MO Antonio F


MO Antonio F

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1.1 Page 1

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Antonio Figueira sdb
Elementi guida della vita spirituale
dell’Autore in prospettiva della missione
educativo/pastorale
Analisi del testo delle Memorie dell'Oratorio
(dalla tesi di licenza dal titolo: Livelli di lettura e chiavi
interpretative delle «Memorie dell’Oratorio». Tra autobiografia
spirituale e proposta di un modello educativo pastorale carismatico,
UPS-Facoltà di Teologia, Sezione di Torino, relatore prof. ALDO
GIRAUDO, a.a. 1998-1999).

1.2 Page 2

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0. Criteri di analisi
0.1. Obiettivo e significato
Come ogni altro Autore, nell’organizzare la propria strategia
testuale, il Don Bosco delle Memorie si riferisce ad una serie di
competenze che conferiscono contenuto alle espressioni da lui
usate1. Pertanto prevede, ma anche costruisce, un suo Lettore
Modello capace di cogliere, sotto o accanto alla manifestazione
lineare del testo, all’intreccio delle vicende e allo schema
fondamentale della narrazione (la fabula2), anche la storia interiore e
profonda, fornendogli gli strumenti che lo rendono capace di
attualizzare il testo e di muoversi interpretativamente così come egli
si è mosso generativamente. I mezzi di questa strategia testuale sono
l’uso di una lingua (l’italiano parlato nella Torino dell’Ottocento
nell’ambiente clericale e popolare di Valdocco), la scelta di un tipo di
enciclopedia e di uno specifico dizionario di base, un patrimonio
lessicale e stilistico, una serie di selezioni contestuali (termini che
appaiono in connessione o concomitanza con altri appartenenti allo
stesso sistema semiotico) e di selezioni circostanziali (termini che
vengono usati in connessione con particolari circostanze di
enunciazione)3. Per l’interpretazione corretta, particolarmente per
un’interpretazione spirituale non forzata delle Memorie, risulta
importante identificare la strategia testuale dell’Autore Don Bosco e
operare un’analisi che fornisca codici e sottocodici utili a
disambiguare il testo e ad esplicitarne il messaggio. Ci sarà possibile
allora trovare nel testo non soltanto quanto l’Autore Empirico4
intendeva dire (intentio auctoris), ma anche quanto il testo di fatto
dice in riferimento alla propria coerenza contestuale e alla situazione
dei sistemi di significazione a cui si rifà (intentio operis). Nello
stesso tempo siamo resi più vigilanti sui meccanismi interpretativi
inconsci che muovono noi, come destinatari e lettori delle Memorie,
a trovare nel testo contenuti e indicazioni che scaturiscono da un
approccio guidato da nostri sistemi di significazione, ma anche da
desideri, da ideali o da condizionamenti ideologici (intentio lectoris)5.
L’obbiettivo di questa prima parte consiste nel rilevare, tramite
l’esperienza di Don Bosco descritta dalle Memorie dell’Oratorio, gli
elementi guida della vita spirituale dell’Autore in prospettiva della
1 Mi servo delle indicazioni fornite da U. ECO, Lector in fabula. La cooperazione
interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani 1998, pp. 13-26, 50-85.
2Sulla distinzione tra fabula e intreccio cf ivi, pp. 102-103.
3 Cf ivi, pp. 55-56.
4Usiamo la distinzione Autore Empirico/Autore Modello, Lettore Empirico/Lettore
Modello nel senso indicato da U. Eco (ivi, pp.50-66; cf anche ID., I limiti
dell’interpretazione, Milano, Bompiani 1990, p. 34; ID., Sei passeggiate nei boschi
narrativi, Milano, Bompiani 1994).
5Cf U. ECO, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani 1990, pp. 22-25.
2

1.3 Page 3

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missione oratoriana. Alcuni di questi passeranno alla proposta
educativa salesiana, altri paiono essere riservati alla ricchezza
irripetibile dell’itinerario di conversione percorso dal fanciullo, poi
giovane e adulto san Giovanni Bosco.
La scelta del termine “conversione”, come topic interpretativo
previsto dall’Autore6, è dichiarato esplicitamente dal testo stesso,
quando presenta Giovanni che ripete a don Calosso i contenuti della
predica della missione: “colui il quale differisce della sua
conversione corre gran pericolo che gli manchi il tempo, la grazia o
la volontà” (1.359-360). Ma è soprattutto suggerito da una serie di
indizi distribuiti e strategicamente collocati lungo tutto il testo, da un
certo tipo di dispositio che connota un dinamismo caratteristico e
inequivocabile. L’idea di movimento o di passaggio da una situazione
precedente ad una successiva, insita nel concetto stesso di
conversione, cristianamente connotata secondo l’enciclopedia
dell’Autore delle Memorie, è rintracciabile in tutta la trama del
racconto fino al raggiungimento della forma definitiva dell’Oratorio,
cosicché la “conversione” (intesa come movimento spirituale in
senso ampio) ci fornisce le condizioni di coerenza interpretativa nel
percorso di lettura7.
Attraverso l’analisi del testo entriamo in un movimento
cooperativo pragmatico con le Memorie, cercando di assecondare il
Don Bosco/Autore Modello per seguirlo in questo itinerario,
cogliendo i passaggi da lui indicati come segni dell’azione di Dio
nella sua vita. Ogni passaggio esplicita la presa di coscienza più
profonda del disegno di Dio, dei propri limiti e della consegna totale
alla divina volontà fino all’abbandono.
Il testo stesso contiene indicazioni importanti per formulare la
congettura interpretativa che riveli la strategia testuale dell’Autore:
la chiave di lettura della crescita spirituale del protagonista/Autore
Modello viene espressa in primo luogo nel sogno dei nove anni:
“Appunto perché ti sembrano impossibili, devi renderle possibili
coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza” (1.143-144); e più oltre,
“renditi umile (nella prima stesura “sano”), forte e robusto” (1.160-
161). A queste affermazioni, Don Bosco aggiunge: “Le cose che
esporrò io appresso daranno a ciò qualche significato” (1.185-186).
Ci pare che queste siano tracce testuali che offrono un plausibile
codice interpretativo dei contenuti delle Memorie sia quando Don
Bosco parla di se stesso (cf 1.8), sia quando parla dell’Oratorio e
della Congregazione.
Questa chiave stimola una cooperazione interpretativa che
permette di ritrovare nelle Memorie altre tracce di strategia testuale
finalizzate ad orientare l’interpretazione. In particolare ci vengono
6Usiamo il termine topic, come strumento metatestuale che permette di orientare la
direzione dell’attualizzazione, nel senso indicato da U. ECO, Lector in fabula, pp. 89-
92.
7Questo livello di coerenza interpretativa viene detto isotipia (definita da U. Eco
come “un insieme di categorie semantiche ridondanti che rendono possibile la
lettura uniforme di una storia”, ivi, p. 92), un termine che copre fenomeni diversi,
ma che “si riferisce pur sempre alla costanza di un percorso di senso che un testo
esibisce quando lo si sottomette a regole di coerenza interpretativa” (ivi, p. 101).
3

1.4 Page 4

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indicate due linee di sviluppo spirituale: innanzitutto il cammino di
conversione personale verso “l’ubbidienza” (cf 1.144), convergente
con l’umiltà (cf 1.160) a livello di atteggiamento spirituale (questa
prima linea di sviluppo è genericamente denominata “vocazione”); in
secondo luogo “l’acquisto della scienza”. A sua volta, la scienza viene
collegata all’ubbidienza e i due termini, richiamandosi
reciprocamente, confluiscono in una cammino di sapienza: “Io ti darò
la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente” (1.146-
147). Nel nostro testo la scienza appare come la strada specifica per
la realizzazione di una vocazione e di una missione data dall’Alto e
l’obbedienza si attua non soltanto attraverso l’assimilazione di
determinati atteggiamenti spirituali, ma anche attraverso
l’acquisizione della scienza. D’altra parte la globalità di queste
dinamiche viene realizza per la missione e soprattutto nella missione
dove la sapienza è al contempo spirituale e pedagogica e la prassi
educativo/pastorale sussiste nell’orizzonte della conformazione a
Cristo obbediente al Padre, Luce e vita per gli uomini.
0.2. I passaggi dati dall’Autore
Su vari punti determinanti Don Bosco distingue il momento dei
propositi o “risoluzioni” dalla realizzazione esistenziale di quelle
decisioni. Varie “risoluzioni” sono prese, non attuate
immediatamente, ma poi riprese in modo decisivo e definitivo,
operando il passaggio (“conversione”). Questi momenti risolutivi
sono sempre preceduti dalla narrazione dell’azione di Dio attraverso
avvenimenti o interventi di persone, che indicano o testimoniano una
concreta modalità della vita nello Spirito e sono appello a un
cambiamento di vita o propongono la soluzione di una difficoltà
concreta.
A partire dal topic scelto come ipotesi interpretativa, la nostra
analisi ci ha permesso di identificare momenti di passaggio della
propria vita interiore che Don Bosco trasporta esplicitamente nelle
Memorie, scandendo un “prima”, una transizione e un “dopo” che è
caratterizzato da una intensità maggiore della vita spirituale. Questi
dati ci aiutano a trovare un fondamento oggettivo per la
ricostruzione dell’itinerario.
Ad esempio, ripercorrendo gli avvenimenti collegati alla prima
comunione, Don Bosco scrive: “mi pare che da quel giorno vi sia
stato qualche miglioramento nella mia vita, specialmente nella
ubbidienza e nella sottomissione agli altri, al che provava prima
grande ripugnanza” (1.317-320). A partire dell’incontro con il
Calosso, egli afferma di aver “cominciato a gustare che cosa sia vita
spirituale, giacché prima agiva piuttosto materialmente e come
macchina che fa una cosa, senza saperne la ragione” (1.404-406).
L’amicizia con Luigi Comollo segna un nuovo cambiamento di vita:
“da lui ho cominciato ad imparare a vivere da cristiano” (1.849). Il
discernimento vocazionale, confluito nella decisione di vestire l’abito
4

1.5 Page 5

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chiericale, induce un ulteriore passaggio: “andando a casa per le
vacanze, cessai di fare il ciarlatano e mi diedi alle buone letture, che,
debbo dirlo a mia vergogna, fino allora aveva trascurato” (1.1290-
1292).
Il momento della vestizione viene caricato di grande tensione
spirituale e di elevata densità di contenuti: “Dopo quella giornata io
doveva occuparmi di me stesso. La vita fino allora tenuta doveva
essere radicalmente riformata” (2.48). La riforma viene guidata da
un atteggiamento spirituale espresso con il termine pregnante di
“ritiratezza”. I testi riconducono vari fatti (il banchetto dopo la
vestizione, il ballo al suono del suo violino e l’avventura di caccia) a
quest’unico orientamento verso Dio8, espressso globalmente con le
parole:
d’allora in poi mi sono dato con miglior proposito alla ritiratezza, e fui
davvero persuaso che chi vuole darsi schiettamente al servizio del
Signore bisogna che lasci affatto i divertimenti mondani (2.331-334).
Più avanti, nella fase di preparazione alle ordinazioni, troviamo
l’affermazione: “d’allora in poi mi sono dato il massimo impegno di
mettere in pratica il consiglio del teologo Borelli; colla ritiratezza e
colla frequente comunione si conserva e si perfeziona la vocazione”
(2.563-2.565).
Si registrano poi altri momenti di passaggio. Uno è legato
all’attività di predicazione, in cui viene evidenziata la sua facilità
all’esposizione della parola di Dio, ma anche la tendenza iniziale alla
vanagloria9: “Dopo questo avviso ho fatto ferma risoluzione di voler
per l’avvenire preparare i miei discorsi per la maggior gloria di Dio”
(2.688-689). Un ulteriore passaggio testimonia un conflitto più
specificamente intellettuale: “È a questo libro cui son debitore di
aver cessato dalla lettura profana" (2.502). Un terzo pare assumere
il valore e il simbolo della definitività e riguarda un momento
veramente cruciale: la malattia mortale che lo colpì nel tra maggio e
giugno 1846 (3.875-880), la guarigione inaspettata (3.889-905), la
lenta ripresa e l’invito a passare alcuni anni fuori Torino per
recuperare la salute, espresso anche da don Cafasso e
dall’Arcivescovo, ai quali si era affidato per ogni decisione (3,915-
921): “Ma la cosa tornandomi di troppo grave rincrescimento, mi fu
acconsentito di venire all’Oratorio con obbligo che per due anni non
avessi più preso parte né alle confessioni né alla predicazione”
(3.921-923). Il testo riporta invece una conclusione inattesa:
8“Giunto a casa [dopo il festino] ho rinnovato di tutto cuore il proponimento già
fatto più volte, di stare ritirato se non si vuole cadere in peccato” (2.294-296); “feci
in mille pezzi il violino, e non me ne volle mai più servire, sebbene siansi presentate
occasioni e convenienza nelle funzioni sacre” (2.314); “rinunciai nuovamente e
definitivamente ad ogni sorta di caccia” (2.328-329).
9 Cf Memorie, 2.275 e 2.619.
5

1.6 Page 6

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Ho disubbidito: ritornando all’Oratorio, ho continuato a lavorare come
prima e per 27 anni non ho più avuto bisogno né di medico, né di
medicina. La qual cosa mi ha fatto credere che il lavoro non sia quello
che rechi danno alla sanità corporale (3.923-927).
Ci troviamo di fronte ad un caso particolare. Il significato
spirituale rivestito da tali affermazioni sembra delineare un
passaggio interiore definitivo e risolutorio.
0.3. Le fasi di passaggio spirituale
Entriamo dunque nell’analisi del testo prendendo la chiave di
interpretazione della scansione in fasi e passaggi, strategia che il
testo stesso suggerisce al Lettore per illustrare, nella continuità tra
la storia di vita dell’Autore modello e la storia dell’Oratorio,
l’itinerario spirituale e l’acquisizione di un’identità caratterizzante.
Abbiamo disegnato la nostra ipotesi interpretativa - come si è detto -
secondo il ritmo dedotto dai dati di strategia testuale forniti dal Don
Bosco delle Memorie, coscienti della possibilità di configurarci tale
Autore condizionati da notizie che già possediamo sul Don
Bosco/Autore Empirico quale soggetto e oggetto di enunciazione. Ma
ci siamo sforzati di attualizzare le intenzioni virtualmente contenute
nell’enunciato, cercando di recuperare con la massima
approssimazione possibile i codici dell’emittente, la sua enciclopedia
di emissione, limitandoci cioè a considerare il testo secondo le sue
circostanze di emissione e nella sua coerenza contestuale.
Le fasi che proponiamo rispettano fondamentalmente quelle
presentate dal Don Bosco/Autore Modello, di cui alcune sono
soltanto una sottodivisione:
1 - Scoperta di Dio Padre ed esperienza della confidenza;
2 - Coscienza del dono di Dio e necessità della “ritiratezza”;
3 - Guida stabile e gusto della vita spirituale;
4 - Fortezza e presa personale di posizione;
5 - Scuola a Chieri: un modello di ambiente educativo che
favorisce il radicamento e la stabilizzazione nella vita
cristiana;
6 - Il seminario di Chieri: stabilizzazione nella vocazione e
nello spirito sacerdotale;
7 - Il Convitto: coscienza della missione, inizio e stabilizzazione
dell’Oratorio;
8 - Tettoia e casa Pinardi: abbandono definitivo in Dio e
sviluppo dell’Oratorio.
6

1.7 Page 7

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1. Scoperta di Dio Padre ed esperienza
della confidenza
Consideriamo come estremi di questa fase la nascita di Giovanni
Bosco e il primo sogno. Le tematiche fondamentali evidenziate dalle
Memorie sono l’apertura esperienziale all’orizzonte della fede, la
confidenza in Dio, il lavoro, l’obbedienza, l’insostituibilità
dell’educazione familiare, la vita cristiana, le prime opposizioni di
Antonio, il primo segno di una missione e di uno stile di vita (nel
sogno), le prime realizzazioni apostoliche.
1.1. Tre indicatori per la lettura: confidenza in Dio, lavoro e
educazione cristiana
Confidenza in Dio, lavoro e dedizione all’educazione cristiana
dei figli sono le tre caratteristiche fondamentali dei genitori di
Giovanni indicate dal testo. Vengono attribuite in modo specifico e
individuale a ciascuno di loro, ma non solo. Il testo presenta una
linea di continuità e di comunione tra Francesco e Margherita per
cui le scelte della madre sembrano essere un prolungamento, una
realizzazione del testamento spirituale del padre.
1.1.1. Confidenza in Dio
La confidenza in Dio viene sottolineata proprio in circostanze
che potrebbero generare l’atteggiamento contrario, cioè, in questo
caso, la morte del padre e le strettezze di famiglia (cf 1.64-86).
Nella lettura retrospettiva, Don Bosco qualifica il suo primo
ricordo (cf 1.56), la morte del genitore, come un “grande infortunio”
(1.62-63), vissuto però all’interno di un clima di confidenza in Dio:
“Io non toccava ancora i due anni, quando Dio misericordioso ci colpì
con grave sciagura” (1.46-47).
Il lettore si lascia impressionare dalla tensione provocata
dall’avvicinamento tra il concetto di “Dio misericordioso” e la “grave
sciagura”. Nello stesso avvenimento sono compresenti lo spegnersi
di una paternità umana e la percezione incipiente ma intensa di una
paternità divina.
Il padre Francesco “raccomandando a mia madre la confidenza
in Dio, cessava di vivere” (1.53). Mamma Margherita è delineata
come colei che prolunga concretamente questo atteggiamento e
interpreta in questa chiave le scelte del proprio vissuto personale,
come si può dedurre dalle indicazioni dell’Autore: “Questi fatti mi
furono più volte raccontati da mia Madre e confermati dai vicini
parenti ed amici” (1.93-95). Quando si tratta si uccidere il vitello,
7

1.8 Page 8

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decisione veramente grave e difficile in quelle circostanze, la
mamma fa appello alle parole del marito che “morendo dissemi di
avere confidenza in Dio” (1.82) e invita alla preghiera.
Questa certezza della paternità attiva di Dio nel quale si può
porre totale confidenza, segna i primi passi dell’infanzia di Giovanni.
È il suo primo ambiente spirituale. Tuttavia l’itinerario della
confidenza attiva di Giovanni Bosco in Dio, verrà delineato come una
faticosa crescita da assumere personalmente fino all’abbandono. Il
cammino di personalizzazione della confidenza accompagna la presa
di coscienza sempre più profonda della Provvidenza di Dio
nell’esercizio della sua paternità.
1.1.2. Lavoro
Mamma Margherita diventa per Giovanni un modello di
laboriosità:
Ognuno può immaginare quanto abbia potuta soffrire e faticare mia
madre in quella calamitosa annata. Ma con un lavoro indefesso, con
una economia costante, con una speculazione nelle cose più minute, e
con qualche aiuto veramente provvidenziale si poté passare quella
crisi annonaria (1.89-92).
In questo viene accomunata al padre Francesco che “quasi
unicamente col suo sudore procacciava sostentamento” (1.41-42)
alla famiglia.
Il concetto di lavoro, legato alla sussistenza, a sua volta aperto
all’orizzonte della Provvidenza, è uno dei primi concetti chiave nel
testo. Ancora una volta, oltre ai riferimenti individuali, troviamo
un’affermazione comune ai due genitori: “Erano contadini, che col
lavoro e colla parsimonia si guadagnavano onestamente il pane della
vita” (1.40-41).
L’Autore ricorderà più tardi l’educazione ricevuta dalla madre:
Di più essendo stato abituato da mia madre a dormire assai poco,
poteva impiegare due terzi della notte a leggere libri a piacimento, e
spendere quasi tutta la giornata in cose di libera elezione (1.1205-
1207).
1.1.3. Educazione cristiana
Nell’infanzia, Giovanni viene educato ad una lettura teologica
della vita non solo a partire da una diffusa testimonianza della
confidenza in Dio e di lavoro, ma anche - come insistentemente si
sforza di insinuare il testo - da una cosciente scelta educativa:
l’educazione cristiana.
Dalla descrizione che l’Autore dedica a suo padre, spiccano le
seguenti parole: “L’amato genitore, pieno di robustezza, sul fiore
della età, animatissimo per dare educazione cristiana alla
figliuolanza” (1.47-48). Di mamma Margherita, Don Bosco viene a
8

1.9 Page 9

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dire: “Sua massima cura fu di istruire i suoi figli nella religione,
avviarli all’ubbidienza ed occuparli di cose compatibili a quella età”
(1.104-105).
Anche qui, nel tema dell’educazione, l’Autore narra la continuità
e la comunione tra Francesco e Margherita, poiché davanti a un
convenientissimo collocamento […] Ella rispose tostamente: - Dio me
ha dato un marito e me lo ha tolto; morendo egli mi affidò tre figli, ed
io sarei madre crudele, se gli abbandonassi nel momento in cui hanno
maggior bisogno di me (1.97-99).
La “cura di istruire i suoi figli nella religione” (1.104) si
concretizza nell’iniziazione alla preghiera e ai sacramenti, attraverso
l’esempio e l’assistenza (cf 1.105-1.113). Si sottolinea la stabilità
nella preghiera e l’esperienza della confessione come dato
importante. Nel presente contesto, l’assistenza consiste nella
preparazione alla confessione, nell’accompagnamento in chiesa,
nella raccomandazione al confessore e nel aiuto a fare il
ringraziamento.
Un particolare aspetto della vita cristiana in Giovanni Bosco
collegato all’intervento educativo di mamma Margherita è la
relazione con Maria Santissima. Nel sogno dei nove anni il
personaggio si presenta come il “figlio di colei che tua madre ti
ammaestrò di salutar tre volte al giorno” (1.149). Forse per questo
stesso motivo il giorno della nascita viene collegato alla festa
dell’Assunta (cf 1.37). L’orientamento è fondamentalmente mariano,
sia nel caso di una forzatura storica, sia nel caso in cui Don Bosco sia
veramente nato il 15 agosto.
1.2. Complementarietà tra confidenza ed obbedienza
La esperienza della confidenza in Dio si coniuga in Don Bosco
con l’esperienza della confidenza e della fiducia in determinate
persone a lui vicine. Prima tra tutte, mamma Margherita. Questo
rapporto di confidenza con sua madre viene introdotto prima di ogni
altra considerazione sul ruolo delle guide spirituali o di altre persone
in cui egli lui deporrà la sua confidenza.
La confidenza è caratterizzata nel testo delle Memorie come
trasparenza totale in un clima di grande benevolenza che a sua volta
favorisce l’obbedienza:
mia madre mi voleva molto bene, ed io le aveva confidenza illimitata e
senza il suo consenso non avrei mai mosso un piede. Ella sapeva
tutto, osservava tutto e mi lasciava fare (1.278-279).
Inoltre, Don Bosco intende suggerire una particolare sintonia
tra madre e figlio, quando riferisce la sua interpretazione al sogno
dei nove anni: “Chi sa che non abbi a diventar prete” (1.181).
Come abbiamo rilevato per il tema della confidenza in Dio, così
anche per l’esperienza della confidenza interpersonale il testo rivela
una struttura fatta di periodi di pienezza e di momenti di mancanza.
9

1.10 Page 10

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Tale atteggiamento di fiducioso affidamento sarà collegato a
liberazioni interiori, a soluzione di problemi di discernimento o al
contrario, se assente, a fasi di indecisione e di impasse. Il Don Bosco
delle Memorie tende normalmente a ricollegare gli sviluppi spirituali
personali al rapporto con figure di riferimento, delineate come
portate da Dio e portatrici di Dio. Per ora, alla mancanza del padre
subentra l’appoggio fortissimo della madre che permette di accedere
ad una autentica, anche se ancora passiva, confidenza, la quale più
avanti verrà sviluppata come un’attiva consegna all’Altro, a Dio,
attraverso la confidenza in una guida umana come aiuto e condizione
del discernimento.
Quella di “avviare all’ubbidienza” (1.105) viene presentata come
una particolare cura di mamma Margherita, recepita da Giovanni in
modo positivo.
Mia madre mi voleva molto bene, ed io le aveva confidenza illimitata e
senza il suo consenso non avrei mai mosso un piede. Ella sapeva
tutto, osservava tutto e mi lasciava fare (1.278-279).
In queste espressioni del testo veniamo allontanati da una
prospettiva legalistica per essere pienamente immersi in un rapporto
interpersonale nel quale trovano spazio obbedienza e confidenza.
La benevolenza di mamma Margherita si rimarca ancora con il
racconto del suo rifiuto di un convenientissimo collocamento in una
situazione difficile, per stare con i figli (cf 1.96), con la narrazione di
gesti concreti, di piccole offerte (cf 1.270) e la somministrazione
dell’occorrente per i trattenimenti di Giovanni (cf 1.280-281).
1.3. Momenti dinamici della struttura narrativa: lo studio, il
sogno, una crisi
Infine accenniamo ai due elementi di tensione che nella
strategia del testo sono messi in campo per segnare il passaggio alla
fase seguente: la difficoltà di accedere allo studio e il sogno dei nove
anni.
L’Autore ricorda: “mia madre desiderava di mandarmi a scuola”
(1.114-115). Due sono le difficoltà elencate: la distanza dalla scuola
e l’opposizione del fratello Antonio (cf 1.115-117). Questa situazione
apre una conflittualità che viene accentuata con la rilettura
dell’indicazione del sogno, in cui è resa esplicita la necessità
dell’“acquisto della scienza” (1.144) come esigenza proporzionata ad
una missione. La frequenza della scuola di Capriglio, valida per il
contatto con “un sacerdote di molta pietà, a nome Giuseppe
Delacqua” (1.119-120), è per il momento l’unica soluzione possibile,
risultante di un “temperamento” (1.117); non la migliore. La crisi,
lasciata in questa fase senza soluzione, apre la strada alla fase
seguente.
Intanto l’Autore introduce la descrizione delle sue avventure di
fanciullo connotandole come una “specie di Oratorio festivo” (1.199).
10

2 Pages 11-20

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2.1 Page 11

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Nella strategia globale delle Memorie, protesa a evidenziare la
continuità e la quasi identificazione tra l’esperienza di Giovanni
Bosco e l’Oratorio di san Francesco di Sales, emerge un indicatore di
rilievo, che mira ad esplicitare, nella voluta connessione, alcuni
elementi di identità e di metodo: i racconti ameni e le prediche, i
giochi di saltimbanco, con preghiera e restrizione nella
partecipazione (cf 1.264). Anche l’accenno ai mezzi di “sussistenza”,
assicurati con piccoli ed onesti accorgimenti (cf 1.267-283), non pare
secondario o accessorio, ma va legato alla progressiva definizione
dello statuto dell’Oratorio.
11

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2. Coscienza del dono di Dio e necessità
della “ritiratezza”
Questa seconda fase, che si presenta distinta dalla precedente
poiché alla coscienza della vita cristiana viene fatto fare un passo
avanti, si apre con la narrazione dell’avvenimento della prima
comunione. Il progresso è accentuato dalla promozione di Giovanni,
che ha solo undici anni (invece dei dodici previsti dalle disposizioni
sinodali), ma sa “tutto il piccolo catechismo”, tra coloro che vengono
ammessi alla Prima Comunione (cf 1.286-288).
Gli indicatori testuali da noi selezionati per accedere ad
un’interpretazione profonda sono il termine assistenza, che esprime
il contesto e le modalità in cui avviene preparazione e la
celebrazione della prima confessione e della prima comunione, e il
verbo promettere che definisce l’intensità e l’incidenza di
trasformazione interiore determinata dall’evento. L’enfatizzazione del
clima di ritiro e di raccoglimento, in cui viene collocata la
celebrazione della prima comunione – come esperienza privilegiata
di incontro con Dio -, indica l’importanza pedagogica attribuita
dall’Autore all’evento.
2.1. L’assistenza
La figura educativa centrale messa in scena dal racconto è
mamma Margherita. Da lei Giovanni era stato avviato alla
celebrazione della confessione ed ora viene preparato alla prima
comunione (“Si adoperò Ella stessa a prepararmi come meglio
poteva e sapeva”, 1.291-193), attraverso un processo di
accompagnamento spirituale connotato con il termine chiave di
“assistenza” (1.112)1. L’assistenza si presenta qui come un
atteggiamento educativo articolato che aiuta a prendere coscienza
dell’importanza dell’avvenimento e a creare le condizioni necessarie
per viverlo bene. Oltre e attraverso questi obiettivi immediati, Don
Bosco presenta un obiettivo educativo fondamentale: portare
l’educando alla responsabilità personale davanti a Dio.
In questo contesto narrativo, l’assistenza si configura come
l’insieme delle condizioni che l’educatore si impegna a creare per
favorire nell’educando un autentico incontro con Dio. Condizioni che
in primo luogo investono gli atteggiamenti dell’educatore stesso,
coerentemente con una scelta educativa di fondo:
Sua massima cura fu di istruire i suoi figli nella religione, avviarli
all’ubbidienza ed occuparli in cose compatibili a quell’età. Finché era
piccolino mi insegnò Ella stessa le preghiere; appena divenuto capace
1 Cf Memorie,1.297.
12

2.3 Page 13

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di associarmi co’ miei fratelli, mi faceva mettere con loro ginocchioni
mattino e sera e tutti insieme recitavamo le preghiere in comune colla
terza parte del Rosario. Mi ricordo che Ella stessa mi preparò alla
prima confessione, mi accompagnò in chiesa; cominciò a confessarsi
ella stessa, mi raccomandò al confessore, dopo mi aiutò a fare il
ringraziamento. Ella continuò a prestarmi tale assistenza fino a tanto
che mi giudicò capace di fare degnamente da solo la confessione
(1.104-113).
Nella struttura narrativa della celebrazione della prima
comunione, connotata dal topic dell’assistenza, viene delienato il
secondo modello sacerdotale positivo, il parroco di Castelnuovo don
Sismondi, di cui Don Bosco sottolinea il “molto zelo” nel guidare i
comunicandi a fare la preparazione e il ringraziamento (1.307).
2.2. Confessione e comunione
Don Bosco esplicita la necessità di uno stato di adeguatezza
interiore per ricevere la comunione. Si tratta di “un gran dono”
(1.299), un “gran giorno” (1.311) perché Dio prende possesso del
cuore (cf 1.312).
La confessione viene a costituire, nella trama narrativa, l’atto
centrale della preparazione. Vengono sottolineate le condizioni che
ne fanno un’espressione di conversione, come la sincerità assoluta e
la trasparenza - “non tacer alcuna cosa in confessione” (1.299-300);
“Di sempre tutto in confessione” (1.314) -, la contrizione - “sii pentito
di tutto” (1.300) -, la promessa di cambiamento interiore - “prometti
a Dio di farti più buono in avvenire” (1.300-301).
2.3. La promessa: “Per l’avvenire...”
In prospettiva di futuro Margherita lo invita a comunicarsi
sovente (cf 1.313), ma guardandosi dal “fare dei sacrilegi” (1.313-
314). Questa è la prima indicazione che troviamo nelle Memorie
riguardo la frequenza dei sacramenti della confessione e della
comunione.
Alla bontà di Dio, si è invitati a corrispondere con la bontà e una
migliore qualità della vita:
Sono persuasa che Dio abbia veramente preso possesso del tuo cuore.
Ora promettigli di fare quanto puoi per conservarti buono sino alla
fine della vita. Per l’avvenire va sovente a comunicarti, ma guardati
bene dal fare dei sacrilegi. Di’ sempre tutto in confessione; sii sempre
obbediente, va volentieri al catechismo ed alle prediche; ma per
amore del Signore fuggi come la peste coloro che fanno cattivi
discorsi (1.311-316).
Il conservarsi buono sino alla fine significa concretamente per
13

2.4 Page 14

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Giovanni, accanto alla frequente e santa celebrazione sacramentale
e all’ascolto della parola di Dio (riferibile alla volenterosa
partecipazione al catechismo e alle prediche), l’essere “sempre
ubbidiente” (1.314). Egli riconosce un miglioramento in questo punto
per lui fondamentale, “al che provava prima grande ripugnanza,
volendo sempre fare i miei fanciulleschi riflessi a chi mi comandava o
mi dava buoni consigli” (1.319-321).
Come difesa del dono ricevuto e fedeltà all’amore del Signore, è
necessario fuggire “come la peste coloro che fanno cattivi discorsi”
(1.316). Viene così introdotta la tematica relativa ai compagni che
fanno cattivi discorsi, anticipata già nella descrizione nelle
“radunanze” attorno al piccolo saltimbanco, dalle quali “erano
esclusi tutti quelli che avessero bestemmiato, [o] fatto cattivi
discorsi” (1.264).
2.4. Clima di raccoglimento
La narrazione enuncia, finalmente, tutte quelle condizioni che
vengono a creare il clima spirituale ideale per la celebrazione della
prima comunione come base di un percepibile progresso spirituale.
Fanno parte di quest’ambiente la preghiera e la lettura a casa,
sia nel tempo della preparazione (cf 1.300) che nel giorno della
celebrazione (cf 1.309), i buoni consigli della madre (cf 1.304 e 344)
e la cura di evitare chiacchiere dispersive e attività di carattere
feriale e comune (cf 1.305 e 1.309) il mattino della prima comunione
e durante tutta la giornata.
L’enfasi con cui il testo presenta questa giornata ne fa
un’esperienza paradigmatica nella quale l’Autore ci pare indicare tre
condizioni fondamentali che permettono un itinerario di vita
cristiana: l’incontro personale con Dio, come fine; l’atteggiamento di
conversione, come condizione; la presenza educativa come aiuto
indispensabile.
14

2.5 Page 15

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3. Guida stabile e gusto della vita
spirituale
La terza scansione dell’itinerario spirituale di Don Bosco/Autore
modello viene collegata con la persona e il ruolo di don Calosso. È
caratterizzata dallo sviluppo degli elementi spirituali precedenti e
dall’introduzione di alcuni nuovi: la necessità e urgenza della
conversione e il gusto della vita spirituale.
Qui il topic suggerito dal testo per orientare l’interpretazione
del Lettore modello è la “confidenza”. Il lessema confidenza viene
ripreso dalla prima fase e arricchito con significati spirituali più
articolati. Sono importanti per la crescita interiore dell’Autore
modello adolescente, sia la confidenza attuata nei riguardi di don
Calosso, prima “guida stabile” (1.397), sia l’appello, dopo la sua
morte, a spostare l’asse della confidenza/speranza dagli uomini a Dio
(1.519-525)1. Significativamente in questa cornice narrativa viene
inserito l’incontro col chierico Cafasso (cf 1.483-518), colui che verrà
presentato come il “Direttore spirituale” per eccellenza, con il quale
si attuerà la massima confidenza: “nelle cui mani riposi ogni mia
deliberazione, ogni studio, ogni azione della mia vita” (2.743-745).
Ad un secondo livello le figure di don Calosso e del chierico Cafasso
proseguono la presentazione dei modelli sacerdotali e permettono
una prima focalizzazione tematica.
La strategia narrativa di Don Bosco procede ad una
compressione cronologica, facendo coincidere due giubilei avvenuti
a distanza di tre anni l’uno dall’altro e ridistribuendo gli elementi
della sua crescita spirituale lungo il periodo soppresso.
3.1. Il ruolo attoriale di don Calosso
La funzione di questa figura sacerdotale, che viene a qualificare
il passaggio alla nuova fase dell’itinerario formativo dell’Autore
modello - perché risolve la crisi in atto sotto due punti di vista legati
all’aspetto vocazionale: la vita cristiana, e l’acquisizione della
scienza -, collegata all’altra del giovane Cafasso e messa quasi in
opposizione attanziale con la “bontà del Padre Celeste” in cui va
risposta la speranza (1.523-525), ci induce a spogliare il ruolo
attoriale della sua individualità per scoprire che i tre attori (Calosso,
1 “ Gioanni mio, tu hai messo in me la tua confidenza, e non voglio che sia invano”
(1.450-451); “La morte di D. Calosso fu per me un disastro irreparabile. Io piangeva
inconsolabile il benefattore defunto. Se era sveglio pensava a lui, se dormiva
sognava di lui, le cose andarono tanto oltre, che mia madre, temendo di mia sanità,
mandommi alcun tempo con mio nonno in Capriglio. A quel tempo feci altro sogno
secondo il quale io era acremente biasimato perché aveva riposto la mia speranza
negli uomini e non nella bontà del Padre Celeste” (1.519-525).
15

2.6 Page 16

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Cafasso, Padre Celeste) ricoprono l’unico ruolo attanziale della
Provvidenza divina a cui affidarsi nella confidenza e
nell’obbedienza2.
3.1.1. Guida stabile e gusto della vita spirituale
Don Calosso è presentato con un ruolo specifico: la prima “guida
stabile” (1.397) a cui Giovanni fa “conoscere tutto [se] stesso”
(1.393). Questa situazione si oppone al modello rappresentato dal
parroco, che per la lontananza non conosce l’Autore ragazzo (cf
1.287-289)3. L’esperienza della confidenza totale, prima
esperimentata nei confronti della madre, viene ora collocata in
riferimento ad un sacerdote, che nei modelli di riferimento
dell’Autore empirico si deve connotare come l’“amico dell’anima”
(1.398). Sono due realtà di relazione diverse e complementari.
L’assistenza della madre non coincide con la presenza di un fedele
amico dell’anima (cf 1.397-398), che Giovanni non aveva avuto
prima. Il passaggio è significativo perché rivela in filigrana
l’“ideologia” di Don Bosco: mamma Margherita è pur capace di “dare
buone parole, e dare buoni consigli” (1.534), tuttavia l’educazione
materna non è in grado di fornire i beni che solo un sacerdote può
somministrare.
Il Calosso è messo in scena come colui che riconduce la grande
chiamata alla conversione alle possibilità concrete di Giovanni, alla
sua condizione di adolescente. Il principio della “necessità di darsi a
Dio per tempo e di non differire la conversione” (1.353-354), perché
“colui che differisce la sua conversione corre gran pericolo che gli
manchi il tempo, la grazia o la volontà” (1.359-360), che la
sceneggiatura delle Memorie enuncia attraverso l’artificio della
predica, viene adeguato pedagogicamente a quel “fanciullo di
piccola statura, col capo scoperto, capelli irti ed inanellati” (1.336-
337).
D’altra parte, in continuità con le condizioni di una sostanziosa
vita spirituale, enunciate in relazione alla preparazione della prima
comunione, troviamo qui sia la correzione di una penitenza non
adatta che l’incoraggiamento alla frequenza sacramentale e
l’ammaestramento sul “modo di fare ogni giorno una breve
meditazione o meglio un po’ di lettura spirituale” (1.398-402).
Tutte queste indicazioni alle quali Giovanni corrisponde,
mettendosi “nelle mani di D. Calosso” (1.392), creano le condizioni
interiori per una significativa esperienza di crescita spirituale:
Da quell’epoca ho cominciato a gustare che cosa sia la vita spirituale,
giacché prima agiva piuttosto materialmente e come macchina che fa
una cosa, senza saperne la ragione (1.404-406).
2 Sulle strutture attanziali e i ruoli attoriali in funzione di una interpretazione
profonda del testo, cf U. ECO, Lector in fabula, pp. 174-185.
3 Cf Memorie, 1.322)
16

2.7 Page 17

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3.1.2. Strumento per l’acquisizione della scienza e lo sblocco
nella vocazione
La seconda linea in cui il Calosso marca un passaggio è quella
degli studi. Dal desiderio di studiare, bloccato per l’opposizione del
fratello Antonio (cf 1.369-372), si passa alla promessa e
concretizzazione di una soluzione favorevole (cf 1.385). Vi è un
progresso notevole negli studi:
Alla metà di settembre ho cominciato regolarmente lo studio della
grammatica italiana, che in breve ho potuto compiere e praticare con
opportune composizioni. A Natale ho dato mano al donato, a Pasqua
diedi principio alle traduzioni dal latino in italiano e vicendevolmente
(1.407-410).
Il tutto gli costò grandi sacrifici, come si può vedere nella
narrazione posta sotto il titolo Lo studio e la zappa (cf 1.427-437),
sostenuti però da forti motivazioni interiori tali da produrre una
grande fecondità: “Io faceva tanto progresso in un giorno con il
cappellano, quanto non avrei fatto a casa in una settimana” (1.459-
460). Paradossalmente è proprio l’opposizione di Antonio a dare una
svolta dinamica alla situazione:
Quel degno ministro di Dio informato dei guai avvenuti in mia
famiglia, mi chiamò un giorno e mi disse: Gioanni mio, tu hai messo
in me la tua confidenza, e non voglio che ciò sia invano. Lascia
adunque un fratello crudele e vieni con me ed avrai un padre amoroso
(1449-452).
Questa soluzione apre concretamente la porta alla vocazione
ecclesiastica, almeno provvisoriamente, in quanto immette nello
studio, strada necessaria per “abbracciare lo stato ecclesiastico”
(1.378). Qui, il testo inserisce un ulteriore elemento per delineare il
tipo sacerdotale esemplare che la struttura ideologica delle Memorie
continuamente sostiene associando una serie di connotazioni
assiologiche ai vari poli attanziali iscritti nel testo:
- E per qual motivo vorresti abbracciare questo stato?
- Per avvicinarmi, parlare, istruire nella religione tanti miei compagni,
che non sono cattivi, ma diventano tali, perché niuno di loro ha cura
(1.380-381).
Va notato che la tematizzazione del modello viene enunciata in
una cornice narrativa in cui, attraverso il contrasto tra la figure di
don Calosso e del “prevosto col suo viceparroco”, viene impersonato
lo stesso modello e il suo contromodello: “ma io non poteva contrarre
con loro alcuna familiarità [...]. Se io fossi prete vorrei fare
diversamente; vorrei avvicinarmi ai fanciulli, vorrei dire loro delle
buone parole, dare dei buoni consigli [...]. Questo conforto l’ebbi con
D. Calosso” (1.527-536).
17

2.8 Page 18

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3.1.3. Morte di don Calosso: il fatto e il significato
La morte di don Calosso rappresenta la perdita inaspettata di
tutte queste condizioni e la morte di ogni speranza per il futuro.
“Con lui moriva ogni mia speranza” (1.475). Don Bosco accentua il
fatto chiamandolo un “disastro irreparabile” (1.519), che lo lancia in
una dolorosa crisi.
Ma la morte di don Calosso ha il ruolo di rivelare all’Autore un
impasse spirituale nel quale l’aiuto di don Calosso rischiava di
piombarlo, in quanto vissuto in una prospettiva di “speranza” troppo
immanente, contrastante con la dinamica della confidenza e
dell’abbandono in Dio: “gli affari miei procedevano con indicibile
prosperità: io mi chiamava pienamente felice, né cosa alcuna
rimanevami a desiderare, quando un disastro troncò il corso di tutte
le mie speranza (1.464-466).
In qualche modo il racconto esprime il contrasto con
l’atteggiamento di confidenza perseverante di mamma Margherita.
La falsa prospettiva si risolve attraverso il superamento di una crisi
tanto drammatica da avere riverberi sulla salute fisica: “con lui
moriva ogni mia speranza” (1.475); “la morte di D. Calosso fu per me
un disastro irreparabile. Io piangeva inconsolabile [...], le cose
andarono tanto oltre, che mia madre, temendo di mia sanità,
mandommi alcun tempo con mio nonno in Capriglio” (1.519-522). La
soluzione questa volta si presenta con i caratteri della
straordinarietà, di un intervento dall’Alto, che si configura come
un’esperienza interiore:
A quel tempo feci un altro sogno secondo il quale io era acremente
biasimato perché aveva riposta ogni mia speranza negli uomini e non
nella bontà del Padre Celeste (1.523-525).
3.2. Don Cafasso, ritiratezza, novità di vita e vocazione
All’interno di questa struttura narrativa si introduce un nuovo
attore: “In quell’anno la divina provvidenza mi fece incontrare un
novello benefattore: D. Caffasso Giuseppe” (1.482-483). La cornice
in cui si colloca l’incontro è importante:
Era la seconda Domenica di ottobre (1827) e dagli abitanti di
Murialdo si festeggiava la Maternità di Maria SS, che era la solennità
principale fra quegli abitanti. Ognuno era in faccende per le cose di
casa, o di chiesa, mentre altri erano spettatori o prendevano parte a
giuochi o a trastulli diversi.
Uno solo vidi lungi da ogni spettacolo; ed era un chierico, piccolo
nella persona, occhi scintillanti, aria affabile, volto angelico. Egli era
appoggiato alla porta della chiesa (1.484-490).
Lo proposizione “lungi da ogni spettacolo” (1.488) e le
spiegazioni del Cafasso permettono di creare un collegamento
semantico con la linea tematica della “ritiratezza”, anche in assenza
18

2.9 Page 19

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del termine specifico4. Ci si riferisce alla “ritiratezza” in quanto
insieme di condizioni esteriori e di atteggiamenti interiori che,
“colui che abbraccia lo Stato Ecclesiastico” (1.511-512) mette in atto
per amare e dedicarsi soltanto a “quello che può tornare a maggior
gloria di Dio e a vantaggio delle anime” (1.513-514).
Come risposta all’invito fatto da Giovanni a vedere qualche
“spettacolo o qualche novità” (1.500-501) le parole del Cafasso
spostano l’attenzione alla vera novità di vita che deve connotare il
modello di ecclesiastico idealizzato: “le nostre novità sono le
pratiche della religione che sono sempre nuove e perciò da
frequentarsi con assiduità” (1.504-505). In questo dialogo viene
introdotto un nuovo aspetto del tema della frequenza dei
sacramenti, cioè il legame della frequenza alla novità costante. Il
motivo della frequenza delle pratiche di pietà è la novità di cui esse
sono portatrici e l’apertura al gusto della vita spirituale (cf 1.405).
Mentre nelle prime tre figure sacerdotali messe in scena, don
Giuseppe Delacqua, don Sismondi e don Calosso, gli elementi
qualificanti del modello sacerdotale ed educativo venivano dedotti
dagli atteggiamenti e dalle azioni delle persone, in questo caso
troviamo la prima sintesi esplicitamente tematizzata dello spirito
della vocazione ecclesiastica secondo i quadri mentali di Don Bosco,
che mette a fuoco la totalità della consegna:
Egli si pose a ridere e conchiuse con queste memorande parole, che
furono come il programma delle azioni di tutta la sua vita: Colui che
abbraccia lo Stato Ecclesiastico si vende al Signore; e di quanto avvi
nel mondo, nulla deve più stargli a cuore se non quello che può
tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime (1.511-514).
Notiamo, infine, a proposito del dialogo accennato tra il giovane
Cafasso e il l’adolescente Giovanni, l’emergere di un modulo
ricorrente, di un insieme di costanti, sia a livello di contenuti che di
modalità relazionali, che si configurano come caratterizzanti nella
dinamica del primo incontro tra educatore/pastore e
educando/discepolo e che esplicitano ulteriormente le modalità
dell’avvicinarsi educativo e pastorale (cf 1.380 e 1.533) proposto
come caratteristica del modello che le Memorie passo passo stanno
delineando:
Egli mi fe’ grazioso cenno di avvicinarmi, e prese a interrogarmi sulla
mia età, sullo studio, se io era già stato promosso alla Santa
Comunione, con che frequenza andava a confessarmi, ove andava al
Catechismo e simili. Io rimasi incantato a quelle edificanti maniere di
parlare; risposi volentieri ad ogni domanda (1.495-499).
4 Il termine appare per la prima volta in Memorie,1.725.
19

2.10 Page 20

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4. Fortezza e presa personale di posizione
Poniamo come estremi (non strettamente cronologici) di questa
breve fase la divisione dei beni paterni e il congedo di don Virano. Il
racconto configura questo come un periodo di transizione,
caratterizzandolo particolarmente con alcune prese di posizione
personali in momenti significativi: la divisione patrimoniale e alcune
proposte svianti dall’obbiettivo principale o addirittura contrarie alla
responsabilità personale. Questi elementi ci paiono rivestire una
certa importanza per il rilevamento della crescita spirituale
dell’Autore modello nel campo della fortezza. Allo stesso tempo sono
segno di una coscienza cristiana vigilante che va al di là di certe
evidenze che sembrano verità.
4.1. “Divisione fraterna”
Il titolo è dato dall’Autore (cf 480) e viene a culmine di un
processo di tensione familiare crescente. Dai primi segni di
opposizione da parte del fratello Antonio (cf 1.117), si era giunti ad
una evidente antipatia con conseguente irrigidimento (cf 1.181)1; si
era tentato un compromesso tra le esigenze concrete di attività
lavorativa e lo studio (cf 1.387-391)2, per arrivare ad uno scontro
frontale e ad una situazione insopportabile sia per Giovanni, sia per
la madre (cf 1.439-448). Si trattava di una decisione difficile da
prendere per vari motivi: mancanza di consenso da parte di Antonio
(1.538), incombenze e gravi spese data la minorità di Giuseppe e
Giovanni (cf 1.537-542), rottura affettiva familiare (cf 1.542). Dopo
l’episodio della divisione dell’esiguo patrimonio, il punto più alto di
tensione, non verrà più citato il nome di Antonio. La difficoltà della
scelta, che avrebbe avuto pesanti conseguenze economiche, perché il
piccolo patrimonio veniva ulteriormente impoverito, fa intravedere
tuttavia la forza di chi la compie: mamma Margherita. Ancora una
volta si applica il principio enunciato in altra circostanza critica, “Nei
casi estremi, si debbono usare mezzi estremi” (cf 1.83-84).
Il motivo della decisione è l’afflizione che Margherita scorge in
Giovanni “per le difficoltà, che si frapponevano ai miei studi” (1.537-
538). La strategia narrativa induce a ritenere che la causa
dell’essere “afflitto” (1.537) non sia da individuare nell’aspetto
contingente del conflitto tra fratelli. Sullo sfondo sta lo scenario della
realizzazione di un progetto provvidenziale e degli ostacoli derivanti
da immanenti prospettive umane che lo frenano. La critica ad
Antonio si svolge su due versanti di diverso livello qualitativo: il
primo è connotato dalla diversa prospettiva culturale che blocca la
crescita dell’altro (“È abbastanza fatto. Voglio finirla con questa
1 Cf anche Memorie, 1.374-376.
2 Cf anche Memorie, 1.421-428.
20

3 Pages 21-30

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3.1 Page 21

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grammatica. Io sono venuto grande e grosso e non ho mai veduto
questi libri”, 1.439-441); il secondo si configura come un
atteggiamento di chiusura spirituale su prospettive puramente
umane e di opposizione (anche se incoscia) al piano di Dio. Si rivela
qui, come in molte altre parti delle Memorie, la struttura ideologica
del racconto: l’interpretazione teologica della storia fa sì che
l’impalcatura attanziale venga investita di giudizi di valore e che i
ruoli
veicolino
un’opposizione
assiologica
come
obbedienza/docilità/fiducia contro disobbedienza/durezza del
cuore/calcolo umano.
A posteriori, anche se segnata da grande drammaticità, la
divisione fraterna, rappresenterà per Giovanni un passo importante
verso una coscienza nuova dell’autonomia e della responsabilità
personale davanti alla vita.
4.2. Progressi e tentazioni
La necessità degli studi, congiunta alla difficoltà di fare “tra due
andate e due ritorni [...] venti chilometri di cammino al giorno”
(1.554-555), innesca la decisione di rimanere a casa di Giovanni
Roberto “di professione sarto e buon dilettante di canto gregoriano
e di musica vocale” (1.556-557). Al personaggio messo in scena si
attribuisce un ruolo non solo occasionale, attraverso una strategia
narrativa di anticipazione di due elementi caratteristici dell’Oratorio:
il canto e l’istruzione professionale.
Infatti, mentre dell’attività scolastica non si dice nulla di
particolarmente significativo, l’accento è posto sui progressi nella
musica e nel lavoro di sartoria:
Poiché la voce mi favoriva alquanto mi diedi con tutto il cuore all’arte
musicale e in pochi mesi potei montare sull’orchestra e fare parti
obbligate con buon successo. Di più desiderando di occupare la
ricreazione in qualche cosa, mi posi a cucire da sarto. In brevissimo
tempo divenni capace di fare i bottoni, gli orli, le cuciture semplici e
doppie. Appresi pure a tagliare le mutande, i corpetti, i calzoni, i
farsetti; e mi pareva di essere divenuto un valente capo sarto (1.557-
563).
Anche qui, però l’Autore modello presenta la tentazione,
l’emergenza di un’alternativa continuamente insidiante nei confronti
del progetto divino e della vocazione da discernere e costruire. Il
progresso nell’apprendimento dell’arte sartoria determina il buon
Roberto a fare “proposte assai vantaggiose, affinché mi fermassi
definitivamente con lui” (1.564-566). Il criterio per la soluzione
dell’alternativa spirituale fondamentale tra obbedienza e autonomia,
tra ricerca degli interessi di Dio e vantaggio umano, consiste
nell’attenzione allo “scopo principale”, il quale così viene rafforzato:
“diverse erano le mie vedute: desiderava di avanzarmi negli studi.
Perciò mentre per evitare l’ozio mi occupava di molte cose faceva
21

3.2 Page 22

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ogni sforzo per raggiungere lo scopo principale” (1.566-568).
La risposta rimanda alla scelta paradigmatica della madre
riguardo all’educazione dei figli: “non li abbandonerò giammai,
quando anche mi si volesse dare tutto l’oro del mondo” (1.102-103).
Una seconda tentazione viene posta in scena, quella costituita
dalle proposte dei compagni. Anche queste si presentano, ora sul
piano morale, come un ostacolo alla corrispondenza vocazionale
attraverso l’invito ad assumere comportamenti contrastanti con
l’obbedienza a Dio e alla sua legge: dedicarsi al gioco in tempo di
scuola, rubando il denaro occorrente al padrone o alla madre, se
necessario (cf 1.569-573). La sequenza narrativa esplicita una delle
costanti che percorrono lo schema fondamentale delle Memorie,
questa volta riportandola alla condizione tipica di un adolescente che
si trova a confrontare i propri quadri assiologici con la pressione di
mentalità e prassi sociali contrarie ed è invitato a collocarsi in
posizione critica per riconfermare il valore etico di riferimento,
ricevuto per educazione, e rafforzarlo a livello di appropriazione.
Questa dialettica fa crescere la virtù della fortezza.
Il richiamo ai comandamenti, alla legge morale, e all’obbedienza
come ricambio dell’amore ricevuto, sono gli argomenti usati per
smascherare l’inganno:
Un compagno per animarmi a ciò diceva: Mio caro, è tempo di
svegliarti, bisogna imparare a vivere nel mondo. Chi tiene gli occhi
bendati non vede dove cammina. Orsù provvediti del denaro e godrai
anche tu i piaceri de’ tuoi compagni.
Mi ricordo che ho fatto questa risposta: io non posso comprendere ciò
che volete dire; ma dalle vostre parole sembra che mi vogliate
consigliare a giuocare, a rubare. Ma tu non dici ogni giorno nelle
preghiere, settimo non rubare? E poi chi ruba è ladro e i ladri fanno
trista fine. Altronde mia madre mi vuole molto bene, e se le dimando
danaro per cose lecite me lo dà, senza suo permesso non ho mai fatto
niente, nemmeno voglio cominciare adesso a disubbidirla. Se i tuoi
compagni fanno questo mestiere sono perversi. Se poi nol fanno e lo
consigliano agli altri, sono bricconi e scellerati (1.572-583).
Il superamento della tentazione si risolve anche in una crescita
di prestigio sociale e di stima: “niuno più osò farmi quelle indegne
proposte”, il professore “mi divenne assai più affezionato”, i genitori
dei compagni “esortavano i loro figliuoli che venissero meco”, gli
amici scelti “mi amavano e mi obbedivano” (1.584-588).
Un “novello incidente” (1.590) determina la crisi che segna il
passaggio alla fase successiva: “l’amato” professore don Virano,
nominato parroco di Mondonio, è sostituito da un maestro incapace
di tenere la disciplina, Che “mandò quasi al vento quanto nei
precedenti mesi aveva imparato” (1.594).
22

3.3 Page 23

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5. Scuola a Chieri. Un modello di
ambiente educativo che favorisce il
radicamento e la stabilizzazione nella vita
cristiana
Gli estremi della fase presa in considerazione sono l’entrata
nella scuola pubblica a Chieri e la soluzione della crisi vocazionale
prima dell’entrata in seminario.
Consideriamo come topic per la lettura dell’itinerario spirituale
in questa fase quanto l’Autore riporta nel quadro della presentazione
delle sue relazioni amicali con il Comollo (sentito come un dono di
Dio1): “Da lui ho cominciato ad imparare a vivere da cristiano”
(1.849). Dunque, si tratta di una appropriazione e stabilizzazione
della vita cristiana.
A livello compositivo, la narrazione cronologica dei fatti è
intersecata da alcuni indugi narrativi che si pongono come indicatori
di tematiche privilegiate: i rapporti con i compagni, incorniciati nel
quadro dell’impegno nei doveri di studio e di pietà; l’amicizia con
Luigi Comollo; le relazioni con il giovane ebreo Giona e il confronto
con la madre di lui; gli aspetti ludici; lo studio degli autori classici.
Così il tema unificante a livello narrativo è dato dalle figure e dalle
attività educative, all’interno di una scelta educativa fondamentale
che ne offre le condizioni quasi ideali: la centralità della vita
cristiana, le relazioni umane e le molteplici attività. Il problema del
discernimento vocazionale e della “scelta dello stato” viene lanciato
alla fine della fase, come culmine dell’itinerario formativo,
riproponendo in questo frangente la necessità di una guida.
5.1. La scuola di Chieri: la religione come fondamento
dell’educazione2
La scuola di Chieri è presentata all’interno delle Memorie come
un ambiente educativo esemplare dove è possibile rintracciare
alcune scelte fondamentali del modello dell’Oratorio. La cornice
tematica sembra essere quella di un modello educativo che pone la
“religione come fondamento dell’educazione” (1.742). All’interno di
questa cornice, l’Autore presenta, attraverso quadri narrativi
1 “Dio però si degno di compensare questa perdita [la morte di Paolo Braje] con
un’altro compagno egualmente virtuoso” (1.809-810).
2 “Qui è bene che vi ricordi come in que’ tempi la religione faceva parte
fondamentale dell’educazione” (2.740-742); “Voglio qui notare una cosa che fa
certamente conoscere quanto lo spirito di pietà fosse coltivato nel collegio di Chieri.
Nello spazio di quattro anni che frequentai quelle scuole non mi ricordo di avere
udito un discorso od una sola parola che fosse contro ai buoni costumi o contro alla
religione. Compiuto il corso di retorica, di 25 allievi, di cui componevasi quella
scolaresca, 21 abbracciarono lo stato ecclesiastico; tre medici, uno mercante”
(2.1283-1289).
23

3.4 Page 24

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articolati, vari aspetti in cui viene specificata l’affermazione
principale. In questo modo, anche le figure modello, sia di insegnanti
che di compagni, e la stessa vita spirituale di Giovanni, vengono
presentate non soltanto in se stesse, ma in un intenso rapporto
interattivo con le condizioni educative della scuola.
L’Autore introduce questa sezione facendo un breve riferimento
alle nuove possibilità che gli si schiudevano rispetto alla fase
precedente. Da una parte, “dopo la perdita di tanto tempo” (1.598),
Giovanni trovava le condizioni per applicarsi “seriamente allo studio”
(1.599); dall’altra egli provava “grande impressione di ogni piccola
novità” (1.600-601), dato il contrasto tra la nuova esperienza e le sue
umili origini: “allevato tra boschi, e appena [aveva] veduto qualche
paesello di provincia” (1.600). Anche questo semplice indicatore
orienta l’attenzione sull’efficacia formativa di una ambiente regolato
e stimolante e sulla impressionabilità dell’adolescente e del giovane
come opportunità educativa da valorizzare.
5.1.1. Bontà dei professori: tratti dell’educatore modello
secondo Don Bosco
Il primo momento narrativo è dedicato alla sottolineatura della
“bontà dei professori” (1.596) delle prime tre classi di grammatica.
Ad ognuno di tali ruoli attoriali, l’Autore collega qualità specifiche,
che a sua volte corrispondono sia alle diverse necessità di cura
educativa che l’adolescente Giovanni rivela nella sua nuova
condizione - “pericoli” (1.606) nel nuovo ambiente, “età” avanzata (cf
1.614)3 -, sia alle caratteristiche dell’educatore ideale, capace di
scorgere la buona volontà (cf 1.614)4, far scaturire risorse e aiutare
a progredire negli studi e nella vita cristiana. In altre parole,
vengono presentati simultaneamente in questi racconti, il ricordo
riconoscente del ruolo positivo che gli educatori di Chieri ebbero
nella rimozione degli ostacoli alla crescita di Giovanni, e il profilo
dell’educatore come di colui che effettivamente aiuta a creare le
condizioni di progresso e di crescita per il giovane, secondo quel
modello oratoriano che Don Bosco sta delineando passo dopo passo
nelle Memorie.
Di don Eustachio Valimberti vengono messi in risalto i “molti
buoni avvisi sul modo di tenermi lontano dai pericoli” (1.605-606); il
fatto che “invitasse a servire la messa” approfittando dell’occasione
per dare “sempre qualche buon suggerimento” (1.607); l’inserimento
e l’orientamento nell’ambiente scolastico, attraverso la
presentazione di Giovanni al “prefetto delle scuole” ed agli “altri
miei professori” (1.608-609). Don Valimberti, la “prima persona che
conobbi”, “di cara ed onorata memoria” (1.605)5, sarà, poi suo
insegnante, accogliendo Giovanni, che era “ansioso” (1.617) di
“togliersi” dalla “posizione” in cui si trovava a motivo dell’ “età e
3 L’argomento viene riaccennato in Memorie, 1.616.
4 Cf Memorie; 630.
5 Cf Memorie, 1.621.
24

3.5 Page 25

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corporatura” (1.616-617), nella sua classe e favorendone la
promozione alla classe superiore.
Il secondo personaggio è il teologo Valeriano Pugnetti,
anch’esso di cara memoria, mi usò di molta carità: Mi accudiva nella
scuola, mi invitava a casa sua e mosso a compassione della mia età e
dalla buona volontà nulla risparmiava di quanto poteva giovarmi
(1.612-615).
Il terzo insegnante, il professore Giuseppe Cima, è delineato
come un educatore esigente, ma nello stesso tempo stimolante
all’operosità ed efficace nell’aiuto a superare le difficoltà dello
studio:
uomo severo per la disciplina. Al vedersi un allievo alto e grosso al
par di lui, comparire in sua scuola a metà dell’anno scherzando disse
in piena scuola: Costui o che è una grossa talpa, o che è un gran
talento. Che ne dite? Tutto sbalordito da quella severa presenza:
Qualche cosa di mezzo, risposi, è un povero giovane, che ha buona
volontà di fare il suo dovere e progredire negli studi.
Piacquero quelle parole, e con insolita affabilità soggiunse: Se avete
buona volontà, voi siete in buone mani, io non vi lascerò inoperoso.
Fatevi animo, e se incontrerete difficoltà, ditemele tosto ed io ve le
appianerò.
Lo ringraziai di tutto cuore (1.625-636).
Idealmente, anche se collocati, per esigenze cronologiche, in
diversi momenti della sezione, vanno ricondotti allo stesso ambito
semantico, orientato a mettere in scena le caratteristiche
dell’educatore modello (soprattutto la benevolenza e l’affetto), gli
altri personaggi che giocano ruoli esemplari nello scenario della
scuola di Chieri: il funzionario del Magistrato della Riforma don
Giuseppe Gazzani (1,782-789), il professore di Terza Padre Giusiana
(1.794)6, l’arciprete canonico Burzio (1.1092-1095), ma soprattutto il
canonico Giuseppe Maloria e il professore di Umanità don Pietro
Banaudi.
Il teologo Maloria rappresenta, in quanto “confessore stabile”, il
riferimento morale e spirituale, la guida preveniente per un giovane
che deve imparare a muoversi con indipendenza e forza tra le
pressioni ambientali non sempre favorevoli:
La più fortunata mia avventura fu la scelta di un confessore stabile
nella persona del teologo Maloria canonico della collegiata di Chieri.
Egli mi accolse sempre con grande bontà ogni volta che andava da
lui. Anzi, mi incoraggiava a confessarmi e comunicarmi colla maggior
frequenza. Era cosa assai rara a trovare chi incoraggiasse alla
frequenza dei sacramenti. Non mi ricordo che alcuno dei miei maestri
mi abbia tal cosa consigliata. Chi andava a confessarsi e a
comunicarsi più d’una volta al mese era giudicato dei più virtuosi; e
molti confessori nol permettevano. Io però mi credo debitore a questo
mio confessore se non fui dai compagni strascinato a certi disordini
6 Più oltre (2.591) si parlerà del suo “paterno affetto”.
25

3.6 Page 26

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che gli inesperti giovanetti hanno purtroppo a lamentare nei grandi
collegi (1.762-772).
Il professor Banaudi, invece, è presentato come modello
esemplare dell’insegnante, capace di amare e di farsi amare. Qui
troviamo il lessico privilegiato da Don Bosco per esprimere il cuore
del suo sistema educativo:
Il professor Banaudi era un vero modello degli insegnanti. Senza mai
infliggere alcun castigo era riuscito a farsi temere ed amare da tutti i
suoi allievi. Egli amava tutti quali figli, ed essi l’amavano qual tenero
padre (1.907-909).
Con queste parole viene riportata una sintesi del peculiare
modello di educatore/pastore nell’Oratorio. Il tema dell’ “affezione”
che conquista e genera risposta d’affetto viene sviluppato attraverso
gli accorgimenti trovati dagli allievi per celebrare l’onomastico del
maestro e la giornata “amenissima” con il “pranzo in campagna”:
“Tra professore ed allievi eravi un cuor solo ed ognuno studiava modi
per esprimere la gioia dell’animo” (1.916-917).
5.1.2. I compagni
Il secondo tratto narrativo riguarda i rapporti con i compagni.
Coerentemente con l’impianto generale del racconto, l’Autore non si
limita alla semplice descrizione dei compagni e delle attività, ma
configura un modello di processo educativo che segna un passo in
avanti nel rapporto con i compagni riguardo a quello presentato
nella fase precedente. La novità in questo processo consiste nel
“guadagnare” (1.135) i compagni “che volevano tirarmi ai disordini”
(1.691), e quindi in un impegno di conquista e di trasformazione,
giungendo alla formazione di una “Società” (1.701-702), una sorta di
vivace comunità giovanile di reciproco aiuto ed edificazione,
prefigurazione ed insieme modello della comunità oratoriana e delle
sue espressioni associative (le “compagnie”, cf 3.1011-1015).
L’Autore riprende il periodo delle “prime quattro classi” (1.660)
e parla di un “imparare al mio conto a trattare con i compagni”
(1.660-661). Il testo presenta “tre categorie di compagni: buoni,
indifferenti, cattivi” (1.661-662). Da una parte vengono seguite le
strategie di rapporto che fanno risuonare il consiglio messo sulle
labbra della madre nel giorno della prima comunione - “per amor del
Signore, fuggi come la peste coloro che fanno cattivi discorsi”
(1.315-316)7; d’altra parte si introducono nuovi criteri: “cogli
indifferenti trattenermi per cortesia e per bisogno; coi buoni
contrarre familiarità, quando se ne incontrassero che fossero
veramente tali” (1.664). Questo ultimo criterio si concretizza, in un
primo momento, nella sospensione: “siccome in questa città non
conosceva alcuno, così io mi sono fatto una legge di non
familiarizzare con nissuno” (1.665-666), mentre più avanti, nel testo,
si risolverà nella totalità dell’apertura che caratterizza l’intensa
7 Cf Memorie 1.662-663; 1.671-673.
26

3.7 Page 27

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amicizia con il Comollo.
Dopo la presentazione di queste “categorie” (1.661) e della
“legge” prudenziale (cf 1.666), l’Autore passa alla presentazione di
un processo educativo in modo di racconto. Si ripete lo schema base
già rilevato nella narrazione dell’anno trascorso alla scuola di
Castelnuovo d’Asti (cf 1.569-589): il pericolo proveniente da parte di
alcuni “cattivi” compagni, le loro proposte “sfacciate” (cf 1.670), la
risposta di Giovanni, i motivi e i risultati della scelta fatta. Le
tentazioni si collocano di nuovo sui due fronti della trascuratezza dei
doveri di studio e del furto (cf 1.667-671). Come nel racconto
precedente (cf 1.581-582), l’amore e l’obbedienza (cf 1.675-678)
vengono rappresentati come un appoggio alla fortezza nelle
decisioni. Queste vengono così motivate dalla ricchezza delle
relazioni interpersonali e non soltanto da valori morali astrattamente
intesi o da leggi estrinseche alla persona. A loro volta i risultati della
netta decisione di fronte ai compagni e della “ferma obbedienza alla
buona Lucia” (1.678) rispecchiano la linea del “premio” (1.689)
conseguito dopo la decisione moralmente buona. Lucia affida a
Giovanni l’educazione del proprio figlio (cf 1.679) e condona
interamente la pensione mensile (cf 1.690).
La progressione dell’arco narrativo sul rapporto con i compagni
mostra un’evoluzione rispetto alla fase precedente. Mentre nella
descrizione della fase di Castelnuovo l’Autore presenta un processo
che si ferma alla decisione forte, di indipendenza davanti agli inviti
dei compagni, e alla scelta di amici che lo “amavano e obbedivano”
(1.588-589), nel racconto di Chieri prevale invece l’atteggiamento
proattivo: Giovanni trova modo di prepararsi “la benevolenza e
l’affezione dei compagni” (1.697-698) e così mettere in atto una
strategia di conquista fino al punto di trovarsi “alla testa di una
moltitudine di compagni” (1.708).
La narrazione della nascita della Società dell’Allegria viene
presentata con alcuni passaggi significativi per la formulazione di un
modello educativo dove la religione è posta a fondamento e vertice
dell’educazione e per esprimere nello stesso tempo un passaggio
spirituale verso una più stabilizzata fortezza. Il confronto
retrospettivo con l’indicazione del primo sogno e prospettico con i
racconti tipici dell’Oratorio aiutano a riscontrare nel processo di
fondazione della società dell’Allegria un modello paradigmatico.
Il primo passaggio descrive il fatto che i compagni che lo
volevano “tirare ai disordini”, siccome “erano i più trascurati nei
doveri” (1.691-692), cominciarono a “fare ricorso” a Giovanni
affinché dettasse o prestasse loro il tema di scuola (cf 1.692-693).
Dopo la “severa proibizione” del professore su un modo di procedere
che “fomentava la loro pigrizia”, lo studente segue una “via meno
rovinosa”: “spiegare le difficoltà ed anche aiutare quelli cui fosse
mestiere” (1.696-697).
Il secondo passaggio riporta il risultato positivo del “mezzo”
scelto:
Con questo mezzo faceva piacere a tutti, e mi preparava la
benevolenza e l’affezione dei compagni. Cominciarono quelli a venire
27

3.8 Page 28

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per ricreazione, poi per ascoltare racconti e per fare il tema
scolastico, e finalmente venivano senza nemmeno cercarne il motivo
come già quelli di Morialdo e di Castelnuovo (1.698-701).
In un terzo passo, leggiamo finalmente la formazione della
“Società dell’Allegria” attraverso lo stabilimento di un “comune
accordo”. L’Autore riporta nel testo quello che era “obbligo” (cf
1.702-704), quello che era “proibito” (cf 1.705-706) e quello che era
motivo di “allontanamento” dalla Società (cf 1.706-708). Il “comune
accordo” messo alla base della Società dell’Allegria presenta in
termini di “dover evitare” e di “adempire esattamente”:
Trovatomi così alla testa di una moltitudine di compagni di comune
accordo fu posto per base:
1º Ogni membro della Società dell’Allegria deve evitare ogni discorso,
ogni azione che disdica ad un buon cristiano;
2º Esattezza nell’adempimento dei doveri scolastici e dei doveri
religiosi (1.710-713).
Come coronamento di questo processo, l’Autore attesta che
“queste cose contribuirono a procacciarmi stima, nel 1832 io era
venerato dai miei colleghi come capitano di un piccolo esercito”
(1.714-715). Inoltre, ripetendo la logica di quanto aveva affermato
riguardo al figlio di Lucia, l’Autore presenta il vantaggio che, oltre
alla stima da parte di compagni e di persone adulte, gliene veniva a
livello temporale, segno della divina provvidenza, che gli permetteva
di vivere senza pesare economicamente la famiglia (cf 1.714-719).
L’Autore fa evolvere il racconto attraverso una serie di
puntualizzazioni: il riferimento ai “buoni compagni”, le “pratiche di
pietà” della Società dell’Allegria e la significativa presenza del
teologo Maloria. Queste puntualizzazioni vengono collocate nel
quadro del modello educativo di Chieri.
I “buoni compagni” che l’Autore ricorda in questa fase del
racconto sono Guglielmo Garigliano e Paolo Braje, “veramente
esemplari” (1.722). Di loro viene sottolineata la priorità data ai
“doveri di scuola” sull’ “onesta ricreazione”, l’amore della
“ritiratezza e la pietà”, i “buoni consigli” dati a Giovanni e la
frequenza allo “stupendo catechismo” tenuto dai padri gesuiti (cf
1.723-729).
Il testo prosegue con un intreccio costruito a partire da elementi
che caratterizzano la Società dell’Allegria e dal riferimento più
ampio al modello educativo di Chieri. Si presenta la “radunanza”
(1.731) feriale (cf 1.745) (“lungo la settimana”- 1.730) della Società
come un’attività in cui “interveniva liberamente chi voleva”. Ci “si
raccoglieva in casa di uno dei soci per parlare di religione” (1.730-
731). Dal testo emerge il ruolo costruttivo rappresentato dal legame
con i due compagni di cui sopra, oltre all’insieme formato da “amena
ricreazione”, “pie conferenze”, “letture religiose”, “preghiere”,
“buoni consigli”, correzione fraterna:
Senza che per allora il sapessi mettevamo in pratica quel sublime
28

3.9 Page 29

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avviso: Beato chi ha un monitore. E quello di Pitagora: Se non avete
un amico che vi corregga i difetti, pagate, pagate un nemico che vi
renda questo servizio (1.736-738).
Segue il riferimento alle prediche, alla confessione e comunione
(cf 1.739-740) e il collegamento con il già riferito modello educativo
dove “la religione faceva parte fondamentale dell’educazione”
(1.741-742). Questo intreccio permette all’Autore di far progredire
armoniosamente il racconto nel passaggio dai “giorni feriali” ai
“giorni festivi” (1.748), ma soprattutto di presentare la
caratterizzazione ideologica, l’intuizione fondamentale e i risultati di
un modello educativo che il lettore troverà fondamentalmente
identico a quello dell’Oratorio di Valdocco. L’Autore connota come
“severa disciplina” (1.756), quella che permetteva nell’ambiente
chierese la concretizzazione del principio educativo sopra citato in
un’insieme di norme e di pratiche dove veniva data effettiva priorità
alla religione. Tali regole erano valide sia per gli allievi (cf 1.744-
745)8 che per i professori (cf 1.742-745) e per questo capaci di
coinvolgere tutti nel medesimo movimento spirituale e morale.
Vengono così presentati i “meravigliosi effetti” di questo modo di
educare:
Si passavano anche più anni senza che fosse udita una bestemmia o
cattivo discorso. Gli allievi erano docili e rispettosi tanto nel tempo di
scuola, quanto nelle proprie famiglie. E spesso avveniva che in classi
numerosissime alla fine dell’anno erano tutti promossi a classe
superiore (1.756-760).
L’intreccio di scelte relazionali costruttive, di affetti fondati sulla
condivisione di valori spirituali e morali, di positive ricreazioni, di
interessi e stimoli formativi, è delineato come fattore dinamico per la
caratterizzazione di un ambiente educativo e pastorale globale,
favorevole al consolidamento interiore degli adolescenti, ma anche al
potenziamento della loro personalità in funzione di conquista e di
trasformazione della comunità giovanile. Significativamente l’Autore
colloca in questo contesto la scelta del confessore stabile che, in un
rapporto di grande familiarità e attraverso la frequenza
sacramentale, consolida la fortezza interiore del giovane e la sua
indipendenza dagli influssi negativi dei compagni (cf 1.762-771).
L’Autore conchiude questo arco narrativo riprendendo il tema
degli amici di Morialdo, ora legato alle vacanze, attraverso un
meccanismo letterario e tematico che si ripete lungo il testo delle
Memorie con brevi incisi che permettono di mantenere una linea
narrativa che rispecchia pastoralmente i passaggi spirituali e
pastorali di Giovanni e riprende, sintetizza e rinforza i contenuti già
evidenziati:
In questi anni non ho mai dimenticato i miei amici di Morialdo. Mi
tenni sempre con loro in relazione e di quando in quando nel giovedì
faceva loro qualche visita. Nelle ferie autunnali appena sapevano
della mia venuta correvano ad incontrarmi a molta distanza e
facevano sempre una festa speciale. Fu pure tra essi introdotta la
8 Cf Memorie, 1.748-755.
29

3.10 Page 30

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Società dell’Allegria, cui venivano aggregati coloro che lungo l’anno
si erano segnalati nella morale condotta; e all’opposto si cancellavano
dal catalogo quelli che si fossero regolati male, specialmente se
avessero bestemmiato o fatto cattivi discorsi (1.773-780).
5.2. Luigi Comollo
A questo punto, viene aperto un altro quadro narrativo la cui
figura principale è l’amico Luigi Comollo, presentato attraverso due
fatti che diventano “lezione” per Giovanni.
La sezione è introdotta da un collegamento narrativo di indole
cronologica (cf 1.782-817) per segnare il passaggio alle classi di
Umanità e Retorica, ma che contiene anche una serie di riferimenti
agli educatori (Gazzani, Giusiana, Banaudi), all’impegno e al
progresso scolastico (esami, voti e premi), agli amici esemplari (la
morte di Paolo Braje “fedele seguace” di S. Luigi) secondo il canone
narrativo che caratterizza tutto il racconto.
Il passaggio al tema del Comollo viene costruito attraverso la
ripresa esplicita della grande chiave di interpretazione delle
Memorie, cioè l’attiva presenza di Dio che guida gli avvenimenti:
“Dio però si degnò i compensare questa perdita con un altro
compagno egualmente virtuoso ma assai più celebre per le opere
sue” (1.809-812).
Introducendo brevemente, a modo di contestualizzazione, il
motivo e le circostanze del suo essere “in mezzo agli umanisti”
(1.820-821), l’Autore fa proseguire il racconto verso il “fatto” della
conoscenza del Comollo “nipote del prevosto di Cinzano, sacerdote
attempato, ma assai rinomato per santità di vita” (1.823-824).
Vengono riportati due fatti distinti tra di loro nella funzione, ma
organizzati narrativamente allo stesso modo. Il primo racconta la
conoscenza del Comollo (cf 1.820) mentre il secondo mostra la
reciproca complementarietà: “l’uno aveva bisogno dell’altro. Io di
aiuto spirituale, l’altro di aiuto corporale” (1.850-851). I racconti
seguono questo schema: introduzione, narrazione del fatto, prima
reazione di Giovanni, parole del Comollo, risultato per la vita
spirituale e per il rapporto tra i due.
Il primo fatto ruota attorno all’invito a giocare il “pericoloso
giuoco della cavallina”, rivolto a Luigi con modi bruschi da parte di
un “compagno insolente”. Davanti al rifiuto il
maleducato e cattivo condiscepolo il prese per un braccio, lo urtò e
poi gli diede due schiaffi che fecero eco in tutta la scuola. Io mi senti
bollire il sangue nelle vene e attendeva che l’offeso ne facesse la
dovuta vendetta; tanto più che l’oltraggiato era di molto superiore
all’altro in forze ed età. Ma quale fu la maraviglia, quando il buon
gioanetto con la sua faccia rossa e quasi livida, dando un
compassionevole sguardo al maligno compagno dissegli soltanto: Se
questo basta per soddisfarti, vattene in pace, ti ho già perdonato
(1.838-845).
L’Autore considera quella risposta come un’ “atto eroico”, che fa
nascere in Giovanni “il desiderio di saperne il nome”. (1.846) Come
30

4 Pages 31-40

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4.1 Page 31

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risultanti si presenta l’intima amicizia sorta tra i due, il fatto che “da
lui ho cominciato ad imparare a vivere da cristiano” (1.849) e la
piena confidenza reciproca (cf 1.850).
Nel secondo fatto, Giovanni interviene in difesa di Comollo e di
Antonio Candelo che i compagni “volevano disprezzare e
percuotere”:
dimenticai me stesso ed eccitando in me non la ragione, ma la forza
brutale, non capitandomi tra mano né sedia né bastone strinsi colle
mani un condiscepolo alle spalle, e di lui mi valsi come di bastone a
percuotere gli avversari. Quattro caddero stramazzoni a terra gli altri
fuggirono gridando e dimandando pietà (1.862-866).
Intanto il contenuto fondamentale dell’amore e del perdono,
contrari alla violenza e alla vendetta, già collocato nella bocca del
Comollo nella conclusione del primo fatto, ritorna adesso, ma rivolto
direttamente a Giovanni:
Ben altre lezioni mi dava il Comollo. Mio caro, dissemi appena
potemmo parlare tra di noi, la tua forza mi spaventa, ma credimi, Dio
non te la diede per massacrare i compagni. Egli vuole che ci amiamo,
ci perdoniamo e facciamo del bene a quelli che ci fanno del male
(1.874-877).
Il testo pare volutamente rimandare alla monizione del
personaggio del sogno: “Non colle percosse ma colla mansuetudine e
colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici” (1.134-135) e
presentare il Comollo come modello concretizzato dell’atteggiamento
spirituale richiesto al pastore/educatore dell’Oratorio.
Significativamente il risultato evidenziato va oltre
all’ammirazione traducendosi in affidamento. “Bontà, dolcezza e
cortesia” (1.881) caratterizzano nel testo narrativo il modo di
intervenire ed invitare al bene messo in atto dal Comollo, evocando
appunto il modello Oratoriano (“coll’amorevolezza a me possibile”,
2.792):
Io ammirai la carità del collega, e mettendomi affatto nelle sue mani,
mi lasciava guidare come egli voleva. D’accordo coll’amico
Garigliano, andavamo insieme a confessarci, comunicarci, fare la
meditazione, la lettura spirituale, la visita al SS. Sacramento, a
servire la S. Messa. Sapeva invitare con tanta bontà, dolcezza e
cortesia, che era impossibile rifiutarsi a’ suoi inviti.
Mi ricordo che un giorno chiaccherando con un compagno passai
davanti ad una chiesa senza scoprirmi il capo. L’altro mi disse tosto in
modo assai garbato: Gioanni mio, tu sei così attento a discorrere cogli
uomini che dimentichi perfino la casa del Signore (1.878-887).
Il ruolo di modello e di guida affidato al Comollo è confermato
nella conclusione di questa sezione narrativa, quando si presenta il
faticoso discernimento vocazionale (cf 1.1265-1275).
31

4.2 Page 32

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5.3. Fatti di amena ricreazione
Dopo il quadro tematico incentrato sul Comollo, l’Autore
introduce esplicitamente un nuovo segmento narrativo: “Dato così un
cenno sulle cose di scuola riferirò alcuni fatti particolari che possono
servire di amena ricreazione” (1.889-890). Sono cinque fatti che
riprendono diverse tematiche intessute nel racconto più ampio. Il
lettore scorge in alcuni di essi una incidenza spirituale e pastorale
più intensa ed immediata che in altri. Sembrano appartenere al
primo gruppo Caffettiere e liquorista - Giorno onomastico una
disgrazia (1.888-940) e L’Ebreo Giona (1.941-1041); mentre Giuochi
- Prestigi - Magia - Discolpa (1.1042-1130) e Corsa - Salto -
Bacchetta magica - Punta dell’albero (1.1131-1198)
apparterrebbero al secondo. Tuttavia la lettura dei paragrafi
corrispondenti alla vestizione e al tempo di permanenza in seminario
permettono di recuperare il significato spirituale degli ultimi due
capi accennati, per esempio attraverso la riflessione
sull’attaccamento/distacco dai giochi.
5.3.1. Vantaggiose profferte
Il primo piccolo blocco corrisponde all’anno di pensione presso
il caffè Pianta. Tra i vari aspetti, l’Autore mette in evidenza in
particolare due punti. Il primo, che nonostante “quella pensione
[fosse] certamente assai pericolosa” (1.894-895), il fatto di vivere in
compagnia di “buoni cristiani” e di intrattenere relazioni con
“esemplari compagni” gli rese possibile “andare avanti senza danno
morale” (1.896). In secondo luogo viene riproposta la scelta di
“continuare gli studi” anche davanti a “vantaggiose profferte”
(1.903). La narrazione ripete la dinamica che abbiamo trovato nella
fase precedente, quando Giovanni rinuncia all’invito per il lavoro di
sartoria. Nella presente fase, davanti alla profferta di lavoro come
caffettiere e liquorista, la risposta è chiara: “Io però faceva quei
lavori soltanto per divertimento e ricreazione, ma la mia intenzione
era di continuare gli studi” (1.904-906).
5.3.2. Onomastico
Il secondo piccolo quadro, illustrato il rapporto di reciproco
amore tra il professor Banaudi e i suoi allievi, insinua due eventi di
carattere pedagogico: la festa onomastica del professore organizzata
dagli allievi come “regalo” spontaneo e l’annegamento di un
compagno.
L’amore paterno dell’educatore, che “senza mai infliggere alcun
castigo” sa “farsi temere e amare” da tutti, suscita corrispondenza di
amore:
Per dargli un segno di affetto ci siamo accordati di fargli un regalo pel
suo Giorno Onomastico. A tale effetto ci siamo accordati di preparare
32

4.3 Page 33

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composizioni poetiche, [e] in prosa, e provvedere alcuni doni che noi
giudicavamo tornargli di speciale gradimento. [...] Tra professore ed
allievi eravi un cuor solo, ed ognuno studiava modi per esprimere la
gioia dell’animo” (1.910-917).
Il riferimento alla disgrazia della morte di un compagno nella
Fontana Rossa viene incorniciato da una veloce successione di fattori
contrastanti: l’insegnante che lascia soli gli allievi “per un breve
tratto della via” (1.919), l’invito da parte di “alcuni compagni di
classi superiori” (1.920), l’opposizione di Giovanni e di altri (cf
1.922) e la decisione di cedere da parte di alcuni (cf 1.923). Entrano
così in gioco vari fattori ritenuti importanti nel clima educativo
dell’Oratorio: l’importanza preventiva dell’assistenza intesa come
presenza dell’educatore, il pericolo costituito dai compagni poco
esemplari, la necessità di autonomia personale nell’adesione
interiore ai valori e alle norme per non dover poi lamentare tristi
conseguenze.
5.3.3. Giona
All’interno del capo decimo, intitolato L’Ebreo Giona, l’Autore
delle Memorie raccoglie armoniosamente una serie di tematiche
articolate nell’itinerario di conversione dell’amico.
Il primo riflette l’aspetto di Giona, le capacità e le attività
artistiche, culturali e ricreative in cui occupavano il tempo i due
amici, l’affetto che li legava:
gli portava grande affetto, egli poi era folle per amicizia verso di me.
Ogni momento libero egli veniva a passarlo in mia camera; ci
trattenevamo a cantare, a suonare il piano, a leggere, ascoltando
volentieri mille storielle, che gli andava raccontando (1.946-950).
Questa amicizia, che diversamente da quelle delineate in
precedenza e basate prevalentemente su valori religiosi, si fonda
esclusivamente sulla simpatia reciproca e sulla condivisione di
interessi, mette tuttavia le basi per un’azione di condivisione
spirituale quando si verranno a creare le condizioni critiche
favorevoli. Coinvolto in un “disordine con rissa che poteva avere
tristi conseguenze” (1.950-951), Giona immediatamente e
spontaneamente si rivolge a Giovanni per avere consiglio.
Il vasto indugio narrativo, articolato in un dialogo di indole
catechistica e apologetica, annuncia e orienta verso la “remissione
dei peccati” e si risolve in una istruzione sulla confessione, il
battesimo, il “credere in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo”, la
salvezza e il modo di affezionarsi alla fede cristiana (cf 1.950-983).
Segue la descrizione di tale affezionamento (“da quel giorno
cominciò ad essere affezionato alla fede cristiana”, 1.984), a cui
corrisponde un miglioramento morale “nel parlare e nell’operare” (cf
1.988-989) e l’introduzione drammatizzata del forte contrasto e
dell’opposizione della madre Rachele, che offre lo spunto per
estendere e completare la sezione apologetica (cf 1.990-1026).
33

4.4 Page 34

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L’ultima parte presenta la fortezza di Giona nel continuare ad
“istruirsi nella fede” (1.1030), nonostante tutte le opposizioni, fino al
battesimo desiderato e ben preparato.
Non fu minaccia, violenza che non siasi usata contro al coraggioso
giovanetto. Egli tutto soffrì, e continuò ad istruirsi nella fede. Siccome
in famiglia non era più sicuro della vita, così dovettesi allontanare da
casa e vivere quasi mendicando. Molti però gli vennero in ajuto e
affinché ogni cosa procedesse colla dovuta prudenza, raccomadai il
mio allievo ad un dotto sacerdote, che si prese di lui cura paterna.
Allora che fu a dovere istrutto nella religione, mostrandosi impaziente
di farsi cristiano, fu fatta una solennità, che tornò di buon esempio a
tutti i chieresi, e di eccitamento ad altri ebrei, di cui parecchi
abbracciarono più tardi il cristianesimo.
Il Padrino e la Madrina furono Carlo e Ottavia coniugi Bertinetti, i
quali provvidero a quanto occorreva al Neofito, che divenuto
cristiano, poté col suo lavoro procacciarsi onestamente il pane della
vita (1.1028-1040).
Anche in questo contesto, il lettore può dunque cogliere
elementi di metodo, contenuti dottrinali e obiettivi di indole
pedagogica e spirituale che caratterizzano la missione dell’Oratorio.
5.3.4. Giochi e magia
Il racconto del quarto fatto “di amena ricreazione” è dedicato a
illustrare i trattenimenti diversi e i vari giochi nei quali la vivacità di
Giovanni si sfogava e che, nel progetto globale delle Memorie,
vengono a rappresentare l’aspetto attraente e “gustoso”
dell’Oratorio, indispensabile per creare il clima nel quale è resa
possibile e significativa l’azione educativa e istruttiva.
In mezzo a’ miei studi e trattenimenti diversi, come sono canto,
suono, declamazione, teatrino, cui prendeva parte di tutto cuore,
aveva eziandio imparati vari altri giuochi. Carte, tarocchi, pallottole,
piastrelle stampelle, salti, corse, erano tutti divertimenti di sommo
gusto, in cui, se non era celebre, non era certamente mediocre
(1.1043-1047).
L’ambiente narrativo, misto di descrizione e racconto, richiama
dunque la parte dedicata all’infanzia sotto il titolo Primi
trattenimenti coi fanciulli – Le prediche – Il saltimbanco – Le nidiate
(cf 1.195 ss) anche se l’intenzione di fondo è diversa. Là, si trattava
di presentare al lettore “una specie di Oratorio festivo” (1.199), con
l’accento posto prevalentemente sull’azione pastorale; qui c’è una
sottolineatura dell’importanza del fattore ricreativo nell’animo del
giovane (“cui prendeva parte di tutto cuore”; “tutti divertimenti di
sommo gusto”) a cui si aggiunge un processo di fraintendimento, con
l’accusa di “magia bianca”, chiarificazione e discolpa davanti
34

4.5 Page 35

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all’autorità ecclesiastica del “can.co Burzio arciprete e curato del
duomo” (1.1091).
L’Autore prende l’occasione per mettere in campo attraverso la
struttura narrativa vari elementi da lui ritenuti importanti nella
gestione dei rapporti interpersonali, come la calma e il sorriso, a cui
segue la spiegazione dei fatti (cf 1.1109-1124). A conclusione viene
evidenziata l’allegria (cf 1.1129), il fatto che “rise non poco il buon
canonico” (1.1127) e il cenno ad un “piccolo regalo” (1.1129) che ci
suggerisce agganci narrativi, per esempio, nel riferimento
all’educazione del figlio di Lucia (cf 1.685-686) e nell’Oratorio (cf
2.877-879)9. La massima conclusiva “ignorantia est magistra
admirationis” (1.1130) richiama a sua volta la parallela “Monoculus
rex in regno caecorum” (1.219-220) collocata all’interno della
sezione dedicata ai Primi trattenimenti.
5.3.5. Il saltimbanco
Discolpatomi che ne’ miei divertimenti non vi era la magia bianca mi
sono di nuovo messo a radunare compagni e trattenerli e ricrearli
come prima. (1.1132-1134)
Con questa affermazione sintetica, l’Autore introduce nella
trama narrativa il passaggio al quinto e ultimo “fatto”.
In quel tempo avvenne che alcuni esaltavano a cielo un saltimbanco,
che aveva dato pubblico spettacolo con una corsa a piedi percorrendo
la città di Chieri da una all’altra estremità in due minuti e mezzo, che
è quasi il tempo della Ferrovia a grande velocità.
Non badando alle conseguenze delle mie parole ho detto che io mi
sarei volentieri misurato con quel ciarlatano. Un imprudente
compagno riferì la cosa al saltimbanco, ed eccomi impegnato in una
sfida: uno studente sfida un corriere di professione! (1.1134-1141).
Lo studente Giovanni vince le quattro prove: Corsa – Salto –
Bacchetta Magica – Punta dell’albero (1.1131).
Chi mai può esprimere gli applausi della moltitudine, la gioia de’ miei
compagni, la rabbia del saltimbanco, e l’orgoglio mio, che era riuscito
vincitore, non contro i miei condiscepoli, ma contro ad un capo di
ciarlatani? (1.1182-1184).
A conclusione, l’Autore riporta la “grande allegria” generale:
per Giovanni “coperto di gloria”, per i compagni “col ridere e col
buon pranzo”, per il saltimbanco che “riebbe quasi tutto il suo
danaro” (cf 1.1191-1198).
9 Cf Memorie, 3.1302-1303.
35

4.6 Page 36

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5.4. Lo studio
Mantenendo particolare attenzione alla linea narrativa dello
“studio” già tracciata nella prima fase e che si prolungherà nelle
fasi seguenti, accanto alle considerazioni sulla vita cristiana e la
vocazione/missione, l’Autore apre un nuovo capitolo: Studio dei
classici.
Questa tematica viene collegata nelle diverse fasi ad aspetti
specifici: l’indicazione e gli ostacoli nella prima, il grande progresso
nella terza, le nuove difficoltà nella quarta, un “errore” nella sesta,
l’orientamento verso la missione nella settima.
Nella presente quinta fase lo studio viene articolato con
l’occupazione del tempo in altre attività, con la facilità di memoria e
la capacità di lavoro:
Nel vedermi passare il tempo in tante dissipazioni, voi direte che
doveva per necessità trascurare lo studio. Non vi nascondo che avrei
potuto studiare di più: ma ritenete che l’attenzione nella scuola mi
bastava ad imparare quando era necessario. Tanto più che in quel
tempo io non faceva distinzione tra leggere e studiare e con facilità
poteva ripetere la materia di un libro letto o udito a raccontare. Di più
essendo stato abituato da mia madre a dormire assai poco, poteva
impiegare due terzi della notte a leggere libri a piacimento, e
spendere quasi tutta la giornata in cose di libera elezione, come fare
ripetizioni, scuole private, cui sebbene spesso mi prestassi per carità
o per amicizia, da parecchi però era pagato (1.1200-1209).
Nonostante questa molteplice attività o proprio a motivo di essa,
l’Autore riconosce in Giovanni due errori. Il primo è legato al modo
di leggere i classici: “Io leggeva que’ libri per divertimento e li
gustava come se li avessi capito interamente. Soltanto più tardi mi
accorsi che non era vero” (1.1217-1218). Il secondo è legato alle
letture notturne: “Tal cosa mi rovinò talmente la sanità che per più
anni la mia vita sembrava ognora vicino alla tomba” (1.1225-1227).
Quest’ultimo ricordo offre all’Autore lo spunto per dare un
“consiglio” al lettore sul “riposo” (cf 1.1227-1231).
5.5. Scelta dello stato
Il tema della vocazione, nel tessuto narrativo delle Memorie, a
partire dalla morte di don Calosso fino a questo punto, è rimasto
come sospeso. Viene ora rilanciato con intensità come passaggio al
nucleo centrale della fase seguente, e collegato ad aspetti ritenuti
importanti dall’Autore, come le dinamiche del discernimento e la
necessità della guida vocazionale.
5.5.1. Discernimento e deliberazione
36

4.7 Page 37

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Il testo introduce la tematica della scelta dello stato attraverso
la presentazione delle circostanze e della percezione che Don Bosco /
Autore Modello rivela avere di sé giovane e del proprio mondo alla
fine dell’anno di Retorica, “epoca in cui gli studenti sogliono
deliberare intorno alla loro vocazione” (1.1233-1234):
Il sogno di Murialdo mi stava sempre impresso; anzi mi si era altre
volte rinnovato in modo assai più chiaro, per cui, volendoci prestar
fede, doveva scegliere lo stato ecclesiastico; cui appunto mi sentiva
propensione: ma non volendo credere ai sogni, e la mia maniera di
vivere, certe abitudini del mio cuore, e la mancanza assoluta delle
virtù necessarie a questo stato, rendevano dubbiosa e assai difficile
quella deliberazione (1.1234-1240).
Il racconto introduce i criteri classici di discernimento per la
scelta dello stato ecclesiastico, presentandoli in forma positiva (la
“propensione”) e negativa (“maniera di vivere”; “certe abitudini del
mio cuore”; “la mancanza assoluta delle virtù necessarie”). Il sogno
viene riferito come segno ambiguo (“non volendo credere ai sogni”),
nonostante che gli restasse “sempre impresso” e si fosse “altre volte
rinnovato in maniera assai più chiara”; come a voler indicare la
prevalenza, in questo momento, di motivi concreti e di aderenza al
dato reale su ogni altra percezione od esperienza non verificabile. Da
questa aderenza al dato di fatto, dalla percezione della
inadeguatezza nello stile di vita esterno e nel vissuto interiore, nasce
il dubbio e la grande difficoltà della deliberazione.
La linea di soluzione del problema viene costruita attraverso la
messa in scena di molteplici intrecci di tre istanze fondamentali: il
personaggio che deve deliberare, il ruolo del sogno come figura del
disegno provvidenziale sotteso ai fatti storici, la necessità di figure
guida.
L’Autore fa notare come per Giovanni sia stata necessaria la
presenza di una guida nel processo di discernimento attraverso la
collocazione progressiva di essenziali, ma decisivi, segnali di
orientamento verso la deliberazione finale.
Oh se allora avessi avuto una guida, che si fosse presa cura diretta
della mia vocazione! Sarebbe stato per me un tesoro, ma questo
tesoro mi mancava! aveva un buon confessore, che pensava a farmi
buon cristiano ma di vocazione non si volle mai rischiare (1.1241-
1244).
In questo frangente si prospetta la prima linea di soluzione, fare
da sé: “consigliandomi con me stesso, dopo aver letto qualche libro,
che trattava della scelta dello stato, mi sono deciso di entrare
nell’Ordine Francescano” (1.1245-1247). I motivi della scelta
rispecchiano appunto le indicazioni rintracciabili nella letteratura
ascetica allora diffusa, in particolare quella alfonsiana10, riportate
10Potremmo ipotizzare che tra i libri a cui l’Autore fa riferimento ci fossero gli
Opuscoli sulla scelta dello stato di sant’Alfonso de’ Liguori, nei quali si propongono
motivi analoghi a quelli indicati nelle Memorie, a partire dalla preoccupazione di
37

4.8 Page 38

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alla condizione personale di inadeguatezza e di “dissipazione”:
Se io mi fo cherico nel secolo, diceva tra me, la mia vocazione corre
gran pericolo di naufragio. Abbraccierò lo stato ecclesiastico,
rinuncierò al mondo, andrò in un chiostro, mi darò allo studio, alla
meditazione, e così nella solitudine potrò combattere le passioni,
specialmente la superbia, che nel mio cuore aveva messo profonde
radici (1.1247-1250).
Sulla base di questa considerazioni viene messa in avviato il
processo decisionale: la domanda presso i Conventuali Riformati,
l’esame, l’accettazione, la preparazione di quanto era necessario per
l’entrata nel convento della Pace di Chieri.
L’intervento divino nel condurre gli eventi secondo progetti
provvidenziali (enunciato come chiave di lettura di tutte le Memorie
nell’introduzione: “Dio [ha] egli stesso guidato ogni cosa in ogni
tempo”, 1.18) viene qui esplicitato dall’intervento di tre fattori: “ho
fatto un sogno dei più strani”; la risposta del confessore: “non volle
udire a parlare né di sogno né di frati. In quest’affare, rispondevami,
bisogna che ciascuno segua le sue propensioni e non i consigli
altrui”; un non precisato contrattempo: “succedette un caso che mi
pose nella impossibilità di effettuare il mio progetto” (1.1253-1264).
La soluzione va quindi cercata con mezzi più prudenziali: il
confronto e il consiglio: “ho deliberato di esporre tutto all’amico
Comollo”. L’amico, che era stato presentato come modello esemplare
e come stimolo di vita cristiana, ma anche come monitore, funge ora
da strumento che orienta ad un atteggiamento di maggiore fiducia
interiore: “mi diede per consiglio di fare una novena, durante la
quale egli avrebbe scritto al suo zio prevosto” (1.1265-1267). La
preoccupazione di mettere in atto un atteggiamento di obbedienza a
Dio, al di là di ogni altra considerazione, in qualche modo emerge
dall’insistenza sul tema della preghiera: “L’ultimo giorno della
novena [...] ho fatto la confessione e la comunione, di poi udii una
messa, e ne servii un’altra in duomo all’altare della Madonna delle
Grazie”. In questa prospettiva la chiave di soluzione del dilemma non
si fa attendere:
Considerate attentamente le cose esposte, io consiglierei il tuo
compagno di soprassedere di entrare in convento. Vesta egli l’abito
clericale, e mentre farà i suoi studi conoscerà viemeglio quello che
Dio vuole da lui. Non abbia alcun timore di perdere la vocazione,
perccioché colla ritiratezza, e colle pratiche di pietà egli supererà
tutti gli ostacoli (1.1272-1275).
evitare l’eterna dannazione: bisogna eleggere quello stato che più sicuramente può
garantirci la salvezza; il chiostro è il luogo più sicuro per servire Dio, liberarsi da
preoccupazioni dissipanti, sottrarsi a pericoli e tentazioni e soprattutto raggiungere
quella pace interiore “che Dio fa godere a’ buoni religiosi”, cf Alfonso de’ Liguori,
Opuscoli relativi allo stato religioso, in Opere ascetiche, vol. IV, Torino 1867, pp.
396-452; specialmente gli Avvisi spettanti alla vocazione religiosa (ivi, pp. 419-129)
e la Risposta ad un giovane che dimanda consiglio circa lo stato di vita che deve
eleggere (ivi, pp. 447-450).
38

4.9 Page 39

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La nuova prospettiva non risolve definitivamente il problema
della certezza vocazionale, ma apre la strada ad una fase di
transizione nella quale si possano trovare mezzi e clima ideale per
una soluzione secondo la volontà di Dio.
Rilevando alcuni elementi di questa parte e dell’insieme delle
Memorie ci sembra possibile formulare alcune altre osservazioni.
Quanto ai sogni, la loro figura - pur rappresentando la costante
del disegno provvidenziale - appare come non risolutiva per le
deliberazioni, al contrario di quanto l’Autore affermerà in una fase
successiva del testo, attorno al quarto sogno: “allora ne compresi
poco il significato perché poca fede ci prestava, ma capii le cose di
mano in mano avevano il loro effetto. Anzi più tardi congiuntamente
ad altro sogno, mi servì di programma nelle mie deliberazioni”
(2.1020-1023).
Quanto alla “maniera di vivere”, alle “abitudini del mio cuore” e
alla “mancanza delle virtù necessarie a questo stato” (1.1238-1239),
mentre in questa fase sono collocate come motivo per la scelta della
vita conventuale - “nella solitudine potrò combattere le passioni,
specialmente la superbia, che nel mio cuore aveva mese profonde
radici” (1.1250-1251) -, nella fase seguente verranno orientate nel
lungo e profondo processo di acquisizione dello “spirito
ecclesiastico”.
Quanto alla figura della guida, da una parte si presenta come
essenziale al progresso nella vita spirituale (la decisione presa
“consigliandomi con me stesso” risulta sbagliata). Dall’altra l’Autore
lascia intravedere che nonostante la grande importanza della
confidenza con il Comollo, che assume certi tratti della guida -
“mettendomi nelle sue mani io mi lasciava guidare come egli voleva”
(1.1878-1879) - il ministero del compagno non è sufficiente ma solo
stimolo per aiuto allo “zio prevosto”, definito precedentemente come
“assai rinomato per santità di vita” (1.824).
Quanto al consiglio di don Comollo ci pare che esso permetta di
riafferma nelle Memorie il legame tra la ritiratezza (che va
assumendo un significato sempre più ricco nel percorso narrativo) le
“pratiche di pietà” e la “vocazione”. La ritiratezza e le pratiche di
pietà rendono possibile il superamento di “tutti gli ostacoli”.
5.5.2. La preparazione e l’integrazione in un quadro più
generale
Arrivato alla deliberazione di Giovanni, attraverso la risposta
dello zio Comollo, l’Autore spinge velocemente il grande arco
narrativo verso la conclusione per aprirne (anche materialmente, con
l’uso di un secondo quaderno) uno nuovo connotato da una più
marcata tensione spirituale, come inizio di “una vita nuova” (2.19).
Intanto, la conclusione di questa fase è dominata da un
atteggiamento di determinazione e di obbedienza, come della
preparazione alla vestizione clericale: “Ho seguito quel savio
suggerimento, mi sono seriamente applicato in cose che potessero
39

4.10 Page 40

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giovare a prepararmi alla vestizione clericale” (1.1276-1277).
L’Autore ne riporta alcune: l’esame “dell’abito di cherico” (1.1278) e
l’assunzione di un atteggiamento più conforme alla “ritiratezza”
consigliatagli:
Andando a casa per le vacanze, cessai di fare il ciarlatano e mi diedi
alle buone letture, che, debbo dirlo a mia vergogna, fino allora aveva
trascurato. Ho però continuato ad occuparmi dei giovanetti,
trattenendoli in racconti, in piacevole ricreazione, in canti di laudi
sacre, anzi osservando che molti erano già inoltrati negli anni, ma
assai ignoranti nelle verità della fede, mi sono dato premura
d’insegnare loro anche le preghiere quotidiane ed altre cose
importanti in quella età.
Era quella una specie di oratorio, cui intervenivano circa cinquanta
fanciulli, che mi amavano, mi ubbidivano, come se fossi stato loro
padre (1.1290-1298).
A questo proposito, oltre alla “serietà” della preparazione
corrispondente all’importanza del contenuto spirituale della
deliberazione presa, possiamo notare alcune ricorrenze narrative. È
la seconda volta all’interno della presente fase che il testo fa
riferimento ai “giovanetti” che Giovanni trova quando va a casa per
le vacanze. Agli elementi di continuità si aggiungono fattori nuovi,
come se Morialdo rispecchiasse in certo modo quello che avveniva
nel contesto chierese. Lo abbiamo visto per la fondazione della
Società dell’Allegria (cf 1.772-780) e ora lo vediamo attorno alla
scelta dello stato: “cessai di fare il ciarlatano”, “ho però continuato
ad occuparmi dei giovanetti”. (1.1290-1291) È interessante notare,
inoltre, che nonostante il quadro del modello educativo “Oratoriano”
sia dipinto in modo variegato e armonioso nel riferimento a Chieri,
l’espressione “era quella una specie di oratorio” (1.1297), che
abbiamo già trovato (cf 1.199) si riporta a Morialdo.
Intanto notiamo un’altra costante narrativa: come nella
presentazione del modello educativo di Chieri venga detto “qui è
bene che vi ricordi come di quei tempi la religione faceva parte
fondamentale dell’educazione” (1.740-742). Proprio a conclusione
del processo di discernimento vocazionale l’Autore afferma:
Voglio qui notare una cosa che fa certamente conoscere quanto lo
spirito di pietà fosse coltivato nel collegio di Chieri. Nello spazio di
quattro anni che frequentai quelle scuole non mi ricordo di aver udito
un discorso od una sola parola che fossi contro ai buoni costumi o
contro alla religione. Compiuto il corso della Retorica, di 25 allievi, di
cui componevasi quella scolaresca, 21 abbracciarono lo stato
ecclesiastico; tre medici, uno mercante (1.1283-1289).
40

5 Pages 41-50

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5.1 Page 41

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6. Seminario di Chieri. Stabilizzazione
nella vocazione e nello spirito sacerdotale
Gli estremi della fase presa in considerazione sono la vestizione
chiericale e il discorso di Lavriano, nell’estate successiva
all’ordinazione sacerdotale. La sua specificità è costituita dalla
tensione formativa che la caratterizza, da una maggiore
concentrazione dell’Autore su se stesso. In qualche modo è il testo
stesso a segnalarci, fin dai primi passi, l’unitarietà della fase,
marcandone i due estremi, quello iniziale - “Dopo quella giornata [la
vestizione], io doveva occuparmi di me stesso. La vita fino allora
tenuta doveva essere radicalmente riformata” (2.48-49) - e quello
conclusivo - “Sei anni di seminario furono per me una piacevolissima
dimora” (2.119).
Il topic interpretativo che il racconto evidenzia ci pare essere
l’appropriazione interiore ed esteriore progressiva dello spirito
ecclesiastico come modo per attuare la scelta di consegna totale a
Dio. La vestizione dell’abito chiericale, infatti, viene configurata
come l’espressione di una scelta totalizzante: l’Autore modello
dichiara di aver “vestito l’abito di santità, per darsi tutto al Signore”
(2.32). Questa tensione, che esplicita nella presente fase il
movimento di conversione sotteso a tutta la trama delle Memorie,
innescherà cammini di indole ascetica e mistica che andranno
definendo ulteriormente i tratti del modello Oratoriano.
Per altro, il classificare questa come una fase di stabilizzazione,
viene suggerito dallo stesso Don Bosco quando afferma: “per farmi
un tenore di vita più stabile, da non dimenticarsi, ho scritto le
seguenti risoluzioni” (2.53-54).
6.1. Lo spirito ecclesiastico
6.1.1. Un nuovo orientamento
Nella fase precedente Giovanni appare stabilizzarsi nella scelta
personale della vita cristiana, acquisendo in modo stabile il profilo
del cristiano, come credente. Tuttavia pare quasi che la vita cristiana
e il problema vocazionale seguano due linee tra loro vicine, non
ancora confluenti, perché prive della prospettiva di un progetto più
ampio. La scelta di entrare nell’ordine francescano è una prova di
questa mancata armonia, determinata prevalentemente dal timore
del naufragio della vocazione e dal bisogno di purificazione e di
perfezionamento nella virtù.
In questa nuova fase, invece, i due temi prima vissuti più
separatamente (la vita cristiana e la questione vocazionale) vengono
unificati nel movimento spirituale essenziale che sottostà alla scelta
dello stato di vita: vestire “l’abito di santità per darsi tutto al
41

5.2 Page 42

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Signore” (2.32). Così il testo ci suggerisce che questo è stato il modo
specifico dell’Autore di seguire Cristo: non solo conformandosi a Lui
come credente, ma conformandosi a Lui come consegnato e
consacrato totalmente al Padre, nella vita ecclesiastica.
6.1.2. Una prospettiva unificante
Questa realtà viene definita dal testo con varie espressioni:
“pratica della virtù” (2.90); “spirito ecclesiastico” (2.69; 2.577);
“spirito del buon seminarista” (2.142); “spirito di vocazione” (2.477).
È un atteggiamento dello spirito, come esprimono le parole riferite in
occasione dell’incontro con il chierico Cafasso:
Colui che abbraccia lo Stato Ecclesiastico si vende al Signore; e di
quanto avvi nel mondo, nulla deve più stargli a cuore se non quello
che deve tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime
Allora tutto maravigliato, volle sapere il nome di quel Chierico, le cui
parole il cui contegno cotanto manifestavano lo Spirito del Signore”
(1.516-517).
Il testo abbonda di riferimenti a questa realtà spirituale. Ad
esempio, la seconda risoluzione del regolamento di vita - la rinuncia
ai giochi da saltimbanco, al suono del violino e alla caccia - è così
motivata: “queste cose le reputo tutte contrarie alla gravità ed allo
spirito ecclesiastico” (2.69). Quando egli considera gli atteggiamenti
e i comportamenti non esemplari di alcuni seminaristi, sintetizza così
il suo giudizio: “Non pochi giovani senza badare alla loro vocazione
vanno in seminario senza avere né spirito, né volontà del buon
seminarista” (2.141-142). Raccontando del suo incontro col teologo
Giovanni Borel, venuto in seminario per gli esercizi spirituali, riporta
i suoi consigli:
In fine avendogli chiesto qualche mezzo certo per conservare lo
spirito di vocazione lungo l’anno e specialmente in tempo delle
vacanze egli mi lasciò con queste memorande parole: colla ritiratezza,
e colla frequente comunione si perfeziona e si conserva la vocazione e
si forma il vero ecclesiastico” (2.476-480).
Lo spirito ecclesiastico, inoltre, è una delle quattro espressioni
scelte per sintetizzare i sei anni di vita in seminario: “Perciò mi tornò
dolorosissima quella separazione, separazione da un luogo dove era
vissuto per sei anni; dove ebbi educazione, scienza, spirito
ecclesiastico e tutti i segni di bontà e di affetto che si possano
desiderare”. (2.575-578)
Il carattere riassuntivo e qualitativo di queste citazioni, così
come la loro collocazione all’interno delle Memorie (tutte riguardano
il periodo di seminario di Giovanni o il Cafasso) basta a mostrare
quanto fosse importante la questione in analisi.
42

5.3 Page 43

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6.1.3. Un combattimento
La vestizione dell’abito ecclesiastico denota nel testo il deciso
passaggio ad una fase superiore di coscienza spirituale. È la fase di
più forte lavoro interiore, di cambiamento più profondo.
Qui il punto centrale è il modello sacerdotale, non tanto quale
attività intraprendere nel futuro. Si tratta della corrispondenza totale
a un dono di Dio attraverso il “darsi tutto al Signore” (2.32), per
cominciare una “vita nuova” (2.19). Sia la consegna totale, come la
novità di vita erano stati i due temi dominanti nel racconto del primo
incontro con il Cafasso1.
6.2. Zona programmatica
A livello di struttura narrativa questo appare come uno dei
momenti di più marcata esemplarità del testo. Attraverso
l’evocazione autobiografica della tensione spirituale e degli stati
d’animo che accompagnano il rito della vestizione, siamo condotti
dall’Autore a considerare il racconto nella sua intenzionalità
esemplare, come illustrazione del dinamismo spirituale centrale che
va messo alla base del modello pastorale oratoriano. Il testo si apre
con alcune affermazioni programmatiche iniziali, articolate in
quattro momenti che precedono la descrizione dei passaggi attuati in
questa fase.
6.2.1. Il giorno della vestizione
Il giorno della vestizione è connotato drammaticamente
dall’Autore con due contrapposizioni: la situazione spirituale
personale attuale che contrasta con la santità di vita richiesta dalla
condizione chiericale; il raccoglimento e l’intensità interiore della
celebrazione mattutina messo in stridente confronto con la
dissipazione della festa pomeridiana. Ne viene fatta seguire, come
risultato immediato, l’elaborazione di un regolamento di vita e la
risoluzione spirituale.
L’atto della vestizione è messo in rapporto con la viva percezione
e colla determinazione della necessità di purificare il cuore delle
cattive abitudini prima riconosciute (cf 1.1238; 2.15). La percezione
della distanza tra la condizione personale attuale e la elevatezza
della chiamata si accentua per il fatto che l’Autore riconosce non
solo i lati negativi2, ma anche “la mancanza assoluta delle virtù
necessarie a questo stato” (1.1238-1239).
1 Cf Memorie,1.504-505 e 1.511-514.
2 Sia quelli rilevati nella fase di discernimento dello stato di vita - “la mia maniera di
vivere, certe abitudini del mio cuore” (1.1238) sia quelli riconosciuti nel momento
della vestizione - “Mio Dio, distruggete in me tutte le mie cattive abitudini” (2.15).
43

5.4 Page 44

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Per questo il testo è strutturato in forma di accorata preghiera
al fine di accentuare la tensione alla conversione, espressa con
risolutezza e solennità:
Sì, o Dio fate che in questo momento io vesta un uomo nuovo, cioè
che da questo momento io incominci una vita nuova, tutta secondo i
divini voleri; che la santità e la giustizia siano l’oggetto costante dei
miei pensieri, parole ed opere. Così sia. O Maria, siate voi la salvezza
mia (2.18-21).
In questa logica di totalità, tendente alla stabilità della nuova
dimensione interiore, viene riportato il regolamento di vita, dal quale
risalta la profondità e l’ampiezza del processo ascetico che deve
essere messo in atto. L’uso intensivo di espressioni come “non… mai
più” (2.55; 2.58), “non… più” (2.59); “ore strettamente necessarie”
(2.63), “con tutte le mie forze ogni cosa, ogni lettura, pensiero”
(2.68-69), “cose anche piccolissime” (2.70), “mai” (2.72), “ogni
giorno” (2.73; 74), portano in questa direzione.
All’efficace evocazione della vestizione segue la descrizione
della festa patronale della borgata di Bardella, una “funzione [...]
tutta profana” (2.22-23). Il novello chierico vi è condotto dal suo
parroco, ma - viene fatto notare - “non era cosa opportuna” (2.25).
La intessitura del racconto è efficace nel condurre il lettore a
percepire la reazione interiore dell’Autore che, giunto al vertice di
un’intensissima esperienza spirituale di totalità, viene bruscamente
immesso in un ambiente di tutt’altro indirizzo.
Io figurava un burattino vestito di nuovo, che si presenta al pubblico
per essere veduto. Inoltre dopo più settimane di preparazione a quella
sospirata giornata, trovarmi di poi ad un pranzo in mezzo a gente di
ogni condizione, di ogni sesso, colà radunata per ridere, chiaccherare,
mangiare, bere e divertirsi; gente che per lo più andava in cerca di
giuochi, balli e di partite di tutti i generi; quella gente quale società
poteva mai formare con uno che nello stesso giorno aveva vestito
l’abito di santità, per darsi tutto al Signore? (2.25-32).
In particolare, si evidenzia polemicamente il contrasto tra
l’elevatezza del modello sacerdotale prospettato e il penoso
comportamento dei preti invitati:
L’aver veduto preti a fare i buffoni in mezzo ai convitati preso che
brilli di vino, mi ha quasi fatto venire in avversione la mia vocazione.
Se mai sapessi di venire un prete come quelli, amerei meglio deporre
quest’abito e vivere da povero secolare, ma da buon cristiano (2.37-
40).
Giovanni si trova in mezzo ad una festa con la quale non si
identifica né per l’esibizionismo, anche se involontario (cf 2.25-26),
né per la finalità con cui si era radunata la gente (cf 2.30-31), né per
la negatività dei modelli sacerdotali (cf 2.37).
In quel giorno il chierico Giovanni passa dalla percezione
immediata dell’inadeguatezza personale nei confronti della dignità
44

5.5 Page 45

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chiericale, dall’offerta di sé e dalla preghiera per il dono di una vita
nuova, all’esperienza di disagio per il raffronto con comportamenti e
atteggiamenti che lo lasciano “ritenuto e pensieroso” (2.35). Il
contrasto è volutamente rimarcato: “la funzione fatta al mattino in
chiesa discordava in genere, numero e caso con quella della sera”
(2.35-36).
Per quanto riguarda il cammino interiore dell’Autore, il testo ci
presenta questi come dei momenti di particolare coscienza della
posta in gioco, non limitando il giudizio all’episodio puntuale, ma
abbracciando la totalità della consegna fatta nel presente e protesa
come definitività verso il futuro: “se mai sapessi di venire un prete
come quelli, amerei meglio deporre quest’abito” (2.38-40).
Le parole di giustificazione del prevosto rimandano alla stessa
logica rappresentata dal ragionamento messo sulla bocca del
compagno che aveva invitato Giovanni a giocare in tempo di scuola.
Allora si trattava di “imparare a vivere nel mondo”, perché “chi tiene
gli occhi bendati, non vede dove cammina” (1.573-574). Ora il
prevosto afferma:
il mondo è fatto così e bisogna prenderlo come è. Bisogna vedere il
male per conoscerlo ed evitarlo. Niuno divenne valente guerriero
senza apprendere il maneggio delle armi. Così dobbiamo fare noi che
abbiamo un continuo combattimento contro il nemico delle anime
(2.41-45).
La logica della tentazione è guidata dalla tematica
dell’adeguamento alla realtà del “mondo” e del “vedere”, inteso
come esperienza. La suggestione consiste nel convincere sulla
necessità di adeguarsi e di conoscere come condizione per
raggiungere una situazione migliore a livello personale e diventa più
convincente quanto più elevato il premio che promette. In questo
caso si trattava niente meno che di “evitare” il male e di
“combatterlo”, che è precisamente una della funzioni sacerdotali.
Per di più viene presentato come un dovere, una necessità: “così
dobbiamo fare noi” (2.43-44).
Nei due casi, il ragionamento del compagno e quello del
prevosto, la tentazione si esprime in una sola logica: l’apparente
innocenza e un acquisto di conoscenza. E tuttavia si trovano due
differenti incidenze, collegate allo specifico di ognuna delle due fasi.
La prima, sul soggetto come cristiano, cioè di colui che vive nel
mondo (cf 1.573). La seconda sul soggetto come pastore, cioè “noi
che abbiamo un continuo combattimento contro al nemico delle
anime” (2.43-45).
Per l’Autore si tratta di un inganno, di una falsa prospettiva, di
un ragionamento specioso. In entrambi i casi, la risposta è identica:
la santità si realizza e si esprime come scelta netta di separazione
dal male, condizione di possibilità per la vittoria sul male. La
radicalità della scelta viene confermata da un passaggio ulteriore nel
quale viene ripresa questa tematica in relazione all’esperienza
personale dell’Autore durante le vacanze nel periodo del seminario:
45

5.6 Page 46

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Questi tre fatti mi hanno dato una terribile lezione, e d’allora in poi
mi sono dato con miglior proposito alla ritiratezza, e fui davvero
persuaso che chi vuole darsi schiettamente al servizio del Signore
bisogna che lasci affatto i divertimenti mondani. È vero che spesso
non sono peccaminosi, ma è certo che pei discorsi che si fanno, per la
foggia di vestire, di parlare e di operare contengono sempre qualche
rischio di rovina per la virtù, specialmente per la delicatissima virtù
della castità (2.331-337).
La separazione prospettata dall’Autore non appare come una
fuga, ma come percezione della strada più adatta per vincere il male
in sé e per aiutare gli altri sulla via della santificazione. Un
atteggiamento di fuga era la decisione di entrare nel chiostro,
mentre la “ritiratezza” è delineata innazitutto come una
concentrazione lucida sulle motivazioni vocazionali e una drasticità
di orientamento che richiede coerenza e abbandono di compromessi
e commistioni “secolaresche”. La vestizione viene fatta coincidere
con un approfondimento delle motivazioni vocazionali e una nuova
comprensione del cammino di conversione.
6.2.2. Il regolamento di vita
La descrizione della festa di san Michele, con i contrasti
evidenziati, offre l’aggancio narrativo e argomentativo alla necessità
di una previa radicale decisione collocata nel “cuore” (2.46) prima
che per iscritto:
Tacqui allora, ma nel mio cuore ho detto: Non andrò mai più in
pubblici festini, fuori che ne sia obbligato per funzioni religiose (2.46-
47).
Soprattutto, nella descrizione della propria esperienza interiore,
viene introdotta l’istanza di una riforma radicale, indispensabile per
giungere alla stabilizzazione o al consolidamento della nuova
dimensione interiore. Ripercorrendo i passi del suo itinerario
spirituale l’Autore esprime la percezione attuale della propria
situazione al tempo dell’entrata in seminario:
Dopo quella giornata io doveva occuparmi di me stesso. La vita fino
allora tenuta doveva essere radicalmente riformata. Negli anni
addietro non era stato uno scellerato, ma dissipato, vanaglorioso,
occupato in partite, giuochi, salti, trastulli ed altre cose simili, che
rallegravano momentaneamente, ma che non appagavano il cuore
(2.48-52).
Giovanni, che aveva già “cominciato a gustare” la vita spirituale
(1.404-405) sotto la guida di don Calosso, e aveva trascorso il
periodo dell’adolescenza in mezzo a molteplici attività, giunto a
questa nuova fase acquisisce la percezione di non essere fatto per
una gioia passeggera, che non appaga il cuore, ma per la felicità
46

5.7 Page 47

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vera, profonda e permanente, attraverso un cammino ascetico
concretizzato in risoluzioni pratiche.
Ecco in sintesi i criteri che orientano la stesura del
regolamento: primo, la scelta di occupazioni che appaghino il cuore e
non lo rallegrino soltanto momentaneamente (cf 1.51-52); secondo,
la stabilità di questa scelta: “per farmi un tenore di vita più stabile
da non dimenticarsi, ho scritto le seguenti risoluzioni” (2.53-54).
Si tratta di una sorta di regolamento formulato in sette
risoluzioni che esprimono la totalità delle dimensioni abbracciate:
pensieri, parole ed opere (cf 2.20-21). Sintetizzando esse riguardano
gli atteggiamenti ascetici ritenuti indispensabili per una effettiva
totalità di consacrazione: fuga dalle occasioni di dispersione, dalla
dissipazione e dalla vanagloria, per acquistare la “gravità” dello
spirito ecclesiastico (2.55-61); ritiratezza praticata e amata (2.62);
temperanza e sobrietà (2.62-64); impegno per acquistare una cultura
religiosa come modo per “servire “il Signore (2.65-67); salvaguardia
della virtù della castità “con tutte le forze” (“combatterò” e
“praticherò”, 2.68-71); cura della preghiera quotidiana (2.72-73);
esercizio quotidiano di comunicazione pastorale per l’edificazione e
l’evangelizzazione (2.73-76), come uno dei compiti primari della
missione sacerdotale.
La conclusione di questo tratto narrativo riporta nuovamente al
topic della totalità di consegna, con una significativa citazione
implicita della Promessa per imprimere nell’anima il proposito di
servire Dio che Francesco di Sales pone al vertice del cammino
spirituale per suggellare la scelta di servire Dio solo3:
Affinché [quelle deliberazioni] mi rimanessero bene impresse sono
andato avanti ad un’immagine della Beata Vergine, le ho lette, e dopo
una preghiera ho fatto formale promessa a quella Celeste Benefattrice
di osservarle a costo di qualunque sacrifizio (2.78-81).
6.2.3. Il dialogo con la madre
Il significato dell’intervento della madre, alla vigilia dell’entrata
in seminario, può essere riassunto in queste due prospettive: la
santità di vita richiesta dallo stato ecclesiastico e il riferimento
mariano di questa vocazione.
Nella struttura narrativa delle Memorie questo dialogo appare
centrale, non solo per i contenuti, ma perché è collocato nella zona
di confluenza e di svolta della crescita spirituale dell’Autore Modello
per quanto riguarda “l’assistenza” della madre. La presenza della
figura materna risulta molto intensa e determinante nel periodo
dell’infanzia, fino alla separazione dei beni familiari. Nel periodo di
Chieri passa in secondo piano, a motivo della lontananza da casa, ma
3 La Promessa è posta a conclusione degli atti di penitenza di chi vuole abbracciare
la vita devota (Francesco di Sales, Filotea. Introduzione alla vita devota, Milano
1993, pp. 61-63). Il santo savoiardo invita il devoto a non accontentarsi di un vago
desiderio, ma di fare una promessa formale: “Non ti resta più che prendere la
penna e apporre la firma all’atto della tua promessa; dopo di che ti recherai
all’altare; così che Dio firmerà e apporrà il suo sigillo a conferma” (ivi, p. 64).
47

5.8 Page 48

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permane come riferimento essenziale. Infatti troviamo punti nodali
di contenuto assiologico direttamente riferiti alla figura della madre,
senza per altro che vengano riportati dialoghi o incontri. Quando si
raccontano gli eventi legati all’ordinazione la madre resta
nell’ombra. In quello che è stato “il più bel giorno della mia vita”
(2.584) si accenna solo di passaggio alla famiglia. Margherita verrà
nuovamente messa in scena, con un ruolo primario, solo nel tempo
della stabile dimora all’Oratorio di Valdocco (cf 3.930 ss), mentre
non appare al tempo della malattia di Don Bosco, quando ci sono
interventi della marchesa Barolo, del Cafasso e dell’Arcivescovo.
Il dialogo che precede l’entrata in seminario è l’ultimo in cui
troviamo riferiti consigli della madre relativi alla vita spirituale.
Esso ci appare come il vertice dell’esercizio della maternità sotto
l’aspetto di assistenza spirituale e vocazionale, quasi come soglia di
passaggio definitivo all’autonomia e alla piena responsabilizzazione
del figlio. L’autore pare indicarcelo evidenziando il contrasto tra la
contentezza dei parenti e l’atteggiamento della madre: “mia madre
soltanto stava in pensiero e mi teneva tuttora lo sguardo addosso
come volesse dirmi qualcosa” (2.85-86).
Ella mi chiamò a sé e mi fece questo memorando discorso: Gioanni
mio, tu hai rivestito l’abito sacerdotale, io ne provo tutta la
consolazione che una madre può provare per la fortuna di suo figlio.
Ma ricordati che non è l’abito che onora i tuo stato, è la pratica delle
virtù. Se mai tu venissi a dubitare di tua vocazione, ah per carità! non
disonorare questo abito. Deponilo tosto. Amo meglio di avere un
povero contadino, che un figlio prete trascurato ne’ suoi doveri (2.87-
93)
Dunque, anche attraverso la madre, l’Autore rimarca l’esigenza
di totalità nel vivere lo spirito ecclesiastico. La necessità di onorare il
proprio stato con la pratica delle virtù e la trascuratezza nei doveri
sacerdotali che segue al dubbio sulla vocazione vengono messi in
contrapposizione nell’accorato appello della madre. Il riferimento a
diffuse situazioni di trascuratezza presso il clero, causate da
inconsistenza o da intenzione non retta, appare evidente. Don Bosco,
che scrivendo le Memorie si rivolge esclusivamente ai suoi “carissimi
figli Salesiani” (1.13), ha una preoccupazione formativa chiara, che
qui emerge evidente, come in altri punti cruciali dell’opera. Possiamo
dire che nei quadri mentali dell’Autore delle Memorie c’è un solo
modo di essere prete: esserlo totalmente. Le parole usate poco prima
riguardo a certi ecclesiastici intervenienti nella festa di san Michele
(cf 2.38), trovano riscontro in quelle messe sul labbro della madre (cf
2.90-93).
La seconda parte dell’intervento materno racchiude un
riferimento mariano non casuale per comprendere gli orizzonti
interiori dell’Autore nella ricostruzione del senso globale della
propria esistenza. Le tappe essenziali della vita di Don Bosco
vengono sintetizzate alla luce della presenza di Maria:
Quando sei venuto al mondo ti ho consacrato alla Beata Vergine;
48

5.9 Page 49

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quando hai cominciato i tuoi studi ti ho raccomandato la divozione a
questa nostra Madre; ora ti raccomando di esserle tutto suo: ama i
compagni divoti di Maria; e se diverrai sacerdote raccomanda e
propaga mai sempre la devozione di Maria (2.93-97).
Notiamo di passaggio che nel riferimento ai compagni c’è un
progresso nell’esigenza - devono essere “devoti di Maria” (2.96) -,
senza più il riferimento ai cattivi discorsi come nel giorno della
prima comunione (cf 1.315-316). Significativamente, nel racconto
della vita in seminario, ci sarà un riferimento ai “non pochi giovani
[che] senza badare alla loro vocazione vanno in seminario senza
avere né spirito, né volontà del buon seminarista” (2.141-142) e
l’aggiunta del ricordo
di aver udito cattivissimi discorsi da compagni ed una volta, fatta
perquisizione ad alcuni allievi, furono trovati libri empi ed osceni di
ogni genere. È vero che somiglianti compagni o deponevano
volontariamente l’abito chericale, oppure venivano cacciati dal
seminario appena conosciuti per quello che erano. Ma mentre
dimoravano in seminario erano peste pei buoni e pei cattivi (2.143-
148).
Gli elementi riportati corrispondono a dei punti di svolta
nell’itinerario di conversione dell’Autore delineato dal racconto e
possono essere affrontati dal punto di vista della personalizzazione.
Il riferimento mariano è costante. Già prima dell’intervento materno
Giovanni si era affidato a Maria Santissima nel momento della
vestizione: “O Maria, siate voi la salvezza mia” (2.21). Lo ritroviamo
anche nella descrizione della “formale promessa” di osservare le
risoluzioni prese per farsi “un tenore di vita stabile da non
dimenticarsi”: “affinché mi rimanessero bene impresse, sono andato
avanti ad una immagine della Beata Vergine, le ho lette, e dopo una
preghiera ho fatto formale promessa a quella Celeste Benefattrice di
osservarle a costo di qualunque sacrificio” (2.78-79).
Qui la descrizione dell’intervento materno, riassumendo il
passato, si proietta nel futuro, verso il tempo dell’ordinazione
sacerdotale: “se diverrai sacerdote e propaga sempre la divozione a
Maria” (2.96-97), rivelando il rapporto filiale di Don Bosco verso
Maria.
6.2.4. L’entrata nel seminario: gioia e dovere
Questa quarta fase della zona programmatica si colloca in
continuità e complementarietà colle precedenti. Il primo passo
dell’intreccio narrativo era mirato e illustrare il cominciamento della
vita nuova (rinascere), il secondo orientato a presentare la totale
consegna al Signore (donarsi) per trovare la vera gioia. Le parole
della madre s’incentravano sulla “pratica della virtù” come cuore
dell’identità sacerdotale, e sulla percezione della presenza attiva e
49

5.10 Page 50

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affidabile di Maria.
L’entrata nel seminario culmina l’esplicitazione della zona
programmatica con la tematica dell’allegria e quella dell’esatto
“compimento dei doveri” (2.114). Individuiamo facilmente i due
ruoli attoriali che reggono questi contenuti così tipicamente
donboschiani. Vengono messi in scena successivamente la meridiana
del seminario e il professore di filosofia con il rispettivo messaggio.
Quello stesso giorno entrai in Seminario. Salutati i superiori e
aggiustatomi il letto, coll’amico Garigliano mi sono messo a
passeggiare pei dormitorii, pei corridoi, e in fine pel cortile. Alzando
lo sguardo sopra una meridiana lessi questo verso: Afflictis lentae,
celeres gaudentibus horae.
[...]
Il giorno dopo cominciò un triduo di esercizi ed ho procurato di farli
bene per quanto mi fu possibile. Sul finire di quelli mi recai dal
professore di filosofia che era il T. Ternavasio di Bra, e gli chiesi
qualche norma di vita con cui soddisfare a’ miei doveri ed acquistarmi
la benevolenza de’ miei superiori. Una cosa sola mi rispose il degno
sacerdote, coll’esatto adempimento de’ vostri doveri (2.102-114).
Viene pure evidenziata la risposta recettiva dell’Autore Modello.
Per quanto riguarda il motto della meridiana, lo si interpreta come
un invito ad affrontare con allegria - cioè con positività gioiosa -
l’ambiente seminaristico: “Ecco, dissi all’amico ecco il nostro
programma: stiamo sempre allegri e passerà presto il tempo” (2.107-
108). Il consiglio del professore viene richiesto a partire dal clima
interiore di conferma dell’atteggiamento di consegna, rappresentato
dal triduo di esercizi affrontati con impegno (“ho procurato di farli
bene”), e con due finalità: il desiderio di “soddisfare” ai doveri
(“virtù”) dello stato (cf 2.112) e di acquistare la benevolenza dei
superiori (2.112-113), che finirà per attirare anche quella dei
compagni (cf 2.118). La risposta sintetica - “coll’esatto adempimento
dei doveri” - viene esplicitata a livello narrativo in modo da fornire al
lettore la competenza necessaria sia per coglierne il contenuto
inteso dall’Autore e, nello stesso tempo, per comprendere il
movimento e il senso unitario delle pagine che seguiranno:
Ho preso per base questo consiglio e mi diedi con tutto l’animo
all’osservanza delle regole del seminario. Non faceva distinzione tra
quando il campanello chiamava allo studio, in chiesa, oppure in
refettorio, in ricreazione, al riposo. Questa esattezza mi guadagnò
l’affezione de’ compagni e la stima de’ superiori, a segno che sei anni
di seminario furono per me una piacevolissima dimora (2.115-120).
Nell’espressione “mi diedi con tutto l’animo” si può cogliere
l’atteggiamento spirituale che unifica i due elementi, cioè l’allegria e
il compimento dei doveri, nella gioiosa accoglienza/accettazione
interiore degli impegni e dei ritmi imposti dal nuovo tenore di vita
senza distinzione di momenti.
50

6 Pages 51-60

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6.1 Page 51

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Da questo atteggiamento positivo e impegnato l’Autore fa
derivare l’affetto dei compagni, la stima dei superiori che fecero di
quei sei anni di seminario “una piacevolissima dimora” (2.120).
6.3. La vita nel seminario
Pare significativo il fatto che l’impianto narrativo della sezione,
a questo punto, si svincoli quasi totalmente dalla scansione
cronologica dei fatti per privilegiare una distribuzione tematica dei
contenuti. L’Autore giustifica così la sua scelta: “I giorni del
seminario sono presso poco gli stessi; perciò io accennerò le cose in
genere riserbandomi descrivere separatamente alcuni fatti
particolari” (2.122-124). Possiamo interpretarla nel senso che il
racconto relativo al Seminario viene di fatto polarizzato da quei
valori rilevati a proposito della vestizione e dell’entrata in seminario.
La struttura narrativa riprende, a grandi linee, lo schema messo
in atto per descrivere gli anni di frequenza alla scuola pubblica: i
superiori, i compagni, le pratiche di pietà, i divertimenti, la relazione
privilegiata con Luigi Comollo, lo studio. Vengono aggiunti una
sezione dedicata alle vacanze e un cenno all’incontro col teologo
Borel, che hanno lo scopo di evidenziare il topic principale per
l’interpretazione del compito affidato dall’Autore a questa fase
formativa: l’assimilazione e il rafforzamento dello spirito
ecclesiastico.
Appunto a quest’ultimo aspetto dedichiamo la nostra attenzione.
6.3.1. Il consolidamento interiore
Lo specifico spirituale di questo periodo, nel racconto, appare
incentrato sui processi ascetici che conducono al consolidamento
interiore, alla stabilizzazione nella vocazione e nello spirito
ecclesiastico. Concentriamo gli elementi di spiritualità attorno a tre
espressioni chiave: la ritiratezza, la gioia interiore, la gloria di Dio.
Attorno a questi centri gravitano altri elementi.
6.3.1.1. La ritiratezza
Nel seminario, Giovanni trova l’ambiente che, attraverso i ritmi
costanti delle attività e delle pratiche, le regole e l’occupazione del
tempo, gli serve di aiuto alla crescita spirituale. Vogliamo dire che
l’ambiente come tale risulta propositivo e tuttavia non tale da
garantire di per sé una conformazione vocazionale che implica
necessariamente il coinvolgimento responsabile del soggetto.
L’Autore lo insinua attraverso episodi che mettono in evidenza la
fatica ad introiettare operativamente i propositi presi, ma con il
risvolto comune di un impegno sempre rinnovato e di un
51

6.2 Page 52

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radicamento in Dio via via consolidato.
Il processo di riforma radicale (cf 2.49) viene progressivamente
completato, a partire dal distacco del cuore. Egli cessa dal gioco di
Bara rotta, al quale in principio prendeva parte “con molto gusto”
(2.171), perché “si avvicinava molto a quello dei ciarlatani, a cui
aveva assolutamente rinunziato” (2.172). Decide poi - “alla metà del
secondo anno di Filosofia” (2.183) - di non prendere più parte al
gioco e dei tarocchi, nel quale “trovava il dolce misto con l’amaro”
per l’afflizione dei compagni che perdevano e perché “nel giuocare
io fissava tanto la mente che dopo non poteva più né pregare, né
studiare avendo sempre l’immaginazione travagliata” (2.174-180). Il
prendere parte a questi divertimenti “con molto gusto” e l’eccessiva
l’applicazione della mente, che distraeva dal compimento dei doveri
di pietà e di studio, sono i motivi spirituali della definitiva rinuncia
perché si configurano come un impedimento alla consegna totale4.
Il processo di riforma e di distacco, aiutato dall’ambiente
seminaristico, va portato a livello di convinzioni interiori. La
strategia narrativa, senza una precisa connotazione cronologica,
riporta tre fatti avvenuti nel corso delle vacanze - “grande pericolo
pei cherici” (2.226) - per indicare come la vigilanza e il lavoro
ascetico debbano essere continui.
Questi tre fatti mi hanno dato una terribile lezione e d’allora in poi mi
sono dato con miglior proposito alla ritiratezza e fui davvero persuaso
che chi vuole darsi schiettamente al servizio del Signore bisogna che
lasci affatto i divertimenti mondani. È vero che questi non sono
peccaminosi, ma è certo che pei discorsi che si fanno, per la foggia di
vestire, di parlare e di operare contengono sempre qualche rischio di
rovina per la virtù, specialmente per la delicatissima virtù della
castità (2.331-337).
La ritiratezza, composta da un’insieme di atteggiamenti
spirituali e di disposizioni esteriori, è anche una condizione per non
cadere in peccato: “stare ritirato se non si vuole cadere in peccato”
(2.295). L’introduzione alla narrazione dei tre aneddoti è
significativa: “Un povero cherico senza che se ne accorga gli accade
spesso di trovarsi in gravi pericoli” (2.280-281). Sembra che l’autore
voglia suggerire che l’atteggiamento interiore debba corrispondere
ad un supplemento di vigilanza preventivamente proporzionato ad un
pericolo di cui la persona non si accorge totalmente.
Il primo fatto è la partecipazione ad un festino in campagna (cf
2.279-296). La “gravità” dei pericoli, se da una parte indica la
4 Notiamo che argomenti simili sono presentati da san Francesco di Sales nella
terza parte Filotea: “Ma soprattutto, Filotea, sta attenta a non impegnare il tuo
affetto; un gioco sarà onesto fin che vuoi, ma metterci dentro il cuore e il proprio
affetto è sempre male. [...] Aggiungi che questi giochi hanno il nome di divertimenti
e sono fatti per questo; e invece proprio non lo sono, ma sono soltanto occupazioni
a tempo pieno, Non è forse un’occupazione tenere lo spirito caricato e teso da
un’attenzione continua, e agitato da insistenti inquietudini, ansie e paure? [...]
Infine nel gioco non c’è gioia se non vinci. E non ti sembra che sia una gioia
perversa, giacché si può conseguire soltanto per mezzo della sconfitta e del
dispiacere del compagno?” (FRANCESCO DI SALES, Filotea, pp. 230-231).
52

6.3 Page 53

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oggettiva contraddizione allo spirito ecclesiastico - “parlari, che non
potevansi più tollerare da un chierico” (2.287) -, dall’altra rivela la
sensibilità spirituale dell’Autore e la sua scelta personale di un
determinato modello sacerdotale. La resistenza iniziale di fronte
all’invito (cf 2.282) è ricollegata alle risoluzioni del suo regolamento
di vita: l’evitare i pranzi (cf 2.57). Ma è costretto a cedere,
“adducendosi che non eravi alcun chierico che servisse in chiesa”
(2.283). L’esito negativo di quell’avvenimento e la fuga di Giovanni
confermano la necessità e la bontà della risoluzione presa: “Giunto a
casa ho rinnovato di tutto cuore il proponimento già fatto più volte,
di stare ritirato se non si vuole cadere in peccato” (2.294-295).
Il fatto successivo segue la stessa modalità di un invito a fare
qualche cosa a cui aveva già rinunciato, in questo caso, suonare
violino (cf 2.59). Ricordando il fatto, l’Autore qualifica se stesso
come “miserabile” (2.307) proprio per avere accettato e ricorda la
sua reazione di “rabbia” indescrivibile (cf 3.311) e violenta: “Ciò non
sarà mai più. Feci in mille pezzi il violino, e non me ne volle mai più
servire, sebbene siansi presentate occasioni e convenienza nelle
funzioni sacre” (2.313-315).
Il terzo è un episodio di caccia che introduce riferendosi ad una
certa abitudine: “andava alle nidiate lungo l’estate, di autunno
ucellava col vischio, colla trapoletta, colla passeriera e qualche volta
anche con il fucile” (2.316-318)5. Poi si racconta l’inseguimento,
esteso nel tempo e nello spazio, il colpo, l’allegria dei compagni (cf
2.322) e la propria mortificazione:
Mentre essi si rallegravano per quella preda portai lo sguardo sopra
di me stesso e mi accorsi che era in maniche di camicia, senza
sottana, con un cappello di paglia, per cui faceva la comparsa di uno
sfrosadore, e ciò in un sito lontano oltre a due miglia da casa mia
Ne fui mortificatissimo, chiesi scusa ai compagni dello scandalo dato
con quella foggia di vestire, me ne andai tosto a casa, e rinunciai
nuovamente e definitivamente ad ogni sorta di caccia. Coll’aiuto del
Signore questa volta mantenni la promessa. Dio mi perdoni quello
scandalo (2.324-330).
Si può scorgere un cenno alla distinzione tra l’allegria
momentanea e l’appagamento del cuore (cf 2.51-52), ma soprattutto
l’accento è posto sullo scandalo che poteva derivare dalla sua
“comparsa” e dalla “foggia di vestire”, così contrastanti con la
delicatezza richiesta dalla propria vocazione.
L’importanza della “ritiratezza” nel consolidamento dello spirito
interiore del chierico e come principio di spiritualità sacerdotale,
torna a livello narrativo quando si mette in scena il teologo Giovanni
Borel, “venuto a dettar gli esercizi spirituali in seminario” (2.466), il
quale tematizza la funzione della ritiratezza (unita alla comunione) al
fine non solo di perfezionare e conservare lo spirito di vocazione, ma
anche di formare “il vero ecclesiastico”:
5 Cf anche Memorie,1.272-273.
53

6.4 Page 54

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Avendogli chiesto qualche mezzo certo per conservare lo spirito di
vocazione lungo l’anno e specialmente in tempo delle vacanze, egli mi
lasciò con queste memorande parole: Colla ritiratezza, e colla
frequente comunione si perfeziona e si conserva la vocazione e si
forma il vero ecclesiastico (2.475-480).
Più avanti, l’Autore, nella circostanza degli esercizi spirituali in
preparazione alle ordinazioni, ribadirà il suggerimento ricevuto:
“d’allora in poi mi sono dato il massimo impegno di mettere in
pratica il consiglio del teologo Borelli: colla ritiratezza e colla
frequente comunione si conserva e si perfeziona la vocazione”
(2.563-565). La ripresa a livello narrativo è significativa: nel
momento in cui si porta a compimento il cammino formativo, con
l’avvicinarsi del presbiterato, il rimando testuale rinforza il ruolo
attoriale del Borel presentato come espressione piena del modello
propugnato da Don Bosco e delle virtù che lo debbono
caratterizzare:
uno dei più zelanti ministri del santuario [...]. Egli apparve in
sacrestia con aria ilare, con parole celianti, ma sempre condite di
pensieri morali. Quando ne osservai la preparazione e il
ringraziamento della messa, il contegno, il fervore nella celebrazione
di essa, mi accorsi subito che quegli era un degno sacerdote [...].
Quando poi cominciò la sua predicazione e se ne ammirò la
popolarità, la vivacità, la chiarezza, e il fuoco di carità che appariva in
tutte le sue parole, ognuno andava ripetendo che egli era un santo.
Di fatto tutti facevano a gara per andarsi a confessare da lui, trattare
con lui della vocazione ed avere qualche particolare ricordo (2.465-
475).
6.3.1.2. Gioia che appaga il cuore: tempo e doveri
Una delle forme della nuova fase della vita spirituale in Giovanni
è la fuga del tempo vuoto e l’occupazione in attività capaci di portare
qualche “frutto” (cf 2.229). Convergono la responsabilità davanti al
tempo e la coscienza dei doveri. Questa è la seconda costellazione di
elementi per la personalizzazione delle virtù necessarie allo stato
ecclesiastico. In questo ambito viene evidenziata la difficoltà di
mantenere le decisioni quando ci si trova fuori di un ambiente che
serve di aiuto strutturale alla stabilità della vita spirituale.
A livello di contenuto, troviamo nel testo un nesso tra
l’appagamento del cuore e l’occupazione del tempo. La prospettiva si
sposta verso l’importanza di vivere con gioia le varie attività e doveri
della giornata: “Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae” (2.106).
Il contesto permette di cogliere il legame interiore tra gioia, tempo,
doveri e presenza di Dio.
Nelle vacanze, la gestione del tempo diventa più difficile. Le
vacanze troppo lunghe - “quattro mesi e mezzo” (2.227) -
54

6.5 Page 55

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rappresentavano per i chierici un “grande pericolo” (2.226),
mancando l’appoggio dell’ambiente formativo. L’Autore Modello
denota la coscienza di questo pericolo, al quale ricorda di aver
reagito attraverso la realizzazione di “qualche lavoro meccanico”
(2.230). L’applicazione tuttavia gli serviva per passare il tempo, per
“ammazzare” le giornate “non sapendo ancora a trar partito delle
mie giornate, ne perdeva molte senza frutto” (2.228-229).
In contrasto con il vuoto del tempo e con le attività che portano
momentaneo piacere, ma non appagano il cuore, si parla del “gran
conforto a fare catechismo a molti compagni che trovavansi ai sedici
e anche ai diciassette anni digiuni affatto delle verità della fede”
(2.237-239). Qui il testo fa un’evidente allusione alla risoluzione
settima del regolamento di vita.
6.3.1.3. La gloria di Dio, le prediche
Un terzo insieme di elementi riguarda la lotta contro la
vanagloria, altro modo per affermare la totale consegna alla gloria di
Dio. L’Autore aveva parlato di sé come di un “vanaglorioso” (2.50). Il
passaggio definitivo di conversione su a questo aspetto verrà
presentato, significativamente, nella narrazione di chiusura di questa
fase, quasi ad indicare che questo tipo di tentazione si colloca su un
terreno molto delicato.
Negli aneddoti precedenti relativi alla ritiratezza, ai doveri e
alla gioia, si trattava fondamentalmente di raggiungere la virtù della
fortezza nella rinuncia o la costanza nella fedeltà a Dio, concretizzata
in chiare risoluzioni sulla linea del distacco da certe attività o di una
migliore occupazione del tempo in delle altre.
La vanagloria invece viene presentata in relazione alle capacità
umane di Giovanni che lo facevano riuscire in qualunque tipo di
attività, particolarmente nella comunicazione pastorale. Vincere
questo tipo di vanagloria appare più difficile, perché il sacerdote non
può rinunciare alla predicazione.
Il racconto ora si fa particolarmente insistente attraverso alcuni
indugi narrativi di indole didascalica.
Il primo fatto viene contestualizzato all’interno di una vasta
attività di predicazione:
Ho pure cominciato a fare prediche e discorsi col permesso e
coll’assistenza del mio prevosto. Predicai sopra il SS. Rosario nel
paese di Alfiano, nelle vacanze di fisica; sopra S. Bartolomeo Apostolo
il primo anno di teologia in Castelnuovo d’Asti; sopra la natività di
Maria in Capriglio. Non so quale ne sia stato il frutto. Da tutte le parti
però era applaudito, sicché la vanagloria mi andò guidando finché ne
fui disingannato come segue (2.245-250).
Dopo aver accennato alle giornate perse “senza frutto” durante
le vacanze (cf 2.229), il testo introduce nuovamente la stessa chiave
di lettura, “il frutto” (2.249) volendo orientare il lettore al risultato
55

6.6 Page 56

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spirituale di un vissuto. È suggerita l’idea che il frutto non è una
realtà umanamente dominabile, nonostante l’apparenza sia di grande
successo. In questa prima attività oratoria l’Autore denuncia la
propria “vanagloria e ricercatezza” (2.275), che rende incerto il
frutto: “Non so quale ne sia stato il frutto” (2.249). Invece sarà molto
“fruttuosa”, per la sua futura attività di predicatore, di catechista, di
istruttore e di pubblicista, la lezione ricevuta dal parroco di Alfiano
(cf 2.275-277).
Secondo il racconto delle Memorie, la lezione definitiva gli verrà
soltanto dall’esperienza di Lavriano, nei mesi successivi
all’ordinazione (cf 2.619-690). Tra quest’episodio e quelli precedenti
la narrazione segna un arco temporale di quattro anni, significativo
della prolungata e costante lotta interiore per raggiungere la
purezza d’intenzione.
Nella prima sequenza narrativa (2.245-277) - le prediche fatte a
Capriglio ed Allfiano-, troviamo due episodi orientati ad una sola
lezione. A Capriglio, il discorso era stato così poco chiaro che uno
degli ascoltatori “che pareva dei più intelligenti” e che faceva della
predica “elogii sperticati” (2.252), interrogato, rispose: “La sua
predica fu sopra le anime del Purgatorio” mentre “io aveva predicato
sopra le glorie di Maria” (2.253-254). Nel secondo, Giovanni viene a
scoprire che tra gli ascoltatori probabilmente pochissimi oltre al
parroco di Alfiano e al fratello prete, avevano capito il messaggio (cf
262). Predica “assai bella, ordinata, esposta con buona lingua, con
pensieri scritturali” (2.268-259), ma troppo complessa, “elevata” e
priva di popolarità. Il consiglio messo sulle labbra di don Giuseppe
Pellato condensa alcuni dei principi che hanno costantemente
guidato la prassi comunicativa di Don Bosco - “questo paterno
consiglio mi servì di norma in tutta la vita” (2.273) - a partire dagli
anni del Convitto e dalla scuola pastorale del Cafasso:
Abbandonare la lingua e l’orditura dei classici, parlare in volgare dove
si può, od anche in lingua italiana, ma popolarmente, popolarmente,
popolarmente [sic]. Invece poi di ragionamenti tenetevi agli esempi,
alle similitudini, ad apologi semplici e pratici. Ma ritenete sempre che
il popolo capisce poco, e che le verità della fede non gli sono
abbastanza spiegate (2.268-272).
Nell’episodio conclusivo, di Lavriano, l’Autore, già sacerdote,
cerca di preparare bene e scrivere il discorso “in lingua popolare ma
pulita” “persuaso di acquistarne gloria” (2.625). Durante il viaggio
viene sbalzato di sella cadendo pericolosamente “capovolto sopra un
mucchio di pietre spaccate” e rimane privo di sensi. Soccorso da un
uomo dei dintorni, Giovanni Calosso, che lo porta nella propria
abitazione, dopo pochi giorni potrà ritornare a casa e trarre
vantaggio dalla lezione: “Dopo questo avviso ho fatto ferma
risoluzione di voler per l’avvenire preparare i miei discorsi per la
maggior gloria di Dio, e non per comparire dotto o letterato” (2.688-
690). In questo intreccio narrativo, con un semplice ed efficace
artificio letterario, viene inserito un secondo aneddoto che ricollega
56

6.7 Page 57

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l’incidente ad altro precedente nel quale il soccorritore era a sua
volta stato soccorso dallo stesso chierico Bosco. Ne viene tratta una
lezione - “La divina provvidenza ha voluto farci conoscere con questo
fatto che chi ne fa, ne aspetti” (2.677-678) - che in qualche modo
rafforza il tema di fondo: la ricerca della vanagloria a scapito della
“maggior gloria di Dio” non solo resta sterile, ma produce frutti
negativi.
6.3.2. La pratica e lo spirito
Su quest’aspetto la prosa delle Memorie è molto essenziale. Ci
pare significativo riportare l’intero paragrafo.
Le pratiche di pietà si adempivano assai bene. Ogni mattino messa,
meditazione, la terza parte del rosario; a mensa lettura edificante. In
quel tempo leggevasi la storia ecclesiastica del Bercastel. La
confessione era obbligatoria ogni quindici giorni, ma chi voleva
poteva anche accostarsi tutti i Sabati. La santa comunione però
potevasi soltanto fare la Domenica od in altra speciale solennità.
Qualche volta si faceva lungo la settimana, ma per ciò fare bisognava
commettere una disubbidienza. Era uopo scegliere l’ora di colazione,
andare di soppiatto nell’attigua chiesa di S. Filippo, fare la
comunione, e poi venire raggiungere i compagni al momento che
tornavano allo studio o alla scuola. Questa infrazione di orario era
proibita, ma i superiori ne davano tacito consenso, perché lo
sapevano e talvolta vedevano, e non dicevano niente in contrario. Con
questo mezzo ho potuto frequentare assai più la santa comunione, che
posso chiamare con ragione il più efficace alimento della mia
vocazione (2.152-166).
L’accento è posto, dalla dinamica del racconto, sull’importanza
della comunione eucaristica - “che posso chiamare con ragione il più
efficace alimento della mia vocazione” (2.165-166) -, ribadita anche
dal successivo consiglio del Borel: “Colla ritiratezza, e colla
frequente comunione si perfeziona e si conserva la vocazione e si
forma un vero ecclesiastico” (2.476-480). L’obiettivo a cui si mira è lo
spirito di pietà attraverso le pratiche di pietà.
Sempre in riferimento allo “spirito del buon seminarista” viene
ripresa la distinzione tra compagni: quelli di “specchiata virtù”, i
“divoti di Maria, amanti dello studio e della pietà” e quelli
“pericolosi”, che “vanno in seminario senza avere né spirito, né
volontà del buon seminarista”, “peste per i buoni e i cattivi” (cf 2.
137-148).
Per evitare il pericolo di tali condiscepoli io mi scelsi alcuni che erano
notoriamente conosciuti per modelli di virtù. Essi erano Garigliano
Guglielmo, Giacomelli Gioanni di Avigliana e poi Comollo Luigi.
Questi tre compagni furono per me un tesoro (2.149-152).
La scelta dei compagni appare, dunque, come una scelta
spirituale, un’espressione dell’orientamento totale che è messo alla
57

6.8 Page 58

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base della vocazione intrapresa.
Un ruolo particolarmente significativo è affidato a Luigi
Comollo, in continuità con la fase precedente. Don Bosco ricorda
come “la mia ricreazione era non di rado dal Comollo interrotta [...]
dicendomi di accompagnarlo conducevami in cappella a fare la visita
al SS. Sacramento pegli agonizzanti, recitare il rosario o l’ufficio
della Madonna in suffragio delle anime del purgatorio” (2.205-208).
Il ruolo del Comollo riassume il senso stesso di tutta la sezione
dedicata al Seminario: funzione di stimolo e di guida con l’esempio,
l’avviso, la correzione e la consolazione unito alla frequentazione di
pratiche e devozioni mirate alla crescita nel fervore e al
consolidamento dello spirito interiore:
Questo maraviglioso compagno fu la mia fortuna”. A suo tempo
sapeva avvisarmi, correggermi, consolarmi, ma con sì bel garbo e con
tanta carità, che in certo modo era contento di dargliene motivo per
gustare il piacere di essere corretto. Trattava famigliarmente con lui,
mi sentiva naturalmente portato ad imitarlo, e sebbene fossi mille
miglia da lui indietro nella virtù, tuttavia se non sono stato rovinato
dai dissipati, e se potei progredire nella mia vocazione ne sono
veramente a lui debitore (2.209-215).
Il rigore della mortificazione, la sopportazione di “qualunque
disprezzo, ingiuria senza mai dare minimo segno di risentimento”,
l’esattezza in “ogni piccolo dovere di studio e di pietà”, lo
rappresentano appunto secondo le intenzioni dell’Autore “come un
eccitamento al bene, un modello di virtù per chi vive in seminario”
(cf 2.217-224). Così che il ricordo della “intima relazione” con
“l’incomparabile compagno” si prospetta sulla linea dell’imitazione -
“mi sforzava di imitarlo in qualche cosa" (2.344-345) - anche quando
il racconto indugia su aneddoti che paiono sfuggire all’impianto
ideologico generale delle Memorie per sostare su ricordi di “ameno
trattenimento” (1.19)6 o sulla descrizione dai toni romantici e
drammatici della sua morte e della successiva terrificante ‘visita’
notturna (cf 2.418-451).
6.3.3. Lo studio
Il capitolo ottavo delle Memorie è intitolato: Studio. Il racconto,
tuttavia, accenna appena agli studi specifici del seminario, i trattati
di filosofia e di teologia secondo l’impianto scolastico del tempo. Si
sofferma invece su due aspetti: il passaggio dal gusto esclusivo per
gli autori della classicità all’apprezzamento degli autori ecclesiastici;
lo studio delle lingue, specialmente del greco. Anche questi elementi
configurano il profilo dell’ecclesiastico secondo il progetto
dell’Autore dal punto di vista della mentalità e dei criteri di giudizio
culturale.
Don Bosco aveva già preso in considerazione i problemi vissuti
6 Cf Memorie, 2.346-412.
58

6.9 Page 59

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nel campo dello studio, al tempo della scuola pubblica di Chieri.
Leggeva i classici italiani, “uno al giorno” (1.1213), e latini (cf
1.1215-1216) con superficialità. Venivano letti “per divertimento, li
guastava come se li avessi capito interamente. Soltanto più tardi, mi
accorsi che non era vero, perciocché fatto sacerdote, messomi a
spiegare quelle classiche celebrità conobbi che appena con grande
studio e con molta preparazione riusciva a penetrarmi il giusto senso
e la bellezza loro” (1.1218-1221).
All’ambiguità di questa “bellezza” va riferito quanto ci è detto
sui gusti intellettuali dell’Autore nei primi due anni di seminario:
“intorno agli studi fui dominato da un errore che avrebbe prodotto
funeste conseguenze” (2.485-486). “Giunsi a persuadermi che la
buona lingua e l’eloquenza non si potesse conciliare colla religione.
Le stesse opere dei santi Padri mi sembravano parto di ingegni assai
limitati, eccettuati i principi religiosi, che essi esponevano con forza
e chiarezza” (2.489-492).
Non si tratta più di un problema riguardante l’occupazione o la
distrazione della mente in materia di studio, come era stato vissuto
da Giovanni già nel seminario, fino “alla metà del secondo anno di
Filosofia 1836” (2.183). Qui il problema è più profondo e riguarda
l’apparente mancanza di bellezza nelle opere di teologia e
spiritualità che lo porta a dire: “non trovava gusto per le cose
ascetiche” (2.488-489). Sembrava darsi incompatibilità tra la qualità
estetica della comunicazione e i contenuti teologici. È veramente un
problema più grave e di più difficile soluzione data la presenza di un
falso dilemma mentale percepito come inconciliabilità oggettiva.
Dato il rapporto di questa situazione con la conoscenza
personale di Dio, il fatto di essersi imbattuto nell’Imitazione di Cristo
è considerato “un fatto provvidenziale” (2.486). Due sono gli aspetti
per cui l’Imitazione si afferma come un libro superiore. Primo,
nell’ingegno dell’Autore, non certamente limitato, come gli erano
sembrate essere “le stesse opere dei santi Padri” (2491). Don Bosco
afferma: “L’autore di questo libro era un uomo dotto” (2.498).
L’affermazione è sottolineata nel manoscritto. Secondo, nel
contenuto: “un solo versicolo di essa conteneva tanta dottrina e
moralità, quanta non avrei trovato nei grossi volumi dei classici
antichi” (2.500-502).
Una decisione legata alla risoluzione quarta del regolamento di
vita (cf 2.65-67), a partire da questa scoperta viene pienamente
attuata: “È a questo libro cui sono debitore di aver cessato dalla
lettura profana” (2.502-503). Risalta di nuovo la fermezza della
decisione, ma simultaneamente l’equilibrio e la libertà interiore. Di
fatti, il contatto con i classici continuerà, come abbiamo visto poco
sopra (cf 2.1219-1221); ci sarà la lettura e lo studio di Omero e altri
(cf 2.528) che Don Bosco dovrà fare per il dominio delle lingue,
soprattutto il greco, aiutato dal sacerdote Bini (cf 2.526 ss). L’Autore
presenta una lista di titoli di libri nella lettura dei quali si è
cimentato collegandosi alla capacità di memoria che “continuava a
favorirmi” (2.511) e alla libertà lasciata dai superiori (cf 2.514-515).
Datomi pertanto alla lettura del Calmet, Storia dell’Antico e Nuovo
59

6.10 Page 60

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Testamento; a quella di Giuseppe Flavio, Delle Antichità giudaiche;
Della Guerra giudaica; di poi di Monsig. Marchetti, Ragionamenti
sulla Religione; di poi Frassinous, Balmes, Zucconi, e molti altri
scrittori religiosi. Guastai pure la lettura del Fleury, Storia
Ecclesiastica, che ignorava essere libro da evitarsi. Con maggior
frutto ancora ho letto le Opere del Cavalca, del Passavanti, del
Segneri, e tutta la Storia della Chiesa dell’Herion (2.503-509).
Il significato spirituale di questa scelta direttamente
riguardante alla materia degli studi, si può trovare nell’obbedienza,
legata al discernimento, per la missione.
Nell’itinerario descritto da Don Bosco, quello che avviene per la
missione come modo specifico di realizzare la propria vocazione,
avviene ugualmente per lo studio. Senza toglierne il significato
strumentale di preparazione per la missione futura, lo studio pare
assumere una valenza attuale di conformazione alla Verità. Si tratta
di “diventare sapiente” (1.146). Il coinvolgimento personale nel
problema appena accennato dimostra che il rapporto alla Verità non
è superficiale o ridotto a nozionismo ma è una zona di passaggio
attuale della vocazione e quindi della salvezza.
6.3.4. La vocazione
Nella riflessione di Don Bosco sulla preparazione per le
ordinazioni ritorna la questione delle virtù. Sei anni prima, questo
era stato uno dei problemi che avevano reso incerto il suo
discernimento (cf 1.1238-1239). Ora, a proposito dell’ammissione al
suddiaconato, l’Autore afferma: “Ora che conosco le virtù che si
ricercano per quell’importantissimo passo, resto convinto che io non
era abbastanza preparato” (2.553-555).
Giovanni fa una confessione generale prima del suddiaconato,
legata da una parte alla conversione personale, e dall’altra al
discernimento e consiglio sulla vocazione. “Ho fatto la confessione
generale affinché il confessore potesse avere un’idea chiara di mia
coscienza e darmi l’opportuno consiglio. Desiderava di compiere i
miei studi, ma tremava al pensiero di legarmi per tutta la vita, perciò
non volli prendere definitiva risoluzione se non dopo avere avuto il
pieno consentimento del confessore” (2.560-562). Si tratta di una
“definitiva risoluzione” (2.561-562). “Tremava al pensiero di legarmi
per tutta la vita” (2.560-561).
Riposando sulla parola del Cafasso (cf 2.557) e “avuto il pieno
consentimento del confessore” (2.562), l’Autore segna un passaggio
nella sua vita spirituale, come ha fatto in altri momenti: “D’allora in
poi mi sono dato il massimo impegno di mettere in pratica il consiglio
del teologo Borelli; colla ritiratezza e colla frequente comunione si
conserva e si perfeziona la vocazione” (2.563-565). Questo consiglio
viene praticato subito nel giorno della prima messa “in Torino, senza
rumore” (2.583) celebrata “nella Chiesa di S. Francesco d’Assisi
dove era capo di conferenza D. Cafasso” (2.580-581). Quello è stato
“il più bel giorno della mia vita” (2.583-584).
60

7 Pages 61-70

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7.1 Page 61

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Segue una specie di viaggio nel tempo, fino alle origini: Chiesa
di S. Francesco d’Assisi, Consolata, Chieri, Becchi (cf 2.579-604).
Viene introdotto un elemento nuovo nel racconto delle Memorie. È la
prima grande dichiarazione di una lettura della propria vita
interpretata alla luce di un disegno di Dio espresso metaforicamente
nel sogno.
Possiamo legare questa
prima grande retrospettiva
all’esperienza dei “dieci giorni di spirituali esercizi fatti nella casa
della missione” (2.557-558) e alla confessione generale (cf 2.558). In
questi giorni confluiscono una viva memoria del passato, una intensa
responsabilità del legame “per tutta la vita” (2.561) e una
emozionata coscienza del opera di Dio nel presente: “quando fui
vicino a casa e mirai il luogo del sogno fatto all’età di circa nove anni
non potei frenare le lacrime e dire: Quanto mai sono meravigliosi i
disegni della Divina Provvidenza! Dio ha veramente tolto dalla terra
un povero fanciullo per collocarlo coi primari del suo popolo” (2.600-
604).
61

7.2 Page 62

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7. Il Convitto. Coscienza della missione,
inizio e stabilizzazione dell’Oratorio
Consideriamo come estremi di questa fase l’entrata nel Convitto
e la malattia del Luglio 1846.
In questa fase l’adesione alla volontà di Dio significa cercare e
seguire la missione affidata da Dio, “abbandonandomi a quello che
Dio avrebbe disposto di me” (3.427-428), lottando contro tutte le
difficoltà e resistendo a tutte le tentazioni dettate da logiche
puramente umane. Questo abbandono fiducioso, obbediente e
coraggioso può essere considerato il topic interpretativo della
sezione.
Innanzitutto la narrazione rivela come questa sia la fase della
coscienza della missione a livello esperienziale. I due grandi moventi
che guidano la vita di Don Bosco (vocazione sacerdotale e missione)
trovano nella strategia narrativa di questa fase una sintesi superiore,
attraverso il progresso nello studio e nell’obbedienza. Il processo di
identificazione e di conformazione realizzato in Don Bosco come
ricerca, ora progredisce come abbandono alla volontà di Dio.
Un secondo aspetto della vita spirituale di Don Bosco, che ci
sembra di poter evidenziare nella lettura delle Memorie in
riferimento a questo periodo, è la fortezza. Lo vedremo a proposito
della missione. Nel confronto con le autorità, nelle difficoltà, nelle
accuse e nelle varie prove fino alla solitudine l’Autore si rafforza
nella percezione della “via che la divina Provvidenza” gli ha tracciato
e decide: “non posso più allontanarmi” da essa (cf 3.416-417).
7.1. Lo studio e l’azione pastorale
La funzione del Convitto ecclesiastico nella formazione
dell’Autore viene caratterizzata a livello testuale soprattutto con
l’esaltazione della sua funzione pastorale: “qui si impara ad essere
preti” (2.708). L’attività dello studio viene direttamente finalizzata
all’azione pastorale, come “complemento dello studio teologico” del
seminario, limitato “alla dommatica e alla speculativa” (2.705-707).
Si tratta di “imparare la vita pratica del sacro ministero” (2.715-
716). Vengono indicati gli strumenti per raggiungere tale meta:
“meditazione, lettura, due conferenze al giorno, lezioni di
predicazione, vita ritirata, ogni comodità di studiare, leggere buoni
autori” (2.708-710). Studio, lettura spirituale, meditazione e
missione formano una profonda unità. Continua a realizzarsi così, in
una dimensione più vasta, una delle esigenze del sogno, legata
all’obbedienza e sempre più in confluenza con essa, che porta a
quella “sapienza” pastorale richiesta per la missione a cui l’Autore si
sente chiamato.
In questa prospettiva l’imparare a essere prete non si riduce
all’aspetto intellettuale. Il modello evidenziato è prevalentemente
esistenziale, un dono della Provvidenza che fa appello alla
62

7.3 Page 63

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responsabilità personale, incarnato nei superiori del Convitto:
“Questi [il teologo Luigi Guala, don Giuseppe Caffasso e il teologo
Golzio Felice] erano i tre modelli che la Divina Provvidenza mi
porgeva, e dipendeva solamente da me seguire le traccie, la dottrina,
le virtù” (2.741-742).
Come aveva fatto con altri maestri e compagni, nella sua tecnica
narrativa Don Bosco affida a queste figure ruoli attoriali che mettono
in luce ulteriori aspetti caratteristici del modello pastorale
propugnato dalle Memorie. Del teologo Guala si sottolinea il
disinteresse, la scienza, la prudenza, il coraggio e, soprattutto, la
capacità di mettere al centro di ogni opinione “la carità di N.S.G.C.”
al punto di riuscire ad avvicinare i due partiti in lotta tra
probabilismo e probabiliorismo (cf 2.713-726). Il teologo Golzio
rappresenta, nonostante la “sua vita modesta [che] fece poco
rumore”, il lavoro indefesso, l’umiltà, la scienza, che ne facevano
l’appoggio “o meglio un braccio forte” dei suoi superiori (cf 2.735-
739). Di don Cafasso vengono messe in luce soprattutto le virtù
pastorali, a completamento dei tratti presentati in occasione del
primo contatto (cf 1.482-518):
Colla sua virtù che resisteva a tutte prove, colla sua calma prodigiosa,
colla sua accortezza, prudenza poté togliere quell’acrimonia che in
alcuni ancora rimaneva dei probabilioristi verso ai liguoristi (2.730-
733).
Tutti e tre sono simbolo vivente di uno zelo pastorale
ardentissimo e operativo:
Le carceri, gli ospedali, i pulpiti, gli istituti di beneficenza, gli
ammalati a domicilio; le città, i paesi e possiamo dire i palazzi dei
grandi e i tuguri dei poveri provarono i salutari effetti dello zelo di
questi tre luminari del Clero Torinese (2737-740).
Il periodo del Convitto è rappresentato come l’ambiente adatto
per l’integrazione armonica degli elementi più profondi della
spiritualità e della missione, il luogo idoneo perché l’Oratorio
potesse avere il suo “principio” (2.766).
7.2. La volontà di Dio
7.2.1. Discernimento: i voleri del Cielo
In questa fase c’è una intensificazione dell’utilizzo del termine
Provvidenza o del suo contenuto semantico, corrispondente
probabilmente ad un reale passaggio spirituale: “voglio mettere
niente del mio volere” (2.951). Appare due volte l’espressione
volontà di Dio (cf 2.940; 2.951) e più volte il concetto di divina
Provvidenza che offre modelli di vita (cf 2.741), prepara cose nuove
63

7.4 Page 64

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(cf 2.922), assicura i voleri del cielo (cf 2.959), fa delle scelte (cf
2.1079), stabilisce dei decreti (cf 3.145), “si serve di spregevoli
strumenti per compiere i suoi sublimi disegni” (cf 3.323-324), ha
aiutato e aiuterà (cf 3.391 e 3.407), traccia una via: “non posso
allontanarmi dalla via che la divina Provvidenza mi ha tracciato” (cf
3.416-417), mantiene la dinamica tra rivelazione e disegno ancora da
svelare: “a me poi sembrava essere veramente il sito dove aveva
sognato scritto: Haec est domus mea, inde gloria mea, sebbene
fossero diverse le disposizioni del cielo” (cf 3.542-545).
Nella fase presente il racconto delinea la stabilizzazione
nell’Autore Modello dell’abbandono alla volontà di Dio, non più
soltanto per quanto riguarda la vocazione specifica, ma in
riferimento alla missione specifica.
Il tema della volontà di Dio abbraccia due ambiti: il versante
antropologico, per cui la persona si colloca con umiltà in
atteggiamento di discernimento e di adesione a quella volontà, a
partire da una fondamentale confidenza (cf 1.82), e il versante
teologico, per cui Dio “guida gli avvenimenti” (cf 1.17). Il rapporto
tra i due è un rapporto di libertà.
Come per tutti gli altri aspetti della vita spirituale, il passaggio
non è delineato in forma immediata, né semplice, né evidente: segno
che l’Autore non sta tracciando un quadro idealizzato o attuando
un’operazione di tipo puramente didascalico. Egli sta appunto
ripresentando nel racconto il suo interiore cammino di
discernimento/docilità nella concretezza del fatto storico. La
difficoltà parve consistere proprio nelle necessità di mediazione
umana e simultaneamente, sotto un certo aspetto, nel suo possibile
superamento perché appunto di mediazione si trattava e non di
manifestazione finale.
Anche (soprattutto) qui entra in gioco don Giuseppe Cafasso, la
guida spirituale per eccellenza, messa in scena praticamente in tutte
le fasi del cammino spirituale del protagonista, con ampi squarci
narrativi o anche solo per accenni, tutti, comunque, finalizzati ad
evidenziare lo stesso ruolo attoriale e la stessa convinzione di fondo:
la necessità di una guida, di un “fedele amico dell’anima”, al quale
affidarsi nella trasparenza e nella docilità per un’azione di
discernimento spirituale che permetta l’obbedienza assoluta ai
disegni della Provvidenza.
7.2.2. Il Cafasso direttore spirituale
Alla settimana dell’ordinazione Don Bosco riporta la percezione
di un ampio collegamento tra gli avvenimenti più significativi della
propria vita con quella meta finalmente raggiunta: ci appare come
una percezione resa possibile solo a partire della quotidiana
meditazione su se stesso e sul suo contesto esistenziale.
Qui si innesta l’avvio della nuova fase, nella necessità della
scelta di un’occupazione come sacerdote:
64

7.5 Page 65

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Sul finire di quelle vacanze, mi erano offerti tre impieghi, di cui
doveva scegliere uno: L’uffizio di Maestro in casa di un signore
genovese collo stipendio di mille franchi annui; di cappellano di
Murialdo, dove i buoni popolani, pel vivo desiderio di avermi
raddoppiavano lo stipendio dei cappellani antecedenti; di Vice curato
in mia patria (2.692-696).
Per il primo e per il secondo impiego vengono riferiti (forse
anche un po’ amplificati) gli abbondanti stipendi, mentre per il terzo
i vantaggi erano altrettanto ovvii. Si riprende a livello simbolico il
contrasto tra la ricerca di vantaggi umani e il distacco da tutto per
un’adesione pura alla volontà di Dio. Erano in gioco “le profferte di
buoni stipendii, le insistenze dei parenti e degli amici”, oltre che il
suo “buon volere di lavorare”. Don Bosco cerca il consiglio di don
Cafasso, il quale “ascoltò tutto” e “senza esitare un istante” gli
propose: “Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione.
Rinunciate per ora ad ogni proposta e venite al Convitto”. Don Bosco
dichiara di aver seguito “con piacere il savio consiglio” (2.699-703).
Il rapporto con il Cafasso ora si evolve. Era stato per “parecchi
anni” una “guida nelle cose spirituali e temporali”, diventa
finalmente “direttore spirituale” (cioè confessore ordinario con
funzione di accompagnatore spirituale). L’Autore rafforza
l’importanza del ruolo attoriale puntualizzando:
se ho fatto qualche cosa di bene lo debbo a questo ecclesiastico nelle
cui mani riposi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione della
mia vita (2.743-745).
Si concretizza in questo modo il tema dell’obbedienza alla
volontà di Dio attraverso la mediazione di una guida, che per ora il
testo annuncia in preparazione degli ulteriori sviluppi.
Il fatto più interessante qui, in riferimento alla direzione
spirituale del Cafasso, è il suo marcato orientamento pastorale. La
narrazione pone un legame strettissimo, immediato, tra la direzione
spirituale del Cafasso e l’inserimento in un ministero pastorale che
crea le condizioni interiori e delinea i quadri mentali che permettono
di delimitare la scelta di campo e definire le ipotesi di intervento che
in brevissimo tempo porteranno al primo abbozzo di Oratorio. A
livello testuale il collegamento è marcato dall’inclusione
dell’esperienza nelle carceri - che porta alla presa di coscienza del
problema pastorale ed educativo sottostante e alla conseguente
domanda sul modo di intervenire - nella cornice del riferimento al
consiglio e alla guida di don Cafasso:
Per prima cosa egli prese a condurmi nelle carceri, dove imparai tosto
a conoscere quanto sia grande la malizia e la miseria degli uomini.
vedere turbe di giovanetti, sull’età dai 12 ai 18 anni; tutti sani,
robusti, d’ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli
insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece
inorridire [...]
65

7.6 Page 66

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Fu in quelle occasioni che mi accorsi come parecchi erano ricondotti
in quel sito perché abbandonati a se stessi. Chi sa, diceva tra me, se
questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di
loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa
che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il
numero di coloro, che ritornano in carcere? Comunicai questo
pensiero a D. Caffasso, e col suo consiglio e co’suoi lumi mi sono
messo a studiar modo di effettuarlo abbandonandone il frutto alla
grazia del Signore senza cui sono vani tutti gli sforzi degli uomini
(2.746-764).
Tra don Cafasso e l’Autore è stabilito un rapporto di discepolato
finalizzato alla missione, a livello di “studio”, di discernimento, di
“illuminazione” e di esperienza pastorale. Diventano sempre più
prossimi l’atteggiamento spirituale di Don Bosco di obbedienza alla
volontà di Dio, il discernimento di questa volontà attraverso la guida
spirituale per una missione concreta e l’esperienza sul campo che
permette di identificarla.
Per far comprendere ai lettori in qual senso egli intenda
l’adesione interiore e totalizzante alla volontà di Dio, l’Autore
rappresenta come paradigmatico il dialogo tra discepolo e guida al
termine del Convitto, quando, “sul finire del triennio di morale”, si
rendeva necessario scegliere in quale “parte determinata del Sacro
Ministero” sarebbe stato bene applicarsi (2.924-925). La scena viene
introdotta con una frase di passaggio interessante per cogliere
l’oggetto centrale del discernimento: “Intanto cose nuove, mutazioni,
ed anche tribolazioni andava la divina Provvidenza preparando”
(2.921-922).
Don Cafasso, prima ancora di enunciare i “tre impieghi” (2.934)
possibili, prospetta la copiosità della messe (la vastità dell’impresa
pastorale) e domanda: “A quale cosa vi sentite specialmente
inclinato?” (2.932). E poi sonda il parere e la propensione di Don
Bosco, in un esercizio di discernimento degli spiriti di impronta
chiaramente ignaziana: “quale [impiego] scegliereste?” (2.936); “non
vi sentite propensione ad una cosa più che ad un’altra?” (2.938). La
sequenza delle risposte a queste domande è insistentemente e
significativamente unica: “A quella che Ella si compiacerà di
indicarmi” (2.933); “Quello che Ella giudicherà” (2.937); “La mia
propensione è di occuparmi per la gioventù. Ella poi faccia di me
quel che vuole; io conosco la volontà del Signore nel suo consiglio”
(2.939-940). All’insistenza del Cafasso, qui rappresentato come
modello di equilibrio tra attenzione alla persona concreta e alle sue
attitudini, discernimento dei segni di volontà divina e orientamento
direttivo pratico (“In questo momento che cosa occupa il vostro
cuore, che si ravvolge in mente vostra”, 2.941-942), l’Autore Modello
risponde rappresentando le propensioni interiori, che l’esperienza
pastorale di quei tre anni aveva confermato come segno di una
chiamata specifica: “In questo momento mi pare di trovare in mezzo
ad una moltitudine di fanciulli che mi dimandano aiuto” (2.943-944).
La difficoltà nell’identificare la linea di condotta che renda
66

7.7 Page 67

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possibile una concreta attuazione dei disegni della Provvidenza,
richiede ulteriore tempo di riflessione. Il dialogo viene interrotto con
l’invito a fare qualche settimana di vacanza. Segue un silenzio
reciproco di “qualche [altra] settimana”, che esprime in entrambi la
volontà di totale distacco da umani progetti insieme ad un
atteggiamento di disponibilità assoluta. Il Cafasso se ne dimostra
meravigliato: “Perché non dimandate quale sia la vostra
destinazione? mi disse un giorno” (2.949). La risposta dell’Autore
conferma la solidità dell’atteggiamento obbediente: “Perché io voglio
riconoscere la volontà di Dio nella sua deliberazione e voglio metter
niente del mio volere” (2.951-952).
Le soluzione scelta ha il carattere della provvisorietà: “Andate
col T. Borrelli; là sarete direttore del piccolo Ospedale di S.
Filomena; lavorerete anche nell’Opera del Rifugio. Intanto Dio vi
metterà tra mano quanto dovrete fare per la gioventù” (2.953-955).
Si presenta anche come immediatamente incompatibile con le
inclinazioni di Don Bosco, ma di fatto la più consona con i divini
progetti:
A prima vista sembrava che tale consiglio contrariasse le mie
inclinazioni, perciocché la direzione di un Ospedale; il predicare e
confessare in un istituto di oltre a quattrocento giovanette mi
avrebbero tolto il tempo ad ogni altra occupazione. Pure erano questi
i voleri del cielo, come ne fui in appresso assicurato (2.956-960).
L’aggancio narrativo, infatti, attira l’attenzione del lettore sia sul
tipo di pastore oratoriano progressivamente delineato, sia sul
discernimento del modo pratico, del metodo e dei contenuti
dell’azione pastorale oratoriana. Infatti è la figura del teologo Borel,
“modello degno di ammirazione e di essere imitato” a catalizzare
l’attenzione e a creare il passaggio alla nuova fase operativa:
Ogni volta che poteva trattenermi con lui aveva sempre lezioni di zelo
sacerdotale, sempre buoni consigli, eccitamenti al bene. Nei tre anni
passati al Convitto fui dal medesimo più volte invitato a servire nelle
sacre funzioni, a confessare, a predicare seco lui. Di modo che il
campo del mio lavoro era già conosciuto e in certo modo famigliare.
Ci siamo parlato a lungo più volte intorno alle regole da seguirsi per
aiutarci a vicenda nel frequentar le carceri, e compiere i doveri a noi
affidati, e nel tempo stesso assistere i giovanetti, la cui moralità ed
abbandono richiedeva sempre più l’attenzione dei sacerdoti (2.963-
971).
7.2.3. Un sogno
L’espressione del dialogo tra l’Autore e il Cafasso: “in questo
momento mi pare di trovare in mezzo ad una moltitudine di fanciulli
che mi dimandano aiuto” (2.943-944), riporta all’ambiente interiore -
psicologico e spirituale - del “nuovo sogno, che pare un’appendice di
quello fatto ai Becchi quando aveva nove anni” (2.982-983). Il tempo
67

7.8 Page 68

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del sogno, è ravvicinato a quello del dialogo. Il sogno viene collocato
“la sera precedente” (2.981) “la seconda domenica di ottobre di
quell’anno (1844)”, giorno in cui doveva comunicare ai “giovanetti
che l’Oratorio sarebbe stato trasferito a Valdocco” (2.978-979). Il
“trasferimento dell’Oratorio presso al Rifugio” (2.1024) avviene “la
terza domenica di quell’ottobre” (2.1030-1031).
Il contenuto di queste mutazioni e il loro significato resta a
livello narrativo incomprensibile per l’Autore Modello. Lo si vede da
almeno due elementi: primo, l’opposizione tra quello che “a prima
vista sembrava” e “i voleri del cielo”; secondo, la conclusione sul
sogno: “allora ne compresi poco il significato perché poca fede ci
prestava; ma capii le cose di mano in mano avevano il loro effetto”
(2.1020-1021). Non è indifferente la tensione che viene creata con la
conclusione del racconto: “Tu comprenderai ogni cosa quando cogli
occhi tuoi materiali vedrai di fatto quanto ora vedi cogli occhi della
mente. Ma parendomi di essere svegliato, dissi: Io vedo chiaro e
vedo cogli occhi materiali; so dove vado e quello che faccio” (2.1014-
1017).
Questi elementi di tensione e quanto abbiamo visto a proposito
della prima grande lettura retrospettiva ci permettono di trarre
qualche conclusione. Alla guida delle persone (don Cafasso per
primo), alle lezioni della vita, e alla propensione personale, si
affianca un nuovo elemento per il discernimento della volontà di Dio:
l’incipiente coscienza, simbolizzata dal sogno, di un progetto
provvidenziale e la progressiva percezione di una forma di
conduzione dall’Alto attraverso intuizioni, “visioni” e premonizioni (il
“sogno”) come via di rivelazione che l’opera che si sta avviando è
voluta da Dio. Il racconto ci mostra come Don Bosco cambierà nella
fede prestata al sogno e quindi nella comprensione del suo
significato, ossia il suo legame alla vita. L’interpretazione è
progressiva secondo il dettato delle Memorie, e richiede
l’esperienza, oltre che la logica interna al sogno stesso. “Più tardi, [il
sogno appena raccontato] congiuntamente ad altro sogno, mi servì di
programma nelle mie deliberazioni” (2.1021-1023).
7.3. I tempi della fortezza
7.3.1. Lettura teologica degli avvenimenti
Tutte le Memorie rivelano una lettura teologica degli eventi.
Nella fase che ora analizziamo tale lettura è continuamente
rimarcata. A proposito della decisione presa dal Cafasso di mandarlo
a lavorare con il teologo Borel, aveva osservato: “a prima vista
sembrava che quel consiglio contrariasse le mie inclinazioni, […]
pure erano questi i voleri del cielo, come ne fui in appresso
assicurato” (2.956-960). Di fatti l’Oratorio viene trasferito presso il
Rifugio (cf 2.1024-1056).
68

7.9 Page 69

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Questa lettura è appoggiata, a livello narrativo, dalla conferma e
dalla benedizione dell’autorità ecclesiastica:
Intanto si andò a trattare coll’Arcivescovo Fransoni, il quale capì
l’importanza del nostro progetto. Andate, ci disse, fate quanto
giudicate bene per le anime, io vi dò tutte le facoltà che vi possono
occorrere, parlate colla Marchesa Barolo; forse essa potrà
somministrarvi qualche locale opportuno [...]. È necessario un luogo a
parte adattato per loro. Andate dunque. Io benedico voi e il vostro
progetto. In quel che potrò giovarvi venite pure e farò sempre quanto
potrò! (2.1057-1070).
Sarà proprio il contatto con la Barolo, suggerito
dall’Arcivescovo, a rendere reperibili “due spaziose camere” nei
locali dell’incompiuto Ospedaletto, dove iniziare ufficialmente, a
livello di strutture, l’Oratorio di san Francesco di Sales: “Là era il
sito scelto dalla Divina Provvidenza per la prima chiesa dell’Oratorio.
Esso cominciò a chiamarsi di S. Francesco di Sales...” (2.1079-1080).
La descrizione della benedizione della cappella chiude il secondo
quaderno delle Memorie con la prima significativa definizione
dell’Oratorio:
Pertanto l’anno 1844 il giorno 8 dicembre, sacro all’Immacolato
Concepimento di Maria, coll’autorizzazione dell’Arcivescovo, con un
tempo freddissimo, in mezzo ad alta neve, che tuttora cadeva fitta dal
cielo, fu benedetta la sospirata cappella, si celebrò la santa messa,
parecchi giovanetti fecero la loro confessione e comunione, ed io
compii quella sacra funzione con un tributo di lagrime di
consolazione; perché vedeva in modo, che parevami stabile, l’Opera
dell’Oratorio collo scopo di trattenere la gioventù più abbandonata e
pericolante dopo avere adempiuti i doveri religiosi in chiesa (2.1092-
1099).
“Nella cappella annessa all’edifizio dell’Ospedaletto di S.
Filomena l’Oratorio prendeva ottimo avviamento” (3.6-7). Passammo
colà sette mesi e noi ci pensavamo di aver trovato il paradiso
terrestre, quando dovemmo abbandonare l’amato asilo per
andarcene a cercare una altro” (3.13-15). Il discorso messo sulla
bocca del teologo Borel nell’occasione del trasloco a S. Martino dei
Molazzi (cf 3.33-3.59) esprime una lettura degli avvenimenti in
chiave teologica dalla quale si traggono motivi di fiducia e di
abbandono. Il riferimento a Dio segue tre vettori chiave. Il primo è la
fiducia nelle decisioni della Provvidenza, per cui Dio dispone (3.45),
cura, benedice, aiuta, provvede, pensa a quello che è conveniente
“per promuovere la sua gloria e pel bene delle nostre anime” (3.52-
54). Il secondo consiste nell’atteggiamento di confidenza che nasce
dalla lettura di fede degli eventi: “Adunque passeremo qui molto
tempo? Non occupiamoci di questo pensiero; gettiamo ogni nostra
sollecitudine tra le mani del Signore, egli avrà cura di noi” (3.50-52).
Il terzo è costituito dalla volontà di corrispondenza allo “scopo
dell’Oratorio” attraverso un camminare “di virtù in virtù finché
69

7.10 Page 70

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giungeremo alla patria beata dove l’infinita misericordia di N.S.G.C.
darà il premio che ognuno colle sue buone opere si sarà meritato”
(3.57-59), nella fiducia che proviene dalla certezza che “le grazie del
Signore formano una specie di catena in guisa che un anello è
collegato coll’altro; così approfittando noi delle prime grazie siamo
sicuri che Dio ne concederà delle maggiori” (3.54-56).
La differenza, a livello testuale, tra Don Bosco e il Borel si
troverà appunto nella perseveranza incondizionata su questa
prospettiva.
7.3.2. Il vero problema
Certamente le “difficoltà” nella trama narrativa sono tutte
intrecciate, come si vede nei confronti con i parroci (cf 3.166-211),
con il marchese Michele Cavour (cf 3. 300-347), con il Borel (cf
3.360-372) e con la marchesa Barolo (cf 3.374-426). Questi quattro
dialoghi focalizzano le grandi difficoltà: la comunione pastorale
ecclesiale, il contesto socio-politico, il luogo per la missione, le
risorse personali cioè la salute fisica e mentale e finalmente la prova
dell’abbandono. Il problema delle risorse economiche è posto sulle
labbra degli interlocutori, non su quelle di Don Bosco. Il vero
problema che il testo fa trasparire non è null’altro, in fondo, che la
necessità di stabilizzazione dell’Oratorio collegata con la mancanza
di un luogo per l’Eucaristia.
In quel preciso contesto storico e sociale, dato il numero e la
condizione dei giovani, date le attività a cui si doveva applicare
l’Oratorio, sembra che lo stabilirsi in uno spazio fisico concreto
faccia parte essenziale dei voleri del cielo. È un bisogno subordinato
alla necessità assoluta di corrispondere allo “scopo dell’Oratorio”,
espresso nel discorso del Borel. In altri termini, la missione,
consistente nella proposta di santità - “cammineremo di virtù in
virtù” (3.57) - e la disponibilità di un ambiente, che permetta alla
missione la sua attualizzazione concreta, si presentano intimamente
legate.
Il movimento che percorre tutta questa fase è appunto quello
che tende alla ricerca del luogo “stabile” per “l’attuazione del
progetto in favore dei giovanetti vaganti” (2.771): “non poteva
prendermi diretta cura di loro per mancanza di locale” (2.769-770).
Questa è la prima delle “difficoltà” (3.4) indicate da Don Bosco
in riferimento alla “stazione” (2.990) di S. Martino dei Molassi:
Le pratiche religiose qui si compivano come al Rifugio. Ma non si
poteva celebrar messa, né dare la benedizione alla sera, quindi non
poteva avere luogo la comunione, che è l’elemento fondamentale della
nostra istituzione. La stessa ricreazione era non poco disturbata,
incagliata a motivo che i ragazzi dovevano trattenersi nella via e nella
piazzetta situata avanti la chiesa per dove passavano spesso gente a
piedi, carri, cavalli e carrettoni (3.62-67).
70

8 Pages 71-80

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8.1 Page 71

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7.3.3. Che debbo fare? Dove andare?
Il periodo di questa fase di ricerca viene protratto dall’ottobre
1844 (cf 2.921) al principio del luglio 1846 (cf 3.913). Per l’Autore
sono due anni di intensissima attività, fino alla malattia. Seguiamo
l’ordine cronologico stabilito dal racconto.
L’apparente mancanza assoluta di condizioni di possibilità per la
missione si esprime in forma di domanda o di affermazione diretta.
La prima è quella davanti al teologo Borel con cui Don Bosco ha
“parlato a lungo e più volte” (2.968): “Ma come fare? Dove
raccogliere que’ giovanetti?” (2.972). La soluzione provvisoria della
camera destinata per Don Bosco (cf 9.73) non lo acquieta:
“l’incertezza del luogo, dei mezzi, delle persone mi lasciavano
veramente sopra pensiero. La sera precedente andai a letto col
cuore inquieto” (2.980-981).
La prima domenica ci si rese conto che non era “più possibile
andar avanti” e come fosse necessario “provvedere qualche locale
più opportuno. Tuttavia si passarono sei giorni festivi in quello
stretto locale” (2.1052-1055). Segue il confronto con l’Arcivescovo e
i contatti colla Barolo che aprono una prima via di soluzione: due
camere per la ricreazione dei preti del Rifugio vengono ridotte a
cappella, “la prima chiesa dell’Oratorio” (2.1079), benedetta l’8
dicembre 1844 (cf 2.1057-1080; 2.1092). Tuttavia quell’Oratorio che
pareva “stabile” (2.1098), in “ottimo avviamento” (3.7), quasi un
“paradiso terrestre” (3.14), un luogo di “vera pace” (3.44), durato
sette mesi (3.13), doveva essere abbandonato (cf 3.14)1. Le istanze al
Municipio, sostenute dalla raccomandazione dell’Arcivescovo,
aprono un’altra provvisoria soluzione: la chiesa di S. Martino nella
quale ci si trasferisce “a guisa di popolare emigrazione” (3.27).
Al fatto che in S. Martino “non si poteva celebrar messa” (2.62-
63) e alla ricreazione disturbata e incagliata (cf 3.65), si aggiunsero i
lamenti di mugnai, garzoni e commessi e le voci “che quelle
radunanze di giovanetti erano pericolose” (3.73). Tutto questo
confluì nella protesta formale del segretario dei Molini. Dopo “due
mesi di dimora a S. Martino noi dovemmo con amaro rincrescimento
trasferirci in altra nuova località” (3.102-103). La chiesa del cimitero
di S. Pietro in Vincoli servì per una sola domenica, ma il testo
narrativo ne amplifica la risonanza interpretando la morte
improvvisa del cappellano e della domestica come una punizione del
Cielo contro chi si oppone ai progetti della Provvidenza (cf 3.120-
134).
Quasi come un ritornello si ripete la domanda “che fare?”
(3.139). “Io mi trovava un mucchio di attrezzi di chiesa e di
ricreazione; una turba di fanciulli seguiva ovunque i miei passi,
mentre io non aveva un palmo di terreno dove poterci raccogliere”
(3.139-142). Da notare che a livello testuale la domanda non cerca
una risposta di soluzione immediata. Appare come un’invocazione di
illuminazione rivolta a Dio e corrisponde a questo contenuto: “Dimmi
1 Vedi anche Memorie, 3.18; 3.21.
71

8.2 Page 72

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che cosa vuoi che io faccia adesso?” (cf 3.461-464).
A questo punto Don Bosco rivela nello scritto e per la prima
volta, la capacità di nascondere le proprie sofferenze e l’arte di
saper prospettare le gioiose meraviglie preparate dalla Provvidenza:
“Celando tuttavia le mie pene mi mostrava con tutti di buon umore e
tutti rallegrava raccontando mille maraviglie intorno al futuro
Oratorio che per allora esisteva soltanto nella mente mia e nei
decreti del Signore” (3.143-145). Segue l’elenco di vari altri luoghi
(cf 3.147-148) nei quali, domenica dopo domenica, Don Bosco andò
conducendo i “fanciulli” dell’Oratorio (Sassi, Madonna del Pilone,
Madonna di Campagna, Monte dei Cappuccini, Superga), fino “al
mese di novembre (1845), stagione non più opportuna a fare
passeggiate o camminate fuori città” (3.154-155), quando vengono
“prese a pigione tre camere della casa di D. Moretta”, per “quattro
mesi” (3.156-158).
Ma anche qui, a seguito delle proteste degli altri inquilini, “con
grave rincrescimento e con non leggero disturbo delle nostre
radunanze nel marzo del 1846 dovemmo abbandonare Casa Moretta
e prendere in affitto un prato dai fratelli Filippi” (3.220-221). Di
nuovo riemerge la domanda centrale: “Ma in questo luogo [come]
mai [era possibile] praticare le cose di religione?” (3.228). “Alla bella
meglio si qui faceva il catechismo, si cantavano lodi, si cantavano i
vespri, quindi [...] un sermoncino” (3.228-237), ma non la “Santa
Messa e fare la Comunione” (3.240).
Anche se certamente non abbondavano i mezzi economici, Don
Bosco non vede in questo il problema principale dell’Oratorio.
Chiamato dal Vicario di Città, il marchese di Cavour, Don Bosco
afferma: “Non dimando mezzi pecuniarii ma soltanto un luogo dove
poterli raccogliere” (3.311-312). Alla domanda sui “mezzi per pagare
pigioni e sopperire a tante spese” (3.316), risponde “i mezzi
materiali finora non mi mancarono, essi sono nelle mani di Dio”
(3.322-323).
Il problema principale, quello del luogo idoneo, giunge al
massimo di intensità quando anche i fratelli Filippi decisero di
rescindere il contratto: “Quale non fu la mia perturbazione quando
giunsi a casa e trovai una lettera con cui i fratelli Filippi mi
licenziavano dal locale a me pigionato [...] entro a quindici giorni”
(3.349-351)2.
7.3.4. L’inutilità del progetto
Nelle righe seguenti l’Autore esprime una pericolosa situazione
critica per il futuro dell’Oratorio che possiamo esprimere in due
passaggi. Il primo consisteva nel dedurre, dalla difficoltà della
impresa, la sua inutilità; il secondo era l’abbandono da parte degli
stessi amici a motivo del sospetto insinuato da persone esterne.
Nel dialogo col marchese Cavour sono condensate tutte le
2 Cf Memorie, 3.354.
72

8.3 Page 73

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obiezioni, i timori e le riserve: “vi affaticate invano”, ravviso “tali
adunanze pericolose” (3.314-315); la vostra è una “ridicola impresa”
(3.340). Le risposte di Don Bosco fanno riferimento agli obiettivi -
“migliorare la sorte di questi poveri figli del popolo”, “diminuire il
numero dei discoli, e di quelli che vanno ad abitare le prigioni”
(3.310-313), insegnare il catechismo (3.332) -, ai “risultati ottenuti” -
“molti giovanetti totalmente abbandonati furono raccolti, liberati dai
pericoli, avviati a qualche mestiere, e le prigioni non furono più la
loro abitazione” (3.320-322) - e ai “mezzi materiali” che “finora non
mi mancarono” perché “sono nelle mai di Dio” (3.322-323).
Il secondo passaggio è tematizzato nell’affermazione secondo
cui “sparsa la voce di tante difficoltà parecchi amici mi andavano
dicendo di abbandonare l’inutile impresa, così detta da loro” (3.356-
357). Il racconto è strutturato in modo da far cogliere al lettore la
drammaticità del momento, l’isolamento di Don Bosco, la forza della
tentazione di scoraggiamento. Soprattutto quando il suo stesso
sostegno, il teologo Borel, giunge a proporre una soluzione di buon
senso: salvare qualche cosa, aspettando che Dio apra la via e
l’opportunità di fare di più (cf 3.361-364). La risposta di Don Bosco
sconcerta il Borel, ma non il lettore che dalla strategia narrativa è
stato condotto a percepire il progetto della Provvidenza e la
progressiva illuminazione interiore dell’Autore Modello:
Non occorre aspettare altra opportunità, il sito è preparato, vi è un
cortile spazioso, una casa con molti fanciulli, porticato, Chiesa, preti,
cherici, tutto ai nostri cenni.
- Ma dove sono queste cose, interruppe il T. Borrelli.
- Io non so dire dove siano, ma esistono certamente e sono per noi.
Allora il T. Borrelli dando in un copioso pianto, povero D. Bosco,
esclamò, gli è dato la volta al cervello. Mi prese per mano, mi baciò e
si allontanò con D. Pacchiotti, lasciandomi solo nella mia camera
(3.365-372).
L’intrigo narrativo cresce la drammaticità della situazione con la
diffida da parte della marchesa di Barolo (inquietata dalle “molte
cose che andavansi dicendo sul conto di D. Bosco”, 3.374), il
licenziamento dall’impiego di cappellano (“le darò tre mesi, dopo cui
lascerà ad altri la direzione del mio Ospedaletto”, 3.425-426), il
diffondersi sempre più consistente delle voci sui suoi squilibri
mentali, lo sconcerto degli amici e l’abbandono da parte dei
collaboratori:
Intanto prevaleva ognor più la voce che D. Bosco era divenuto pazzo. I
miei amici si mostravano dolenti; altri ridevano; ma tutti si tenevano
lontani da me. L’Arcivescovo lasciava fare; D. Caffasso consigliava di
temporeggiare, il T. Borrelli taceva. Così tutti i miei collaboratori mi
lasciarono solo in mezzo a circa quattrocento ragazzi (3.429-433).
La tensione narrativa raggiunge il culmine “l’ultima domenica in
73

8.4 Page 74

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cui mi era ancora permesso di tenere l’Oratorio nel prato”:
Io taceva tutto, ma tutti sapevano i miei imbarazzi e le mie spine. In
sulla sera di quel giorno rimirai la moltitudine di fanciulli, che si
trastullavano; e considerava la copiosa messe, che si andava
preparando pel sacro ministero, per cui era solo di operai, sfinito di
forze, di sanità male andata senza sapere dove avrei in avvenire
potuto radunare i miei ragazzi. Mi sentii vivamente commosso.
Riparatomi pertanto in disparte, mi posi a passeggiare da solo e forse
per la prima volta mi sentii commosso fino alle lacrime (3.454-461).
A questo punto cruciale sgorga una accorata preghiera, nella
quale le questioni principali del “luogo”, legato alla necessità di una
chiesa, e del “che fare?” vengono sintetizzate nell’invocazione: “Mio
Dio, perché non mi fate palese il luogo in cui volete che io raccolga
questi fanciulli? O fatemelo conoscere o ditemi quello che debbo
fare?” (3.461-464).
La tensione creata dal racconto rende più luminosa l’inattesa
soluzione e, insieme, conferma la soprannaturalità dell’impresa e
l’assistenza provvidente di Dio a cui la fede schiude le porte:
“Terminava quelle espressioni, quando giunge un cotale, di nome
Pancrazio Soave che balbettando mi dice: È vero che cerca un sito
per fare un laboratorio? [...]. Venga che farà un buon contratto”
(3.465-467)3. Dopo l’accordo con il Pinardi che, così come è descritto
dalle Memorie, dissolve tutte le difficoltà, risulta significativa la
reazione di Don Bosco e dei giovani:
Non cercai di più. Corsi tosto da’ miei giovani; li raccolsi intorno a me
e ad alta voce mi posi a gridare: - Coraggio, miei figli, abbiamo un
Oratorio più stabile del passato; avremo chiesa, sacristia, camere per
le scuole, sito per la ricreazione. Domenica, domenica andremo nel
novello Oratorio che è colà in casa Pinardi; e loro additava il luogo.
Quelle parole furono accolte con vivo entusiasmo. Chi faceva corse o
salti di gioia; chi stava come immobile; chi gridava con voci e sarei
per dire con urli e strilli. Ma commossi come chi prova un gran
piacere e non sa come esprimerlo, trasportati da profonda gratitudine
e per ringraziare la S. Vergine che aveva accolte ed esaudite le nostre
preghiere che in quel mattino stesso avevamo fatto alla Madonna di
Campagna, ci siamo inginocchiati per l’ultima volta in quel prato, ed
abbiamo recitato il SS. Rosario (3.518-529).
7.4. La missione
Il testo narrativo delle Memorie, ci permette anche di scoprire
quella dimensione della vita spirituale legata alla missione che Don
Bosco ricollega con il modello pastorale da lui idealizzato. Qui non
3 Cf Memorie, 3.471.
74

8.5 Page 75

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intendiamo descrivere l’attività o il metodo pastorale, ma coglierne i
tratti interiori a partire dalla percezione dell’Autore.
7.4.1. Universalità
Come abbiamo detto, “l’imparare ad essere prete”, secondo il
dettato delle Memorie, passa attraverso la pratica del ministero
sacerdotale. Nei collegamenti creati dal testo narrativo si vede come
la totalità della consegna a Dio esiga anche la totalità della dedizione
al prossimo. Si trattava di farsi “tutto a tutti” (2.714)4, manifestando
con il ministero pastorale la dimensione universale della carità. “Le
carceri, gli ospedali, i pulpiti, gli istituti di beneficenza, gli ammalati
a domicilio; le città, i paesi e possiamo dire i palazzi dei grandi ed i
tuguri dei poveri provarono i salutari effetti dello zelo di questi tre
luminari del clero torinese” (2.737-740).
Avendo evocato questa diversissima e intensissima attività,
l’Autore parla dell’importanza di D. Cafasso per la missione:
Per prima cosa egli prese a condurmi nelle carceri, dove imparai tosto
a conoscere quanto sia grande la malizia e la miseria degli uomini.
Vedere turbe di giovanetti, sull’età dei 12 ai 18 anni, tutti sani,
robusti, d’ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli
insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece
inorridire. L’obbrobrio della patria, il disordine delle famiglie,
l’infamia di se stesso erano personificati in quegli infelici. Ma quale
non fu la mia maraviglia e sorpresa quando mi accorse che molti di
loro uscivano con fermo proposito di vita migliore ed intanto erano in
breve ricondotti al luogo di punizione, da cui erano da pochi giorni
usciti.
Fu in quelle occasioni che mi accorsi come parecchi erano ricondotti
in quel sito perché abbandonati a se stessi. Chi sa, diceva tra ma, se
questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di
loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa
che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il
numero di coloro, che ritornano in carcere?” (2.746-761).
La sintonia con la compassione evangelizza del pastore porta
oltre al sentimento provocato da una realtà che fa “inorridire”
(2.750). Viene identificato un nucleo fondamentale: la necessità
assoluta di una guida per quei giovani che pur avendo un “fermo
proposito di vita migliore” (2.753), non riuscivano a mantenerlo, per
la mancanza di un appoggio più forte del male.
Si intrecciano, nella narrazione di questa fase della vita di Don
Bosco, una decisa volontà del proprio abbandono in Dio5 e una
intensa percezione di quei giovani come “abbandonati a se stessi”
(2.757). Non, certo, abbandonati da Dio, ma senza nessuna
possibilità di cogliere questa certezza. La coscienza di questa realtà
4 Cf 1Cor 9,22.
5 Il termine viene utilizzato poco dopo, in Memorie, 2.762.
75

8.6 Page 76

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appare come una scoperta - “Fu allora che mi accorsi…” (2.756) - e
corrisponde alla forma esistenziale della conoscenza nel Don Bosco
delle Memorie.
Sottolineiamo l’immediato riferimento teologico del
discernimento della situazione rilevabile nel testo. Proprio questo
riferimento teologico ispira la richiesta di consiglio al Cafasso, lo
studio sul modo di attuare il progetto di una presenza attiva e
l’atteggiamento relativo al frutto di tutto il processo (2.761-2.764).
7.4.2. “Se trovano un amico…”
La figura scelta da Don Bosco per esprimere il “prendersi cura
di loro, l’assistere e l’istruire nella religione” (2.758-759) è la figura
dell’“amico” (2.758).
La prima attuazione di questo pensiero/progetto, cioè “il
principio dell’Oratorio festivo” (2.765) viene collocato nel testo
subito dopo, con il racconto dell’incontro con Bartolomeo Garelli.
Sulla bocca di Don Bosco/Autore Modello, le prime parole mirate ad
identificarlo sono significative: “è un mio amico” (2.787). La qualifica
viene ripresentata all’interno del dialogo: “tu sarai mio amico”
(2.818). Si conclude con la conferma ancora esistenziale della
intuizione-missione iniziale:
A questo primo allievo se ne aggiunsero alcuni altri e nel corso di
quell’inverno mi limitai ad alcuni adulti che avevano bisogno di
catechismo speciale e soprattutto per quelli che uscivano dalle
carceri.
Fu allora che io toccai con mano, che i giovanetti usciti dal luogo di
punizione, se trovano una mano benevola, che di loro si prenda cura,
li assista nei giorni festivi, studi di collocarli a lavorare presso di
qualche onesto padrone, e andandoli qualche volta a visitare lungo la
settimana, questi giovanetti si davano ad una vita onorata,
dimenticavano il passato, divenivano buoni cristiani ed onesti
cittadini. Questo è il primordio del nostro Oratorio, che benedetto dal
Signore prese quell’incremento, che certamente non avrei potuto
allora immaginare (2.831-841).
La conferma dell’“essere amico”, come segno dell’azione di Dio
per la cura spirituale e la vittoria sul male, sarà data con significativi
riassunti che l’Autore colloca all’interno della narrazione descrittiva
della vita dell’Oratorio (cf 2.899; 2.905). Qui non vogliamo
esplicitare il valore dell’amicizia per la vita umana, ma la
realizzazione spirituale di Don Bosco come colui che si presenta
come amico, e le virtù che questo itinerario esige dalla persona.
Risalta il collegamento al sogno (cf 1.135) al alle esperienze di
amicizia, soprattutto quella con il Comollo.
76

8.7 Page 77

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7.4.3. Consolidazione dell’Oratorio ed Eucaristia
Don Bosco prosegue l’arco narrativo effettuando un nuovo
passaggio. Dopo la “maraviglia e sorpresa” (2.752) del “primordio”
(2.740), si è “adoperato [per] consolidare il piccolo Oratorio” (2.843-
844). In quel contesto, la ricerca di una forma stabile, con un luogo
concreto soprattutto per la celebrazione della Messa e un ambiente
per altre attività, non appare come qualcosa di marginale, ma come
uno degli elementi essenziali per la missione. Il tema della stabilità
viene così introdotto come un tema guida in questa sezione.
Vediamo come il testo narrativo colleghi la stabilità dell’Oratorio
immediatamente col luogo in cui è possibile la celebrazione
dell’Eucaristia. Così appare nel racconto del sogno dell’ottobre 1844,
in cui la scritta “a caratteri cubitali” posta sulla fascia all’interno
della chiesa “Hic domus mea, inde gloria mea” e l’invito a cantar
messa stanno ad indicare il centro della vita dell’Oratorio e non
soltanto la sua collocazione geografica (cf 2.1007-1011); così risulta
nella narrazione dell’otto dicembre di quello stesso anno, quando nel
Rifugio venne “benedetta la sospirata cappella, si celebrò la santa
messa, parecchi giovanetti fecero la loro confessione e comunione”
(2.1094-1096), dove si aggiunge chiaramente:
Io compii quella sacra funzione con un tributo di lacrime di
consolazione; perché vedeva in modo, che parevami stabile, l’Opera
dell’Oratorio collo scopo di trattenere la gioventù più abbandonata e
pericolante dopo avere adempiuti i doveri religiosi in chiesa (2.1096-
1099).
Quanto viene narrato “dopo” quest’ultima frase - nel terzo
quaderno delle Memorie - aiuta a cogliere la chiara priorità
dell’Eucaristia per la “stabilità” dell’Oratorio nella mente
dell’Autore: “Nella cappella annessa all’edifizio dell’Ospedaletto di
S: Filomena l’Oratorio prendeva ottimo avviamento. Nei giorni festivi
intervenivano in folla i giovanetti per fare la loro confessione e
comunione” (3.6-8). Al contrario, a S. Martino, dove Don Bosco prova
appunto questa difficoltà
“non si poteva celebrar messa, né dare la benedizione alla sera,
quindi non poteva avere luogo la comunione, che è l’elemento
fondamentale della nostra istituzione” (3.62-65). Nel tempo
dell’Oratorio itinerante - quando esplicitamente si evidenzia il fatto
che “in queste chiese procurava di celebrare loro la S. Messa nel
mattino colla spiegazione del vangelo” (3.148-150) -, viene subito
detto: “Sembrava che questa critica posizione dovesse mandare in
fumo ogni pensiero di Oratorio, ed invece aumentava in numero
straordinario gli avventori” (3.151-153). Raccontando le attività
svolte nell’inverno trascorso in casa Moretta, si sottolinea
soprattutto il ministero delle confessioni: “contenti di poter almeno
in quelle camerette raccogliere i nostri allievi, istruirli e dar loro
comodità specialmente delle confessioni” (3.159-161). Intanto la
domanda posta dal Narratore sulle condizioni per celebrare
77

8.8 Page 78

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l’Eucaristia risulta ancora centrale quando vediamo leggiamo
“l’Oratorio in un prato” (3.219): “Ma in questo luogo mai praticare le
cose di religione?” (3.228). La soluzione trovata per la santa messa
non era così semplice, come quella per le confessioni (cf 3.233-237)
e comunque sembrava necessaria: “Altro suono di tromba indicava il
silenzio che mi dava campo a parlare e segnare dove andavamo ad
ascoltare la Santa Messa e fare la Comunione” (3.239-240; 3.280).
Così possiamo intendere anche dal dialogo tra il Pinardi e Don
Bosco, dove viene indicata la finalità per cui si cerca un locale: “Non
un laboratorio, ma un Oratorio, una piccola chiesa per radunare dei
giovanetti” (3.501-502) e dalla gerarchia con cui poco dopo vengono
descritti gli ambienti ai giovani: “Corsi tosto da’ miei giovani; li
raccolsi intorno a me e ad alta voce mi posi a gridare: - Coraggio,
miei figli, abbiamo un Oratorio più stabile del passato; avremo
chiesa, sacristia, camere per le scuole, sito per la ricreazione”
(3.519-521).
Il racconto annota ancora che l’Arcivescovo concede la “facoltà
di benedire e consacrare al divin culto questo modesto edifizio”,
rinnova la “facoltà già concessa quando eravamo nel Rifugio, cioè di
cantar messa, fare tridui, novene, esercizi spirituali, promuovere alla
cresima, alla santa comunione, e di poter eziandio soddisfare al
precetto pasquale a tutti quelli che avessero frequentata la nostra
Istituzione.” (3.549-555).
L’Eucaristia, infine, appare in evidenza centrale nella
descrizione delle prime attività a Valdocco (cf 3.561-572).
Proprio questa stabilizzazione attorno all’Eucaristia,
molteplicemente attestata, e il modo nuovo di vivere in comunità
vengono a generare, secondo la trama narrativa, due delle difficoltà
già presentate: la prima, una possibile zona di intersezione
conflittuale con le attività delle parrocchie, cioè “la questione tra i
parroci torinesi” (3.204)6; la seconda, un travisamento della finalità
vere di quelle riunioni, cioè la questione dell’ordine pubblico e gli
interventi del Vicario di Città Michele Cavour, davanti al quale Don
Bosco dovrà ribadire esplicitamente “li miei assembramenti non
hanno scopo politico: Io insegno Catechismo a’ poveri ragazzi e
questo faccio col permesso dell’Arcivescovo” (3.332-333)7.
Avendo già toccato la questione con l’intento di evidenziare la
fortezza in Don Bosco, ora lo accenniamo per il legame che essa ha
con la visibilità del sostegno ai giovani abbandonati. La stabilità
viene garantita visibilmente da una chiesa, cioè una casa che rende
possibile in modo continuato l’incontro sacramentale con Cristo.
7.5. La sanità
Nel racconto delle Memorie il contenuto del termine “sanità”
appare a volte come unitario (salute fisica e mentale insieme) a volte
6 Cf Memorie, 3.165-211.
7 Cf 3.717.
78

8.9 Page 79

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indicante uno solo di questi aspetti. Viene ricondotto, come si può
vedere da quanto è stato presentato fin qui, soprattutto all’eccessiva
attività dell’Autore, al suo vivere costantemente “sopra pensiero”
(2.980; 3.358). C’è tuttavia un aspetto che gli è proprio e deriva da
due fattori. Il primo consiste nel fatto che, al contrario delle altre
“accuse”, Don Bosco riconosce in sé la mancanza di salute fisica; il
secondo lo si coglie in un modo particolare negli eventi e nelle
modalità in cui è presentata la grave malattia del 1846. Ci pare di
cogliere qui nella strategia narrativa - per ora lo accenniamo appena
- il passaggio definitivo di realizzazione dell’ordine dato dal
personaggio del sogno: “renditi […] robusto” (1.160-161).
Da quanto possiamo rilevare nella trama del racconto, non ci
sono dubbi che l’Autore Modello abbia sofferto di grande stanchezza
e abbia compromesso seriamente la sua salute fisica in questi anni.
Lo rileviamo dall’intervento della marchesa Barolo (cf 3.386; 3.394;
3.408) e dall’esplicita affermazione dell’Autore, che riconosce di
essere stato in quel tempo “sfinito di forze, di sanità male andata”
(3.457-458), “mezzo morto per la stanchezza” (3.656).
I molti impegni che io aveva nelle carceri, nell’Opera del Cottolengo,
nel Rifugio, nell’Oratorio e nelle scuole facevano sì, che dovessi
occuparmi di notte per compilare i libretti che mi erano
assolutamente necessari. Per la qual cosa la mia sanità, già per se
stessa assai cagionevole, deteriorò al punto che i medici mi
consigliarono a desistere da ogni occupazione (3.836-840).
La soluzione adottata di riposare lungo la settimana a Sassi,
tornando a lavorare all’Oratorio di domenica, non solo risulta non
sufficiente, ma provoca disturbi reciproci a Don Bosco e ai suoi
piccoli amici che lo venivano a visitare (cf 3.480-486). Dopo
l’episodio degli allievi delle scuole di S. Barbara andati in massa (“in
numero di circa quattrocento”) fino a Sassi per confessarsi da Don
Bosco (cf 3.847-874), leggiamo nel testo:
Venuto a casa, fui preso da sfinimento, portato a letto. La malattia si
manifestò con una bronchite, cui si aggiunse tosse ed infiammazione
violenta assai. In otto giorni fui giudicato all’estremo della vita. Aveva
ricevuto il SS. Viatico, l’Olio Santo. Mi sembrava che in quel momento
fossi preparato a morire; mi rincresceva di abbandonare i miei
giovanetti, ma era contento che terminava i miei giorni dopo aver
dato una forma stabile all’Oratorio (3.875-880).
Era un Sabato a sera e si credeva quella notte essere l’ultima di mia
vita; così dicevano i medici, che vennero a consulto; così ne era io
persuaso, scorgendomi affatto privo di forze con perdite continue di
sangue. (3.899-902).
Questa drammatica situazione, rimarcata dalla strategia
narrativa per evidenziare l’intervento provvidenziale di Dio suscitato
dalla preghiera e dalle offerte dei ragazzi (“Dio li ascoltò!”, 3.899), ci
pare possa essere interpretata come indicatore del passaggio ad una
79

8.10 Page 80

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nuova e ultima fase dell’itinerario spirituale tracciato dalle Memorie.
80

9 Pages 81-90

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9.1 Page 81

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8. Tettoia e casa Pinardi. Abbandono
definitivo in Dio e sviluppo dell’Oratorio
L’inizio di questa fase viene determinato così: “Questa malattia
avveniva sul principio di luglio 1846 quando appunto doveva lasciare
il Rifugio e trasferirmi altrove” (3.913-914). Da più indicatori
rilevabili a livello testuale, ci pare lecito affermare che questa
malattia nella mente dell’Autore venga a segnare un passaggio
determinante a quella fase del suo itinerario interiore che - nella
strategia narrativa delle Memorie - si presenta come ultima,
definitiva e si identifica con tutta la vita successiva alla guarigione.
È possibile rintracciare elementi significativi di novità nelle
parole e negli atteggiamenti immediatamente seguenti il periodo
della malattia.
Io sono andato a fare alcuni mesi di convalescenza in famiglia, a casa,
a Murialdo. Avrei più a lungo protratta la mia dimora in quel luogo
nativo, ma i giovanetti cominciarono a venire a schiere a farmi visita a
segno che non era più possibile godere né riposo né tranquillità. Tutti
mi consigliavano a passar almeno qualche anno fuori Torino in luoghi
sconosciuti per tentar l’acquisto della primiera sanità. D. Caffasso e
l’Arcivescovo erano di questo parere. Ma tal cosa tornandomi di
troppo grave rincrescimento, mi fu acconsentito di venire all’Oratorio
con obbligo che per due anni non avessi più preso parte né alle
confessioni né alla predicazione (3.915-923).
Davanti all’obbligo di non confessare né predicare per due anni
(cf 3.922-923), l’Autore afferma:
Ho disubbidito: Ritornando all’Oratorio ho continuato a lavorare come
prima e per 27 anni non ho più avuto bisogno né di medico, né di
medicine. La qual cosa mi ha fatto credere che il lavoro non sia quello
che rechi danno alla sanità corporale (3.923-927).
La densità di questo passo e del suo contesto ci permette di fare
un’ipotesi interpretativa sul tempo della malattia (analogamente a
quanto abbiamo visto in precedenza) intendendolo come un
passaggio spirituale dalla fase della coscienza della missione alla
fase dell’abbandono totale.
8.1. Ritornando all’Oratorio
L’espressione “ho disubbidito” (3.923), potrebbe apparire
sorprendente e totalmente in contrasto con la linea di docilità
sviluppata dalle Memorie se non fossimo stati preparati dall’Autore
con l’accenno ad un’altra “disubbidienza” nel tempo del seminario di
Chieri (cf 2.159).
81

9.2 Page 82

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L’educazione all’obbedienza viene presentata come “massima
cura della madre per i figli” (1.104); come atteggiamento che rende
possibile la missione, nel sogno dei nove anni (cf 1.144); come
indicazione fondamentale della madre nel giorno della prima
comunione (cf 1.314); come caratteristica legata alla paternità
oratoriana (cf 1.1298); come disposizione nei confronti di Lucia che
mette al sicuro di ogni rischio (cf 1.678); come elemento educativo
necessario (cf 1.687)1; come fattore importante per la realizzazione
della propria vita cristiana (cf 1.878-879), della vocazione (cf 1.1241)
e della missione (cf 3.416-417), seguendo la via tracciata dalla
Provvidenza.
Il secondo contrasto va riferito all’atteggiamento di docile
obbedienza sempre tenuto da Don Bosco nei riguardi delle persone
implicate nella decisione e il loro significato agli occhi dell’Autore
come mediazioni umane della volontà di Dio: don Cafasso e
l’Arcivescovo (cf 2.920).
Il Cafasso è presentato costantemente nelle Memorie come la
“guida” e il “direttore spirituale” per eccellenza (cf 2.698), al quale
Don Bosco/Autore Modello chiede consiglio per la vocazione (cf
2.697) e per la missione (cf 2.761), a cui si affida in modo quasi
passivo, non volendo mettere niente di suo per la scelta del campo
della missione (2.930 ss), in cui riconosce un modello sacerdotale di
elevata santità e sapienza (cf 2.730-731). L’Arcivescovo, poi,
rappresenta nel testo la figura ecclesiale di riferimento assoluto e di
garanzia della correttezza pastorale della linea intrapresa, con il cui
consenso Don Bosco afferma di “aver sempre proceduto” (cf 3.660-
661). Dunque, ci pare interessante l’accostamento testuale tra il
parere di questi due personaggi a proposito della salute dell’Autore
e la sua decisione di “disubbidienza”.
Mentre ci aspetterebbe una linea di continuità nell’obbedienza o
almeno un atteggiamento più sfumato o contrattuale, il testo risulta
assolutamente drastico e sobrio: “ho disubbidito”. Sembra
insufficiente interpretarlo come un atto di testardaggine umana. Il
seguito delle relazioni di Don Bosco con l’Arcivescovo e con don
Cafasso, caratterizzate da familiarità, aiuto, confidenza e persino da
entusiasmo, conferma il riconoscimento della realizzazione di un
disegno superiore.
Da questi elementi traiamo la deduzione che, nel racconto delle
Memorie, non viene evidenziata tanto l’obbedienza di per sé, come
atto formale o cieco affidamento, ma la sostanza dell’obbedienza,
cioè il discernimento del legame personale e profondo con Dio che è
sorgente di libertà e per questo oggetto di obbedienza. La
disubbidienza riferita nel testo rimanda ad una più grande, più
profonda e più esigente obbedienza al progetto di fondo che regge
tutte le Memorie: la volontà divina che ha “guidato ogni cosa in ogni
tempo” (1.18).
1 Cf Memorie, 3.76; 3.293; 3.602; 3.1448.
82

9.3 Page 83

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8.2. Il lavoro
Vediamo ora il contenuto della disubbidienza/obbedienza, cioè il
lavoro pastorale. Don Bosco afferma “ho continuato a lavorare come
prima” (3.924). Per comprendere il valore specifico di questa
affermazione cerchiamo il riscontro nei dati del testo.
Il “prima” è contrassegnato nel testo da un periodo di
intensificazione del lavoro che possiamo sintetizzare così: aumento
del numero dei giovani intervenienti all’Oratorio, aumento e
diversificazione delle risposte-proposte educative, aumento delle
difficoltà e corrispettiva diminuzione dei collaboratori, fino
all’abbandono e alla solitudine di Don Bosco. L’Autore riporta delle
ciffre: di trecento (cf 3.226) o quattrocento giovani (3.295)2;
duecento allievi per le scuole serali (cf 3.981). Descrive il periodo
della stabilizzazione alludendo a una dinamica di crescente attività:
catechismo iniziale (cf 2.832), cura e assistenza spirituale nei giorni
festivi (cf 2.836), confessioni (cf 2.917)3, Eucaristia (cf 2.861)4,
ricerca di lavoro (cf 2.836), contatti lungo la settimana sui luoghi di
lavoro (cf 2.834-839), visita alle carceri (cf 2.902), scuole domenicali
(cf 3.723-748)5, scuole serali (cf 3.161)6, ricreazione e gestione del
tempo libero (cf 3.588-595), stesura di nuovi libri di studio (cf 3.775-
791)7 e di divozione (cf 3.821). Tutta questa attività viene svolta in
contemporanea con il disbrigo dei compiti a lui affidati negli istituti
della marchesa Barolo fino al congedo (cf 2.969-970).
Se, nel testo, analizziamo il “dopo”, cioè il tempo del
trasferimento stabile di Don Bosco in casa Pinardi (cf 3.928),
troviamo effettivamente un dinamismo di crescente sviluppo
dell’Oratorio, in mezzo a difficoltà e opposizioni non minori delle
precedenti. Solo avendo presenti questi dati è possibile rendersi
conto del valore dell’affermazione “ho continuato a lavorare come
prima” (3.924).
8.3. La vita
Ora esaminiamo con più attenzione il testo dedicato al tempo
concreto della malattia, o meglio, entriamo per quanto possibile nel
significato di questa esperienza in modo da poter valorizzare meglio
in un secondo momento l’insieme dei dati relativi alla salute
presentati nelle Memorie.
La malattia, manifestatasi “con una bronchite, cui si aggiunse
tosse ed infiammazione violenta assai” (3.876-877), era veramente
grave. “In otto giorni fui giudicato all’estremo della vita” (3.877).
L’Autore insiste ripetutamente sul fatto di essere in serio pericolo di
vita. Infatti poche righe oltre ci dice come si era “sparsa la notizia
2 Cf Memorie, 3.433; 3.578.
3 Cf Memorie, 3.604.
4 Cf Memorie, 2.1096; 3.8; 3.65; 241.
5 Cf Memorie,3.797.
6 Cf Memorie,3.749-760; 3.797; 3.979.
7 Cf Memorie, 3.829-834.
83

9.4 Page 84

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che la mia malattia era grave” (3.881), fino al punto in cui, “un
sabato a sera, si credeva quella notte essere l’ultima di mia vita; così
dicevano i medici, che vennero a consulto; così ne era io persuaso,
scorgendomi affatto privo di forze con perdite continue di sangue”
(3.899-902). E, più oltre, riferisce il fatto di aver dovuto commutare i
voti e le promesse fatte dai giovani quando egli si trovava “in
pericolo di vita” (3.912). Questa insistenza sul pericolo di vita ci pare
importante per poter cogliere quanto stava avvenendo
spiritualmente in Don Bosco/Autore Modello: arrivato “all’estremo”
(3.877) delle risorse di salute e della stessa vita, come
precedentemente lo abbiamo colto all’estremo della risorse interiori
in riferimento all’impossibile e osteggiata missione. Qui il testo ci
suggerisce l’evento del passaggio spirituale ad una situazione
interiore caratterizzata da una vita lanciata nella gratuità e
nell’abbandono.
Nonostante questa situazione estrema, Don Bosco delle
Memorie introduce un’affermazione sorprendente e significativa:
Mi sembra che in quel momento fossi preparato a morire; mi
rincresceva di abbandonare i miei giovanetti, ma era contento che
terminava i miei giorni dopo aver dato una forma stabile all’Oratorio
(3.878-880).
L’Autore si dice contento perché la stabilità gli appariva ormai
come una conquista reale, non soltanto un’intenzione, specialmente -
come più sopra abbiamo congetturato - per la possibilità concreta
della celebrazione eucaristica.
Inoltre aggiunge: “Aveva ricevuto il SS. Viatico, l’Olio santo. Mi
sembra che in quel momento fossi preparato a morire” (3.878-879).
Il riferimento ai sacramenti dell’Eucaristia come Viatico e
dell’Unzione degli infermi ci pare rivestire almeno due significati: da
una parte confermano la convinzione che Don Bosco stava per
morire; dall’altra, sono il sigillo della morte in Cristo. Dunque, se da
una parte è allontanata la prospettiva di una sicurezza presuntuosa,
dall’altra il testo non trasmette al lettore alcuna paura o angoscia di
Don Bosco davanti alla morte.
L’Autore ha coscienza della serietà cristiana della vita e della
morte, come si può vedere da affermazioni già riportate, ad esempio:
“colui il quale differisce la sua conversione corre gran pericolo che
gli manchi il tempo, la grazia o la volontà” (1.369-360); “dalla scelta
dello stato ordinariamente dipende l’eterna salvezza o l’eterna
perdizione” (2.7-8); ma anche dalla “paura e spavento” provati nella
“visita” notturna del defunto amico Comollo (2.413-451) e dalle
parole delle guardie nella relazione al marchese Cavour: “abbiamo
udito in chiesa delle prediche che fanno paura. Si raccontarono tante
cose sull’inferno e sui demonii, che mi fecero venir volontà di
andarmi a confessare” (3.715-716). A questo possiamo aggiungere i
casi di morte, messi in rapporto dall’Autore con l’opposizione al
disegno di Dio: quella del segretario dei Molini (cf 3.91), del
Cappellano di S. Pietro in Vincoli, della sua serva (cf 3.126-128) e
84

9.5 Page 85

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dello stesso Vicario di città Michele Cavour (cf 3.704-706).
L’affermazione “Dio è onnipotente. Dio è misericordioso” (2.448-
449), che nelle Memorie si riferisce al contesto della morte e
dell’apparizione del Comollo, sembra poter applicarsi alla coscienza
dell’Autore sulla serietà della vita e della morte, armonizzata con
l’umile confidenza del riposo nella sua misericordia.
8.4. Un passaggio spirituale definitivo
La straordinaria attività che le Memorie presentano dopo la
guarigione è preceduta dall’affermazione: “per 27 anni non ho più
avuto bisogno né di medico, né di medicine” (3.924-925).
La nostra ipotesi interpretativa fa appello ora allo schema
rappresentato nella narrazione del primo sogno. Nella lettura
retrospettiva della propria vita, cioè dal punto di vista in cui si
colloca l’Autore, si stabilisce un forte collegamento tra il sogno e gli
eventi biografici: “a suo tempo tutto comprenderai” (1.169-170).
Come possiamo vedere dall’apparato critico, nella prima stesura del
manoscritto Don Bosco utilizzò la parola “sano”; in una revisione
successiva la sostituì con “umile” (1.160): come interpretare questo
fatto?
Il termine “robustezza” nel Don Bosco delle Memorie appare
come direttamente collegabile alla salute o alla fortezza in senso
fisico. Lo vediamo in vari passaggi del testo, ad esempio: “un uomo
robusto reggerà alquanto, ma cagionerà sempre qualche detrimento
alla sua sanità” (1.1229-1231)8.
Se per “robustezza” intendiamo una certa capacità fisica per la
vita di consacrazione a Dio e per lo svolgimento del lavoro richiesto
dalla missione, forse possiamo comprendere perché Don Bosco abbia
arricchito il contenuto della triade attraverso la sostituzione di
“umile” a “sano”. L’Autore avrebbe voluto evitare una certa
ripetizione di significato tra “sano” e “robusto” e introdurre il
contenuto dell’umiltà, che parrebbe esprimere simultaneamente la
propria strada spirituale e la condizione essenziale per la fecondità
dell’Oratorio. Sanità e umiltà si evocherebbero reciprocamente
nell’inconscio narrativo dell’Autore.
Un secondo aspetto del passaggio che stiamo analizzando ci
pare interessante approfondire: “La qual cosa [lavorare come prima
e non aver bisogno di medico] mi ha fatto credere che il lavoro non
sia quello che rechi danno alla sanità corporale.” (3.925-927). Il testo
stesso suggerisce la domanda: se non è il lavoro, così esteso e così
intenso, che cosa è?
È evidente il contrasto che l’Autore introduce tra il prima e il
dopo di questa malattia per quanto riguarda la salute. Lo indichiamo
prendendo in considerazione non solo la frase in se stessa, ma tutto
il suo contesto.
8 Identico utilizzo in Memorie,1.47, 2.748, 3.287, 3.645.
85

9.6 Page 86

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Possiamo riscontrare racconti di malattia in varie parti delle
Memorie. Quest’ultimo racconto chiude il tema definitivamente. È
ipotizzabile la formulazione di qualche significato plausibile
nell’intentio auctoris o nell’intentio operis per quanto riguarda
questi testi? Riportiamo qui i vari racconti di malattia.
Il primo viene collocato dopo la morte di don Calosso: “Io
piangeva inconsolabile il benefattore defunto. Se era sveglio,
pensava a lui, se dormiva sognava di lui, le cose andarono tanto
oltre, che mia madre, temendo di mia sanità, mandommi alcun tempo
con mio nonno in Capriglio” (1.519-522). A questa situazione
interiore viene riferito il sogno “secondo il quale io era acremente
biasimato perché aveva riposta la mia speranza negli uomini e non
nella bontà del Padre Celeste” (1.523-525).
Il secondo racconto di malattia appartiene al periodo della
scuola pubblica di Chieri ed è conseguente all’eccesso di attività e di
letture fatte con superficialità, anche durante la notte: “Tal cosa mi
rovinò talmente la sanità che per più anni la mia vita sembrava
ognora vicino alla tomba” (1.1225-1227).
Il terzo si colloca in conseguenza alla terribile esperienza della
“visita” del defunto amico Comollo: “Fu la prima volta che a mia
ricordanza io abbia avuto paura, paura e spavento tali che caduto in
grave malattia fui portato vicino alla tomba” (2.445-447). C’è qui,
oltre alla paura, un riferimento alla leggerezza della promessa che,
nell’intenzione dei due amici, “sarebbe stata una grande
consolazione, se quello che di noi fosse primo a morire avesse
portato notizie dello stato suo” (2.421-423): “Io non conosceva
l’importanza di tale promessa, e confesso che ci fu molta leggerezza”
(2.425-426). Inoltre, l’Autore accenna ad uno stato di ansietà e
agitazione in riferimento alla promessa fatta e di concomitante
desolazione per la morte del Comollo: “Io ne era ansiosissimo,
perché così sperava un gran conforto alla mia desolazione” (3.433-
434); “Io era in agitazione, persuaso che in quella notte sarebbesi
verificata la promessa” (3.435-437).
Il quarto racconto di malattia è incluso nell’episodio del discorso
di Lavriano e della caduta da cavallo: una lezione contro la
vanagloria (2.605-690).
Il quinto è appunto quello che conclude il periodo di ministero
svolto tra 1844 al 1846.
Notiamo che ciascuno dei passaggi in cui Don Bosco racconta le
sue esperienze di malattia corrisponde nel testo ad una mancanza:
di confidenza in Dio, nel primo; di equilibrio nell’attività, nel
secondo; di leggerezza, paura e agitazione, nel terzo; di vana gloria,
nel quarto infine.
Nell’ultimo periodo, come possiamo vedere sia dai passi citati
sia dall’insieme della narrazione, l’Autore ricorda di aver vissuto un
tempo di inquietudine misto al desiderio di discernere e compiere la
missione affidatagli da Dio. L’impressione causata dalla visita alle
carceri suscitava domande inquietanti: “Come fare? Dove raccogliere
que’giovanetti?” (2.972). Il primo trasferimento dell’Oratorio in
Valdocco gli creò apprensioni: “l’incertezza del luogo, dei mezzi,
86

9.7 Page 87

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delle persone mi lasciavano veramente sopra pensiero. La sera
precedente andai a letto col cuore inquieto” (2.980-981). Costretto a
lasciare anche il prato Filippi, l’Autore descrive il suo estremo
turbamento d’animo: “Ridotte le cose a questo punto, credeva,
almeno per qualche tempo, essere lasciato in pace. Ma quale non fu
la mia perturbazione quando giunsi a casa e trovai una lettera con
cui i fratelli Filippi mi licenziavano dal locale a me pigionato” (3.349-
352). Una delle ragioni che suscita la voce che Don Bosco fosse
venuto pazzo era il fatto di vederlo “sempre sopra pensiero” (3.357-
358). Nell’ultima domenica in cui gli era permesso occupare il prato
dei fratelli Filippi, “io taceva tutto, ma tutti sapevano i miei
imbarazzi e le mie spine” (3.454-455). “Forse per la prima volta mi
sentii commosso fino alle lacrime” (3.460-461). Poco prima del
contratto con Pinardi, gli chiede don Merla Pietro: “Non ti vidi mai
così malinconico. Ti colse qualche disgrazia?” (3.482-483). Don
Bosco risponde “Disgrazia no, ma un grande imbarazzo” (3.484).
Al contrario, nel contesto dell’ultima malattia l’atteggiamento
descritto è già distinto: “mi rincresceva di abbandonare i miei
giovanetti, ma era contento che terminava i miei giorni dopo aver
dato una forma stabile all’Oratorio” (3.779-780). D’ora in poi nel
racconto l’Autore non si presenterà più con lo stato d’animo inquieto
di prima. Dopo la malattia del 1846 l’atteggiamento è di continua e
piena confidenza e abbandono in Dio.
I nuovi interrogativi e le difficoltà (cf 3.931-934) sono a loro
volta collocate in un ambiente interiore senza tentennamenti:
l’abbandono confidente nella Provvidenza. Vengono lasciate in
sospeso, senza altra risposta al di là di quella della Provvidenza. Don
Bosco e mamma Margherita appaiono distaccati da beni di un certo
valore e di grande significato affettivo.
Per fare fronte alle prime spese [io] aveva venduto qualche pezzo di
campo ed una vigna. Mia madre avevasi fatto portare il corredo
sposalizio, che fino allora aveva gelosamente conservato intero.
Alcune sue vesti servirono a formare pianete, colla biancheria si
fecero amitti, dei purificatori, rocchetti, camici e delle tovaglie. [...]
La stessa mia madre aveva qualche anello, una piccola collana d’oro,
che tosto vendette per comperare galloni e guarniture pei sacri
paramentali (3.965-966).
Per la nostra riflessione, oltre alla materialità dei gesti,
interessa lo spirito con cui nel racconto i gesti sono realizzati.
L’atteggiamento caratterizzante questa nuova parte è ben illustrato
dall’espressione della madre: “Una sera mia madre, che era sempre
di buon umore, mi cantava ridendo: Guai al mondo se ci sente. /
Forestieri senza niente” (3.967-969). In questo modo, la tematica
della confidenza in Dio, centrale nella narrazione, soprattutto
nell’episodio della morte del padre, viene ripresa e collocata sulla
soglia di una nuova fase: quella dell’abbandono quieto in Dio.
Per avere un’idea un più esatta del confronto tra la gravità delle
situazioni e l’atteggiamento di Don Bosco, accenniamo ad alcune
principali difficoltà raccontate nel testo: l’anno 1848 con l’inizio di
87

9.8 Page 88

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un dramma a livello politico e sociale per la coscienza cattolica (cf
3.1163-1209); l’anno 1849, con la chiusura dei seminari (cf 3.1311-
1329), il problema delle feste nazionali (cf 3.1370-1410), i fatti
particolari di patriottismo da parte di collaboratori e giovani
dell’Oratorio (cf 3.1411-1449), la nuova solitudine di Don Bosco (cf
3.1408-1410; 1452), grandi mutamenti nell’aspetto politico “d’Italia
e forse del mondo” (cf 3.1307-1309). “L’anno 1849 fu spinoso, sterile,
sebbene abbia costato grandi fatiche ed enormi sacrifizi” (3.1486-
1487). Inoltre troviamo descritti i disturbi provenienti dalla vicina
bettola della Giardiniera (3.1535-1554); lo scoppio della polveriera
nel 1852 (cf 3.1611-1620); il crollo del nuovo braccio della casa in
costruzione (cf 3.1698); le difficoltà per la pubblicazione delle
Letture Cattoliche (cf 3.1790-1796); le minacce che ne seguirono per
Don Bosco (cf 3.1861-1862).
In tutte queste difficoltà il testo evidenzia la presenza
protettrice e l’azione benefica di Dio: “Non so come io abbia potuto
reggere. Dio mi aiutò!” (3.1460-1461); “Cominciò allora un bel
trattato della Divina Provvidenza” (3.1525-1526); “Iddio vuole far
vedere che è padrone dei cuori” (3.1498). Si enfatizza la protezione
speciale di Dio sull’Oratorio particolarmente in occasione dello
scoppio della polveriera (cf 3.1333-1334) e nell’occasione del crollo
della parte di casa in costruzione (cf 3.1706-1708):
In mezzo alle continue tristi vicende che opprimono la povera umanità
avvi sempre la mano benefica del Signore che mitiga nelle nostre
sciagure. Se quel disastro fosse succeduto due ore prima avrebbe
sepolto i nostri allievi delle scuole serali. Terminavano queste alle
dieci, ed usciti dalle loro classi in numero di circa 300 scorazzarono
per oltre mezz’ora lungo i vani dell’edifizio in costruzione. Un po’
dopo succedeva quella rovina (3.1711-1716).
Questa stabile disposizione davanti a Dio si mantiene nel tratto
seguente della vita di Don Bosco come si può vedere da contenuto
dei dialoghi con i protestanti, dai racconti e degli attentati contro la
vita: “Con questo rifiuto voi fate un danno a all’opera vostra,
esponete voi a certe conseguenze, a certi pericoli” (3.1860-1862).
Nella seconda formulazione della minaccia, l’Autore enfatizza gli
atteggiamenti, la “voce e [il] volto alterato, alzandosi in piedi […] in
modo minaccioso [sottolineato nel manoscritto]” (3.1867-1869). La
minaccia era chiara: “se uscite di casa sarete sicuro di rientrare?”
(3.1869).
Le risposte dell’Autore riportate nel racconto manifestano e
confermano la dedizione totale alla missione e il distacco della
propria vita:
Signori, io capisco quello che volete significarmi, ma vi dico chiaro
che per la verità non temo alcuno, facendomi prete mi sono
consacrato al bene della Chiesa e pel bene della povera umanità, e
intendo di continuare colle deboli mie fatiche a promuovere le
Letture Cattoliche. [...]
Voi, Signori, non conoscete i preti cattolici, finché vivono, essi
88

9.9 Page 89

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lavorano per compiere il loro dovere; che se in mezzo a questo lavoro
e per questo motivo dovessero morire, per loro sarebbe la più grande
fortuna, la massima gloria (3.1870-1873).
A questo punto, a livello narrativo, sembra possibile intravedere
nella vita interiore dell’Autore il raggiungimento della pace e della
serenità spirituale. La tematica nel corso delle Memorie viene
sviluppata su tre vettori: il progetto personale
vocazionale/missionario, come emerge dalla narrazione della
decisione di entrare nel convento della Pace (cf 1.1253; 1.1256-
1258); il trasferimento dell’Oratorio presso l’Ospedaletto della
Barolo (“ci sembrava di avere trovato le vera pace”, 3.44);
l’abbandono confidente in Dio descritto nella fase che stiamo
esaminando. Il raggiungimento di questi tre luoghi di pace,
attraverso un travagliato processo, di cui la malattia è un punto
culminante, spiega l’ultimo passaggio spirituale nel Don Bosco nelle
Memorie.
Dopo la stabilizzazione nella vita cristiana, nello spirito
sacerdotale, nella coscienza della missione, si realizza qui la stabilità
nell’abbandono totale in Dio. Non a caso l’Autore aveva collocato tra
le caratteristiche distintive del Cafasso la “sua virtù che resisteva a
tutte le prove” e la “sua calma prodigiosa” (2.730-732).
Questo ultimo passaggio, che il lettore può cogliere nelle
Memorie a partire dai contenuti spirituali, ha una risonanza sulla
struttura narrativa del testo, che in certo modo serve da conferma
alla lettura. Il periodo che va dalla celebrazione della prima Messa
nella nuova cappella di Valdocco (aprile 1846) in poi, segna, come
abbiamo visto, una nuova prospettiva nel racconto, indicata da
alcune tracce testuali. Innanzitutto l’Autore introduce un titolo nuovo
(3.536), all’interno della decade 1845-1855 con tre novità: prima, il
fatto stesso della suddivisione, all’interno di una decade predefinita,
con nuova numerazione di capitoli; seconda, l’eliminazione della
restrizione “esclusivamente pei soci salesiani” (1.2; 2.3; 3.2); terza,
la specificazione dell’Oratorio come Oratorio di S. Francesco di
Sales (3.536) e non soltanto “Oratorio”, come in precedenza (1.1;
2.1; 3.1).
Anche a livello di contenuto narrativo l’Autore delle Memorie si
sposta in modo progressivo, ma deciso, dalla memoria della propria
vita senza la quale non avrebbe avuto origine l’Oratorio, alle
“memorie storiche sull’Oratorio” (cf 3.1121), passando per una zona
di minore distinzione tra la propria vita spirituale e la vita visibile
dell’istituzione, fino al titolo Stabile dimora all’Oratorio di Valdocco
(3.928).
I titoli non appaiono casuali, ma corrispondenti ad un passaggio
di contenuto che trova una frontiera nel racconto della malattia. Da
qui in avanti, l’Autore non parla più di se stesso, nella prospettiva
della propria vita spirituale, ma generalmente racconta gli eventi
relativi allo sviluppo dell’Oratorio, collocando se stesso all’interno di
questi fatti.
89

9.10 Page 90

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Conclusione. Il modello di
educatore/pastore emergente
1. Premesse metodologiche
Dopo aver presentato, in forma analitica, una prospettiva dei
livelli di lettura testuale delle Memorie, focalizzando le dinamiche
descrittive dell’itinerario spirituale, confluente nella formazione di
un modello educativo/pastorale, tentiamo di tracciare un profilo della
figura dell’educatore. A partire degli elementi disponibili,
cercheremo di rispondere alla domanda “quale il modello di
educatore/pastore emergente nelle Memorie?” La risposta
corrisponde ad un’ipotesi e assume come presupposto che tra gli
intenti dell’Autore ci sia quello di presentare il suo modello di
educatore.
Per chiarificazione terminologica, diciamo che modello, indica
un nucleo di identità e di prassi educativa, originale nella sua
formazione storica ed esemplare nella diversità delle circostanze
socio/culturali. In secondo luogo, oltre alla comune distinzione tra
didattica (teoria e applicazione del metodo di insegnamento), e
pedagogia (teoria e arte dell’educare) ci serviremo di espressioni
come prassi educativo/pastorale ed altre corrispondenti, per indicare
il modello di azione educativa dell’Oratorio dove la pedagogia è
un’espressione visibile della carità teologicamente intesa, ossia
attuazione pedagogica dell’amore. Per questo si parla di amore
educativo. Per le stesse ragioni diremo che nel modello
donboschiano l’educatore si presenta come educatore/pastore in due
sensi: primo perché mette a fondamento della prassi educativa una
vitale spiritualità cristiana; secondo perché la prassi educativa non si
arresta alla trasmissione di competenze intellettuali o tecniche, ma
diventa educazione sapienziale.
Per la delimitazione della ricerca premettiamo che non è
obbiettivo nostro rispondere ad altre domande di indole globale,
legittimamente proponibili al testo, per esempio: “Qual’é l’itinerario
di spiritualità giovanile presente nelle Memorie?”, “Qual’é il metodo
educativo messo in atto dall’autore nell’Oratorio di Valdocco?”, o
“Quali sono i contenuti formativi inerenti alla proposta educativa di
Don Bosco?”. Certamente alcuni di questi aspetti verranno
accennati, ma sempre indirettamente, a partire delle considerazioni
fatte sull’educatore.
2. Prospettive fondamentali
2.1. Spiritualità e educazione
Per quanto riguarda la specificità del modello notiamo come
questa non venga data da un tipo di attività o caratteristica aggiunta
90

10 Pages 91-100

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10.1 Page 91

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ad un’altro modello preesistente, ma dal modo proprio di percezione
e vissuto di tutti gli ambiti di attività e le dimensioni della persona
coinvolte nella prassi educativo/pastorale. La lettura teologica della
memoria della formazione dell’Oratorio permette di trovare
nell’universale volontà salvifica divina la ragione teologica del
intervento dall’Alto a favore dei giovani, particolarmente quelli
abbandonati a se stessi. Nella salvezza della gioventù, fine della
missione salesiana, troviamo la ragione ecclesiologica della nascita
dell’Oratorio. Di conseguenza, tutto il modello educativo è guidato
dal rapporto stretto e di quasi continuità tra l’amore di Dio che,
pedagogicamente, si rivela all’educando non solo attraverso
l’educatore, ma nell’ educatore, e la prassi educativa/pastorale che
tende a manifestare lo stesso amore, permettendo e favorendo
nell’educando una risposta personale responsabile. Se in prospettiva
macroscopica il modello di educatore/pastore indica l’amore di Dio
per i giovani abbandonati a se stessi, in prospettiva microscopica
esso rende attuale e concreta la pedagogia ispirata all’amore di
Cristo, capace di vincere il male, di rimuovere i diversi ostacoli al
progresso della persona e di comunicare la pienezza della vita.
La realizzazione di questo modello suppone ed esige una
spiritualità essenzialmente missionaria e un’attuazione
educativo/pastorale che ha come sorgente l’inserimento nella vita
divina. A questo punto anticipiamo una caratteristica fondamentale
del modello di educatore/pastore, cioè la sintesi dinamica tra vita
spirituale, pedagogia e missione, tra rapporto con Dio, profilo
dell’educatore e rapporto con i giovani. Queste dimensioni non si
identificano tra di loro, - è possibile rilevare i loro ambiti specifici –
e, simultaneamente, sono inseparabili e intimamente connesse, a tal
punto che diventa impossibile la conoscenza del significato pieno di
uno degli aspetti senza la considerazione degli altri.
2.2. “Fine” e “bisogno”
Un’altra conseguenza dell’identità armonica del modello, si
esprime nel rapporto tra il fine della prassi educativo/pastorale e il
bisogno a cui essa risponde. Il “fine” riguarda sempre e in tutte le
circostanze la “gloria di Dio e la salvezza delle anime”, cioè la
realizzazione del “fine per cui [Dio] ci ha creati” (2.827). Notiamo
subito che il termine “anima” indica la persona nella totalità delle
dimensioni, a partire del suo principio spirituale. Il “bisogno”
corrisponde alla mancanza di condizioni materiali o culturali per la
crescita del giovane, ossia l’opportunità che richiama l’attuazione
urgente di una risposta concreta. Prendiamo come espressione
sintetica ed esemplare di questo dinamismo che si ripete nelle
Memorie, un passo riguardante il lavoro nelle scuole serali.
Le scuole serali producevano due buoni effetti: animavano i giovanetti
ad intervenire per istruirsi nella letteratura, di cui sentivano grave
bisogno; nel tempo stesso davano grande oportunità per istruirli nella
religione, che formava lo scopo delle nostre sollecitazioni (1.749-754)
91

10.2 Page 92

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Il “fine” della missione, che rimane la guida per le scelte
dell’educatore/pastore, va oltre la risposta adeguata al “bisogno”, il
quale frequentemente é di tipo immediato e “temporale”. D’altra
parte, l’educatore/pastore non mette tra parentesi la risposta al
“bisogno” in nome della superiorità del “fine”, anzi, quest’ultimo
diventa motivo della necessità e urgenza di una risposta al bisogno
del giovane.
Sarebbe una riduzione del modello la proposta educativa che
avesse come criterio esclusivo, per la determinazione degli obiettivi,
la percezione “immediatista” e la risposta “assistenzialista” al
bisogno del giovane. Nel modello di educatore/pastore presentato
dalle Memorie, tra risposta al bisogno, e proposta del fine, che
rimane come valore educativo supremo, non si dà identità nè
opposizione, riduzione o composizione, ma compimento e
superamento. La chiamata alla salvezza illumina, motiva e trascende
la promozione delle capacità del giovane nell’orizzonte immanente,
aprendolo ad un nuovo orizzonte di significato.
In questo orizzonte, la prassi educativa riguarda un insieme
più o meno vasto e di attività diverse, coinvolgendo una pluralità di
dimensioni della persona,
simultaneamente adeguato alle
circostanze e necessità del momento e aperto alle innovazioni
richieste dai cambiamenti storici. Le fasi di fondazione,
consolidamento e sviluppo dell’Oratorio sono presentate nelle
Memorie in prospettiva di continua novità sia in campo didattico,
come in ambito educativo/pastorale e celebrativo. Tutte le proposte
della prassi educativa sono motivate e guidate dal fine della
missione, anche quando l’obiettivo pedagogico relativo alla singola
attività non è l’esplicitazione di un contenuto di fede o un
atteggiamento di carità. Tuttavia perché sia vera la prima
affermazione è necessario che i soggetti coinvolti nell’attività
educativa rendano attuale il fine ad ogni momento e ad ogni scelta.
Questo processo spirituale di costante discernimento/obbedienza è
condizione necessaria per la non degradazione dell’identità del
modello nella concreta attuazione storica. Sono importanti le
conseguenze di questo atteggiamento spirituale per il discorso sul
“sistema pedagogico”, dove la prassi non viene concepita come
semplice momento tecnico di passaggio verso una realtà estranea al
processo, ma come veicolo e presenza/esperienza della realtà
salvifica qualificante del fine, sia per l’educatore/pastore che per
l’educando. In altri termini, il “sistema” non solo riflette il fine, con
la globalità delle manifestazioni visibili, ma lo attualizza attraverso
l’unione dell’atto di amore dell’educatore con l’atto di amore eterno
di Cristo. In questa prospettiva si potrebbe affermare che la
caratteristica del modello, in campo giovanile, è il suo essere
simbolico, cioè visibilizzazione della pedagogia di Dio, attraverso la
partecipazione alla natura educativa dell’Amore.
92

10.3 Page 93

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3. Configurazione del modello
Avendo presentato alcune linee fondamentali per la lettura
relazionale dei diversi aspetti reciprocamente richiamati, cerchiamo
di proporre una sintesi per la configurazione del modello. In un
primo momento ci interessiamo dei modelli del modello, cioè le
figure di riferimento e di ispirazione evocate dall’Autore nelle
Memorie. In un secondo momento presentiamo i processi o nuclei
dinamici dell’identità del modello. Intendiamo, da una parte,
elaborare una configurazione spirituale dell’educatore/pastore;
dall’altra si tratta di effettuare un breve tracciato dello stesso
modello, a partire dalla prassi educativa, prima in riferimento diretto
alla costruzione di rapporti educativi, poi per quanto riguarda gli
ambiti e i contenuti della missione.
3.1. Modelli del modello
La prima nota di identità del modello, mette in evidenzia la sua
complessità e articolazione, simultaneamente alla possibilità di
riferimento ad un unico principio: l’amore educativo. Attraverso
l’introduzione di molteplici figure educative che incarnano
caratteristiche proprie e simultaneamente complementari tra di loro,
l’autore permette la configurazione di un modello finale
estremamente ricco nei particolari e sorprendentemente armonico e
semplice. La distinzione dei tratti caratteristici non si dà tanto nella
differenziazione dei soggetti/modello, come nell’esercizio dei ruoli da
loro assunti. Questa identità educativa sfaccettata, ripetiamo,
sembra essere un dato qualificante.
Le figure educative paradigmatiche provengono dall’ambito
familiare (padre, madre, fratello), dall’ambito sociale e scolastico
(amico, tutore, professore), dall’ambito ecclesiale (sacerdote, guida
spirituale e vocazionale) e da quello spirituale (Dio, il Signore, la
“Maestra”, S. Francesco di Sales).
3.1.1. Caratteristica comune: essenziale relazionalità
Rileviamo gli elementi predominanti nelle diverse figure
partendo dalla caratteristica comune, data da una fisionomia
essenzialmente relazionale che si esprime sotto vari aspetti, legati
sia alla configurazione sia all’attuazione dell’educatore/pastore.
In genere nelle Memorie, le linee identificative del modello non
vengono rilevate soltanto dall’osservazione del soggetto in se stesso,
ma dal soggetto in rapporto all’educando. Gli vengono così assegnati
i tratti della “vicinanza” e della “confidenza”, che permettono una
reale e non soltanto intenzionale “assistenza” e “cura”. Siamo
lontani, anzi in contrapposizione ad un’ipotesi dove implicitamente o
esplicitamente è permessa, o addirittura consigliata, una distanza
fisica e psicologica.
93

10.4 Page 94

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Inoltre, dal punto di vista della comunicazione educativa, il
modello di educatore presentato nelle Memorie non realizza la
propria identità e missione nel momento in cui riduce l’educazione a
trasmissione di competenze culturali, tecniche o scientifiche, ma
quando si mette in mezzo, suscita la vicinanza, e intraprende l’azione
educativa in rapporto all’educando come comunicazione sapienziale,
come rapporto di discepolato. Si tratta di una realizzazione
personale dell’amore educativo che nel “guadagnare il cuore”
anticipa il fine dell’educazione e ha come condizione di possibilità la
presenza educativa, ampiamente illustrata nel testo.
Finalmente l’educatore/pastore non riduce il proprio sapere
alla conoscenza intellettuale dei principi educativi, ma si realizza
nell’effettivo rapporto educativo/pastorale che esige ed è sopportato
da una conoscenza esperienziale dell’atto educativo. L’episodio
seguente sintetizza la dinamica di una prassi più ampia della
trasmissione di questa conoscenza:
In uno di que' giorni festivi fui visitato da due sacerdoti […]. Nel
cominciare il catechismo era tutto in moto per ordinare le mie classi,
allora che si presentano due ecclesiastici, i quali in contegno umile e
rispettoso venivano a rallegrarsi con me e dimandavano ragguaglio
sul l'origine e sistema di quella istituzione. Per unica risposta dissi: -
Abbiano la bontà di aiutarmi (3.1470-1475).
Sebbene l’ “unica risposta” di Don Bosco fosse legata in quel
momento a una necessità concreta ed immediata, diventa di fatto la
vera risposta alla domanda e rimanda sia i due interlocutori sia il
lettore ad una conoscenza sapienziale del sistema come condizione
per imparare la sua attuazione. In questa prospettiva
l’educatore/pastore diventa non solo educatore, ma formatore di
educatori, capaci di prolungare e rinnovare la responsabilità e la
prassi educativa in contesti storici diversi, estendendola ad altri
destinatari.
3.1.2. Le distinzioni
Dopo aver salvato l’armonia dinamica tra i vari tratti specifici
della fisionomia del modello di educatore/pastore, ci dedichiamo alla
determinazione di alcune caratteristiche più immediatamente
attribuite a ciascuno dei “modelli del modello”. L’armonia garantisce
la bellezza nel modello finale, mentre la specificazione ne sottolinea
la completezza.
Nell’ambito familiare, la figura del padre si collega
immediatamente ad un rapporto educativo di amore e timore.
Ovviamente il valore dei due termini nel rapporto educativo
interpersonale non è identico. Nelle Memorie, l’amore precede e
suscita il timore e l’obbedienza. Va, però, mantenuto il binomio nella
sua tensione interna, evitando riduzioni che andrebbero a scapito
della qualità educativa e della completezza della figura paterna. In
altri termini, la paternità educativa implica sia l’affetto e
94

10.5 Page 95

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l’amorevolezza sia il timore, inteso come rispetto profondo per
l’educatore ed espresso concretamente nell’obbedienza, nell’ambito
di una necessaria e feconda dissonanza educativa. Alla madre si
uniscono confidenza e obbedienza come condizione e sostegno per la
crescita dell’educando. D’altra parte le viene attribuita direttamente
(non esclusivamente) una particolare capacità pedagogica,
sintetizzata nel termine “assistenza”. Si tratta di un insieme di
disposizioni dell’educatore (acuta sapienza educativa e spirituale,
unita a capacità pedagogica concreta) che si manifesta nella
presenza attiva e significativa per la crescita dell’educando e nella
trasmissione di contenuti e atteggiamenti adattati alla sua età e
condizione. Più ampiamente, padre e madre si caratterizzano dal
fatto di assumere con animo e fedeltà il compito di educazione
cristiana dei figli, anche nelle situazioni più difficili. Tutte queste
dimensioni vengono collocate nell’orizzonte fondamentale della
confidenza in Dio. Finalmente, la figura ideale del fratello
sottinteso, “fratello più grande” - , (contrapposta alla figura “reale”
di Antonio), si caratterizza per la benevolenza espressa in gesti
concreti, capace di suscitare l’amore per il dovere e la disciplina.
Nell’ambito sociale e scolastico possiamo collocare le figure
del professore, dell’ amico. e del tutore, assimilata a quella
dell’amico. Per il professore, oltre alla necessità di competenza
scientifica e pedagogica, espressa nella qualità d’insegnamento e
nella capacità di “tenere la disciplina”, notiamo la riconduzione alla
figura del padre. Da una parte si riprende il binomio dell’educazione
nell’amore e dell’obbedienza; dall’altra si presenta il professore nella
sua “bontà” come figura che prolunga l’amore educativo familiare,
offre all’educando la possibilità di superare i diversi ostacoli alla
crescita e proporziona la necessaria formazione culturale che la
famiglia normalmente non è in grado di garantire. L’altra figura
dell’ambito sociale, l’amico, viene fortemente caratterizzata dal
rapporto di “confidenza” totale, intimamente legata a “vicinanza”,
“affezione”, accoglienza e condivisione profonda. Se in qualche modo
la figura del professore trova la piena luce nel rapporto con il padre,
l’amico si distingue per il rapporto di totale confidenza, ruolo
collegato alla figura della madre. In questa prospettiva si proietta e
sotto un certo aspetto si compie nella figura della guida1.
Dall’ambito ecclesiale emergono le figure del sacerdote e della
guida spirituale e vocazionale, essenziali al modello educativo
dell’Oratorio. Del sacerdote si sottolinea l’esemplarità della vita a
partire della conformazione a Cristo nell’obbedienza al Padre e nel
dono di sè ai fratelli. Il ruolo della guida, come mediazione
ecclesiale, da una parte sottolinea il rapporto pedagogico
dell’educatore con l’educando, nell’ambito specifico di una proposta
adeguata di vita cristiana; dall’altra mette in evidenza la necessità,
per entrambi, di docilità e obbedienza davanti a Dio. Attraverso
l’amicizia spirituale fedele, capace di suscitare la piena confidenza
1 Per la corretta interpretazione dei dati ripetiamo la necessità di non intendere le
presenti distinzioni in modo di esclusività riguardo ai soggetti, ma nella
complementarietà delle funzioni dell’educatore/pastore.
95

10.6 Page 96

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da parte dell’educando, vengono tolte le difficoltà e indicati
pedagogicamente i passi nel cammino spirituale fino al
discernimento della vocazione/missione cristiana specifica. La guida
si rende disponibile per la cura globale delle dimensioni temporale e
spirituale, e degli aspetti cristiano e specificamente vocazionale del
cammino.
Finalmente, la possibilità e l’orizzonte di comprensione di
questi modelli si trova nella paternità di Dio, nell’opera di Cristo,
nella manifestazione dello Spirito. Dio Padre è la grande guida della
storia, la Provvidenza che suscita nell’educatore/pastore
l’obbedienza gioiosa e la confidenza totale. È nella stessa paternità
divina che troviamo il modello ultimo e la sorgente della paternità
educativa. A partire dal modello che è Cristo, i tratti più marcati
nella figura di educatore/pastore, sono l’offerta di se nella
obbedienza al Padre e nella dedizione totale ai giovani, sintetizzata
nella categoria dell’essere “amico” (l’essere “in mezzo”) e il compito
di guida a immagine del Pastore (l’essere “alla testa”). A certe
condizioni, lo Spirito del Signore si manifesta nelle parole e
nell’atteggiamento spirituale dell’educatore/pastore (cf 1.516).
Maria Santissima è la Maestra della Sapienza necessaria
all’educatore. Si tratta di vera sapienza, che supera la scienza ed è
condizione necessaria per il raggiungimento pieno del fine
dell’educazione. Ma oltre all’essere modello dell’educatore, Maria è
presente come madre nei momenti decisivi della vita spirituale e
delle scelte educativo/pastorali, suscitando filiale fiducia. L’altra
figura, S. Francesco di Sales, viene evocata esplicitamente come
“protezione” e modello da “imitare”, sia nella sua “straordinaria
mansuetudine e guadagno delle anime”, come “nel combattere gli
errori contro alla religione” (2.1086-1088).
3.2. Nuclei dinamici
Dopo aver focalizzato le figure di ispirazione dell’identità del
modello, passiamo alla presentazione dei suoi processi formativi. Il
termine processo sottolinea l’aspetto dinamico dei caratteri
considerati. Nelle Memorie, le varie figure educative, e quindi il
modello finale, non vengono normalmente presentate in modo statico
e sistematico, ma in azione. Il modello viene delineato attraverso la
dinamica narrativa del testo, la presenza di contro-modelli che
aiutano a contraddistinguere la figura finalmente intesa e i
travagliati processi necessari alla realizzazione dell’identità
educativa/pastorale. Modello di educatore/pastore è quindi colui che
nella costruzione della propria identità e della prassi educativa non
si lascia arrestare dalla routine spirituale nè dalla ripetizione
meccanica, non rispettosa dei cambiamenti della condizione giovane,
ma si rende aperto ai processi che lo rinnovano e consolidano
profondamente in campo spirituale e pedagogico.
3.2.1. Processi del tracciato spirituale
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10.7 Page 97

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Consideriamo in primo luogo la sintesi dell’insieme dei
processi riguardanti il processo spirituale in forza del primato di Dio
nei momenti dell’iniziativa/ vocazione/invio, nella configurazione
spirituale dell’educatore/pastore, e nell’orizzonte e contenuti della
prassi educativa.
In questo quadro, il primo processo riguarda la crescita nella
confidenza in Dio e nella disponibilità spirituale alla presenza attiva
della Provvidenza. Per l’educatore/pastore diventa progressivamente
certo che all’affidamento di una missione data da Dio corrisponde la
disposizione dei mezzi necessari, la risoluzione delle difficoltà
inerenti e l’appianamento della strada. Dal punto di vista del
soggetto, la strada della confidenza in Dio corrisponde ad una
conversione profonda che porta a ricollocare in Dio la propria
speranza, ad affermarlo come la propria forza, ad abbandonarsi
autenticamente in Lui, a lodarlo per le sue benedizioni. Ovviamente
la confidenza in Dio non giustifica nessun tipo di dimissione delle
proprie responsabilità di lavoro. Al contrario si rispecchia nel
versante della spiritualità educativa come crescita nella fortezza, e si
esprime concretamente, nella fedeltà sulla via indicata da Dio, nel
non compromesso del primato del valore educativo/pastorale davanti
ad altro interesse, nella decisa rinuncia a forme contrastanti con il
modello o addirittura nell’esclusione di elementi fortemente
dissonanti. Il nucleo discriminante del processo sta nel non collocare
in se stesso o “negli uomini”, ma in Dio la speranza ultima per la
risoluzione delle difficoltà di cui sopra.
All’interno della prospettiva del primato di Dio, un altro
processo spirituale corrisponde alla necessità di discernimento della
sua volontà da parte dell’educatore/pastore. La realizzazione
dell’identità del modello nella diversità dei contesti storici e culturali
è resa possibile dal costante e rinnovato discernimento per la fedeltà
al campo e al fine della missione. Superate le prime resistenze e
difficoltà su questo aspetto, il processo richiede un continuo
atteggiamento di docilità e di apertura alla novità del Dio che
manifesta e realizza continuamente “cose nuove” nella storia. In
questo modo, l’identità dell’educatore/pastore si configura come
colui che per obbedienza e non per auto-decisione assume il compito
educativo nella missione che gli viene indicata e i destinatari come
persone che gli vengono affidate.
Questo processo è reso possibile attraverso la conformazione a
Cristo inviato e totalmente obbediente al Padre, umiliato fino alla
Croce, costituito vero pastore del gregge e capo della Chiesa. Non è
data da un rapporto estrinseco tra educatore/pastore o dall’esempio
morale di Cristo, ma dalla comunione con Lui. L’Eucaristia,
“elemento fondamentale della nostra istituzione” (3.64-65) e
l’intensa vita di preghiera rendono possibile all’educatore il vivere la
propria missione educativa come partecipazione all’amore di Dio per
i giovani. Concretamente, la conformazione a Cristo esige la
rinnovata consegna totale della persona, della vita e della salute,
delle capacità e attività. I vantaggi di questo movimento per
l’educatore/pastore sono notevoli e si esprimono nel superamento
97

10.8 Page 98

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dell’affanno attorno a obiettivi dispersivi ed eventualmente
conflittuali con l’unica occupazione necessaria e con l’armonia
interiore.
L’educatore/pastore attua questi processi non tanto attraverso
la ricerca di attività alternative o aggiuntive, ma nella purificazione
delle intenzioni che lo muovono nelle attività in corso. Il passaggio
implica ed esige il distacco di se stesso ed è facilitato dalla rinuncia
alle attività o interessi che sono di ostacolo per il progresso
spirituale e pedagogico, e si esprime nel riordinamento/riconsegna
delle attività inerenti alla missione, avendo come fonte e modello il
dono totale di Cristo.
3.2.2. La prassi educativa
Nel quadro della prassi educativa consideriamo in primo luogo
il rapporto educativo/pastorale con i fratelli, particolarmente i
giovani abbandonati a se stessi. Questo rapporto caratterizza tutto il
modello con una essenziale valenza pedagogica. Parliamo di
“abbandono” e di “giovani abbandonati” a se stessi come espressioni
chiave per la determinazione del campo preferenziale dell’azione
educativa, criterio che in certo modo comanda la conformazione
dell’educatore/pastore, già a partire dal processo di discernimento e
in seguito nella prassi educativa. In concreto, si sottolinea la
disponibilità fondamentale dell’educatore/pastore ad “avvicinare” i
“lontani”, a renderli “vicini” e dare a quanti ne hanno più bisogno i
contenuti culturali ed evangelici necessari alla coscienza della loro
dignità filiale e adeguati al raggiungimento del loro fine.
3.2.2.1. Il campo giovanile
Prima di passare ad una sintesi del modello prospettando la
prassi educativa, facciamo due annotazioni fondamentali sul campo
della missione, ossia sui destinatari di quella medesima prassi.
In primo luogo notiamo che i termini abbandono e giovani
abbandonati, criterio ricorrente e primario nelle Memorie per la
destinazione del lavoro educativo, non corrispondono semplicemente
ad una categoria sociologica, anche se normalmente la situazione di
abbandono viene colta a partire da categorie sociologiche.
L’abbandono caratterizza la situazione della persona che in
determinate circostanze di tipo socio/culturale e/o personale, e per
mancanza dell’appoggio educativo, si trova nella impossibilità
pratica di conoscere e raggiungere il fine della propria vita,
nonostante la buona volontà. Nel tessuto delle Memorie il giovane
abbandonato a se stesso non è capace di scoprire la preziosità ultima
della propria esistenza alla luce di Dio, nè a consolidarsi nel piano
assiologico. Dal punto di vista dell’educatore/pastore, la percezione
dell’abbandono si colloca come criterio di lettura legato
simultaneamente al giovane, creato in Cristo, e all’identità
dell’educatore/pastore. L’introduzione di questo criterio-guida non
elimina, anzi potenzia la sollecitudine dell’educatore/pastore in vista
98

10.9 Page 99

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del superamento di ogni ostacolo nella crescita del giovane e
dell’autentica promozione delle popolazioni.
In questo senso, viene presentato l’insieme delle circostanze
socio/culturali a partire dalle quali è possibile rilevare la situazione
di abbandono. Nelle Memorie, esse sono: la distanza dal paese di
origine, i legami familiari, particolarmente la presenza/assenza dei
genitori e la loro capacità educativa, la distanza (in termini non
strettamente geografici, ma culturali e affettivi) in rapporto ai centri
educativi ed ecclesiali, l’età (in rapporto al grado di formazione
culturale raggiunto e alla conoscenza della fede e alla vita
cristiana). Si aggiungono difficoltà di linguaggio, ignoranza,
mancanza di occupazione come aggravanti dei registi precedenti.
Questi sono gli argomenti della prima parte dei dialoghi di primo
incontro, tra l’educatore/pastore e l’educando, normalmente costruiti
in base alle domande o interrogativi rivolti dal primo al secondo. La
conoscenza di questi contenuti non corrisponde agli atti di procedura
anagrafica, nè si arresta al livello di un primo passo come innesco di
un rapporto di amicizia, ma si proietta nel processo di discernimento
di cui abbiamo parlato sopra. È in causa la percezione del vuoto
educativo, per mancanza di un tipo di rapporto insostituibile e
indispensabile alla persona giovane. Espressioni come trovarsi in
“pericolo” e “gioventù pericolante” rendono conto del riflesso morale
dell’abbandono. In questa prospettiva il modello di
educatore/pastore si disegna come colui che davanti ad una
condizione giovanile, caratterizzata da questi o altri fattori, a
seconda dei contesti storico/socio/culturali, comunque rispondenti
alla situazione fondamentale di abbandono, non si dimette della sua
responsabilità (davanti a Dio e alla persona del giovane) e
intraprende con coraggio e criterio l’azione educativa nella direzione
indicata.
In secondo luogo notiamo che “preferenzialità” non significa
“delimitazione”, ma comporta una tensione di universalità,
corrispondente ad una visibilizzazione dell’universale volontà
salvifica di Dio. La missione è rivolta a tutti (cf 2.714). Nelle
Memorie questo dato viene espresso sia attraverso l’uso metaforico
del termine “moltitudine”, sia in base ai dati corrispondenti alla
missione dell’Oratorio, che non solo si estende a nuove fondazioni,
ma si apre al lavoro pastorale nel campo della stampa e della
comunicazione pubblica, in ampie e inattese prospettive di azione
educativo/pastorale. Ancora una volta si risponde al criterio
fondamentale di “abbandono” in cui si trovava il popolo, soprattutto i
giovani, per quanto riguarda una formazione cristiana
adeguatamente presentata. Partendo dal rapporto dinamico tra
“preferenzialità” e “universalità”, la caratteristica rilevabile nel
modello di educatore/pastore è l’attenzione/risposta educativa ai
fenomeni sociali emergenti, particolarmente incisivi sui giovani, e
l’apertura a nuovi orizzonti di lavoro, anche a costo di estrema fatica.
3.2.2.2. Pedagogia e comunicazione
99

10.10 Page 100

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Dopo avere accennato ai criteri fondamentali della scelta di
campo, non certo indifferenti per la caratterizzazione del modello -
basta per questo confrontare altri modelli presenti nel testo stesso -,
passiamo alla configurazione dell’attuazione educativa diretta.
Una prima esigenza riguarda l’accurata preparazione didattica
e la formazione scientifica o tecnica all’interno del processo
culminante nell’azione pedagogica. Questa affermazione viene
basata sul riconoscimento proveniente da diverse entità pubbliche
del lavoro educativo di Valdocco. Ci riferiamo non solo all’educazione
morale e quindi al cambiamento dei giovani frequentatori nella
prospettiva della propria dignità, nella qualità dei rapporti
interpersonali e nella disponibilità ad un contributo per la
costruzione del tessuto sociale attraverso il lavoro. Intendiamo
focalizzare specificamente le novità didattiche, la qualità pedagogica
dell’educatore/pastore ed il progresso scientifico, culturale, tecnico e
artistico dei giovani.
Il dato didattico/pedagogico include una effettiva trasmissione
di competenze e, sotto questo aspetto, non si identifica con il dato
educativo/sapienziale, inteso come comunicazione sapienziale di vita.
E intanto, nel modello di educatore/pastore presentato dalle
Memorie la qualità ed esattezza della trasmissione di competenze
scientifiche e tecniche esiste all’interno e non fuori del dato
educativo/sapienziale. Anzi, è proprio l’identità sapienziale
dell’azione educativa che esige la formazione e la cura in ambito
pedagogico come uno dei luoghi dove si dimostra concretamente
l’amore educativo. Le presenti considerazioni vanno riportate al
tema dell’“esatto compimento dei doveri” che nel percorso analitico
abbiamo trovato particolarmente significativo in riferimento al
percorso formativo e spirituale delineato dall’Autore, con incidenze
decisive sul modello finale di educatore/pastore. Ancora una volta la
caratteristica fondamentale dell’armonia e della sintesi del modello
trovano una concretizzazione nella capacità di unire, alla
competenza culturale, la cura didattica, tutto all’interno di
un’orizzonte più ampio dato dal “sistema” educativo/pastorale. Nè le
due prime vengono assolutizzate, nè la pedagogia dell’amore
dispensa l’impegno nella promozione nel progresso del giovane in
ordine al lavoro culturale, tecnico o artistico.
Riprendiamo il filone riguardante la qualità didattica per una
breve considerazione sul modello di educatore/pastore come modello
di comunicazione. Sono frequenti e diversificati i riferimenti espliciti
all’apprezzamento di una comunicazione autentica e globale. Le
caratteristiche sottolineate nel comunicatore sono la brevità, la
chiarezza del pensiero, l’entusiasmo, la “popolarità”, cioè
l’adattamento al pubblico e perfino la qualità della voce. Le forme
d’intervento educativo/pastorale sono il dialogo, il trattenimento o
lezione in gruppo medio, la comunicazione in pubblico (discorso o
predicazione). Il genere preferito è quello narrativo, espresso in
personificazioni, similitudini, esempi pratici. Intanto il “sistema
dell’Oratorio” appare come un’autentico modello di comunicazione
globale sia in ragione della funzione comunicativa dell’ambiente sul
100

11 Pages 101-110

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11.1 Page 101

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soggetto, sia attraverso la concreta valorizzazione pedagogica del
canto e della musica, della poesia, del teatro e di varie forme di
comunicazione visuale. A queste si aggiungono la stampa di fascicoli
e libri per l’educazione nell’Oratorio e l’estensione comunicativa
attraverso le pubblicazioni formative a carattere divulgativo.
3.3.3.3. Pedagogia e spiritualità
Come interpretare questi dati in rapporto al modello di
educatore/pastore? Qual’è il segreto di questa prodigiosa attività?
Escludiamo, in partenza, per quanto abbiamo detto sulla purezza di
intenzione, la ricerca di auto-valorizzazione nei diversi ambiti e
competenze al di fuori di una prospettiva di servizio. D’altra parte
sembra che il nucleo identificativo del modello non vada cercato
nella semplice acquisizione di una elevata quantità di competenze
nei vari ambiti descritti o nell’abilità nell’esercizio di tecniche
comunicative. Il movente dell’estensione, della novità e intensità
delle espressioni educativo/pastorali va di nuovo trovato nel rapporto
fecondo con la spiritualità missionaria, cioè nel dinamismo della
carità di Dio, che porta non solo a consegnare tutte le capacità e
sensibilità della persona, ma stimola a cogliere le concrete
opportunità di abilitazione nell’orizzonte della missione.
Una delle espressioni sintetiche per indicare questa dedizione
totale alla missione, a partire da un impulso proveniente della carità
di Dio, è lo zelo (2.740). Lo zelo caratterizza il modello di
educatore/pastore come una persona profondamente radicata nella
carità di Dio che, proprio a motivo della conformazione a Cristo, non
si arresta nel lavoro, nè limita le modalità di intervento educativo, nè
permette che la conservazione della propria vita diventi ostacolo
all’azione pastorale. Dalla stessa carità di Cristo sorge un’altra
manifestazione caratterizzante del modello nei vari momenti e
attuazioni della prassi educativo/pastorale: la mansuetudine e la
carità. Questo processo di visibilizzazione della carità di Cristo, per il
giovane, permette di affermare che la distinzione tra metodo e fine
educativo/pastorale viene superata nella prassi, dove l’esperienza
del metodo diventa quasi attualizzazione del fine. D’altra parte
l’educatore/pastore non si configura a partire dal fare, ma dal fare
informato dalla carità, che “guadagna” il cuore e simultaneamente
suscita timore e obbedienza. Questa scelta comporta risvolti
pedagogici significativi, ad esempio nel progresso degli educandi, o
nel campo dell’applicazione dei castighi. La figura ideale rimane
quella dell’educatore che concilia nella prassi il progresso degli
educandi, l’affezione e la non applicazione di castighi. I risvolti in
campo spirituale non sono minori, poiché la mansuetudine e la carità
realizzano la santificazione nell’educatore/pastore simultaneamente
alla significazione della salvezza presso i giovani. Si potrebbe parlare
di una pedagogia di manifestazione.
Un altro elemento caratterizzante del modo di essere
educatore/pastore nelle Memorie, legato sia alla vita spirituale che
alla prassi pastorale è la gioia. Da una parte la sorgente ultima della
101

11.2 Page 102

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gioia è la confidenza in Dio e l’unione alla Risurrezione di Cristo;
d’altra parte l’educatore/pastore trova la gioia nell’“esatto
compimento dei doveri”, cioè nell’insieme della prassi educativa. In
rapporto all’educando, la gioia si presenta come segno salvifico, che
manifesta la propria sorgente, attualizza il fine, cioè il “paradiso” e
rimuove gli ostacoli comunicativi, suscitando la confidenza. Il
“fondamento” e la celebrazione piena di questa realtà è l’Eucaristia
(e più ampiamente le “pratiche di pietà”), vista non come un settore
del modello o come proposta affianco alle altre, ma come vero cuore
della globalità della vita. La vittoria sul male, inerente alla vita in
Cristo, concretamente vissuta nel sacramento della confessione
segna indiscutibilmente il passaggio all’esperienza della gioia che
colora tutto il testo delle Memorie.
3.2.3. Gli ambiti della prassi educativo/pastorale
A partire dalle considerazioni del rapporto tra “fine” e
“bisogno”, si arriva alla conclusione che il nucleo fondamentale per
la scelta di campo dell’intervento educativo pastorale si gioca nel
rapporto dinamico tra l’amore Dio e la condizione del giovane.
L’educatore/pastore, costantemente attento a questo rapporto
salvifico, da una parte assume la missione di rendere percettibile al
giovane l’amore di Dio; dall’altra, sul modello della pedagogia divina
pienamente rivelata in Cristo, fa il primo passo per l’incontro con
l’altro, nell’incrocio in cui egli si trova, aprendo in quel momento e
nei contatti successivi nuove prospettive di cammino.
Questo processo educativo dà origine a vari ambiti di
intervento che rispecchiano le varie dimensioni della persona
(intellettuale, affettiva ed operativa), sia come individuo sia nella
propria identità sociale.
In questa prospettiva, una linea che caratterizza il modello di
educatore/pastore a questo riguardo è la completezza dell’intervento
educativo riassunto dall’Autore in “spirituale e temporale”, “affinché
diventino buoni cristiani in faccia alla religione, onesti cittadini in
mezzo alla civile società” (3.1394-1397).
La natura essenzialmente pedagogica del modello è data dal
fatto che il destinatario è giovane; la necessità di riferimento o di
intervento diretto in ambito culturale, lavorativo, artistico e
recreativo oltre che specificamente catechetico è motivata sia da una
visione non settoriale della persona, sia dalla situazione di
abbandono in cui il giovane si incontra.
Per questo motivo è simultaneamente vero che “l’Eucaristia è il
fondamento della nostra istituzione” e che nella stessa istituzione
trovano spazio e sviluppo molte e diversificate attività di formazione
e ricreazione. L’autore parla di “mescolanza di divozione, di trastulli,
di passeggiate” (3.290-291)2
Nelle Memorie si descrive un modello di educatore/pastore che
2 La tematica viene accennata anche in Memorie, 3.194-196.
102

11.3 Page 103

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segna il passaggio discriminante verso un sistema educativo che
parte dal destinatario in situazione, visto nella totalità delle
dimensioni, e si adatta nelle forme esteriori, senza perdere l’identità,
al servizio del suo fine trascendente. Lo specifico del modello sta
nella sintesi esistenziale del rapporto con il Trascendente nella
prassi educativa in atto. Ogni attività, scelta con discernimento,
viene colta dall’educatore e condivisa con l’educando come momento
opportuno di apertura al Trascendente, illuminata con un senso
nuovo e riempita di significato. Lo sganciamento dei due termini,
farebbe cadere in concreto la fisionomia vera del modello.
Per chiarezza ricordiamo che la caratterizzazione del modello
educativo non va cercata nella estensione e nella diversità delle
attività proposte (l’Oratorio mantiene la propria identità oltre la loro
quantità e varietà), ma nel criterio pedagogico della scelta e nella
coscienza attuale del loro riflesso trascendente. Anzi le Memorie
mostrano come attraverso la fedeltà a questo principio non si dà
contraddizione tra quantità/diversità della prassi e qualità/unità
dell’itinerario educativo/pastorale, allargandosi sempre di più il
campo dell’Oratorio sotto la benedizione di Dio.
La sintesi del fine della passi educativo/pastorale data
dall’espressione “buoni cristiani in faccia alla religione, onesti
cittadini in mezzo alla civile società” (3.1394-1397) offre una
concretizzazione della caratteristica “sintesi nella totalità” o
“globalità” del modello, dove gli apparenti conflitti tra spirituale e
temporale, chiesa e società e altri simili vengono superati senza
eliminare le distinzioni. Ma non solo. Proprio in questo ambito siamo
portati al riscontro di un processo educativo di notevole spessore: la
responsabilizzazione.
Notiamo in primo luogo che il processo educativo deve portare
l’educando alla capacità di risposta personale e in certo senso
autonoma. In altri termini, il modello di educatore/pastore delle
Memorie non introduce un processo educativo privo di sbocco verso
la responsabilità nel pieno e adulto esercizio della coscienza
personale. È proprio attraverso un rapporto confidente e obbediente
con la figura dell’educatore/pastore che si introduce nel processo
formativo il momento di passaggio, segnato da una certa rottura e
dall’assunzione della propria strada di obbedienza/dedizione.
La responsabilità vissuta dall’educatore/pastore è uno dei
contenuti esistenziali comunicati all’educando. Il testo esplicita
questo processo, per esempio, quando riporta il progresso culturale
e la capacità di autonomia economica nell’inserimento sociale, il
lavoro specificamente vocazionale nell’educazione cristiana,
l’esercizio della sussidiarietà nel momento della consolidazione e
sviluppo istituzionale dell’Oratorio.
In secondo luogo, la prassi educativo/pastorale deve portare
non solo alla sintesi e alla crescita armonica del giovane nella
totalità delle dimensioni, ma ad una responsabilità personale che
rende atto dell’esercizio di quella sintesi. Questo implica che lo
stesso educatore per primo sappia muoversi in ambito sociale e
istituzionale senza perdere la propria identità. Ancora una volta,
103

11.4 Page 104

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questo pare possibile sia per l’educatore/pastore, sia per l’educando,
attraverso il riconoscimento di Dio come fondamento assoluto della
vita e attraverso la personale adesione al primato morale nella vita
sociale.
104

11.5 Page 105

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INDICE
ELEMENTI GUIDA DELLA VITA SPIRITUALE DELL’AUTORE IN
PROSPETTIVA DELLA MISSIONE EDUCATIVO/PASTORALE. 1
ANALISI DEL TESTO DELLE MEMORIE DELL'ORATORIO.............................................................1
0. CRITERI DI ANALISI..........................................................2
0.1. OBIETTIVO E SIGNIFICATO..........................................................................................2
0.2. I PASSAGGI DATI DALL’AUTORE....................................................................................4
0.3. LE FASI DI PASSAGGIO SPIRITUALE.................................................................................6
1. SCOPERTA DI DIO PADRE ED ESPERIENZA DELLA
CONFIDENZA.......................................................... ...............7
1.1. TRE INDICATORI PER LA LETTURA: CONFIDENZA IN DIO, LAVORO E EDUCAZIONE CRISTIANA.........7
1.1.1. Confidenza in Dio......................................................................................7
1.1.2. Lavoro.......................................................................................................8
1.1.3. Educazione cristiana..................................................................................8
1.2. COMPLEMENTARIETÀ TRA CONFIDENZA ED OBBEDIENZA ....................................................9
1.3. MOMENTI DINAMICI DELLA STRUTTURA NARRATIVA: LO STUDIO, IL SOGNO, UNA CRISI.............10
2. COSCIENZA DEL DONO DI DIO E NECESSITÀ DELLA
“RITIRATEZZA”................................................. ...................12
2.1. L’ASSISTENZA.......................................................................................................12
2.2. CONFESSIONE E COMUNIONE...................................................................................13
2.3. LA PROMESSA: “PER LAVVENIRE...”...........................................................................13
2.4. CLIMA DI RACCOGLIMENTO .....................................................................................14
3. GUIDA STABILE E GUSTO DELLA VITA SPIRITUALE .....15
3.1. IL RUOLO ATTORIALE DI DON CALOSSO.......................................................................15
3.1.1. Guida stabile e gusto della vita spirituale................................................16
3.1.2. Strumento per l’acquisizione della scienza e lo sblocco nella vocazione 17
3.1.3. Morte di don Calosso: il fatto e il significato...........................................18
3.2. DON CAFASSO, RITIRATEZZA, NOVITÀ DI VITA E VOCAZIONE...............................................18
4. FORTEZZA E PRESA PERSONALE DI POSIZIONE...........20
4.1. “DIVISIONE FRATERNA”...........................................................................................20
4.2. PROGRESSI E TENTAZIONI.........................................................................................21
5. SCUOLA A CHIERI. UN MODELLO DI AMBIENTE
EDUCATIVO CHE FAVORISCE IL RADICAMENTO E LA
STABILIZZAZIONE NELLA VITA CRISTIANA ......................23
5.1. LA SCUOLA DI CHIERI: LA RELIGIONE COME FONDAMENTO DELLEDUCAZIONE.......................23
5.1.1. Bontà dei professori: tratti dell’educatore modello secondo Don Bosco.24
5.1.2. I compagni................................................................................................26
5.2. LUIGI COMOLLO....................................................................................................30
5.3. FATTI DI AMENA RICREAZIONE..................................................................................32
5.3.1. Vantaggiose profferte .............................................................................32
5.3.2. Onomastico...............................................................................................32
5.3.3. Giona.......................................................................................................33
5.3.4. Giochi e magia..........................................................................................34
5.3.5. Il saltimbanco..........................................................................................35
5.4. LO STUDIO..........................................................................................................36
5.5. SCELTA DELLO STATO.............................................................................................36
5.5.1. Discernimento e deliberazione................................................................36
5.5.2. La preparazione e l’integrazione in un quadro più generale...................39
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6. SEMINARIO DI CHIERI. STABILIZZAZIONE NELLA
VOCAZIONE E NELLO SPIRITO SACERDOTALE..................41
6.1. LO SPIRITO ECCLESIASTICO......................................................................................41
6.1.1. Un nuovo orientamento............................................................................41
6.1.2. Una prospettiva unificante......................................................................42
6.1.3. Un combattimento....................................................................................43
6.2. ZONA PROGRAMMATICA............................................................................................43
6.2.1. Il giorno della vestizione...........................................................................43
6.2.2. Il regolamento di vita................................................................................46
6.2.3. Il dialogo con la madre............................................................................47
6.2.4. L’entrata nel seminario: gioia e dovere....................................................49
6.3. LA VITA NEL SEMINARIO...........................................................................................51
6.3.1. Il consolidamento interiore.......................................................................51
6.3.1.1. La ritiratezza.......................................................................................... ......51
6.3.1.2. Gioia che appaga il cuore: tempo e doveri........................ ...........................54
6.3.1.3. La gloria di Dio, le prediche............................................................ .............55
6.3.2. La pratica e lo spirito................................................................................57
6.3.3. Lo studio...................................................................................................58
6.3.4. La vocazione.............................................................................................60
7. IL CONVITTO. COSCIENZA DELLA MISSIONE, INIZIO E
STABILIZZAZIONE DELL’ORATORIO...................................62
7.1. LO STUDIO E LAZIONE PASTORALE..............................................................................62
7.2. LA VOLONTÀ DI DIO..............................................................................................63
7.2.1. Discernimento: i voleri del Cielo.............................................................63
7.2.2. Il Cafasso direttore spirituale..................................................................64
7.2.3. Un sogno.................................................................................................67
7.3. I TEMPI DELLA FORTEZZA........................................................................................68
7.3.1. Lettura teologica degli avvenimenti........................................................68
7.3.2. Il vero problema......................................................................................70
7.3.3. Che debbo fare? Dove andare?................................................................71
7.3.4. L’inutilità del progetto...............................................................................72
7.4. LA MISSIONE.......................................................................................................74
7.4.1. Universalità.............................................................................................75
7.4.2. “Se trovano un amico…”...........................................................................76
7.4.3. Consolidazione dell’Oratorio ed Eucaristia.............................................77
7.5. LA SANITÀ..........................................................................................................78
8. TETTOIA E CASA PINARDI. ABBANDONO DEFINITIVO IN
DIO E SVILUPPO DELL’ORATORIO......................................81
8.1. RITORNANDO ALL’ORATORIO.....................................................................................81
8.2. IL LAVORO..........................................................................................................83
8.3. LA VITA..............................................................................................................83
8.4. UN PASSAGGIO SPIRITUALE DEFINITIVO.........................................................................85
CONCLUSIONE. IL MODELLO DI EDUCATORE/PASTORE
EMERGENTE.......................................................... ..............90
1. PREMESSE METODOLOGICHE.......................................................................................90
2. PROSPETTIVE FONDAMENTALI.......................................................................................90
2.1. Spiritualità e educazione ...........................................................................90
2.2. “Fine” e “bisogno”.......................................................................................91
3. CONFIGURAZIONE DEL MODELLO...................................................................................93
3.1. Modelli del modello......................................................................................93
3.1.1. Caratteristica comune: essenziale relazionalità ..................... ........................93
3.1.2. Le distinzioni............................................................................................. ......94
3.2. Nuclei dinamici............................................................................................96
3.2.1. Processi del tracciato spirituale................................................... ...................96
3.2.2. La prassi educativa................................................................ .........................98
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11.7 Page 107

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3.2.2.1. Il campo giovanile.................................................................... ................98
3.2.2.2. Pedagogia e comunicazione........................................ .............................99
3.3.3.3. Pedagogia e spiritualità....................................................................... ...101
3.2.3. Gli ambiti della prassi educativo/pastorale................................................. ...102
INDICE...................................................... .........................105
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