MARZO 2013
ASCESI DEL CARISMA:
CETERA TOLLE
Ci soffermiamo sulla seconda parte del motto di Don Bosco, “cetera tolle”, che, come dice il Rettor Maggiore nella lettera di convocazione del CG 26, esprime “l’ascetica salesiana, come viene espressa nel ‘sogno dei dieci diamanti’” (cfr. ACG 394, p. 7). Un po’ più avanti spiega: “Il ‘cetera tolle’ motiva il consacrato salesiano a prendere le distanze da quel ‘modello liberale’ di vita consacrata, descritto nella Lettera Sei tu il mio Dio, fuori di te non ho altro bene” (ACG 394, p. 35; riferimento a ACG 382).
1. L’Ascesi cristiana: espressione e conseguenza dell’Amore
Cerchiamo di ampliare questa prospettiva. Inizieremo con lo stabilire la base “umana” che ci permetta di capire che l’ascesi è necessaria non soltanto per il consacrato, e neppure solo per il cristiano, ma per ogni essere umano, nella misura in cui vuol raggiungere la vera felicità.
Il Santo Padre Benedetto XVI, nella prima citazione della sua enciclica Deus caritas est, menziona Federico Nietzsche (cfr. n.3), la cui critica a un certo tipo di ascetismo, che può arrivare ad essere persino masochistico, è ormai classica: “Essi hanno chiamato ‘Dio’ ciò che contraddiceva e faceva male a loro stessi: e, in verità, vi è stato molto eroismo nella loro adorazione!” 1. È necessario, indubbiamente, riconoscere con sincerità e umiltà quello che di vero c’è in queste critiche; frequentemente il modello e l’ideale di perfezione del cristiano non erano veramente cristiani, ma attingevano ad altre fonti, persino ad una concezione dell’essere umano che non è quella del Vangelo. Nel progetto amoroso di un Dio che vuole il bene dei suoi figli, non possiamo staccare la dimensione oggettiva (“perfezione”) dalla soggettiva (“felicità”). Bisogna riconoscere che in tempi passati, anche recenti, l’accentuazione di una perfezione senza la felicità ha portato per reazione alla situazione attuale, soprattutto nella cultura giovanile postmoderna, cioè alla ricerca di felicità (o, meglio, di piacere immediato), alle volte ossessiva, senza alcun riferimento a qualcosa di oggettivo (“perfezione”).
Soltanto dall’amore, che costituisce il fondamento del ‘da mihi animas’, può nascere l’autentica mistica cristiana (e salesiana); questo stesso amore è l’unica radice della vera ascesi. Ancor di più: non c’è ascesi più radicale di quella che nasce dall’autentico amore. Di conseguenza possiamo affermare che l’amore è la fonte della mistica e dell’ascesi cristiane. Detto con parole evangeliche: possiamo “avere la vita” e produrre molto frutto, soltanto se, come il chicco di frumento, accettiamo di cadere in terra e “morire”. E tutto questo non come qualcosa di “imposto” dal di fuori, neanche come “il prezzo che si deve pagare”, ma come effetto dell’essenza stessa dell’amore.
D’altra parte, soltanto nell’esperienza dell’amore, in qualsiasi delle sue autentiche espressioni, si trova la totale realizzazione della persona, attraverso l’integrazione piena dei due aspetti, oggettivo e soggettivo. Soltanto attraverso l’amare e l’essere amato l’uomo trova, inseparabilmente, la sua pienezza e la sua felicità.
2. Dialettica fondamentale dell’amore
Un poeta argentino, Francisco Luis Bernárdez, in una bellissima poesia, dice che “essere innamorato” (titolo della stessa poesia)
es ignorar en qué consiste la diferencia entre la pena y la alegría
(“è ignorare dove si trova la differenza tra il dolore e la gioia”).
San Tommaso lo aveva detto, con una frase lapidaria: Ex amore procedit et gaudium et tristitia (S. Th. IIa IIae, q. 28, a. 1): “dall’ amore procede la gioia e la tristezza”.
Scrive Moltmann: “Un uomo può soffrire perché può amare e soffre nella misura in cui pure ama. Se egli riuscisse a soffocare ogni moto d’amore, estinguerebbe pure ogni sofferenza, diventerebbe apatico (…) Un uomo che sperimenta l’impotenza, un uomo che soffre perché ama, un uomo che può morire, è quindi un ente più ricco di un Dio onnipotente, incapace di sofferenza e di amore” 2. Non è un’assoluta novità, né una mancanza di rispetto di fronte a Dio; in Riccardo di San Vittore troviamo la stessa idea, espressa in una maniera ancora più audace: “se Dio preferisse riservare egoisticamente solo per sé l’abbondanza della sua ricchezza - pur potendo, se lo volesse, comunicarla ad un altro (...) - avrebbe ragione di sottrarsi alla vista degli angeli e di chiunque, di vergognarsi di essere visto e riconosciuto, avendo in se stesso una così grave mancanza di benevolenza” 3.
In realtà, mai siamo così vulnerabili come quando amiamo … L’amore può essere descritto come “la felicità-pienezza attraverso il dono totale di sé”, è la logica del chicco di frumento; comprendiamo bene, allora, perché nell’esperienza di ogni amore autentico non si possono staccare la mistica e l’ascesi. Detto in “linguaggio salesiano”, in una maniera molto concreta, il da mihi animas e il coetera tolle sono le due parti, inseparabili, del manto del personaggio del sogno dei dieci diamanti…
In un altro testo bellissimo della nostra tradizione salesiana viene presentata questa stessa dialettica dell’amore: il sogno del pergolato di rose. Quelli che seguono Don Bosco, affascinati dalla possibilità di camminare sulle rose, scoprono, molto presto, che ci sono delle spine appuntite e si sentono ingannati. In realtà, avevano dimenticato che non ci sono rose senza spine; che non c’è amore senza sofferenza o, meglio, senza vulnerabilità...
Nel secondo capitolo delle nostre Costituzioni, parlando dell’identità del salesiano, troviamo almeno due volte questa prospettiva dell’ascesi, legata intimamente all’esperienza dell’amore. Nell’articolo 14, “Predilezione per i giovani”, leggiamo: “Questo amore, espressione della carità pastorale, dà significato a tutta la nostra vita. Per il loro bene offriamo generosamente tempo, doti e salute: ‘Io per voi studio, per voi lavoro, per voi sono disposto anche a dare la vita’”. E più avanti, ricordando il secondo motto della Congregazione, “lavoro e temperanza”, dice la nostra Regola di Vita: “(Il salesiano) accetta le esigenze quotidiane e le rinunce della vita apostolica: è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo, ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime” (Cost. 18).
3. Il “Dio-Amore”: un Dio povero
Spesso cerchiamo il fondamento dell’ascesi nella vita di Gesù, come dicono anche le nostre Costituzioni, citando il nostro padre Don Bosco: “Conosciamo la generosità del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, egli si fece povero, affinché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà. Chiamati ad una vita intensamente evangelica, scegliamo di seguire ‘il Salvatore che nacque nella povertà, visse nella privazione di tutte le cose, e morì nudo in croce’” (Cost. 72).
Senza mettere in discussione l’esempio normativo del Figlio di Dio fatto Uomo, partendo da un concetto teologico centrale si deve però affermare che in questo Uomo, Gesù di Nazaret, Dio si rivela in maniera definitiva.
Diventano allora preziose le parole di Vita consecrata sul fondamento trinitario dei consigli evangelici: “Il riferimento dei consigli evangelici alla Trinità santa e santificante rivela il loro senso più profondo” (VC, n. 21). Proprio perché Gesù Cristo è il Rivelatore di Dio, possiamo, attraverso di Lui, arrivare a questo fondamento trinitario. (Questa idea mi sembra una delle novità teologiche e spirituali più importanti del Magistero sulla vita consacrata, purtroppo non ancora sviluppata).
Vi presentare, in riferimento a questo, una riflessione che mi sta profondamente a cuore. Nei Vangeli sinottici – prendo il testo di Lc 21, 1-4 – troviamo il commovente esempio della povera vedova che, gettando due spiccioli, ha dato, secondo la testimonianza di Gesù, più di tutti gli altri: “tutti costoro, infatti, hanno deposto come offerta del loro superfluo, questa invece, nella sua miseria, ha dato tutto quanto aveva per vivere”. Avevo sempre inteso questo testo come un insegnamento morale particolarmente forte per motivarci alla piena fiducia in Dio. Un giorno mi sono chiesto: questa Parola del Signore non può essere anche una straordinaria parabola teologica? Il Dio di Gesù Cristo è come uno di quei ricconi che ‘danno molto’, ma del loro superfluo, o è simile piuttosto a questa povera vedova che ci ha dato tutto quello che aveva di più caro, il suo unico Figlio?
Intesa così, l’Incarnazione come kenosis è un’azione trinitaria; anzi, è la manifestazione per eccellenza del Dio Trinitario.
Di fronte a tutto questo, sorge la domanda: Dio “cambia” diventando Uomo? L’Incarnazione non va contro la radicale immutabilità di Dio?
Senza entrare in disquisizioni teologiche, non è il nostro compito, la prima cosa che dobbiamo fare è domandarci e mettere seriamente in discussione la immutabilità di Dio e il senso che può avere, essendo un concetto più filosofico che teologico. Il contenuto positivo presente in questa parola viene assunto e portato alla sua pienezza personalistica nella fedeltà, che è una caratteristica tipica dell’amore, soprattutto quando parliamo di Dio.
Ricordando l’interpretazione della parabola evangelica prima menzionata, lasciamo la parola a Hans Urs von Balthasar:
(Qui) si tratta, almeno nel sottofondo, della svolta assolutamente decisiva nel modo di vedere Dio, che non è in primo luogo ‘potenza assoluta’, ma ‘Amore’ assoluto e la cui sovranità non si manifesta nel tener per sé ciò che gli appartiene, ma nell’abbandonarlo.
Soltanto un Dio così è degno non soltanto della nostra riconoscenza e del nostro ringraziamento, ma anche del nostro amore totale, incondizionato, che porti anche noi a un radicale “svuotamento” per essere riempiti pienamente del suo Amore e diventare così portatori di Lui ai giovani.
4. Amore e Povertà nella vita salesiana
Nella sua Lettera (ACG 394, p. 41) il Rettor Maggiore, prima di presentare gli ultimi due temi del CG26, afferma: “Per Don Bosco la seconda parte del motto, ‘cetera tolle’, significa il distacco da quanto ci può allontanare da Dio e dai giovani. Per noi oggi esso si concretizza nella povertà evangelica e nella scelta di andare incontro ai giovani più ‘poveri, abbandonati e pericolanti’, essendo sensibili alle nuove povertà e collocandoci nelle nuove frontiere dei loro bisogni”. Anche qui, prendere come punto di partenza l’amore apostolico, a immagine del Dio di Gesù Cristo, ci permetterà di concretizzarlo nella povertà più autentica e radicale.
In un’analisi molto densa dell’amore umano, di una ricchezza straordinaria, Eberhard Jüngel esprime così il rapporto tra amore e povertà:
Il fatto che l’io amante voglia avere il tu amato e così, ma appunto solo così, voglia avere se stesso trasforma - e questo è di grande significato dal punto di vista ontologico e teologico - la struttura dell’avere. Infatti, il ‘tu’ amato viene desiderato dall’io amante solo come tu a cui egli può darsi e che a sua volta si darà all’io amante come a un tu amato. Nell’amore non c’è avere che non nasca dal dono (…) L’io amante ha se stesso solo più come se non si avesse. Vuole essere amato, e precisamente dal tu che egli stesso vuole avere. Ma per avere questo tu deve darsi ad esso, dunque cessare di avere se stesso. Questo fatto è decisivo per la comprensione dell’amore 4.
Detto altrimenti: una povertà che non nasce dall’amore non è una povertà desiderabile, che può renderci simili a Dio. Lo svuotamento del Figlio di Dio (kenosis) è, in fondo, espressione suprema dell’amore, che lo porta a farsi uno di noi: amor, aut similes invenit, aut similes facit. Questo asserto, che ci porta a condividere la vita dei più poveri ed emarginati, è in fondo una variante dell’Incarnazione.
A questo riguardo, possiamo anche ricordare le parole di sant’Agostino nel suo commento alla prima lettera di Giovanni:
Come inizia la carità, o fratelli? Prestate un poco di attenzione: voi avete sentito come si raggiunge la sua perfezione; il Signore nel Vangelo ci ha presentato il suo fine ed i suoi modi: Nessuno ha una carità maggiore di colui che dà la vita per i suoi amici. Egli, dunque, mostrò nel Vangelo la sua perfezione ed anche qui ci viene richiamata la sua perfezione; ma interrogate voi stessi e ditevi: Quando possiamo avere questa carità? Non voler disperare troppo presto di te stesso: la carità in te forse è appena nata, non ancora perfezionata; nutrila, perché non abbia a venir meno. Forse potrai dirmi: da dove traggo la conoscenza di ciò? Abbiamo sentito con quali mezzi essa giunge alla perfezione; sentiamo da dove trae inizio. Giovanni prosegue e dice: Chi avrà beni di questo mondo e vedesse suo fratello affamato e gli negasse la sua compassione, come l’amore di Dio potrebbe essere in lui? Ecco da dove prende avvio la carità. Se ancora non sei disposto a morire per il fratello, sii disposto a dare al fratello un poco dei tuoi beni (…) Se non riesci infatti a dare il superfluo al fratello, come potrai dare per lui la tua vita? 5
5. La Povertà come dimensione della vita consacrata salesiana
Dopo il testo citato all’inizio della nostra meditazione, nella stessa Lettera il Rettor Maggiore concretizza: “La vita consacrata del futuro si realizzerà nella sua concentrazione sulla sequela radicale di Cristo obbediente, povero e casto. Se tutti i tre i consigli evangelici ci parlano della nostra totale offerta a Dio e dedizione ai giovani, la povertà ci porta a donarci senza riserve né indugio, fino all’ultimo respiro della nostra vita, come fece Don Bosco. La pratica dei consigli evangelici libera in noi le risorse più nascoste della disponibilità” (ACG 394, p. 41).
Nella teologia della vita consacrata è necessario trovare un’unità armonica e organica sul fondamento dell’amore, da cui i consigli evangelici prendono senso e valore, orientandoli alla pienezza della santità. In questa prospettiva la povertà non è una “parte” o sezione della nostra vita, ma una dimensione trasversale alla vita intera e attraversa tutti i consigli evangelici. Oserei dire, giocando un po’ con le parole, che la povertà richiesta dalla castità o dall’obbedienza è più radicale di quella che implica il voto di povertà.
Nell’Esortazione Vita consecrata leggiamo: “Ogni rigenerato in Cristo è chiamato a vivere, con la forza proveniente dal dono dello Spirito, la castità corrispondente al proprio stato di vita, l’obbedienza a Dio e alla Chiesa, un ragionevole distacco dai beni materiali, perché tutti sono chiamati alla santità, che consiste nella perfezione della carità” (VC, n. 30).
Se analizziamo questo testo fondamentale, troviamo tre affermazioni, intimamente unite tra loro:
ogni cristiano/a è chiamato/a alla santità;
la santità consiste nella perfezione dell’amore, nella carità;
ogni cristiano è chiamato a vivere, secondo il proprio stato di vita, i consigli evangelici.
Rispetto alla concezione abituale dei “consigli” evangelici, troviamo una assoluta novità teologica e spirituale (parzialmente anticipata dalla Lumen Gentium). Possiamo dunque affermare: all’unica perfezione cristiana, che è quella dell’amore, appartiene essenzialmente la pratica dei ‘consigli evangelici’. La maniera stessa in cui vengono nominati indica che non si tratta che tutti i battezzati “professino i voti”. La prima conseguenza di questo è la necessità di trovare una maniera più adeguata di nominarli, per non cadere nell’errore di considerare i nostri fratelli e le nostre sorelle nel mondo come di “seconda classe”, o cercare di allargare così tanto il concetto di ‘vita consacrata’, che tutti appartengano ad essa. In ogni caso, non possiamo dimenticare che ogni cristiano/a è consacrato/a nel Battesimo.
Se questi valori evangelici (che non sono ‘opzionali’) sono normativi per ogni cristiano/a, devono avere la massima ampiezza possibile, non limitandosi a questo o quell’aspetto marginale dell’esistenza umana e cristiana: come sarebbe, per esempio, se intendessimo la castità soltanto in rapporto alla sessualità, o l’obbedienza soltanto di fronte a un ordine del legittimo superiore ‘in forza del voto’.
Secondo questa prospettiva i consigli evangelici indicano le dimensioni fondamentali dell’essere umano di fronte a Dio:
in rapporto alle ‘cose’: povertà;
in rapporto alle persone: castità;
in rapporto a se stesso: obbedienza.
Ricordiamo il primo e principale ‘comandamento’, la prima ‘parola di vita’, che Gesù indica al dottore della legge: “Il primo è: ‘Ascolta, Israele: il Signore, nostro Dio, è l’unico Signore, e amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutte le tue forze’. Il secondo è: ‘Amerai il tuo prossimo come te stesso’. Non esiste nessun comandamento più grande di questi” (Mc 12, 29-31 e paralleli). Alla luce di questo ‘comandamento’, possiamo comprendere cos’è questa triplice idolatria che minaccia la radice della vita cristiana (e religiosa): assolutizzare le cose materiali, adorando il “dio-denaro”; porre qualche persona come senso ultimo e definitivo della vita, spiazzando Dio dal centro; e infine, come la tentazione più profonda e radicale, mettere noi stessi al posto di Dio; anzi, invece di servire Dio, servirci di Dio.
Visto in chiave positiva, tendere verso la santità cristiana consiste nel crescere ogni giorno nell’amore autentico, mettendo Dio come Centro della nostra vita, Destinatario ultimo e definitivo del nostro amore, e soltanto in Lui e da Lui amare i nostri fratelli e sorelle (‘castità’), utilizzando in maniera solidale e fraterna i beni di questo mondo (‘povertà’), trovando così la nostra piena realizzazione in Cristo (‘obbedienza’) (cfr. Cost. 22). In questa maniera, la nostra vita consacrata diventa umile esempio e “terapia spirituale” (VC, nn. 87ss), al servizio di fratelli e sorelle, assumendo la rinuncia all’esercizio di questi valori, non perché gli altri cristiani rinuncino ad essi, ma perché possano relativizzarli. Questo è il nostro servizio insostituibile, che ci permette di parlare di “eccellenza oggettiva della vita consacrata” (cfr. Lettera del Rettor Maggiore, Sei Tu il mio Dio, fuori di Te non ho altro bene, ACG 382, pp. 15ss., citando VC, nn. 18 e 32).
Precisando ancora di più: per un cristiano questa ‘centralità di Dio’ e la conseguente rinuncia radicale si configurano come sequela e imitazione di Gesù Cristo: “Se uno viene a me, e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo (…) Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 26-27. 33). Le nostre Costituzioni, quando parlano della vita salesiana come un’esperienza formativa, ci invitano ad accettare non solo la “mistica” del vivere i valori della vocazione salesiana, ma anche “l’ascesi che tale cammino comporta” (Cost. 98).
Queste riflessioni ci portano a un tema assai interessante, ma che adesso soltanto possiamo enunciare: il senso della rinuncia, e la formazione alla rinuncia. È un tema della massima attualità, soprattutto (ma non soltanto) nel campo della formazione iniziale.
A questo riguardo, vorrei riprendere un testo della conferenza del Rettor Maggiore ai Superiori Generali:
Nella piccola parabola evangelica del commerciante di perle preziose (Mt. 13, 45-46), troviamo alcuni elementi fondamentali che ci permettono di delineare la "fenomenologia della rinuncia”:
a) il mercante rinuncia a quelle perle preziose (egli va e vende quelle che ha) non perché siano false: sono autentiche, e hanno costituito fino a quel momento il tesoro del mercante. Applicandolo alla nostra realtà, non è certamente un metodo appropriato quello che tenta di sminuire il valore di ciò a cui bisogna rinunciare, affinché risulti più facile. In fondo, rinunciare alle “cose cattive" non costituisce la rinuncia umana più profonda e completa. Quante volte abbiamo sentito chiedere, come resistenza ad una rinuncia necessaria: "che cosa c’è di cattivo in ciò che faccio?” E ha tutta la ragione chi parla così: soltanto deve comprendere che è proprio allora, quando si presenta l'opportunità della rinuncia nel suo senso più autentico.
b) il mercante rinuncia a perle autentiche, con dolore e contemporaneamente con allegria, perché ha trovato "la" perla definitiva, quella che ha riempito lo sguardo ed il cuore del commerciante: comprende che non può acquisire questa se non vende quelle. Se la nostra vita consacrata, centrata sull'inseguimento e sull'imitazione del Signore Gesù, non risulta affascinante, diventa ingiusta e disumanizzante la rinuncia che esige... Come dice splendidamente Potissimum Institutioni: "Solamente questo amore di carattere nuziale e che implica tutta l'affettività della persona, permetterà di motivare e sostenere le rinunce e le croci che trova necessariamente chi vuole ‘perdere la sua vita’ per causa di Cristo ed il suo Vangelo (cfr. Mc. 8, 35)" (n. 9).
c) la gioia per il possesso della "perla preziosa" non elimina mai del tutto la paura che non sia autentica: in caso in cui fosse falsa, la mia decisione sarebbe stata sbagliata, e avrei rovinato la mia vita. Questo "rischio" nella vita cristiana e più ancora nella vita consacrata, è una conseguenza diretta della fede: soltanto nella fede ha senso la nostra vita; se non è verità quello in cui crediamo, "siamo i più infelici di tutti gli uomini", parafrasando san Paolo (cfr. 1 Cor. 15, 19). Il giorno in cui, in qualunque versante della vita consacrata, si possa dire: la "mia vita è pienamente gratificante, anche se non è vero quello in cui io credo", il nostro Istituto diventa... una ONG, con l'aggravante che implica certe esigenze inaccettabili per i suoi membri...
Finisco con la concretizzazione della povertà che lo stesso Rettor Maggiore ci presenta nella sua Lettera: “Noi salesiani testimoniamo la povertà con il lavoro instancabile e la temperanza, ma anche con l’austerità, la semplicità e l’essenzialità di vita, la condivisione e la solidarietà, la gestione responsabile delle risorse. La nostra povertà ci chiede una riorganizzazione istituzionale del lavoro, che ci aiuti a superare il rischio di essere imprenditori dell’educazione più che educatori, o gestori di imprese educative più che apostoli attraverso l’educazione. Chi ha scelto di seguire Gesù, ha scelto di fare proprio il suo stile di vita, di non arricchirsi, di vivere la beatitudine della povertà e della semplicità di cuore, di avere sempre familiarità con i poveri” (ACG 394, pp. 41-42). In definitiva: prendere sul serio e vivere fino in fondo la beatitudine di Gesù: “Beati i poveri di spirito”, per sperimentare, fin da ora, la partecipazione al Regno dei Cieli.
1 FEDERICO NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi Edizioni, 27a. Ed., 2006, p. 102.
2 JÜRGEN MOLTMANN, Il Dio Crocifisso, Brescia, Queriniana, 1977, p. 259.
3 RICARDO DE SAN VÍCTOR, De Trinitate, III, 4, Roma, Città Nuova Editrice, 1990, p. 130.
4 EBERHARD JÜNGEL, Dio Mistero del Mondo, Brescia, Queriniana, 2004, 3ª ed., p. 416-417.
5 SANT’AGOSTINO, In Ioannis Epistolam Tractatus 5, 12, Roma, Città Nuova Editrice, 1985, p. 1743.