oportunidad, posibilidad e imposibilidad de las transformaciones…”, Cuadernos de geografía 76 (2004) 259.
27 Cf. P. MORALES VALLEJO, “Implicaciones para el profesor de una enseñanza centrada en el alumno”: Miscelánea de Comillas 64 (2006) 11-38.
28 M. A. DE LA CRUZ TOMÉ, “Formación pedagógica inicial y permanente del profesor universitario en España: reflexiones y propuestas”: Revista interuniversitaria de formación del profesorado 38 (2000) 28.
29 A. NICOLÁS, “Misión y universidad. ¿Qué futuro queremos?, Barcelona 12 de noviembre de 2008.
30 Ibid.
31 Puede verse, por ejemplo, http://www.ugr.es/-pgomez/docencia/tc1/guia-docente.htm.
32 M. MARTÍNEZ LIROLA, “El uso del portfolio como herramienta metodológica y evaluadora en el proceso de convergencia europea”, Profesorado. Revista de currículo y formación del profesorado.
33 «Cooperador Paulino» 148 (2009) 6-9.
34 «Todos uno. Revista de Pastoral Vocacional» 149 (2002) 40-62.
35 El don de los años. Saber envejecer, Sal Terrae, Santander 2009, pp. 11-19.