Mistici nello Spirito
Invito a pregare la Parola
“A Dio che ci ha scelti, ci ha chiamati e ci ha riservati a sé, noi rispondiamo con una dedizione totale ed esclusiva. Il primato di Dio, che nasce dalla libera e amorevole iniziativa di Dio nei nostri confronti, si traduce nell’offerta incondizionata di noi stessi…. Solo nella forza dello Spirito possiamo vivere questa chiamata; è Lui che nella storia della Chiesa attrae sempre nuove persone a percepire il fascino di una scelta tanto impegnativa; è Lui che ha suscitato Don Bosco, al cui progetto apostolico abbiamo aderito con la professione religiosa”.1
Per approfondire, pregando, la dimensione spirituale della nostra vocazione salesiana, don Juan J. Bartolomé ci propone due schemi di preghiera orante: il primo, centrato su un resoconto paolino della sua vocazione; il secondo, sull’unico racconto evangelico di vocazione non riuscita. Ambedue, anche se tanto diversi, sottolineano che per seguire Gesù lo si deve prima trovare per poi lasciare tutto quanto, pure quello che è buono per il chiamato, sia la legge di Dio siano i beni di Dio.
Raccontando ai galati l’origine della sua vocazione Paolo svela loro la ragione essenziale della sua passione apostolica: è stato ‘trovato’ dal Risorto e ha trovato la missione della sua vita. Una esperienza personale di Dio, che gli ha fatto conoscere suo Figlio nel suo cuore e lo ha portato immediatamente a predicare il vangelo. Senza incontro con Dio il credente non incontra la sua vocazione.
La memoria del giovane buono, che non poté seguire Gesù perché non volle distaccarsi dai propri beni, diventa un avvertimento permanente per quanti oggi lo seguono. Se dovrebbe farci arrossire il fatto che Gesù abbia contato su di noi, senza essere in grado di dirgli che abbiamo già osservato tutto quel che Dio vuole da noi, dovrebbe farci vergognare ancor di più il fatto che continuiamo a seguirlo, rimanendo però attaccati ai nostri beni, e che cerchiamo in Lui il Bene ed allo stesso tempo continuiamo ad accumulare altri beni.
I. Incontrare Cristo per incontrare la propria vocazione:
Gal 1,13-17
Scrivendo ai galati, venti anni dopo la sua ‘conversione’, Paolo ricorda, ancora una volta, quanto gli accade sulla via di Damasco. Non esprime questa confessione come confidenza; è piuttosto un argomento nella difesa del suo vangelo. Non parla a neofiti fedeli, ma a “uomini stupidi” che “in fretta” stanno abbandonando la grazia di Cristo e passano ad un altro vangelo (Gal 3,1; 1,6). È inconfondibile il tono aspro e polemico della sua testimonianza.
Per capire il testo
Fondate dall’apostolo poco prima (At 16,6; 18,23), le comunità della Galazia lo avevano accolto “come un angelo di Dio, come Cristo Gesù” (Gal 4,14) e avevano creduto alla sua predicazione ricevendo lo Spirito e con tanti grandi portenti (Gal 3,2.5). Il primo fervore, purtroppo, non si mantenne a lungo (Gal 1,6): la visita di alcuni che presentarono “un altro vangelo” (Gal 1,7) mise in forse la correttezza del vangelo predicato da Paolo e, persino, la sua legittimità apostolica. La ‘crisi galata’ fece scoppiare nell’apostolo la più smisurata e sgradevole reazione tra quelle documentate nel suo epistolario (Gal 1,7-9; 4,17-20; 5,7-12; 6,12-14).
Contesto immediato
Per difendere, dunque, il suo ministero Paolo si presenta “apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1); e come apologia del vangelo predicato in Galazia afferma senza esitare di non averlo “ricevuto né imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,12). L’apostolo può dare per scontato che i galati conoscevano bene i fatti (Gal 1,13.22): quello che dice – e come lo dice – focalizza la loro attenzione su quanto per Paolo è decisivo: Dio è all’origine del suo apostolato e il Figlio di Dio è l’unico contenuto del vangelo che predica (Gal 1,11-12). Quanto dichiara, e in modo enfatico, dimostra la sua indipendenza apostolica e l’origine divina del suo annuncio.
Il testo
Per rafforzare tutte e due le asserzioni, si mette a narrare cosa aveva fatto prima e dopo l’incontro con il Risorto, senza fare una vera cronaca dell’accaduto. Ê il modello che utilizza pure in Flp 3: distingue bene tra la tappa precristiana dai primi passi dopo l’accettazione di Gesù come Signore, il suo passato di spietato persecutore (Gal 1,13-14) e il presente di missionario instancabile (Gal 1,15-24).
Tutte e due le parti del racconto sono credibili, ma sommarie, centrate sulle ‘condotte’, quella giudaica e quella cristiana, del protagonista. L’apostolo presenta i fatti senza abbellirli, né cerca la benevolenza dei lettori. Mentre prima non voleva che la rovina della chiesa, adesso si dedica completamente alla sua diffusione. A differenza di Flp 3, che mette più a fuoco la portata soggettiva dell’accaduto, Gal 1 svela un dato nuovo, più obiettivo e fondamentale: Dio è stato l’attore del suo cambiamento. Esso non consistette tanto in una trasformazione della condotta, né in un mutamento di fede: “Dio si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1,16).
Antecedenti:
un tempo di crudele persecuzione della chiesa (Gal 1,13-14)
Paolo non sembra vergognarsi del suo passato, quando ormai è divenuto apostolo riconosciuto, ne parla ai galati. Non doveva pentirsi di essere stato un giudeo osservante, zelante cultore delle tradizioni del suo popolo e intransigente con che non le osservava. Mai si è manifestato imbarazzato o colpevole; proprio perciò, sarà più sincera e autorevole la sua posizione: ereditare una fede e delle tradizioni che non portano a Cristo non serve a nulla.
13Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la chiesa di Dio e la devastassi, 14superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito come ero nel sostenere le tradizioni dei padri.
Noto ai lettori, Paolo non nasconde il suo passato. Piuttosto, e per mettere più a fuoco quanto dirà dopo, lo menziona, riducendo la tappa giudaica della sua vita – la metà circa! – a una persecuzione senza misura della comunità di Gerusalemme. Sembra riconoscere di non aver fatto null’altro, come ricorda Luca, dal tempo della sua giovinezza (At 7,59; 8,1; 22,20; 26,10). È, infatti, l’unico dei primi persecutori della chiesa che viene ricordato per nome: “Saulo intanto infuriava contro la chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione” (At 8,3).
Neppure qui Paolo svela le ragioni di una condotta così brutalmente anticristiana. Non gli interessa giustificarla. Lascia affermato, questo sì, il suo proposito (devastare la chiesa di Dio), l’efficacia del suo intervento (eccellere al di sopra della maggiore parte dei coetanei ), e il motivo più personale (l’appassionato zelo delle tradizioni patrie). Se perseguitava fieramente i seguaci del Cristo non era perché fosse un sanguinario o un malevolo, ma perché, convinto osservante, non sopportava defezioni né deviamenti dalla fede dei padri. Da questa fedeltà estrema alla legge lo liberò Dio stesso.
Conseguenze:
chiamato a conoscere il Figlio e ad annunciarlo tra i gentili (Gal 1,15-17)
Non solo nell’epistolario paolino, ma neanche in tutto il NT si trova una descrizione dell’accaduto a Damasco che superi, oppure sia paragonabile, a questa breve annotazione biografica.
15Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque, 16di rivelare in me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai gentili, subito, senza consultare nessun uomo, 17senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
Proprio perciò risulta alquanto scioccante che Paolo abbia dato più rilievo a quanto fece lui ‘subito’ dopo essere stato chiamato, e cioè recarsi in Arabia e ritornare poi a Damasco, che a quanto aveva fatto Dio con lui, sceglierlo, chiamarlo, mostrargli suo Figlio e convertirlo in suo apostolo. Se non di più, a un livello sintattico, l’accento dell’espressione ricade maggiormente sulla conseguenza, l’evangelizzazione immediata, anziché sul fatto stesso, la benevolenza di Dio che gli fece conoscere Gesù come suo Figlio. Gli interventi di Dio si vedono, si ‘misurano’, negli effetti.
Però Paolo non nasconde che essere inviato è stato puro dono: “per grazia di Dio sono quello che sono” (1 Cor 15,10). E, infatti, non si presenta come il soggetto attivo, ma come il beneficiato ricevitore di un intervento, tanto gratuito quanto inaspettato, di Dio in lui. Se l’attuazione di Dio è qualcosa di obiettivo, viene dal di fuori, la realizzazione accade nel suo intimo, e diventa una esperienza tutta privata: la si può documentare soltanto per il risultato che produce, la missione inevitabile.
Paolo presenta la sua vocazione apostolica come uno sperimentare Dio che adesso conosce come Padre del Risorto, o meglio come un dare a conoscere da parte di Dio – svelarsi, rivelare in modo definitivo – la sua paternità di Gesù. A questa conoscenza, ‘indotta’ da Dio, non è arrivato con le sue capacità né per la sua fedeltà. Questa ‘conoscenza’ è il motivo del suo apostolato immediato: Dio ha agito in lui in modo imprevisto, e lui subito ha agito tra i pagani. Dio si è identificato come Padre di Gesù e Paolo si sente identificato in mezzo ai pagani come suo inviato. La sua vocazione è conseguenza di una esperienza di Dio da Lui donata.
Paolo non divenne un uomo meno cattivo, né più zelante. In lui non ci fu un cambio di condotta né l’abbandono della fede giudaica. Dio gli diede un ‘sapere’ nuovo: venne a conoscere l’identità vera di Dio (Padre di Gesù) e in essa gli fu scoperta la vera identità di Gesù (Figlio di Dio). E questa comprensione, tanto era nuova che divenne definitiva (‘apocalittica’), la sentì come benevolenza divina a suo favore; la vide come una chiamata che riempì Dio di soddisfazione, di compiacimento. Dio si sentì bene quando lo chiamò e gli rivelò di essere il Padre di Gesù. L’incontro con il Risorto – ricorda Paolo ai galati – si realizzò come conversione, fu una doppia (ri)conoscenza: sapere che il Dio di Israele era in realtà Padre di Gesù (Gal 1,16), e sapersi da lui inviato ad annunciarlo ai gentili (Gal 1,17).
Tale confessione, centrale per la comprensione dell’accaduto, viene preceduta da due formulazioni, participiali nell’originale, le quali integrano la concezione di Dio che Paolo aveva ricevuta: Lui è “Colui che lo scelse fin dal seno materno” e “Colui che lo chiamò con la sua grazia” (Gal 1,15). Scegliere, separandolo per sé, prima ancora di essere nato e chiamarlo alla vita sin dal ventre materno sono espressioni che sono servite per narrare vocazioni profetiche (Ger 1,5; Is 49,1); Paolo le considera appropriate per descrivere la sua esperienza e, perciò, si presenta profeta, pure lui, eletto da Dio. In più, riconosce adesso (mentre scrive ai galati), che da sempre, persino da quando non era ancora nato o durante il tempo in cui perseguitava la chiesa, Dio lo aveva scelto e destinato come evangelizzatore dei pagani; chiamandolo alla vita, lo chiamò all’apostolato. Tutta la sua vita, compresso il lungo periodo di zelante giudeo e accanito persecutore, era stato sotto la benevolenza divina. Se ne rese conto, è vero, soltanto quando conobbe Cristo, quando si sentì inviato ad evangelizzare i gentili.
Dio essendo stato gratuito con Paolo, lo ‘educò’ alla gratuità nella missione, liberandolo dal servizio della legge di Dio per servire il Signor Gesù, il Figlio di Dio. Poiché la sua vita di persecutore non impedì a Dio di farlo diventare ‘apostolo dei gentili’ (Rm 11,13), Paolo capì che d’ora in avanti la sua vita non avrebbe avuto altro compito, né altro senso, che annunziare Cristo, e questi crocifisso (1 Cor 2, 2): “Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il vangelo” (1 Cor 9,16). Il chiamato non fa quello che vuole, né vive per realizzare i propri sogni; è stato trovato ed inviato per fare la volontà di Chi gli ha voluto tanto bene e l’ha fatto suo rappresentante e testimone.
Per illuminare la vita
La ‘conversione’ di Paolo fu, oltre che un repentino cambio di ‘mestiere’ (da persecutore a propagatore), primo et per se una esperienza di Dio. Da essa nacque e in essa attecchì la coscienza apostolica di Paolo.
Dietro la mia vocazione c’è una esperienza personale di Dio, previa e immeritata? Potrei pure io ‘giustificare’ l’apostolato che svolgo con una scoperta di Gesù, figlio di Dio? Su cosa poggio la mia chiamata, dove questa trova conferma ed energia? Da chi sono chiamato, da i giovani o da Dio?
Paolo immagina il Dio che lo ha chiamato come un Dio che si è compiaciuto chiamandolo: Dio ha ‘trovato’ soddisfazione, compiacenza, contentezza quando ha fatto sì che Paolo trovasse Gesù e l’accettasse come Figlio suo.
Fare conoscere Gesù e che sia riconosciuto come suo Figlio rende ‘felice’ Dio Padre. Questo fatto fa ‘felice’ anche me? Sono cosciente che conoscere Cristo è sempre una grazia che Dio mi fa e un ‘piacere’ che Lui si - non mi! - concede? Perché allora non ambire altro che la ‘sublime conoscenza di Cristo Gesù’ (Flp 3,8) per rendere felice Dio?
Dopo un tempo di vita apostolica, quando scriveva ai galati, Paolo ha ‘visto’ tutta la sua vita – anche il tempo in cui perseguitava la chiesa di Dio – come parte e camino di un unico progetto di Dio.
Perché io, se apostolo di Cristo, non riesco a capire tutta la mia vita come un’ammirevole storia di salvezza, anche quando non ne ero cosciente o non sono stato all’altezza della mia missione? Vocazione alla vita e vocazione apostolica coincidono nel cuore di Dio; come farò io per renderle compatibili, anzi inseparabili, nel mio cuore?
Paolo ebbe coscienza di essere stato inviato da Dio nel momento in cui ha sentito Dio. Il suo cambio di vita fu il risultato di un cambiamento – da lui percepito – in Dio: dal Dio d’Israele al Dio del nostro Signore Gesù Cristo.
Per diventare quell’apostolo che Dio spera da me, per realizzare la grazia che mi ha fatto, non dovrò di ‘cambiare’ l’idea – la relazione personale – che ho di Dio? È in Dio, un Dio gratificante e compiacente, il motivo del mio apostolato?
II.Si lascia Gesù, quando non è lui l’unico bene:
Mc 10,17-31
Pochi testi evangelici hanno avuto un influsso così profondo e duraturo nella vita della Chiesa come l'episodio del giovane ricco (Mt 19,16-30; Mc 10,17-31; Lc 18,18-30). Insieme ad altri testi che formulano le esigenze della sequela di Cristo (per es. Mt 16,24; Lc 9,23.62; Lc 14,26.33; 62), questo racconto è giunto ad essere considerato dalla tradizione cattolica come il fondamento biblico – se non l'unico, per lo meno il principale – dei cosiddetti 'consigli evangelici'. Curiosamente – e il dato passa spesso inavvertito – l’episodio è la cronaca di una vocazione fallita.
Per capire il testo
L’episodio si presenta, fondamentalmente, come un dialogo prolungato, in cui Gesù è il protagonista permanente. A seconda del suo interlocutore, sia esso uno sconosciuto, i discepoli o Pietro, si distinguono tre scene: l'incontro di un giovane con Gesù (Mc 10,17b-22), il commento che Gesù fa ai discepoli (Mc 10,23-27), la reazione dei discepoli davanti alla radicalità di Gesù (Mc 10,28-31).
Il dialogo di Gesù col ricco (Mc 10,17b-22) comincia un tanto bruscamente. Per strada, Gesù viene avvicinato da un tale che non è interessato a lui, alla sua persona, ma a se stesso, alla propria salvezza. A Gesù non chiede nessun beneficio, solo vuol avere un consiglio (Mc 10,17.20). L'incontro avviene su richiesta dello sconosciuto. Gesù risponde alle preoccupazioni del suo interlocutore, anche se solo in apparenza; in realtà, lo distoglie con maestria dalla sua preoccupazione, un tanto egoista, e gli propone la perfezione. Da sconosciuto passa ad essere amato.
17Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò:
“Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”.
18E Gesù gli disse:
“Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”.
20Egli allora gli disse:
“Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”.
21Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse:
“Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”.
22Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se en andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Dopo l'allontanamento del ricco, Gesù commenta il suo fallimento con i discepoli (Mc 10,23-27). Il quadro si apre e si chiude menzionando lo sguardo di Gesù (Mc 10,23.27), il quale, in una specie di catechesi sull'entrata nel regno, ne sottolinea la difficoltà (Mc 10,23.24.27). I discepoli, prima sconcertati (Mc 10,24), poi interessati (Mc 10,26), sono i destinatari unici di tale insegnamento e, una volta tanto, lo comprendono correttamente. Non si tratta semplicemente di una difficoltà per gli uomini, bensì di qualcosa che è possibile solo a Dio.
23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli:
“Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezza, entrare nel regno di Dio!”.
24I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro:
“Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! 25E' più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.
26Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro:
“E chi può essere salvato?”.
27Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse:
“Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio”.
Pietro esprime la reazione dei discepoli davanti alla radicalità di Gesù (Mc 10,28-31). La problematica personale del giovane è scomparsa totalmente dal racconto. Pietro, che dà per scontato di aver fatto quanto riusciva impossibile al giovane, riesce a strappare a Gesù una promessa di ricompensa, per adesso e per dopo. Qualunque cosa si lasci – e sono sette le cose enumerate – sarà presa in considerazione.
28Pietro allora prese a dirgli:
“Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”.
29Gesù gli rispose:
“In verità io vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, 30che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in casa e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà. 31Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi”.
2.Per illuminare la vita
C'era una persona buona che voleva essere migliore
Mentre Gesù andava per la strada, gli si avvicina correndo uno sconosciuto2 che, si inginocchia davanti a lui. L'uomo desidera sapere cosa deve fare per arrivare a possedere la vita eterna. Sa di dover osservare la legge; e, quel che è più importante, si dichiara disposto a fare qualunque cosa, quel che gli si dirà.
Prima di rispondere, Gesù si mostra sorprendentemente critico; non accetta che gli si conceda quel che si deve solo a Dio (Mc 10,18). La risposta di Gesù è troppo ovvia; ripete, senza commenti o spiegazioni dettagliate, la seconda parte del decalogo (Mc 10,19; cfr. Es 20,12-16; Dt 5,16-20): è quella la volontà del buon Dio; i suoi comandamenti indicano il cammino della vita. Chi ha domandato doveva saperlo.
La scena potrebbe concludersi qui: la persona ha ricevuto la risposta richiesta. Ma, invece di andarsene, fa una confessione che impressiona Gesù (Mc 10,20). Gesù si trova davanti uno che non solo è disposto a compiere quel che gli venga chiesto, ma può confessare che lo sta già facendo, tutto e sempre, fin dalla sua giovinezza. E rimane attratto da questo giovane buono (Mc 10,21). Prima di proporgli un cambio radicale, Gesù è cambiato radicalmente nei suoi confronti. Quel giovane è oggetto di un amore sovrabbondante, per questo si attende di lui qualcosa in più. La nuova esigenza di Gesù è prova dell'amore che ha per lui.
L'unica cosa che gli manca è lasciare tutto quel che possiede, venderlo, distribuirlo tra i poveri e seguire Gesù. La proposta di Gesù non è una nuova condizione per ottenere la vita eterna. E' una nuova possibilità di vivere quella vita di obbedienza a Dio che il giovane sta portando avanti con tanto successo. La rinuncia a quanto possiede non è ancora tutto quel che gli manca, ma solo una prima tappa, un passo previo che prepara quello definitivo: la sequela di Gesù (Mc 1,16-20; 2,13-17) e l'attività apostolica (Mc 6,7-13). Non deve rinunciare ai beni perché siano cattivi, ma il loro possesso non è preferibile e nemmeno – in questo caso – compatibile con la compagnia di Gesù quando si va dietro a lui: carico di beni, non si può perseguire il Bene.
Lo sconosciuto, nonostante la sua bontà, non può sopportare l'esigenza di Gesù. Senza dire nulla, triste e a testa bassa, lascia Gesù per non lasciare quel che ha (Mc 10,22). Conserva i suoi beni, ma perde la sua gioia e il maestro buono. Le sue ricchezze non gli avevano impedito di essere un buon credente, ma lo misero nell'impossibilità di essere un semplice discepolo.
Quanto difficile è possedere dei beni ed entrare nel regno!
Lo sguardo di Gesù precede l'insegnamento a quanti rimangono attorno a lui. Possedere il regno risulta difficile per chi possiede ricchezze (Mc 10,23). Gesù non parla ancora di 'impossibilità' (Mc 10,27), sottolinea la difficoltà (Mc 10,24). Inoltre, e ciò risulta sorprendente, introduce qui il tema dell'entrata nel Regno, mentre l'invito rivolto al buon ricco era, invece, di seguirlo povero.
La reazione dei discepoli è più che logica. Non possono evitare di rimanere stupiti di fronte all'affermazione di Gesù. Nella tradizione religiosa giudaica, la ricchezza, lungi dal costituire un impedimento ad entrare nel Regno, era prova del favore di Dio (Dt 28,1-14). I seguaci di Gesù comprendono che la difficoltà a salvarsi non è riservata solo a colui che possiede molti beni, ma a quanti basano la loro concezione del 'bene' nel possederli (Mc 10,24; Lc 6,20.24). Non è, quindi, la salvezza del ricco, ma quella dell'uomo come tale ad essere minacciata (Mc 10,26).
Nel pensiero di Gesù la difficoltà invece di diminuire aumenta: non è necessario disporre di beni propri, basta mettere in essi la fiducia, anche se sono in realtà scarsi, perché l'entrata nel Regno diventi difficile. Gesù cerca di avvertire tutti che, a confronto di Dio e del suo regno, tutto deve risultare piccolo e spregevole, da buttar via; chi non giudica tutto quel che ha come insignificante, rende insignificante Dio. E per sottolineare la difficoltà, Gesù ricorre a una iperbole. E' più facile che un cammello passi per l'occhio di un ago piuttosto che un ricco entri nel Regno (Mc 10,25). Lasciarsi possedere da quanto si ha può portare alla perdita del Regno che si attendeva.
La reazione dei discepoli fa supporre che questa volta essi abbiano capito bene il loro maestro (Mc 10,26). Si diffonde lo spavento tra loro, ma non osano rivolgersi a Gesù. Rimangono angosciati dall'incapacità radicale dell'uomo - non del ricco! - di salvarsi. Se nemmeno i buoni, pur essendo ricchi, ci riescono, chi mai potrà riuscirvi?
E nuovamente lo sguardo di Gesù ne precede le parole (Mc 10,27). E risponde confermando l'impossibilità umana a procurarsi da se la salvezza. Non che il potere di Dio finisca lì dove termina quello dell'uomo, il fatto è che la salvezza di Dio non conosce limiti. Indipendentemente da ciò che è o ha, l'uomo dipende da Dio. Non ha bisogno delle ricchezze per assicurarsi la salvezza. Tutto è dono di Dio e Dio è l'unico bene non alienabile. Solo Lui può salvare.
Un Dio indebitato come ricompensa
Portavoce dei discepoli, Pietro fa notare che, a differenza del ricco, essi hanno abbandonato tutto, non solo famiglia e lavoro (Mc 10,28). Hanno perso tutto per guadagnare lui, proclama Pietro, con enfasi evidente. I discepoli dicono di aver superato la prova a cui soccombette il ricco. Sono consapevoli delle loro rinunce; si attendono una congrua rimunerazione: qualcosa toccherà a chi ha lasciato qualcosa.
Gesù risponde con una promessa che va molto al di là dell'intenzione e delle parole di Pietro (Mc 10,29). Possono essere sicuri che non solo essi, ma anche chiunque abbia rinunciato a qualcosa nella propria vita, avrà una ricompensa. L'enumerazione delle possibili rinunce è eloquente. L’elenco delle persone possedute si allunghi più di quella delle cose. Sarà forse perché esse costituiscono i nostri beni migliori? O, magari, perché sono quelli che ci posseggono meglio?
La rinuncia, in ogni caso, non deve essere generica; ha dei contenuti (proprietà e persone amate) e due cause (Cristo e il vangelo). I beni, sia che si tratti di oggetti buoni o di persone buone, non sono rinunciabili per un motivo qualunque. Non è infatti un motivo qualunque a renderli perituri. Bisogna avere delle buone ragioni per rinunciare ai beni che possediamo. Per il fatto che solo un rapporto stretto con Cristo e lo sforzo missionario ne giustificano la rinuncia, i beni continuano ad essere una cosa buona, ma non sono il meglio.
Col centuplo promesso viene assicurata non solo la ricompensa ma anche l'impegno divino per far sì che divenga realtà. E' quello il modo di pagare tipico di Dio, la sua usanza, con coloro che ascoltano e fanno la sua volontà (Mc 4,7-20). La fraternità cristiana compensa la famiglia lasciata, ma non è esente da pericoli (Lc 12,52-53; Mc 13,12-13). La ricompensa di adesso, anche se generosa, è limitata. Solo la vita eterna ricompensa realmente la sequela; solo in avvenire Dio salderà del tutto il suo “debito” verso coloro che hanno abbandonato tutto per seguire Cristo. Avere un Dio indebitato è la migliore garanzia di un avvenire insperato. E' allora che gli ultimi saranno i primi (Mc 10,31).
Prima di concludere: quale è il mio (unico) bene?
Il ricordo del ricco che non poté diventare discepolo è un monito permanente per i discepoli che desiderano essere ricchi o, semplicemente, i primi. L’incontro di Gesù col giovane ricco (Mc 10,17-31), ha come motivo l’incompatibilità dei beni con la sequela di Gesù: l’unico bene del buon discepolo dev'essere solo Gesù che sta seguendo. Gesù non tollera che i buoni conservino dei beni propri in concorrenza con lui. A chi le vuol seguire Gesù richiede dedizione esclusiva.
Il giovane che non poté rimanere con Gesù gli andò incontro perché era realmente interessato alla propria salvezza. Non si può forse individuare qui uno dei motivi più frequenti per cui evitiamo di incontrarci con Lui? Chi tra noi, oggi, va in cerca di maestri buoni che gli insegnino il cammino della vita? Cos'è che manca: maestri che indichino il cammino e che accompagnino lo sforzo per ottenere la vita eterna oppure voglia di raggiungerla?
A colui che era buono, Gesù propose di essere perfetto, invitandolo a rinunciare ai propri beni. Una bontà che si appoggi su quanto di buono si possiede non è degna del seguace di Cristo. Allora, come conciliare beni e cristianesimo? Perché Gesù poté codificare la perfezione della persona buona nella rinuncia ed alienazione di quanto possedeva? E' sempre vero che quanto si possiede di buono costituisce un impedimento per seguire Cristo? Qual'è la mia situazione?
Se nemmeno i buoni si salvano, per quanto ricchi possano essere, a chi sarà accessibile l'entrata nel Regno di Dio? Non sarà forse perché Dio non si vende, né si può comprare per niente, a cambio di nessun bene, per quanto grande? Perché bisogna distaccarsi dai doni di Dio per ricevere Dio come dono? E' proprio possibile?
Chi lascia qualcosa per Dio non se ne pentirà: gli sarà dato cento volte tanto. E' questa la nostra esperienza attuale? In ogni caso, quale ne potrebbe essere il motivo? Non sarà forse perché, avendo lasciato qualcosa, crediamo di aver diritto a molto? Se ci distacchiamo da qualcosa, rendiamo Dio nostro debitore oppure facciamo semplicemente il nostro dovere? Meritiamo una ricompensa per quel che facciamo, o non sarebbe meglio lasciare che Dio ci pensi lui a ricompensarci?
1 Traccia di riflessione e lavoro sul tema del CG27, ACG 413 (2012) 64-65.
2 Nei paralleli viene identificato: giovane (Mt 19,20.22), persona di rilievo (Lc 18,18).