Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales
dal 1815 al 1855
Opera di importanza capitale, risalente ai primi anni settanta, per la comprensione della mentalità di don Bosco e del suo progetto operativo globale; insieme è rievocazione, riflessione e proiezione nel futuro. Edizione critica a cura di Antonio Da Silva Ferreira ISS, Fonti, Serie prima, 4. Roma – LAS 1991. Edizione divulgativa... Fonti, Serie prima, 5, LAS 1992.
1° quaderno
Memorie dell'Oratorio dal 1815 al 1835 - esclusivamente pei soci salesiani
Memorie per l'oratorio e per la congregazione salesiana
Dieci anni d'infanzia - Morte del genitore - Strettezze di famiglia - La madre vedova
1° Primi trattenimenti coi fanciulli - Le prediche -Il saltimbanco - Le nidiate
2° Prima comunione - Predica della Missione - D. Calosso - Scuola di Murialdo
3° Lo studio e la zappa - Una cattiva ed una buona nuova - Morte di D. Calosso
5° Scuole di Chieri - Bontà dei professori - Le prime quattro classi di grammatica
6° I compagni - Società dell'allegria - Doveri cristiani
7° Buoni compagni e pratiche di pietà
8° Umanità e Retorica - Luigi Comollo
9° Caffettiere e liquorista - Giorno onomastico - Una disgrazia
11° Giuochi - Prestigi - Magia - Discolpa
12° Corsa - Salto - Bacchetta magica - Punta dell'albero
14° Preparazione - Scelta dello stato
2° quaderno
Memorie dell'Oratorio dal 1835 al 1845 - esclusivamente pei soci salesiani
1° Vestizione chericale - Regolamento di vita
5° Festino di campagna - Il suono del violino - La caccia
7° Premio - Sacristia - Il T. Gioanni Borrelli
9° Sacre ordinazioni – Sacerdozio
10° Principii del sacro ministero - Discorso di Lavriano e Giovanni Brina
11° Convitto ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi
12° La festa dell'Immacolata Concezione e il principio dell'Oratorio festivo
14° Sacro ministero - Scelta di un impiego presso al Rifugio (settembre 1844)
16° Trasferimento dell'Oratorio presso al Rifugio
3° quaderno
3.1
Memorie dell'Oratorio dal 1845 al 1855 - esclusivamente pei soci salesiani
17° L'Oratorio a S. Martino dei Molazzi - Difficoltà - La mano del Signore
18° L'Oratorio in S. Pietro in Vincoli - La serva del Cappellano - Una lettera – Un tristo accidente
19° L'Oratorio in Casa Moretta
20° L'Oratorio in un prato - Passeggiata a Superga
21° 11 Marchese Cavour e sue minacce - Nuovi disturbi per l'Oratorio
22° Congedo dal Rifugio - Altra imputazione di pazzia
23° Trasferimento nell'attuale Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco
Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1846 al 1855
2° Di nuovo Cavour - Ragioneria - Guardie civiche
3° Scuole domenicali - Scuole serali
4° Malattia - Guarigione - Dimora progettata per Valdocco
5° Stabile dimora all'Oratorio di Valdocco
6° Regolamento per gli Oratorii - Compagnia e festa di S. Luigi - Visita di Monsignor Fransoni
3.2
7° Primordii dell'ospizio - Prima accettazione di giovanetti
3.3
Memorie storiche sull'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1846 al 1855
8° Oratorio di S. Luigi - Casa Moretta - Terreno del Seminario
14° Nuove difficoltà - Un conforto-L'Abate Rosmini e l'Arciprete Pietro De Gaudenzi
15° Compra di casa Pinardi e di casa Bellezza - L'anno 1850
16° Chiesa di S. Francesco di Sales
17° Scoppio della polveriera - Fascio Gabriele - Benedizione della nuova Chiesa
Aggressione - Pioggia di bastonate
MEMORIE DELL'ORATORIO DAL 1815 AL 1835
ESCLUSIVAMENTE PEI SOCI SALESIANI
Memorie per l'oratorio e per la congregazione Salesiana▲
Più volte fui esortato di mandare agli scritti le memorie concernenti l'Oratorio di S. Francesco di Sales, e sebbene non potessi rifiutarmi all’autorità di chi mi consigliava, tuttavia non ho mai potuto risolvermi ad occuparmene specialmente perché doveva troppo sovente parlare di me stesso. Ora si aggiunse il comando di persona di somma autorità, cui non è permesso di porre indugio di sorta, perciò mi fo qui ad esporre le cose minute confidenziali che possono servire di lume o tornar di utilità a quella istituzione che la divina Provvidenza si degnò affidare alla Società di S. Francesco di Sales. Debbo anzi tutto premettere che io scrivo pe' miei carissimi figli Salesiani con proibizione di dare pubblicità a queste cose sia prima sia dopo la mia morte.
A che dunque potrà servire questo lavoro? Servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre, e le leggeranno assai più volentieri quando, chiamato da Dio a rendere conto delle mie azioni, non sarò più tra loro.
Avvenendo d'incontrare fatti esposti forse con troppa compiacenza e forse con apparenza di vanagloria, datemene compatimento. E’ un padre che gode di parlare delle cose sue a' suoi amati figli, i quali godono pure nel sapere le piccole avventure di chi li ha cotanto amati, e che nelle cose piccole e grandi si è sempre adoperato di operare a loro vantaggio spirituale e temporale.
Io espongo queste memorie ripartite in decadi ossia in periodi di dieci anni, perché in ogni tale spazio succedette un notabile e sensibile sviluppo della nostra istituzione.
Quando poi, o figli miei, leggerete queste memorie dopo la mia morte; ricordatevi che avete avuto un padre affezionato; il quale prima di abbandonare il mondo ha lasciate queste memorie come pegno della paterna affezione; e ricordandovene pregate Dio pel riposo eterno dell'anima mia.
Dieci anni d'infanzia - Morte del genitore - Strettezze di famiglia - La madre vedova▲
Il giorno consacrato a Maria Assunta in Cielo fu quello della mia nascita l’anno 1815 in Murialdo Borgata di Castelnuovo d’Asti. Il nome di mia madre era Margherita Occhiena di Capriglio, Francesco quello di mio padre. Erano contadini, che col lavoro e colla parsimonia si guadagnavano onestamente il pane della vita. Il mio buon padre quasi unicamente col suo sudore procacciava sostentamento alla nonna settuagenaria, travagliata da vari acciacchi; a tre fanciulli, di cui maggiore era Antonio, figlio del primo letto; il secondo Giuseppe, il più giovane Gioanni, che sono io, più a due servitori di campagna.
Io non toccava ancora i due anni, quando Dio misericordioso ci colpi con grave sciagura. L’amato genitore, pieno di robustezza, sul fiore della età, animatissimo per dare educazione cristiana alla figliuolanza, un giorno, venuto dal lavoro a casa tutto molle di sudore incautamente andò nella sotterranea e fredda cantina. Per la traspirazione soppressa[,] in sulla sera si manifesto una violenta febbre foriera di non leggera costipazione. Tornò inutile ogni cura e fra pochi giorni si trovò all'estremo di vita. Munito di tutti i conforti della religione raccomandando a mia madre la confidenza in Dio, cessava di vivere nella buona età di anni 34, il 12 maggio 1817.
Non so che ne sia stato di me in quella luttuosa occorrenza; soltanto mi ricordo ed e il primo fatto della vita di cui tengo memoria, che tutti uscivano dalla camera del defunto, ed io ci voleva assolutamente rimanere. — Vieni, Giovanni, vieni meco, ripeteva l'addolorata genitrice. — Se non viene papà, non ci voglio andare, risposi. —Povero figlio, ripiglio mia madre, vieni meco, tu non hai più padre. — Ciò detto ruppe in forte pianto, mi prese per mano e mi trasse altrove, mentre io piangeva perché Ella piangeva. Giacché in quella età non poteva certamente comprendere quanto grande infortunio fosse la perdita del padre.
Questo fatto mise tutta la famiglia nella costernazione. Erano cinque persone da mantenere; i raccolti dell’annata, unica nostra risorsa, andarono falliti per una terribile siccità; i commestibili giunsero a prezzi favolosi. Il frumento si pagò fino a f. 25 l’emina; il gran turco o la meliga fr. 16. Parecchi testimoni contemporanei mi assicurano, che i mendicanti chiedevano con premura un po’ di crusca da mettere nella bollitura dei ceci o dei fagiuoli per farsene nutrimento. Si trovarono persone morte ne’ prati colla bocca piena d’erba, con cui avevano tentato di acquetare la rabbiosa fame.
Mia madre mi conto più volte, che diede alimento alla famiglia, finché ne ebbe; di poi porse una somma di danaro ad un vicino, di nome Bernardo Cavallo, affinché andasse in cerca di che nutrirsi. Quell’amico andò in vari mercati e non poté nulla provvedere anche a prezzi esorbitanti. Giunse quegli dopo due giorni e giunse aspettatissimo in sulla sera; ma all’annunzio che nulla aveva seco, se non danaro, il terrore invase la mente di tutti; giacché in quel giorno avendo ognuno ricevuto scarsissimo nutrimento, temevansi funeste conseguenze della fame in quella notte. Mia madre senza sgomentarsi andò dai vicini per farsi imprestare qualche commestibile e non trovò chi fosse in grado di venirle in aiuto. Mio marito, prese a parlare, morendo dissemi di avere confidenza in Dio. Venite adunque, inginocchiamoci e preghiamo. — Dopo breve preghiera si alzò e disse: — Nei casi estremi si devono usare mezzi estremi. — Quindi coll’aiuto del nominato Cavallo andò alla stalla, uccise un vitello e facendone cuocere una parte con tutta fretta poté con quella sfamare la sfinita famiglia. Pei giorni seguenti si poté poi provvedere con cereali, che, a carissimo prezzo, poterono farsi venire di lontani paesi.
Ognuno può immaginare quanto abbia dovuto soffrire e faticare mia madre in quella calamitosa annata. Ma con un lavoro indefesso, con una economia costante, con una speculazione nelle cose più minute, e con qualche aiuto veramente provvidenziale si poté passare quella crisi annonaria. Questi fatti mi furono più volte raccontati da mia Madre e confermati dai vicini parenti ed amici.
Passata quella terribile penuria, e ritornate le cose domestiche in migliore stato, venne fatta proposta di un convenientissimo collocamento a mia Madre; ma Ella rispose tostamente: — Dio mi ha dato un marito e me lo ha tolto; morendo egli mi affido tre figli, ed io sarei madre crudele, se li abbandonassi nel momento in cui hanno maggior bisogno di me.—Le fu replicato che i suoi figli sarebbero stati affidati ad un buon tutore, che ne avrebbe avuto grande cura.—Il tutore, rispose la generosa donna, è un amico, io sono la madre de’ miei figli; non li abbandonerò giammai, quando anche mi si volesse dare tutto l'oro del mondo.
Sua massima cura fu di istruire i suoi figli nella religione, avviarli all’ubbidienza ed occuparli in cose compatibili a quella età. Finché era piccolino mi insegnò Ella stessa le preghiere; appena divenuto capace di associarmi co’ miei fratelli, mi faceva mettere con loro ginocchioni mattino e sera e tutti insieme recitavamo le preghiere in comune colla terza parte del Rosario. Mi ricordo che Ella stessa mi preparò alla prima confessione, mi accompagnò in chiesa; cominciò a confessarsi ella stessa, mi raccomandò, al confessore, dopo mi aiuto a fare il ringraziamento. Ella continuo a prestarmi tale assistenza fino a tanto che mi giudicò capace di fare degnamente da solo la confessione.
Intanto io era giunto al nono anno di età; mia madre desiderava di mandarmi a scuola, ma era assai impacciato, per la distanza, giacché dal paese di Castelnuovo eravi la distanza di cinque chilometri. Recarmi in collegio si opponeva il fratello Antonio. Si prese un temperamento. Il tempo d’inverno frequentava la scuola del vicino paesello di Capriglio, dove potei imparare gli elementi di lettura e scrittura. Il mio maestro era un sacerdote di molta pietà a nome Giuseppe Delacqua, il quale mi usò molti riguardi, occupandosi assai volentieri della mia istruzione e più ancora della mia educazione cristiana. Nell'estate poi appagava mio fratello lavorando la campagna.
A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita. Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All’udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere. In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona; ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di que' fanciulli aggiugnendo queste parole: — Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti adunque immediatamente a fare loro un'istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù.
Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que’ giovanetti. In quel momento que' ragazzi cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui, che parlava.
Quasi senza sapere che mi dicessi, — Chi siete voi, soggiunsi, che mi comandate cosa impossibile? Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll'ubbidienza e coll’acquisto della scienza. — Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza? — Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza.
— Ma chi siete voi, che parlate in questo modo?
— Io sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestro di salutar tre volte al giorno.
— Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome.
— Il mio nome dimandalo a Mia Madre. In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle mie dimande e risposte, mi accenno di avvicinarmi a Lei, che presomi con bontà per mano, e guarda, mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali. — Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei.
Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando come per fare festa a quell'uomo e a quella signora.
A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare.
Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi: A suo tempo tutto comprenderai.
Ciò detto un rumore mi sveglio.
Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi duolesse per gli schiaffi ricevuti; di poi quel personaggio, quella donna, le cose dette e le cose udite mi occuparono talmente la mente, che per quella notte non mi fu possibile prendere sonno.
Al mattino ho tosto con premura raccontato quel sogno prima a’ miei fratelli, che si misero a ridere, poi a mia madre ed alla nonna. Ognuno dava al medesimo la sua interpretazione. Il fratello Giuseppe diceva: Tu diventerai guardiano di capre, di pecore o di altri animali. Mia madre: Chi sa che non abbi a diventar prete. Antonio con secco accento: Forse sarai capo di briganti. Ma la nonna, che sapeva assai di teologia, era del tutto inalfabeta, diede sentenza definitiva dicendo: Non bisogna badare ai sogni.
Io era del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile di togliermi quel sogno dalla mente. Le cose che esporrò in appresso daranno a ciò qualche significato. Io ho sempre taciuto ogni cosa; i miei parenti non ne fecero caso. Ma quando, nel 1858, andai a Roma per trattar col Papa della congregazione salesiana, egli si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali. Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto in età di nove in dieci anni. Il Papa mi comandò di scriverlo nel suo senso letterale, minuto e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione, che formava lo scopo di quella gita a Roma.
1° Primi trattenimenti coi fanciulli - Le prediche - Il saltimbanco – Le nidiate▲
Voi mi avete più volte dimandato a quale età abbia cominciato ad occuparmi dei fanciulli. All'età di 10 anni io facevo quello che era compatibile alla mia età e che era una specie di Oratorio festivo. Ascoltate: Era ancora piccolino assai e studiava già il carattere dei compagni miei. E fissando taluno in faccia per lo più ne scorgeva i progetti che quello aveva in cuore. Per questo in mezzo a’ miei coetanei era molto amato e molto temuto. Ognuno mi voleva per giudice o per amico. Dal mio canto faceva del bene a chi poteva, ma del male a nissuno. I compagni poi mi amavano assai, affinché in caso di rissa prendessi di loro difesa. Perciocché sebbene fossi più piccolo di statura aveva forza e coraggio da incutere timore ai compagni di assai maggiore età: a segno che nascendo brighe, quistioni, risse di qualunque genere, io diveniva arbitro dei litiganti ed ognuno accettava di buon grado la sentenza che fossi per proferire.
Ma ciò che li raccoglieva intorno a me, e li allettava fino alla follia, erano i racconti che loro faceva. Gli esempi uditi nelle prediche o nei catechismi; la lettura dei Reali di Francia, del Guerino Meschino, di Bertoldo, Bertoldino, mi somministravano molta materia. Appena i miei compagni mi vedevano, correvano affollati per farsi esporre qualche cosa da colui / che a stento cominciava capire quello che leggeva. A costoro si aggiunsero parecchi adulti, e talvolta nell'andare o venire da Castelnuovo; talora in un campo, in un prato io era circondato da centinaia di persone accorse per ascoltare un povero fanciullo, che fuori di un po' di memoria, era digiuno nella scienza, ma che tra loro compariva un gran dottore. Monoculus rex in regno caecorum.
Nelle stagioni invernali poi tutti mi volevano nella stalla per farsi raccontare qualche storiella. Colà raccoglievasi gente di ogni età e condizione, e tutti godevano di poter passare la serata di cinque ed anche sei ore ascoltando immobili il lettore dei Reali di Francia, che il povero oratore esponeva ritto sopra una panca, affinché fosse da tutti udito e veduto. Siccome però dicevasi che venivano ad ascoltare la predica, così prima e dopo i miei racconti facevamo tutti il segno della santa Croce colla recita dell'Ave Maria. 1826.
Nella bella stagione, specialmente ne' giorni festivi si radunavano quelli del vicinato e non pochi forestieri. Qui la cosa prendeva aspetto assai più serio. Io dava a tutti un trattenimento con alcuni giuocarelli che io stesso aveva da altri imparato. Spesso sui mercati e sulle fiere vi erano ciarlatani e saltimbanchi, che io andava a vedere. Osservando attentamente ogni più piccola loro prodezza, me ne andava di poi a casa e mi esercitava fino a tanto che avessi imparato a fare altrettanto. Immaginatevi le scosse, gli urti, gli stramazzoni, i capitomboli cui ad ogni momento andava soggetto. Pure lo credereste? Ad undici anni io faceva i giuochi dei bussolotti, il salto mortale, la rondinella, camminava sulle mani, camminava, saltava e danzava sulla corda, come un saltimbanco di professione. /
Da quello che si faceva un giorno festivo comprenderete quanto io faceva negli altri.
Ai Becchi avvi un prato, dove allora esistevano diverse piante, di cui tuttora sussiste un pero martinello, che in quel tempo mi era di molto aiuto. A questo albero attaccava una fune, che andava a rannodarsi ad un altro a qualche distanza; di poi un tavolino colla bisaccia; indi un tappeto a terra per farvi sopra i salti. Quando ogni cosa era preparata ed ognuno stava ansioso di ammirare novità, allora li invitava tutti a recitare la terza parte del Rosario, dopo cui si cantava una lode sacra. Finito questo montava sopra una sedia, faceva la predica, o meglio ripeteva quanto mi ricordava della spiegazione del vangelo udita al mattino in chiesa; oppure raccontava fatti od esempi uditi o letti in qualche libro. Terminata la predica si faceva breve preghiera, e tosto si dava principio ai trattenimenti. In quel momento voi avreste veduto[,] come vi dissi, l’oratore divenire un ciarlatano di professione. Fare la rondinella, il salto mortale, camminare sulle mani col corpo in alto; poi cingermi la bisaccia, mangiare gli scudi per andarli a ripigliare sulla punta del naso dell'uno o dell'altro; poi moltiplicare le palle, le uova, cangiare l'acqua in vino, uccidere e fare in pezzi un pollo e poi farlo risuscitare e cantare meglio di prima, erano gli ordinarii trattenimenti. Sulla corda poi camminava come per un sentiero; saltava, danzava, mi appendeva ora per un piede, ora per due; talora con ambe le mani, talora con una sola. Dopo alcune ore di questa ricreazione quando io era ben stanco, cessava ogni trastullo, facevasi breve preghiera ed ognuno se ne andava pe' fatti suoi.
Da queste radunanze erano esclusi tutti quelli che avessero bestemmiato, fatto cattivi discorsi, o avessero rifiutato di prendere parte alle / pratiche religiose.
Qui voi mi farete una dimanda: Per andare alle fiere, ai mercati, ad assistere i ciarlatani, provvedere quanto occorreva per quei divertimenti, erano necessarii danari, e questi dove si prendevano? A questo io poteva provvedere in più modi. Tutti i soldi che mia madre od altri mi davano per minuti piaceri o per ghiottoneria; le piccole mancie, i regali, tutto era posto in serbo per questo bisogno. Di più io era peritissimo ad uccellare colla trappola, colla gabbia, col vischio, coi lacci; pratichissimo delle nidiate. Fatta raccolta sufficiente di questi oggetti io sapeva venderli assai bene. I funghi, l'erba tintoria, il treppio erano eziandio per me sorgente di danaro.
Voi qui mi dimanderete: E la madre mia era contenta che tenessi una vita cotanto dissipata e spendessi il tempo a fare il ciarlatano? Vi dirò che mia madre mi voleva molto bene; ed io le aveva confidenza illimitata, e senza il suo consenso non avrei mosso un piede. Ella sapeva tutto, osservava tutto e mi lasciava fare. Anzi, occorrendomi qualche cosa me la somministrava assai volentieri. Gli stessi miei compagni e in generale tutti gli spettatori mi davano con piacere quanto mi fosse stato necessario per procacciare loro quegli ambiti passatempi.
2° Prima comunione - Predica della Missione - D. Calosso -Scuola di Murialdo▲
Io era all'età di anni undici quando fui ammesso alla prima comunione. Sapevo tutto il piccolo catechismo, ma per lo più niuno era ammesso alla comunione se non ai dodici anni. Io poi per la lontananza dalla chiesa, era sconosciuto al parroco, e doveva quasi esclusivamente limitarmi alla istruzione religiosa della buona genitrice. Desiderando pero di non lasciarmi andare più avanti nell'età senza farmi praticare quel grande atto di nostra santa religione, si adopero Ella stessa a prepararmi come meglio poteva e sapeva. Lungo la quaresima mi invio ogni giorno al catechismo, di poi fui esaminato, promosso e si era fissato il giorno in cui tutti i fanciulli dovevano fare pasqua.
In mezzo alla moltitudine era impossibile di evitare la dissipazione. Mia madre studio di assistermi più giorni; mi aveva condotto tre volte a confessarmi lungo la quaresima. Giovanni mio, disse ripetutamente, Dio ti prepara un gran dono; ma procura prepararti bene, di confessarti, di non tacer alcuna cosa in confessione. Confessa tutto, sii pentito di tutto, e prometti a Dio di farti più buono in avvenire. Tutto promisi; se poi sia stato fedele, Dio lo sa. A casa mi faceva pregare, leggere un buon libro, dandomi que' consigli che una madre industriosa sa trovare opportuni pe' suoi figliuoli.
Quel mattino non mi lascio parlare con nissuno, mi accompagnò alla sacra mensa e fece meco la preparazione ed il ringraziamento, che il Vicario Foraneo, di nome Sismondi, con molto zelo faceva a tutti con voce alta ed alternata. In quella giornata non volle che mi occupassi in alcun lavoro materiale, ma tutta l'adoperassi a leggere e a pregare. Fra le molte cose mia madre mi ripeté più volte queste parole: O caro figlio, fu questo per te un gran giorno. Sono persuasa che Dio abbia veramente preso possesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare quanto puoi per conservarti buono sino alla fine della vita. Per l'avvenire va sovente a comunicarti, ma guardati bene dal fare dei sacrilegi. Di' sempre tutto in confessione; sii sempre ubbidiente, va volentieri al catechismo ed alle prediche; ma per amor del Signore fuggi come la peste coloro che fanno cattivi discorsi.
Ritenni e procurai di praticare gli avvisi della pia genitrice; e mi pare che da quel giorno vi sia stato qualche miglioramento nella mia vita, specialmente nella ubbidienza e nella sottomissione agli altri, al che provava prima grande ripugnanza, volendo sempre fare i miei fanciulleschi riflessi a chi mi comandava o mi dava buoni consigli.
Una cosa che mi dava grave pensiero era il difetto di una chiesa o cappella dove andare a cantare, a pregare co' miei compagni. Per ascoltare una predica oppure un catechismo, bisognava fare la via di circa dieci chilometri, tra andata e ritorno, o a Castelnuovo o nel paese vicino di Buttigliera. Questo era il motivo per cui si veniva volentieri ad ascoltare le prediche del saltimbanco.
In quell’anno (1826) una solenne missione che ebbe luogo nel paese di Buttigliera, mi porse opportunità di ascoltare parecchie prediche. La rinomanza dei predicatori traeva gente da tutte parti. Io pure ci andava con molti altri. Fatta una istruzione ed una meditazione in sulla sera, lasciavansi liberi gli uditori di recarsi alle case loro.
Una di quelle sere di aprile, mi recava a casa in mezzo alla moltitudine, e tra noi eravi un certo D. Calosso di Chieri, uomo assai pio, il quale sebbene curvo dagli anni faceva quel lungo tratto di via per recarsi ad ascoltare i missionari. Desso era cappellano di Murialdo. Il vedere un fanciullo di piccola statura, col capo scoperto, capelli irti ed inanellati camminare in gran silenzio in mezzo agli altri trasse sopra di me il suo sguardo e prese a parlarmi così:
— Figlio mio, donde vieni? sei forse andato anche tu alla missione?
— Si, signore, sono andato alla predica dei Missionari.
— Che cosa avrai tu mai potuto capire! Forse tua Mamma ti avrebbe fatta qualche predica più opportuna, non è vero?
— E’ vero, mia Madre mi fa sovente delle buone prediche; ma vado anche assai volentieri ad ascoltare quelle dei missionari e mi sembra di averle capite.
Se tu sai dirmi quattro parole delle prediche di quest’oggi io ti do quattro soldi.
Mi dica soltanto se desidera, che io le dica della prima o della seconda predica. 350
— Come più ti piace, purché tu mi dica quattro parole. Ti ricordi di che cosa si tratto nella prima predica?
— Nella prima predica si parlo della necessita di darsi a Dio per tempo e non differire la conversione.
— E che cosa fu detto in quella predica? soggiunse il venerando vecchio alquanto maravigliato.
— Me ne ricordo assai bene e se vuole gliela recito tutta.
E senza altro attendere cominciai ad esporre l’esordio, poi i tre punti, cioè che colui il quale differisce la sua conversione corre gran pericolo che gli manchi il tempo, la grazia o la volontà.
Egli mi lasciò continuare per oltre mezz’ora in mezzo alla moltitudine; di poi si fece ad interrogarmi così?—Come è tuo nome, i tuoi parenti, hai fatto molte scuole?
— Il mio nome è Gioanni, mio Padre morì quando io era ancor bambino. Mia Madre è vedova con cinque creature da mantenere. Ho imparato a leggere e un poco a scrivere.
— Non hai studiato il donato o la gramatica?
— Non so che cosa siano.
— Ameresti di studiare?
— Assai, assai.
— Che cosa t'impedisce?
— Mio fratello Antonio.
— Perché Antonio non vuole lasciarti studiare?
— Perché non avendo egli voluto andare a scuola, dice che non vuole che altri perda tempo a studiare come egli l'ha perduto, ma se io ci potessi andare, si che studierei e non perderei tempo.
— Per qual motivo desidereresti studiare?
— Per abbracciare lo stato ecclesiastico.
— E per qual motivo vorresti abbracciare questo stato?
— Per avvicinarmi, parlare, istruire nella religione tanti miei compagni, che non sono cattivi, ma diventano tali, perché niuno di loro ha cura.
Questo mio schietto e direi audace parlare fece grande impressione sopra quel santo sacerdote, che mentre io parlava non mi tolse mai di dosso lo sguardo. Venuti intanto ad un punto di strada, dove era mestieri separarci, mi lasciò con queste parole: Sta di buon animo; io penserò a te e al tuo studio. Domenica vieni con tua Madre a vedermi e conchiuderemo tutto.
La seguente domenica ci andai di fatto con mia Madre e si convenne, che egli stesso mi avrebbe fatto scuola, una volta al giorno, impiegando il rimanente della giornata a lavorare in campagna per appagare il fratello Antonio. Questi si contentò facilmente, perché ciò dovevasi cominciare dopo l'estate, quando i lavori campestri non danno più gran pensiero.
Io mi sono tosto messo nelle mani di D. Calosso, che soltanto da alcuni mesi era venuto a quella cappellania. Gli feci conoscere tutto me stesso. Ogni parola, ogni pensiero, ogni azione eragli prontamente manifestata. Ciò gli piacque assai, perché in simile guisa con fondamento potevami regolare nello spirituale e nel temporale.
Conobbi allora che voglia dire avere una guida stabile, di un fedele amico dell’anima, di cui fino a quel tempo era stato privo. Fra le altre cose mi proibì tosto una penitenza, che io era solito di fare, non adattata alla mia età e condizione. M’incoraggì a frequentar la confessione e la comunione, e mi ammaestrò intorno al modo di fare ogni giorno una breve meditazione o meglio un po’ di lettura spirituale. Tutto il tempo che poteva nei giorni festivi lo passava presso di lui. Ne’ giorni feriali, per quanto poteva, andava servirgli la santa messa. Da quell’epoca ho cominciato a gustare che cosa sia vita spirituale, giacché prima agiva piuttosto materialmente e come macchina che fa una cosa, senza saperne la ragione.
Alla metà di settembre ho cominciato regolarmente lo studio della grammatica italiana, che in breve ho potuto compiere e praticare con opportune composizioni. A Natale ho dato mano al donato, a Pasqua diedi principio alle traduzioni dal latino in italiano e vicendevolmente. In tutto quel tempo non ho mai cessato dai soliti trattenimenti festivi nel prato, o nella stalla d’inverno. Ogni fatto, ogni detto e posso dire ogni parola del maestro serviva a trattenere i miei uditori.
Io mi reputava felice di essere giunto al compimento de’ miei desiderii, quando nuova tribolazione, anzi un grave infortunio tronco il filo delle mie speranze.
3° Lo studio e la zappa - Una cattiva ed una buona nuova - Morte di D. Colosso▲
Fino a tanto che durò l’inverno e che i lavori contadineschi non richiedevano alcuna premura il fratello Antonio mi dava tempo di applicarmi alle cose di scuola. Ma venuta la primavera, cominciò a lagnarsi dicendo che esso doveva logorarsi la vita in pesanti fatiche mentre io perdeva il tempo facendo il signorino. Dopo vive discussioni con me e con mia madre, per conservare la pace in famiglia si conchiuse, che io sarei andato al mattino per tempo a scuola e il rimanente del giorno avrei impiegato in lavori materiali. Ma come studiare le lezioni? Come fare le traduzioni?
Ascoltate: L’andata ed il ritorno di scuola porgevami un po’ di tempo a studiare. Giunto poi a casa, prendeva la zappa da una mano, dall'altra la gramatica; e durante la strada studiava Qui quae quod, qualora e messo etc. fino al luogo del lavoro; colà, dando un compassionevole sguardo alla gramatica, mettevala in un angolo e mi accingeva a zappare, a sarchiare o raccogliere erba cogli altri secondo il bisogno.
L’ora poi in cui gli altri solevano fare merenda io mi ritirava in disparte, e con una mano teneva la pagnottella mangiando, coll'altra teneva il libro studiando. La medesima operazione faceva ritornando a casa. L’ora del desinare, della cena, qualche furto al riposo era l’unico tempo che mi rimaneva pe' miei doveri in iscritto.
Malgrado tanto lavoro e tanta buona volontà il fratello Antonio non era soddisfatto. Un giorno con mia madre, di poi con mio fratello Giuseppe, in tono imperativo disse: E abbastanza fatto. Voglio finirla con questa gramatica. Io sono venuto grande e grosso e non ho mai veduto questi libri. Dominato in quel momento dall'afflizione e dalla rabbia, risposi quello che non avrei dovuto.
Tu parli male, gli dissi: Non sai che il nostro asino e più grosso di te e non andò mai a scuola? Vuoi tu divenire simile a lui? A quelle parole saltò sulle furie, e soltanto colle gambe, che mi servivano assai bene, potei fuggire e scampare da una pioggia di busse e di scappellotti.
Mia madre era afflittissima; io piangevo; il cappellano addolorato. Quel degno ministro di Dio informato dei guai avvenuti in mia famiglia, mi chiamò un giorno e mi disse: Gioanni mio, tu hai messo in me la tua confidenza, e non voglio che ciò sia invano. Lascia adunque un fratello crudele e vieni con me ed avrai un padre amoroso.
Comunicai tosto a mia madre quella caritatevole profferta, e fu una festa in famiglia. Al mese di aprile cominciai a fare vita col cappellano, andando soltanto la sera a casa per dormire.
Niuno può immaginare la grande mia contentezza. D. Calosso per me era divenuto un idolo. L’amava più che padre, pregava per lui, lo serviva volentieri in tutte le cose. Era poi sommo piacere di faticare per lui, e direi dare la vita in cosa di suo gradimento. Io faceva tanto progresso in un giorno col cappellano, quanto non avrei fatto a casa in una settimana. Quell’uomo di Dio mi portava tanta affezione che più volte ebbe a dirmi: Non darti pena pel tuo avvenire; finché vivrò, non ti lascierò mancare niente; se muoio ti provvederò parimenti.
Gli affari miei procedevano con indicibile prosperità: Io mi chiamava pienamente felice, né cosa alcuna rimanevami a desiderare, quando un disastro troncò il corso a tutte le mie speranze.
Un mattino di aprile 1828 D. Calosso mi inviò presso a' miei parenti per una commissione; era appena giunto a casa allorché una persona correndo ansante mi accenna di correre immediatamente da D. Calosso, colpito da grave malanno, e, dimandava di me. Non corsi, ma volai accanto al mio benefattore, che fatalmente trovai a letto senza parola. Era stato assalito da un colpo apopletico. Mi conobbe, voleva parlare, ma non potéva più articolare parola. Mi diede la chiave del danaro, facendo segno di non darla ad alcuno. Ma dopo due giorni di agonia il povero D. Calosso mandava l’anima in seno al Creatore, con lui moriva ogni mia speranza. Ho sempre pregato e finché avrò vita non mancherò di fare ogni mattina preghiere per questo mio insigne benefattore.
Vennero gli eredi di D. Calosso, e loro consegnai chiave ed ogni altra cosa.
4° D. Caffasso - Incertezze - Divisione fraterna - Scuola di Castelnuovo d'Asti- La musica; il sarto
In quell’anno la divina provvidenza mi fece incontrare un novello benefattore: D. Caffasso Giuseppe di Castelnuovo d'Asti.
Era la seconda Domenica di ottobre (1827) e dagli abitanti di Murialdo si festeggiava la Maternità di Maria SS., che era la Solennità principale fra quegli abitanti. Ognuno era in faccende per le cose di casa, o di chiesa, mentre altri erano spettatori o prendevano parte a giuochi o a trastulli diversi.
Un solo io vidi lungi da ogni spettacolo; ed era un chierico, piccolo nella persona, occhi scintillanti, aria affabile, volto angelico. Egli era appoggiato alla porta della Chiesa. Io ne fui come rapito dal suo sembiante, e sebbene io toccassi soltanto l’età di dodici anni, tuttavia mosso dal desiderio di parlargli, mi avvicinai e gli indirizzai queste parole: Signor abate, desiderate di vedere qualche spettacolo della nostra festa? Io vi condurrò di buon grado ove desiderate.
Egli mi fe’ grazioso cenno di avvicinarmi, e prese ad interrogarmi sulla mia età, sullo studio, se io era già stato promosso alla Santa Comunione, con che frequenza andava a confessarmi, ove andava al Catechismo e simili. Io rimasi come incantato a quelle edificanti maniere di parlare; risposi volentieri ad ogni domanda; di poi quasi per ringraziarlo della sua affabilità, ripetei l’offerta di accompagnarlo a visitare qualche spettacolo o qualche novità.
Mio caro amico, egli ripigliò, gli spettacoli dei preti sono le funzioni di Chiesa; quanto più esse sono divotamente celebrate, tanto più grati ci riescono i nostri spettacoli. Le nostre novità sono le pratiche della religione che sono sempre nuove e percio da frequentarsi con assiduità; io attendo solo che si apra la Chiesa per poter entrare.
Mi feci animo a continuare il discorso, e soggiunsi: È vero quanto mi dite; ma v’è tempo per tutto; tempo di andare in Chiesa, e tempo per ricrearci.
Egli si pose a ridere, e conchiuse con queste memorande parole, che furono come il programma delle azioni di tutta la sua vita: Colui che abbraccia lo Stato Ecclesiastico si vende al Signore; e di quanto avvi nel mondo, nulla deve più stargli a cuore se non quello che può tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime.
Allora tutto maravigliato, volli sapere il nome di quel Chierico, le cui parole e il cui contegno cotanto manifestavano lo Spirito del Signore. Seppi che egli era il chierico Giuseppe Cafasso, studente del 1° anno di Teologia, di cui più volte aveva già udito parlare come di uno specchio di virtù.
La morte di D. Calosso fu per me un disastro irreparabile. Io piangeva inconsolabile il benefattore defunto. Se era sveglio pensava a lui, se dormiva sognava di lui, le cose andarono tanto oltre, che mia madre, temendo di mia sanità, mandommi alcun tempo con mio nonno in Capriglio.
A quel tempo feci altro sogno secondo il quale io era acremente biasimato perché aveva riposta la mia speranza negli uomini e non nella bontà del Padre Celeste.
Intanto ero sempre accompagnato dal pensiero di progredire negli studi. Io vedeva parecchi buoni preti che lavoravano nel sacro ministero, ma non poteva con loro contrarre alcuna famigliarità.
Mi avvenne spesso di incontrare per via il mio prevosto col suo viceparroco. Li salutava di lontano, più vicino faceva eziandio un inchino. Ma essi in modo grave e cortese restituivano il saluto continuando il loro cammino. Più volte piangendo diceva tra me, ed anche con altri: Se io fossi prete, vorrei fare diversamente; vorrei avvicinarmi ai fanciulli, vorrei dire loro delle buone parole, dare dei buoni consigli. Quanto sarei felice, se potessi discorrere un poco col mio prevosto. Questo conforto l'ebbi con D. Calosso; che nol possa più avere?
Mia madre scorgendomi tuttora afflitto per le difficoltà, che si frapponevano a’ miei studi, e disperando di ottenere il consenso di Antonio, che già oltrepassava i vent’anni, delibero di venire alla divisione dei beni paterni. Eravi grave difficoltà perocché io e Giuseppe essendo minori di età, dovevansi compiere molte incombenze, e sottostare a gravi spese. Nulla di meno si venne a quella deliberazione. Così la nostra famiglia fu ridotta a mia madre, a mio fratello Giuseppe, che volle vivere meco indiviso. Mia nonna era morta alcuni anni prima.
È vero che con quella divisione mi si toglieva un macigno dallo stomaco, e mi si dava piena libertà di proseguire gli studi; ma per ottemperare alle formalità delle leggi, ci vollero più mesi, ed io potei soltanto andare alle pubbliche scuole di Castelnuovo circa al Natale di quell’anno 1828, quando correva l’anno decimoterzo di mia età.
Gli studi fatti in privato, l'entrare in una scuola pubblica con maestro nuovo, furono per me uno sconcerto; che dovetti quasi cominciare la gramatica italiana per farmi poi strada alla latina. Per qualche tempo andava da casa ogni giorno a scuola in paese, ma nel crudo inverno mi era quasi impossibile. Tra due andate e due ritorni formavansi venti chilometri di cammino al giorno. Fui pertanto messo in pensione con un onest’uomo di nome Roberto Gioanni di professione sarto, e buon dilettante di canto gregoriano e di musica vocale. E poiché la voce mi favoriva alquanto mi diedi con tutto cuore all’arte musicale e in pochi mesi potei montare sull'orchestra e fare parti obbligate con buon successo. Di più desiderando di occupare la ricreazione in qualche cosa, mi posi a cucire da sarto. In brevissimo tempo divenni capace di fare i bottoni, gli orli, le cuciture semplici e doppie. Appresi pure a tagliare le mutande, i corpetti, i calzoni, i farsetti; e mi pareva di essere divenuto un valente capo sarto.
Il mio padrone mirandomi così progredire nel suo mestiere mi fece delle proposte assai vantaggiose, affinché mi fermassi definitivamente con lui ad esercitarlo. Ma diverse erano le mie vedute: desiderava di avanzarmi negli studi. Perciò mentre per evitare l’ozio mi occupava di molte cose faceva ogni sforzo per raggiungere lo scopo principale.
In quell’anno ho incorso qualche pericolo dalla parte di alcuni compagni. Volevano condurmi a giuocare in tempo di scuola, e siccome io adduceva la ragione di non aver danaro, mi suggerirono il modo di farmene rubando al mio padrone; oppure a mia madre. Un compagno per animarmi a ciò diceva: Mio caro, è tempo di svegliarti, bisogna imparare a vivere nel mondo. Chi tiene gli occhi bendati non vede dove cammina. Orsù provvediti del danaro e godrai anche tu i piaceri de’ tuoi compagni.
Mi ricordo che ho fatto questa risposta: Io non posso comprendere ciò che volete dire; ma dalle vostre parole sembra che mi vogliate consigliare a giuocare, a rubare. Ma tu non dici ogni giorno nelle preghiere, settimo non rubare? E poi chi ruba è ladro e i ladri fanno trista fine. Altronde mia madre mi vuole molto bene, e se le dimando danaro per cose lecite me lo da, senza suo permesso non ho mai fatto niente, nemmeno voglio cominciare adesso a disubbidirla. Se i tuoi compagni fanno questo mestiere sono perversi. Se poi nol fanno e lo consigliano ad altri, sono bricconi e scellerati.
Questo discorso andò dall’uno all’altro, e niuno più osò farmi di quelle indegne proposte. Anzi questa risposta andò all’orecchio del professore, che di poi mi divenne assai più affezionato; si seppe anche da molti parenti di giovanetti signori, che perciò esortavano i loro figliuoli venissero meco. In questa guisa io potei con facilità farmi una scelta di amici, che mi amavano, e mi ubbidivano come quelli di Murialdo.
Le cose mie prendevano cosi ottima piega allorché novello incidente le venne a disturbare. Il Sig. D. Virano, mio professore, fu nominato parroco di Mondonio diocesi d’Asti. Laonde all’aprile di quell’anno 1830 l’amato nostro maestro andava al possesso della sua parrocchia; ed era supplito da uno che, incapace di tenere la disciplina, mando quasi al vento quanto nei precedenti mesi aveva imparato.
5° Scuole di Chieri - Bontà dei professori - Le prime quattro classi di grammatica▲
Dopo la perdita di tanto tempo finalmente fu presa la risoluzione di recarmi a Chieri ove applicarmi seriamente allo studio. Era l’anno 1830. Per chi e allevato tra boschi, e appena ha veduto qualche paesello di provincia prova grande impressione di ogni piccola novità. La mia pensione era in casa di una compatriotta, Lucia Matta, vedova con un solo figlio, che si recava in quella città per assisterlo e vegliarlo.
La prima persona che conobbi fu il sacerdote D. Eustachio Valimberti di cara ed onorata memoria. Egli mi diede molti buoni avvisi sul modo di tenermi lontano dai pericoli; mi invitava a servirgli la messa, e ciò gli porgeva occasione di darmi sempre qualche buon suggerimento. Egli stesso mi condusse dal prefetto delle scuole, mi pose in conoscenza cogli altri miei professori. Siccome gli studi fatti fino allora erano un po’ di tutto, che riuscivano quasi a niente, così fui consigliato a mettermi nella sesta classe, che oggidì corrisponderebbe alla classe preparatoria alla la Ginnasiale.
Il maestro di allora, T. Pugnetti, anch’esso di cara memoria, mi usò molta carità: Mi accudiva nella scuola, mi invitava a casa sua e mosso a compassione dalla mia età e dalla buona volontà nulla risparmiava di quanto poteva giovarmi.
Ma la mia età, e la mia corporatura mi faceva comparire come un alto pilastro in mezzo ai piccoli compagni. Ansioso di togliermi da quella posizione, dopo due mesi di sesta classe, avendone raggiunto il primo posto, venni ammesso all'esame e promosso alla classe quinta. Entrai volentieri nella classe novella, perché i condiscepoli erano più grandicelli, e poi aveva a professore la cara persona di D. Valimberti. Passati altri due mesi essendo eziandio più volte riuscito il primo della classe, fui per via eccezionale ammesso ad altro esame e quindi ammesso alla quarta, che corrisponde alla 2a Ginnasiale.
In questa classe era professore Cima Giuseppe; uomo severo per la disciplina. Al vedersi un allievo alto e grosso al par di lui, comparire in sua scuola a metà dell'anno scherzando disse in piena scuola: Costui o che è una grossa talpa, o che è un gran talento. Che ne dite? Tutto sbalordito da quella severa presenza: Qualche cosa di mezzo, risposi, e un povero giovane, che ha buona volontà di fare il suo dovere e progredire negli studi.
Piacquero quelle parole, e con insolita affabilità soggiunse:
Se avete buona volontà, voi siete in buone mani, io non vi lascierò inoperoso. Fatevi animo, e se incontrerete difficoltà, ditemele tosto ed io ve le appianerò.
Lo ringraziai di tutto cuore.
Era da due mesi in questa classe quando un piccolo incidente fece parlare alquanto di me. Un giorno il professore spiegava la vita di Agesilao scritta da Cornelio Nipote. In quel giorno non aveva meco il libro e per celare al maestro la mia dimenticanza tenevami davanti il Donato aperto. Se ne accorsero i compagni. Uno comincio, l’altro continuo a ridere a segno che la scuola era in disordine.
Che c’è, disse il precettore, che c’è, mi si dica sull’istante. E siccome l’occhio di tutti stava rivolto verso me, egli mi comandò di fare la costruzione e ripetere la stessa sua spiegazione. Mi alzai allora in piedi, e tenendo tuttora il Donato tra mano ripetei a memoria il testo, la costruzione e la spiegazione. I compagni quasi istintamente mandando voci di ammirazione batterono le mani. Non è a dire a quale furia si lasciasse portare il professore; perché quella era la prima volta, che, secondo lui, non poteva tener la disciplina. Mi diede uno scappellotto, che scansai piegando il capo; poi tenendo la mano sul mio Donato si fece dai vicini esporre la cagione di quel disordine. Dissero questi: Bosco ebbe sempre davanti a se il Donato, ed ha letto e spiegato come se tra mano avesse avuto il libro di Cornelio.
Il professore prese di fatto il Donato, mi fece ancora continuare due periodi e poi mi disse: Per la vostra felice memoria vi perdono la dimenticanza che avete fatto. Siete fortunato, procurate soltanto di servirvene in bene.
Sul finire di quell'anno scolastico (1830-1831) fui con buoni voti promosso alla terza gramatica ossia terza Ginnasiale.
6° I compagni - Società dell'allegria - Doveri cristiani▲
In queste prime quattro classi ho dovuto imparare a mio conto a trattare coi compagni. Io aveva fatto tre categorie di compagni: Buoni, indifferenti, cattivi. Questi ultimi evitarli assolutamente e sempre appena conosciuti; cogli indifferenti trattenermi per cortesia e per bisogno; coi buoni contrarre famigliarità, quando se ne incontrassero che fossero veramente tali. Siccome in questa città io non conosceva alcuno, così io mi sono fatto una legge di famigliarizzare con nissuno. Tuttavia ho dovuto lottare non poco con quelli, che io per bene non conosceva. Taluni volevano guidarmi ad un teatrino, altri a fare una partita al giuoco, quell’altro ad andare a nuoto. Taluno anche a rubacchiare frutta nei giardini o nella campagna.
Un cotale fu così sfacciato, che mi consiglio a rubare alla mia padrona di casa un oggetto di valore a fine di procacciarci dei confetti. Io mi sono liberato da questa caterva di tristi col fuggire rigorosamente la loro compagnia, di mano in mano mi veniva dato di poterli scoprire. Generalmente poi diceva a tutti per buona risposta che mia madre avevami affidato alla mia padrona di casa, e che per l’amore che a quella io portava non voleva andare in nissun luogo, ne fare cosa alcuna senza il consenso della medesima buona Lucia.
Questa mia ferma ubbidienza alla buona Lucia mi tornò anche utile temporalmente, perciocché con gran piacere mi affidò il suo unico figlio (I)
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(1) Matta Gio. Batt.a di Castelnuovo d'Asti già molti anni sindaco di sua patria, ora neg. in drogheria nel medesimo paese.
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di carattere molto vivace, amantissimo dei trastulli, pochissimo dello studio. Ella mi incaricò eziandio di fargli la ripetizione sebbene fosse di classe superiore alla mia.
Io me ne occupai come di un fratello. Colle buone, con piccoli regali, con trattenimenti domestici, e più conducendolo alle pratiche religiose me lo resi assai docile, ubbidiente e studioso a segno che dopo sei mesi era divenuto abbastanza buono e diligente da contentare il suo professore ed ottenere posti d’onore nella sua classe. La madre ne fu lieta assai e per premio mi condonò intiera la mensile pensione.
Siccome poi i compagni, che volevano tirarmi ai disordini, erano i più trascurati nei doveri, così essi cominciarono a far ricorso a me, perché facessi la carità scolastica prestando o dettando loro il tema di scuola. Spiacque tal cosa al professore, perché quella falsa benevolenza, fomentava la loro pigrizia, e ne fui severamente proibito. Allora mi appigliai ad una via meno rovinosa, vale a dire a spiegare le difficoltà, ed anche aiutare quelli cui fosse mestieri. Con questo mezzo faceva piacere a tutti, e mi preparava la benevolenza e l’affezione dei compagni. Cominciarono quelli a venire per ricreazione, poi per ascoltare racconti, e per fare il tema scolastico e finalmente venivano senza nemmeno cercarne il motivo come già quei di Murialdo e di Castelnuovo. Per dare un nome a quelle riunioni solevamo chiamarle Società dell’Allegria; nome che assai bene si conveniva, perciocche era obbligo stretto a ciascuno di cercare que’ libri, introdurre que’ discorsi, e trastulli che avessero potuto contribuire a stare allegri; pel contrario era proibito ogni cosa che cagionasse malinconia specialmente le cose contrarie alla legge del Signore. Chi pertanto avesse bestemmiato o nominato il nome di Dio invano, o fatto cattivi discorsi era immediatamente allontanato dalla società. Trovatomi così alla testa di una moltitudine di compagni di comune accordo fu posto per base:
1° Ogni membro della Società dell'Allegria deve evitare ogni discorso, ogni azione che disdica ad un buon cristiano;
2° Esattezza nell’adempimento dei doveri scolastici e dei doveri religiosi. Queste cose contribuirono a procacciarmi stima, e nel 1832 io era venerato da’ miei colleghi come capitano di un piccolo esercito. Da tutte parti io era cercato per dare trattenimenti, assistere allievi nelle case private ed anche per fare scuola o ripetizione a domicilio. Con questo mezzo la divina provvidenza mi metteva in grado di provvedermi quanto erami necessario per abiti, oggetti di scuola ed altro senza cagionare alcun disturbo alla mia famiglia.
7° Buoni compagni e pratiche di pietà▲
Fra coloro che componevano la Società dell’Allegria ne ho potuto rinvenire alcuni veramente esemplari. Fra costoro meritano essere nominati Garigliano Guglielmo di Poirino e Braje Paolo di Chieri. Essi partecipavano volentieri alla onesta ricreazione, ma in modo che la prima cosa a compiersi fossero sempre i doveri di scuola. Amavano ambidue la ritiratezza e la pietà, e mi davano costantemente buoni consigli. Tutte le feste dopo la congregazione del collegio, andavamo alla chiesa di S. Antonio dove i Gesuiti facevano uno stupendo catechismo, in cui raccontavansi parecchi esempi che tuttora ricordo.
Lungo la settimana poi la Società dell’Allegria si raccoglieva in casa di uno de’ soci per parlare di religione. A questa radunanza interveniva liberamente chi voleva. Garigliano e Braje erano dei più puntuali. Ci trattenevamo alquanto in amena ricreazione, in pie conferenze, letture religiose, in preghiere, nel darci buoni consigli, e nel notarci quei difetti personali, che taluno avesse osservato, o ne avesse da altri udito a parlare. Senza che per allora il sapessi mettevamo in pratica quel sublime avviso: Beato chi ha un monitore. E quello di Pitagora: Se non avete un amico che vi corregga i difetti, pagate un nemico che vi renda questo servizio.
Oltre a questi amichevoli trattenimenti andavamo ad ascoltare le prediche, spesso a confessarci e a fare la santa comunione. Qui e bene che vi ricordi come di que’ tempi la religione faceva parte fondamentale dell’educazione. Un professore che eziandio celiando avesse pronunziato una parola lubrica, o irreligiosa era immediatamente dismesso dalla carica. Se facevasi così dei professori immaginatevi quanta severità si usasse verso gli allievi indisciplinati o scandalosi! La mattina dei giorni feriali s’ascoltava la santa messa; al principio della scuola si recitava divotamente l’Actiones colI’Ave Maria. Dopo dicevasi l’Agimus coll’Ave Maria.
Ne’ giorni festivi poi gli allievi erano tutti raccolti nella chiesa della congregazione. Mentre i giovani entravano si faceva lettura spirituale, cui seguiva il canto dell’uffizio della Madonna; di poi la messa, quindi la spiegazione del Vangelo. La sera catechismo, vespro, istruzione. Ciascuno doveva accostarsi ai santi sacramenti e per impedire trascuratezza di questi importanti doveri, erano obbligati a portare una volta al mese il biglietto di confessione. Chi non avesse adempito questo dovere non era più ammesso agli esami della fine dell’anno, sebbene fosse dei migliori nello studio. Questa severa disciplina produceva maravigliosi effetti. Si passavano anche più anni senza che fosse udita una bestemmia o cattivo discorso. Gli allievi erano docili e rispettosi tanto nel tempo di scuola, quanto nelle proprie famiglie. E spesso avveniva che in classi numerosissime alla fine dell'anno erano tutti promossi a classe superiore. Nella terza, Umanità e Retorica i miei condiscepoli furono sempre tutti promossi.
La più fortunata mia avventura fu la scelta di un confessore stabile nella persona del teologo Maloria canonico della collegiata di Chieri. Egli mi accolse sempre con grande bontà ogni volta che andava da lui. Anzi mi incoraggiava a confessarmi e comunicarmi colla maggior frequenza. Era cosa assai rara a trovare chi incoraggiasse alla frequenza dei sacramenti. Non mi ricordo che alcuno de’ miei maestri mi abbia tal cosa consigliata. Chi andava a confessarsi e a comunicarsi più d’una volta al mese era giudicato dei più virtuosi; e molti confessori nol permettevano. Io però mi credo debitore a questo mio confessore se non fui dai compagni strascinato a certi disordini che gli inesperti giovanetti hanno purtroppo a lamentare nei grandi collegi.
In questi due anni non ho mai dimenticato i miei amici di Morialdo. Mi tenni sempre con loro in relazione e di quando in quando nel giovedì faceva loro qualche visita. Nelle ferie autunnali appena sapevano della mia venuta correvano ad incontrarmi a molta distanza e facevano sempre una festa speciale. Fu pure tra essi introdotta la Società dell’Allegria, cui venivano aggregati coloro che lungo l’anno si erano segnalati nella morale condotta; e all’opposto si cancellavano dal catalogo quelli che si fossero regolati male, specialmente se avessero bestemmiato o fatto cattivi discorsi.
8° Umanità e Retorica - Luigi Comollo▲
Compiuti i primi corsi di Ginnasio, abbiamo avuto una visita del Magistrato della Riforma nella persona dell’avvocato Prof. D. Giuseppe Gazzani, uomo di molto merito. Egli mi usò molta benevolenza, ed io ho conservato gratitudine e buona memoria di lui, a segno che fummo di poi sempre in istretta ed amichevole relazione. Quell’onesto sacerdote vive tuttora in Moltedo Superiore presso di Oneglia sua patria, e fra le molte opere di carita ha fondato un posto gratuito nel nostro collegio di Alassio per un giovinetto, che desideri studiare per lo stato ecclesiastico.
Quegli esami si diedero con molto rigore, tuttavia i miei condiscepoli in numero di quarantacinque furono tutti promossi alla classe superiore, che corrisponde alla nostra quarta Ginnasiale. Io ho corso un gran pericolo di essere rimandato per avere dato copia del lavoro ad altri. Se fui promosso ne sono debitore alla protezione del venerando mio professore P. Giusiana domenicano, che mi ottenne un nuovo tema, il quale essendomi riuscito bene fui con pieni voti promosso.
Era allora lodevole consuetudine che in ogni corso almeno uno a titolo di premio venisse dal municipio dispensato dal minervale di f. 12. Per ottenere questo favore era mestieri riportare i pieni voti negli esami, e pieni voti nella morale condotta. Io sono sempre stato favorito dalla sorte ed in ogni corso fui sempre dispensato da quel pagamento.
In quell’anno ho perduto uno de’ miei più cari compagni. Il giovane Braje Paolo, mio caro ed intimo amico, dopo lunga malattia, vero modello di pietà, di rassegnazione, di viva fede, moriva il giorno anno andando così a raggiungere S. Luigi, di cui si mostrò seguace fedele in tutta la vita. Tutto il collegio ne provò rincrescimento; i suoi compagni intervennero in corpo alla sua sepoltura. E non pochi per molto tempo solevano andare in giorno di vacanza a fare la S. Comunione, recitare l’uffizio della Madonna, o la terza parte del Rosario per l’anima dell’amico defunto. Dio però si degnò di compensare questa perdita con un altro compagno egualmente virtuoso ma assai più celebre per le opere sue. Fu questi Luigi Comollo, di cui fra breve dovrò parlare.
Terminava adunque l’anno di umanità e mi riuscì assai bene, a segno che i miei professori, specialmente il Dottor Pietro Banaudi mi consigliarono di chiedere l’esame per la filosofia, cui di fatto sono stato promosso; ma siccome amava lo studio di lettere, ho giudicato bene di continuare regolarmente le classi e fare la Retorica ossia quinta Ginnasiale l’anno 1833-4. Appunto in quell'anno cominciarono le mie relazioni col Comollo. La vita di questo prezioso compagno fu scritta a parte ed ognuno può leggerla a piacimento; qui noterò un fatto che me lo ha fatto conoscere in mezzo agli umanisti.
Si diceva adunque tra retorici che in quell’anno ci doveva venire un allievo santo, e si accennava essere quello il nipote del Prevosto di Cinzano, sacerdote attempato, ma assai rinomato per santità di vita. Io desiderava di conoscerlo, ma ignorava il nome. Un fatto me lo fece conoscere. Da quel tempo era già in uso il pericoloso giuoco della cavallina in tempo d’ingresso nella scuola. I più dissipati e meno amanti dello studio ne sono avidissimi e ordinariamente i più celebri.
Si mirava da alcuni giorni un modesto giovanetto sui quindici anni, che, giunto in collegio, prendeva posto e senza badare agli schiamazzi altrui si metteva a leggere o a studiare. Un compagno insolente gli va vicino, lo prende per un braccio, pretende che egli pure vada a giuocare la cavallina.
— Non so, rispondeva l’altro tutto umile e mortificato. Non so, non ho mai fatto questi giuochi.
— Io voglio che tu venga assolutamente, altrimenti ti fo venire a forza di calci e schiaffi.
— Puoi battermi a tuo talento, ma io non so, non posso, non voglio...
Il maleducato e cattivo condiscepolo il prese per un braccio, lo urtò e poi gli diede due schiaffi che fecero eco in tutta la scuola. A quella vista io mi sentii bollire il sangue nelle vene e attendeva che l’offeso ne facesse la dovuta vendetta; tanto più che l’oltraggiato era di molto superiore all’altro in forze ed età. Ma quale non fu la maraviglia, quando il buon giovanetto colla sua faccia rossa e quasi livida, dando un compassionevole sguardo al maligno compagno dissegli soltanto: Se questo basta per soddisfarti, vattene in pace, io ti ho già perdonato.
Quell’atto eroico ha destato in me il desiderio di saperne il nome, che era appunto Luigi Comollo nipote del Prevosto di Cinzano, di cui si erano uditi tanti encomii. Da quel tempo l’ebbi sempre per intimo amico e posso dire che da lui ho cominciato ad imparare a vivere da cristiano. Ho messa piena confidenza in lui, egli in me; l’uno aveva bisogno dell’altro. Io di aiuto spirituale, l'altro di aiuto corporale. Perciocché il Comollo per la sua grande timidità non osava nemmeno tentare la difesa contro agli insulti dei cattivi, mentre io da tutti i compagni, anche maggiori di età e di statura, era temuto pel mio coraggio e per la mia forza gagliarda. Ciò aveva un giorno fatto palese verso taluni che volevano disprezzare e percuotere il medesimo Comollo ed un altro di nome Candelo Antonio modello di bonomia. Io volli intervenire in loro favore, ma non si voleva badare. Vedendo un giorno quegli innocenti maltrattati, guai a voi, dissi ad alta voce, guai a chi fa ancora oltraggio a costoro.
Un numero notabile dei più alti e dei più sfacciati si misero in atteggiamento di comune difesa e di minaccia contro di me stesso, mentre due sonore ceffate cadono sulla faccia del Comollo. In quel momento io dimenticai me stesso ed eccitando in me non la ragione, ma la mia forza brutale, non capilandomi tra mano ne sedia ne bastone strinsi colle mani un condiscepolo alle spalle, e di lui mi valsi come di bastone a percuotere gli avversari. Quattro caddero stramazzoni a terra gli altri fuggirono gridando e dimandando pietà. Ma che? In quel momento entrò il professore nella scuola, e mirando braccia e gambe sventolare in alto in mezzo ad uno schiamazzo dell’altro mondo, si pose a gridare dando spalmate a destra e a sinistra. Il temporale stava per cadere sopra di me, ma fattasi raccontare la cagione di quel disordine, volle fosse rinnovata quella scena, o meglio sperimento di forza. Rise il professore, risero tutti gli allievi ed ognuno facendo maraviglia, non si badò più al castigo che mi era meritato.
Ben altre lezioni mi dava il Comollo. Mio caro, dissemi appena potemmo parlare tra noi, la tua forza mi spaventa, ma credimi, Dio non te la diede per massacrare i compagni. Egli vuole che ci amiamo, ci perdoniamo, e che facciamo del bene a quelli che ci fanno del male.
Io ammirai la carità del collega, e mettendomi affatto nelle sue mani, mi lasciava guidare dove come egli voleva. D’accordo coll’amico Garigliano andavamo insieme a confessarci, comunicarci, fare la meditazione, la lettura spirituale, la visita al SS. Sacramento, a servire la S. Messa. Sapeva invitare con tanta bontà, dolcezza, e cortesia, che era impossibile rifiutarsi a' suoi inviti.
Mi ricordo che un giorno chiaccherando con un compagno passai davanti ad una chiesa senza scoprirmi il capo. L’altro mi disse tosto in modo assai garbato: Gioanni mio, tu sei così attento a discorrere cogli uomini, che dimentichi perfino la casa del Signore.
9° Caffettiere e liquorista - Giorno onomastico - Una disgrazia▲
Dato così un cenno sulle cose di scuola riferirò alcuni fatti particolari che possono servire di amena ricreazione.
L’anno di umanità ho cangiato pensione sia per essere più vicino al mio professore, D. Banaudi, sia anche per accondiscendere ad un amico di famiglia di nome Pianta Gioanni, il quale andava in quell’anno ad aprire un caffè nella città di Chieri. Quella pensione era certamente assai pericolosa, ma essendo con buoni cristiani, e continuando le relazioni con esemplari compagni ho potuto andare avanti senza danno morale. Ma oltre ai doveri scolastici rimanendomi molto tempo libero, io soleva impiegarne una parte a leggere i classici italiani o latini, impiegava l’altra parte a fare liquori e confetture. Alla metà di quell’anno io ero in grado di preparare caffè, cioccolatte; conoscere le regole e le proporzioni per fare ogni genere di confetti, di liquori, di gelati e rinfreschi. Il mio principale cominciò per darmi la pensione gratuita, e considerando il vantaggio che avrei potuto recare al suo negozio, mi fece vantaggiose profferte purché lasciando le altre occupazioni mi fossi interamente dedicato a quel mestiere. Io però faceva quei lavori soltanto per divertimento e ricreazione, ma la mia intenzione era di continuare gli studi.
Il professore Banaudi era un vero modello degli insegnanti. Senza mai infliggere alcun castigo era riuscito a farsi temere ed amare da tutti i suoi allievi. Egli li amava tutti quai figli, ed essi l’amavano qual tenero padre.
Per dargli un segno di affezione fu deliberato di fargli un regalo pel suo Giorno Onomastico. A tale effetto ci siamo accordati di preparare composizioni poetiche, [e] in prosa, e provvedere alcuni doni che noi giudicavamo tornargli di speciale gradimento.
Quella festa riuscì splendida, il Maestro fu contento a più non dire, e per darci un segno della sua soddisfazione ci condusse a fare un pranzo in campagna. La giornata riuscì amenissima. Tra professore ed allievi eravi un cuor solo, ed ognuno studiava modi per esprimere la gioia dell’animo. Prima di rientrare nella città di Chieri il professore incontrò un forestiere con cui dovettesi accompagnare lasciandoci soli per un breve tratto di via. In quel momento si avvicinarono alcuni compagni di classi superiori, che ci invitarono ad un bagno in sito detto La Fontana Rossa distante circa un miglio da Chieri. Io con alcuni miei compagni ci siamo opposti ma inutilmente. Parecchi vennero meco a casa, altri vollero andare a nuotare. Trista deliberazione. Poche ore dopo il nostro arrivo a casa, giunge un compagno, poi un altro spaventati ed ansanti correndo per dirci: Oh se sapeste mai, se sapeste mai! Filippo N. quello che insistette tanto perché andassimo a nuotare, è rimasto morto.
— Come, tutti dimandavano, egli era così famoso a nuotare!
— Che volete mai, continuo l’altro, per incoraggiarci a sommergerci nell’acqua, confidando nella sua perizia, e non conoscendo i vortici della pericolosa Fontana Rossa, si gettò pel primo. Noi aspettavamo che ritornasse a ga[l]la, ma fummo delusi. Ci siamo messi a gridare, venne gente, si usarono molti mezzi e non fu senza pericolo altrui che dopo un'ora e mezzo si riuscì a trarne fuori il cadavere.
Tale infortunio cagionò a tutti profonda tristezza; né per quell’anno né per l'anno seguente (1834) non si è mai più udito a dire che alcuno abbia anche solo espresso il pensiero di andare a nuoto. Qualche tempo fa accadde di trovarmi con alcuno di quegli antichi amici, con cui ricordammo con vero dolore la disgrazia toccata all’infelice compagno nel gorgo della Fontana Rossa.
L’anno di umanità, dimorando nel caffè dell’amico Gioanni Pianta contrassi relazione con un giovanetto ebreo di nome Giona. Esso era sui diciotto anni, di bellissimo aspetto; cantava con una voce rara fra le più belle.
Giuocava assai bene al bigliardo, ed essendoci già conosciuti presso al libraio Elia, appena giungeva in bottega, dimandava tosto di me. [Io] gli portava grande affetto, egli poi era folle per amicizia verso di me. Ogni momento libero egli veniva a passarlo in mia camera; ci trattenevamo a cantare, a suonare il piano, a leggere, ascoltando volentieri mille storielle, che gli andava raccontando. Un giorno gli accadde un disordine con rissa, che poteva avere triste conseguenze, onde egli corse da me per avere consiglio. Se tu, o caro Giona, fossi cristiano, gli dissi, vorrei tosto condurti a confessarti; ma ciò non ti è possibile.
— Ma anche noi, se vogliamo, andiamo a confessarci.
— Andate a confessarvi, ma il vostro confessore non è tenuto al segreto, non ha potere di rimettervi i peccati, né può amministrare alcun sacramento.
— Se mi vuoi condurre, io andrò a confessarmi da un prete.
— Io ti potrei condurre, ma ci vuole molta preparazione.
— Quale?
— Sappi che la confessione rimette i peccati commessi dopo il battesimo; perciò se tu vuoi ricevere qualche sacramento bisogna che prima di ogni altra cosa tu riceva il battesimo.
— Che cosa dovrei fare per ricevere il battesimo?
— Istruirti nella cristiana religione, credere in Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo. Fatto questo tu puoi ricevere il battesimo.
— Quale vantaggio mi darà poi il battesimo?
— Il battesimo ti scancella il peccato originale ed anche i peccati attuali, ti apre la strada a ricevere tutti gli altri sacramenti, ti fa insomma figliuolo di Dio ed erede del paradiso.
— Noi ebrei non possiamo salvarci?
— No, mio caro Giona, dopo la venuta di Gesù Cristo gli ebrei non possono più salvarsi senza credere in Lui.
— Se mia madre viene a sapere che io voglio farmi cristiano, guai a me!
— Non temere, Dio e padrone dei cuori, e se egli ti chiama a farti cristiano, farà in modo che tua madre si contenterà, o provvederà in qualche modo per l’anima tua.
— Ma tu che mi vuoi tanto bene, se fossi al mio posto, che faresti?
— Comincierei ad istruirmi nella cristiana religione, intanto Dio aprirà la via a quanto si dovrà fare in avvenire. A questo scopo prendi il piccolo catechismo, e comincia a studiarlo. Prega Dio che ti illumini, e che ti faccia conoscere la verità.
Da quel giorno cominciò ad essere affezionato alla fede cristiana. Veniva al caffè, e fatta appena una partita al bigliardo cercava tosto di me per discorrere di religione e del catechismo. Nello spazio di pochi mesi apprese a fare il segno della s. croce, il Pater, Ave Maria, Credo, ed altre verità principali della fede. Egli ne era contentissimo, ed ogni giorno diventava migliore nel parlare, e nell’operare.
Egli aveva perduto il padre da fanciullo, la madre di nome Rachele aveva già inteso qualche voce vaga, ma non sapeva ancora niente di positivo. La cosa si scoprì in questo modo: Un giorno nel fargli il letto ella trovò il catechismo, che suo figlio aveva inavvedutamente dimenticato tra il materasso ed il saccone. Si mise ella a gridare per casa, porto il catechismo al Rabbino, e sospettando di quello, che era di fatto, corse frettolosa dallo studente Bosco, di cui aveva più volte udito a parlare da suo figlio medesimo. Immaginatevi il tipo della bruttezza ed avrete un’idea della madre di Giona. Era cieca da un occhio, sorda da ambe le orecchie; naso grosso; quasi senza denti, labbra esorbitanti, bocca torta, mento lungo ed acuto, voce simile al grugnito di un poledro. Gli ebrei solevano chiamarla col nome di Maga Lili, col quale nome sogliono esprimere la cosa più brutta di loro nazione. La sua comparsa mi ha spaventato, e senza dar tempo a riavermi prese a parlare così: Affè che giuro, voi avete torto; voi, si voi avete rovinato il mio Giona; l'avete disonorato in faccia al pubblico, io non so che sarà di lui. Temo che finisca col farsi cristiano; e voi ne siete la cagione.
Compresi allora chi era e di chi parlava, e con tutta calma risposi che ella doveva essere contenta e ringraziare chi faceva del bene a suo figlio.
— Che bene è mai questo? Sarà un bene a far rinnegare la propria religione?
— Calmatevi, buona signora, le dissi, ed ascoltate: Io non ho cercato il vostro Giona, ma ci siamo incontrati nella bottega del libraio Elia. Siamo divenuti amici senza saperne la cagione. Egli porta molta affezione a me; io l’amo assai, e da vero amico desidero che egli si salvi l'anima, e che possa conoscere quella religione fuori di cui niuno può salvarsi. Notate bene, o Madre di Giona, che io ho dato un libro a vostro figlio dicendogli soltanto d’istruirsi nella religione e se egli si facesse cristiano non abbandona la religione ebraica, ma la perfeziona.
— Se per disgrazia egli si facesse cristiano egli dovrebbe abbandonare i nostri profeti, perché i cristiani non credono ad Abramo, Isacco, Giacobbe, a Mosè né ai profeti.
— Anzi noi crediamo a tutti i santi patriarchi e a tutti i profeti della Bibbia. I loro scritti, i loro detti, le loro profezie formano il fondamento della fede cristiana.
— Se mai fosse qui il nostro Rabbino, egli saprebbe che rispondere. Io non so ne il Misna ne il Gemara (sono le due parti del Talmud). Ma che ne sarà del mio povero Giona?
Ciò detto se ne partì. Qui sarebbe lungo riferire gli attacchi fattimi più volte dalla Madre, dal suo Rabbino, dai parenti di Giona. Non fu minaccia, violenza che non siasi usata contro al coraggioso giovanetto. Egli tutto soffrì, e continuò ad istruirsi nella fede. Siccome in famiglia non era più sicuro della vita, così dovettesi allontanare da casa e vivere quasi mendicando. Molti però gli vennero in ajuto e affinché ogni cosa procedesse colla dovuta prudenza, raccomandai il mio allievo ad un dotto sacerdote, che si prese di lui cura paterna. Allora che fu a dovere istrutto nella religione, mostrandosi impaziente di farsi cristiano, fu fatta una solennità, che tornò di buon esempio a tutti i chieresi, e di eccitamento ad altri ebrei, di cui parecchi abbracciarono più tardi il cristianesimo.
Il Padrino e la Madrina furono Carlo ed Ottavia coniugi Bertinetti, i quali provvidero a quanto occorreva al Neofito, che divenuto cristiano, poté col suo lavoro procacciarsi onestamente il pane della vita. Il nome del neofito fu Luigi.
11° Giuochi- Prestigi- Magia – Discolpa▲
In mezzo a’ miei studi e trattenimenti diversi, come sono canto, suono, declamazione, teatrino, cui prendeva parte di tutto cuore, aveva eziandio imparati vari altri giuochi. Carte, tarocchi, pallottole, piastrelle, stampelle, salti, corse, erano tutti divertimenti di sommo gusto, in cui, se non era celebre, non era certamente mediocre. Molti li aveva imparati a Murialdo, altri a Chieri, e se nei prati di Murialdo era piccolo allievo, a quell’anno era divenuto un compatibile maestro. Ciò cagionava molta maraviglia perché a quell’epoca tali giuochi essendo poco conosciuti, parevano cose dell’altro mondo. Ma che diremo dei prestigi?
Soleva spesso dare pubblici e privati spettacoli. Siccome la memoria mi favoriva assai, così sapeva a mente una gran parte dei classici specialmente poeti. Dante, Petrarca, Tasso, Parini, Monti ed altri assai mi erano cosi famigliari da potermene valere a piacimento come di roba mia. Per la qual cosa mi riusciva molto facile a trattare all’improvviso qualunque argomento. In quei trattenimenti, in quegli spettacoli talvolta cantava, talora suonava o componeva versi, che giudicavansi capi d'opera, ma che in realtà non erano altro, che brani di autori accomodati agli argomenti proposti. Per questo motivo non ho mai date le mie composizioni ad altri; e taluna che fu scritta ho procurato di consegnarla alle fiamme.
Cresceva poi la maraviglia ne’ giuochi di prestigiatore. Il vedere uscire da un piccolo bossolotto mille palle tutte più grosse di lui; da un piccolo taschetto tirar fuori mille uova, erano cose che facevano trasecolare. Quando poi vedevanmi raccogliere palloni dalla punta del naso degli astanti; indovinare i danari della saccoccia altrui; quando col semplice tatto delle dita si riducevano in polvere monete di qualsiasi metallo; o si faceva comparire l'udienza intera di orribile aspetto ed anche senza teste; allora si cominciò da taluno a dubitare, che io fossi un mago, e che non potessi operare quelle cose senza l'intervento di qualche diavolo.
Accresceva credenza il mio padrone di casa di nome Tommaso Cumino. Era questi un fervoroso cristiano, che amava molto lo scherzo, ed io sapeva approfittarmi del suo carattere e direi dabbenaggine per fargliene di tutti i colori. Un giorno con grande cura aveva preparata una gelatina con un pollo per regalare a’ suoi pensionari nel giorno suo onomastico. Portò a tavola il piatto, ma scopertolo, ne saltò fuori un gallo che svolazzando cantarellava in mille guise. Altra volta apprestò una pentola di maccheroni, e dopo averli fatti cuocere assai lungo tempo, nell’atto di versarli nel piatto trovo altrettanta crusca asciuttissima. Più volte empieva la bottiglia di vino e volendolo versare nel bicchiere, trovava limpida acqua. Volendo poi bere acqua, trovavasi invece il bicchiere pieno di vino. Le confetture cangiate in fette di pane; il danaro della borsa trasmutato in inutili e rugginosi pezzetti di latta; il cappello cangiato in cuffia; noci e nocciuole cangiate in sacchetti di minuta ghiaia erano cose assai frequenti.
Il buon Tommaso non sapeva più che dire. Gli uomini, diceva tra se, non possono fare queste cose; Dio non perde tempo in queste inutilità; dunque è il demonio che fa tutto questo. Non osando parlarne con quei di casa, si consigliò con un vicino sacerdote, D. Bertinetti. Scorgendo esso pure magia bianca in quelle opere, in que’ trastulli, decise di riferire la cosa al delegato delle scuole, che era in quel tempo un rispettabile ecclesiastico, il can.co Burzio, arciprete e curato del duomo.
Era questi persona assai istrutta, pia e prudente; e senza fare ad altri parola mi chiese ad audiendum verbum. Giunsi a casa sua in momento che recitava il breviario e guardandomi con un sorriso mi accennò di attendere alquanto. In fine mi disse di seguirlo in un gabinetto e la con parole cortesi, ma con severo aspetto cominciò ad interrogarmi così: Mio caro, io sono molto contento del tuo studio e della condotta che hai tenuto finora; ma ora si raccontano tante cose di te... Mi dicono che tu conosci i pensieri degli altri, indovini il danaro che altri ha in saccoccia; fai vedere bianco quello che è nero. Conosci le cose da lontano e simili. Ciò fa parlare assai di te e taluno giunse a sospettare che tu ti servi della magia e che perciò in quelle opere vi sia lo spirito di Satana. Dimmi adunque: chi ti ammaestrò in questa scienza, dove l’hai imparata? Dimmi ogni cosa in modo confidenziale; ti assicuro che non me ne servirò, se non per farti del bene.
Senza scompormi di aspetto chiesigli cinque minuti di tempo a rispondere e l’invitai a dirmi l’ora precisa. Mette egli la mano in tasca e più non trovo il suo orologio. Se non ha l’orologio, soggiunsi, mi dia una moneta da cinque soldi. Frugò egli in ogni saccoccia, ma non trovo più la sua borsa.
Briccone, prese a dirmi tutto incollerito: O che tu sei servo del demonio, o che il demonio serve a te. Tu mi hai già involato borsa ed orologio. Io non posso più tacere, sono obbligato a denunziarti e non so come mi tenga dal non farti un fracco di bastonate! Ma nel rimirarmi calmo e sorridente parve acquetarsi alquanto e ripigliò: Prendiamo le cose in modo pacifico: spiegami questi misteri. Come fu possibile, che la mia borsa e il mio orologio uscissero dalle mie saccoccie senza che io me ne sia accorto? dove sono andati questi oggetti?
Signor arciprete, presi a dirgli rispettosamente: io spiego tutto in poche parole. È tutto destrezza di mano, intelligenza presa, o cosa preparata.
—Che intelligenza vi poté essere pel mio orologio e per la mia borsa?
—Spiego tutto in breve: Quando giunsi in casa sua Ella dava limosina ad un bisognoso, di poi mise la borsa sopra uno inginocchiatoio. Andando poi di questa in altra camera lasciò l’orologio sopra questo tavolino. Io nascosi l'uno e l'altro, ed Ella pensava di avere quegli oggetti con sé, mentre erano invece sotto a questo paralume.
Ciò dicendo alzai il paralume e si trovarono ambidue gli oggetti creduti dal demonio portati altrove.
Rise non poco il buon canonico; mi fece dar saggio di alcuni atti di destrezza, e come poté conoscere il modo con cui le cose facevansi comparire e disparire, ne fu molto allegro, mi fece un piccolo regalo, e in fine conchiuse: Va a dire a tutti i tuoi amici che ignorantia est magistra admirationis.
12° Corsa - Salto - Bacchetta magica - Punta dell'albero▲
Discolpatomi che ne’ miei divertimenti non vi era la magia bianca mi sono di nuovo messo a radunare compagni e trattenerli e ricrearli come prima. In quel tempo avvenne che alcuni esaltavano a cielo un saltimbanco, che aveva dato pubblico spettacolo con una corsa a piedi percorrendo la città di Chieri da una all'altra estremità in due minuti e mezzo, che e quasi il tempo della Ferrovia a grande velocità.
Non badando alle conseguenze delle mie parole ho detto che io mi sarei volentieri mi surato con quel ciarlatano. Un imprudente compagno riferì la cosa al saltimbanco, ed eccomi impegnato in un sfida: Uno studente sfida un corriere di professione!
Il luogo scelto era il viale di Porta Torinese.
La scommessa era di 20 f. Non possedendo io quel danaro parecchi amici appartenenti alla Società dell’Allegria, mi vennero in soccorso. Una moltitudine di gente assisteva. Si comincia la corsa e il mio rivale mi guadagnò alcuni passi; ma tosto riacquistai terreno e lo lasciai talmente dietro di me, che a metà corsa si fermò; dandomi partita guadagnata.
— Ti sfido a saltare, dissemi, ma voglio scommettere fr. 40 e di più se vuoi. Accettammo la sfida, e toccando a lui scegliere il luogo, egli fissò che il salto dovesse avere luogo contro il parapetto di un ponticello. Egli saltò il primo e pose il piede vicinissimo al muriccio, sicché più in là non si poteva saltare. In quel modo io avrei potuto perdere, ma non guadagnare. L’industria però mi venne in soccorso. Feci il medesimo salto, ma appoggiando le mani sul parapetto del ponte prolungai il salto al di là del medesimo muro e dello stesso fosso. Applausi generali.
— Voglio ancora farti una sfida. Scegli qualunque giuoco di destrezza.
Accettai, e scelsi il giuoco della bacchetta magica colla scommessa di fr. 80. Presi pertanto una bacchetta, ad una estremità posi un cappello, poi appoggiai l’altra estremità sulla palma di una mano. Di poi senza toccarla coll’altra la feci saltare sulla punta del dito mignolo, dell’anulare, del medio, dell’indice, del pollice; quindi sulla nocetta della mano, sul gomito, sulla spalla, sul mento, sulle labbra, sul naso, sulla fronte. Indi rifacendo lo stesso cammino torno sulla palma della mano.
— Non temo di perdere, disse il rivale, è questo il mio giuoco prediletto. Prese adunque la medesima bacchetta e con meravigliosa destrezza la fece camminare fin sulle labbra, d’onde, avendo alquanto lungo il naso, urto e perdendo l’equilibrio dovette prenderla colla mano per non lasciarla cadere a terra.
Quel meschino vedendosi il patrimonio andare a fondo quasi furioso esclamo: Piùttosto qualunque altra umiliazione, ma non quella di essere stato vinto da uno studente. Ho ancora cento franchi e questi li scommetto e li guadagnerà chi di noi metterà i piedi più vicino alla punta di quest’albero, accennava ad un olmo che era accanto al viale. Accettammo anche questa volta, anzi in certo modo eravamo contenti che egli guadagnasse giacché sentivamo di lui compassione, e non volevamo rovinarlo.
Salì egli il primo sopra l’olmo e portò i piedi a tale altezza, che, per poco fosse più alto salito, [l’albero] sarebbesi piegato cadendo a terra colui che si arrampicava. Tutti dicevano che non era possibile salire più in alto. Feci la mia prova. Salii alla possibile altezza senza far curvare la pianta, poi tenendomi colle mani all’albero alzai il corpo e portai i piedi circa un metro oltre all'altezza del mio contendente.
Chi mai può esprimere gli applausi della moltitudine, la gioia de' miei compagni, la rabbia del saltimbanco, e l’orgoglio mio, che era riuscito vincitore, non contro i miei condiscepoli, ma contro ad un capo di ciarlatani? In mezzo però alla grande desolazione gli abbiamo voluto procurare un conforto. Mossi a pietà dalla tristezza del poverino gli abbiamo detto che noi gli ritornavamo il suo danaro se egli accettava una condizione, di venire cioè a pagarci un pranzo all'albergo del Muretto. Accetto l’altro con gratitudine. Andammo in numero di ventidue, tanti erano i miei partigiani. Il pranzo costò 25 franchi, così che gli furono tornati f. 215.
Quello fu veramente giovedì di grande allegria. Io mi sono coperto di gloria per avere in destrezza superato un ciarlatano. Contentissimi i compagni che si divertirono a più non posso col ridere e col buon pranzo. Contento dovette pur essere il ciarlatano, che riebbe quasi tutto il suo danaro, godette anche un buon pranzo. Nel separarsi egli ringraziò tutti dicendo: Col ritornarmi questo danaro voi impedite la mia rovina. Vi ringrazio di tutto cuore. Serberò di voi grata memoria, ma non faro mai più scommesse cogli studenti.
13° Studio dei classici▲
Nel vedermi passare il tempo in tante dissipazioni, voi direte che doveva per necessità trascurare lo studio. Non vi nascondo che avrei potuto studiare di più: ma ritenete che l’attenzione nella scuola mi bastava ad imparare quanto era necessario. Tanto più che in quel tempo io non faceva distinzione tra leggere e studiare e con facilità poteva ripetere la materia di un libro letto o udito a raccontare. Di più essendo stato abituato da mia madre a dormire assai poco, poteva impiegare due terzi della notte a leggere libri a piacimento, e spendere quasi tutta la giornata in cose di libera elezione, come fare ripetizioni, scuole private, cui sebbene spesso mi prestassi per carità o per amicizia, da parecchi però era pagato.
Era allora in Chieri un libraio ebreo di nome Elia, col quale contrassi relazioni associandomi alla lettura dei classici italiani. Un soldo ogni volumetto, che gli ritornava dopo averlo letto. Dei volumetti della biblioteca popolare ne leggeva uno al giorno. L’anno di quarta Ginnasiale l’impiegai nella lettura degli autori italiani. L’anno di Retorica mi posi a fare studi sui classici latini, e cominciai a leggere Cornelio Nipote, Cicerone, Salustio, Quinto Curzio, Tito Livio, Cornelio Tacito, Ovidio, Virgilio, Orazio Flacco ed altri. Io leggeva que’ libri per divertimento e li gustava come se li avessi capito interamente. Soltanto più tardi mi accorsi che non era vero, perciocché fatto sacerdote, messomi a spiegare ad altri quelle classiche celebrità, conobbi che appena con grande studio e con molta preparazione riusciva a penetrarne il giusto senso e la bellezza loro.
Ma i doveri di studio, le occupazioni delle ripetizioni, la molta lettura, richiedevano il giorno ed una parte notabile della notte. Più volte accadde che giungeva l’ora della levata mentre teneva tuttora tra mano le decadi di Tito Livio, di cui aveva intrapreso lettura la sera antecedente. Tal cosa mi rovinò talmente la sanità che per più anni la mia vita sembrava ognora vicina alla tomba. Laonde io darò sempre per consiglio di fare quel che si può e non di più. La notte è fatta pel riposo, ed eccettuato il caso di necessità, altrimenti dopo la cena niuno deve applicarsi in cose scientifiche. Un uomo robusto reggerà alquanto, ma cagionerà sempre qualche detrimento alla sua sanità.
14° Preparazione - Scelta dello stato▲
Intanto si avvicinava la fine dell’anno di Retorica, epoca in cui gli studenti sogliono deliberare intorno alla loro vocazione. Il sogno di Murialdo mi stava sempre impresso; anzi mi si era altre volte rinnovato in modo assai più chiaro, per cui, volendoci prestar fede, doveva scegliere lo stato ecclesiastico; cui appunto mi sentiva propensione: ma non volendo credere ai sogni, e la mia maniera di vivere, certe abitudini del mio cuore, e la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato, rendevano dubbiosa e assai difficile quella deliberazione.
Oh se allora avessi avuto una guida, che si fosse presa cura della mia vocazione! Sarebbe stato per me un gran tesoro, ma questo tesoro mi mancava! Aveva un buon confessore, che pensava a farmi buon cristiano, ma di vocazione non si volle mai mischiare.
Consigliandomi con me stesso, dopo avere letto qualche libro, che trattava della scelta dello stato, mi sono deciso di entrare nell’Ordine Francescano. Se io mi fo cherico nel secolo, diceva tra me, la mia vocazione corre gran pericolo di naufragio. Abbraccierò lo stato ecclesiastico, rinuncierò al mondo, andrò in un chiostro, mi darò allo studio, alla meditazione, e così nella solitudine potrò combattere le passioni, specialmente la superbia, che nel mio cuore aveva messe profonde radici. Feci pertanto dimanda ai conventuali riformati, ne subii l’esame, fui accettato e tutto era preparato per entrare nel convento della Pace in Chieri. Pochi giorni prima del tempo stabilito per la mia entrata ho fatto un sogno dei più strani. Mi parve di vedere una moltitudine di que’ religiosi colle vesti sdruscite indosso e correre in senso opposto l’uno dall’altro. Uno di loro vennemi a dire: Tu cerchi la pace e qui pace non troverai. Vedi l’atteggiamento de’ tuoi fratelli. Altro luogo, altra messe Dio ti prepara.
Voleva fare qualche dimanda a quel religioso, ma un rumore mi svegliò e non vidi più cosa alcuna. Esposi tutto al mio confessore, che non volle udire a parlare né di sogno né di frati. In questo affare, rispondevami, bisogna che ciascuno segua le sue propensioni e non i consigli altrui.
In quel tempo succedette un caso, che mi pose nella impossibilità di effettuare il mio progetto. E siccome gli ostacoli erano molti e duraturi, così io ho deliberato di esporre tutto all'amico Comollo. Esso mi diede per consiglio di fare una novena, durante la quale egli avrebbe scritto al suo zio prevosto. L’ultimo giorno della novena in compagnia dell’incomparabile amico ho fatto la confessione e la comunione, di poi udii una messa, e ne servii un’altra in duomo all’altare della Madonna delle Grazie. Andati poscia a casa trovammo di fatto una lettera di D. Comollo concepita in questi termini: Considerate attentamente le cose esposte, io consiglierei il tuo compagno di soprassedere di entrare in un convento. Vesta egli l’abito chericale, e mentre farà i suoi studi conoscerà viemeglio quello che Dio vuole da lui. Non abbia alcun timore di perdere la vocazione, perciocché colla ritiratezza, e colle pratiche di pietà egli supererà tutti gli ostacoli.
Ho seguito quel savio suggerimento, mi sono seriamente applicato in cose che potessero giovare a prepararmi alla vestizione chericale. Subito l’esame di Retorica, sostenni quello dell'abito di cherico in Chieri e precisamente nelle camere attuali della casa Bertinetti Carlo, che morendo ci lasciò in eredità e che erano tenute a pigione dall’arciprete Can.co Burzio. In quell’anno l’esame non ebbe luogo secondo il solito in Torino a motivo del cholera-morbus, che minacciava i nostri paesi.
Voglio qui notare una cosa che fa certamente conoscere quanto lo spirito di pietà fosse coltivato nel collegio di Chieri. Nello spazio di quattro anni che frequentai quelle scuole non mi ricordo di avere udito un discorso od una sola parola che fosse contro ai buoni costumi o contro alla religione. Compiuto il corso della Retorica, di 25 allievi, di cui componevasi quella scolaresca, 21 abbracciarono lo stato ecclesiastico; tre medici, uno mercante.
Andato a casa per le vacanze, cessai di fare il ciarlatano e mi diedi alle buone letture, che, debbo dirlo a mia vergogna, fino allora aveva trascurato. Ho però continuato ad occuparmi dei giovanetti, trattenendoli in racconti, in piacevole ricreazione, in canti di laudi sacre, anzi osservando che molti erano già inoltrati negli anni, ma assai ignoranti nelle verità della fede, mi sono dato premura d’insegnare loro anche le preghiere quotidiane ed altre cose più importanti in quella età.
Era quella una specie di oratorio, cui intervenivano circa cinquanta fanciulli, che mi amavano e mi ubbidivano, come se fossi stato loro padre.
MEMORIE DELL'ORATORIO DAL 1835 AL 1845
ESCLUSIVAMENTE PEI SOCI SALESIANI
1° Vestizione chericale - Regolamento di vita▲
Presa la deliberazione di abbracciare lo stato ecclesiastico e subitone il prescritto esame andavami preparando a quel giorno di massima importanza, perciocché era persuaso che dalla scelta dello stato ordinariamente dipende l’eterna salvezza o l'eterna perdizione. Mi sono raccomandato a vari amici di pregare per me; ho fatto una novena, e nel giorno di S. Michele (ottobre 1834) mi sono accostato ai santi sacramenti, di poi il Teologo Cinzano Prevosto e Vicario Foraneo di mia patria, mi benedisse l’abito e mi vestì da cherico prima della messa solenne. Quando mi comando di levarmi gli abiti secolareschi con quelle parole: Exuat te Dominus veterem hominem cum actibus suis, dissi in cuor mio: Oh quanta roba vecchia c’è da togliere! Mio Dio, distruggete in me tutte le mie cattive abitudini. Quando poi nel darmi il collare aggiunse: Induat te Dominus novum hominem, qui secundum Deum creatus est in iustitia et sanctitate veritatis! mi sentii tutto commosso e aggiunsi tra me: Si, o mio Dio, fate che in questo momento io vesta un uomo nuovo, cioè che da questo momento io incominci una vita nuova, tutta secondo i divini voleri, e che la giustizia e la santità siano l'oggetto costante de' miei pensieri, delle mie parole e delle mie opere. Così sia. O Maria, siate voi la salvezza mia.
Compiuta la funzione di chiesa il mio prevosto volle farne un'altra tutta profana: condurmi alla festa di S. Michele, che si celebrava a Bardella Borgata di Castelnuovo. Egli con quel festino intendeva usarmi un atto di benevolenza, ma non era cosa opportuna per me. Io figurava un burattino vestito di nuovo, che si presentava al pubblico per essere veduto. Inoltre dopo più settimane di preparazione a quella sospirata giornata, trovarmi di poi ad un pranzo in mezzo a gente di ogni condizione, di ogni sesso, colà radunata per ridere, chiaccherare, mangiare, bere e divertirsi; gente che per lo più andava in cerca di giuochi, balli e di partite di tutti i generi; quella gente quale società poteva mai formare con uno, che al mattino dello stesso giorno aveva vestito l’abito di santità, per darsi tutto al Signore?
I1 mio prevosto se ne accorse, e nel ritorno a casa mi chiese perché in quel giorno di pubblica allegria, io mi fossi mostrato cotanto ritenuto e pensieroso. — Con tutta sincerità risposi che la funzione fatta al mattino in chiesa discordava in genere, numero e caso con quella della sera. Anzi, soggiunsi, l’aver veduto preti a fare i buffoni in mezzo ai convitati presso che brilli di vino, mi ha quasi fatto venire in avversione la mia vocazione. Se mai sapessi di venire un prete come quelli, amerei meglio deporre quest’abito e vivere da povero secolare, ma da buon cristiano.
— I1 mondo è fatto così, mi rispose il prevosto, e bisogna prenderlo come è. Bisogna vedere il male per conoscerlo ed vitarlo. Niuno divenne valente guerriero senza apprendere il maneggio delle armi. Così dobbiamo fare noi che abbiamo un continuo combattimento contro al nemico delle anime.
Tacqui allora, ma nel mio cuore ho detto: Non andrò mai più in pubblici festini, fuori che ne sia obbligato per funzioni religiose.
Dopo quella giornata io doveva occuparmi di me stesso. La vita fino allora tenuta doveva essere radicalmente riformata. Negli anni addietro non era stato uno scellerato, ma dissipato, vanaglorioso, occupato in partite, giuochi, salti, trastulli ed altre cose simili, che rallegravano momentaneamente, ma che non appagavano il cuore.
Per farmi un tenore di vita stabile da non dimenticarsi, ho scritto le seguenti risoluzioni:
1° Per l’avvenire non prenderò mai più parte a pubblici spettacoli sulle fiere, sui mercati; né andrò a vedere balli o teatri. E per quanto mi sarà possibile non interverrò ai pranzi, che soglionsi dare in tali occasioni.
2° Non farò mai più i giuochi de' bussolotti, di prestigiatore, di saltimbanco, di destrezza, di corda; non suonerò più il violino, non andrò più alla caccia. Queste cose le reputo tutte contrarie alla gravità ed allo spirito ecclesiastico.
3° Amerò e praticherò la ritiratezza, la temperanza nel mangiare e nel bere; e di riposo non prenderò se non le ore strettamente necessarie per la sanità.
4° Siccome pel passato ho servito al mondo con letture profane, così per l'avvenire procurerò di servire a Dio dandomi alle letture di cose religiose.
5° Combatterò con tutte le mie forze ogni cosa, ogni lettura, pensiero, discorsi, parole ed opere contrarie alla virtù della castità. All’opposto praticherò tutte quelle cose anche piccolissime, che possano contribuire a conservare questa virtù.
6° Oltre alle pratiche ordinarie di pietà, non ometterò mai di fare ogni giorno un poco di meditazione ed un po’ di lettura spirituale.
7° Ogni giorno racconterò qualche esempio o qualche massima vantaggiosa alle anime altrui. Ciò farò coi compagni, cogli amici, coi parenti, e quando non posso con altri, il farò con mia madre.
Queste sono le cose deliberate quando ho vestito l’abito chericale, ed affinché mi rimanessero bene impresse sono andato avanti ad un'immagine della Beata Vergine, le ho lette, e dopo una preghiera ho fatto formale promessa a quella Celeste Benefattrice, di osservarle a costo di qualunque sacrifizio.
I1 giorno 30 di ottobre di quell’anno 1835 doveva trovarmi in seminario. Il piccolo corredo era preparato. I miei parenti erano tutti contenti; io più di loro. Mia madre soltanto stava in pensiero e mi teneva tuttora lo sguardo addosso come volesse dirmi qualche cosa. La sera antecedente alla partenza Ella mi chiamò a sé e mi fece questo memorando discorso: Gioanni mio, tu hai vestito l’abito sacerdotale, io ne provo tutta la consolazione, che una madre può provare per I la fortuna di suo figlio. Ma ricordati, che non è l’abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Se mai tu venissi a dubitare di tua vocazione, ah per carità! non disonorare questo abito. Deponilo tosto. Amo meglio di avere un povero contadino, che un figlio prete trascurato ne’ suoi doveri. Quando sei venuto al mondo ti ho consacrato alla Beata Vergine; quando hai cominciato i tuoi studi ti ho raccomandato la divozione a questa nostra Madre; ora ti raccomando di esserle tutto suo: ama i compagni divoti di Maria; e se diverrai sacerdote raccomanda a propaga mai sempre la divozione di Maria.
Nel terminare queste parole mia madre era commossa, io piangeva. Madre, le risposi, vi ringrazio di tutto quello, che avete detto e fatto per me; queste vostre parole non saranno dette invano e ne farò tesoro in tutta la mia vita.
Al mattino per tempo mi recai a Chieri e la sera dello stesso giorno entrai in seminario. Salutati i superiori, e aggiustatomi il letto, coll’amico Garigliano mi sono messo a passeggiare pei dormitorii, pei corridoi, e in fine pel cortile. Alzando lo sguardo sopra una meridiana lessi questo verso:
Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae.
Ecco, dissi all’amico, ecco il nostro programma: stiamo sempre allegri e passerà presto il tempo.
Il giorno dopo cominciò un triduo di esercizi ed ho procurato di farli bene per quanto mi fu possibile. Sul finire di quelli mi recai dal professore di filosofia, che allora era il T. Ternavasio di Bra, e gli chiesi qualche norma di vita con cui soddisfare a’ miei doveri ed acquistarmi la benevolenza de’ miei superiori. Una cosa sola, mi rispose il degno sacerdote, coll'esatto adempimento de’ vostri doveri.
Ho preso per base questo consiglio e mi diedi con tutto l’animo all’osservanza delle regole del seminario. Non faceva distinzione tra quando il campanello chiamava allo studio, in chiesa, oppure in Refettorio, in ricreazione, al riposo. Questa esattezza mi guadagno l’affezione de’ compagni e la stima de’ superiori, a segno che sei anni di seminario furono per me una piacevolissima dimora.
I giorni del seminario sono presso poco sempre gli stessi; perciò io accennerò le cose in genere riserbandomi descrivere separatamente alcuni fatti particolari. Comincierò dai superiori.
Io amava molto i miei superiori, ed essi mi hanno sempre usato molta bontà; ma il mio cuore non era soddisfatto. I1 Rettore e gli altri superiori solevano visitarsi all'arrivo dalle vacanze e quando si partiva per le medesime. Niuno andava a parlare con loro se non nei casi di ricevere qualche strillata. Uno dei superiori veniva per turno a prestar assistenza ogni settimana in Refettorio e nelle passeggiate e poi tutto era finito. Quante volte avrei voluto parlare, chiedere loro consiglio o scioglimento di dubbi, e ciò non poteva; anzi accadendo che qualche superiore passasse in mezzo ai seminaristi senza saperne la cagione, ognuno fuggiva precipitoso a destra e a sinistra come da una bestia nera. Ciò accendeva sempre di più il mio cuore di essere presto prete per trattenermi in mezzo ai giovanetti, per assisterli, ed appagarli ad ogni occorrenza.
In quanto ai compagni mi sono tenuto al suggerimento dell’amata mia Genitrice; vale a dire associarmi a’ compagni divoti di Maria, amanti dello studio e della pietà. Debbo dire per regola di chi frequenta il seminario, che in quello vi sono molti cherici di specchiata virtù, ma ve ne sono anche dei pericolosi. Non pochi giovani senza badare alla loro vocazione vanno in seminario senza avere ne spirito, né volontà del buon seminarista. Anzi io mi ricordo di aver udito cattivissimi discorsi da compagni. Ed una volta, fatta perquisizione ad alcuni allievi, furono trovati libri empi ed osceni di ogni genere. È vero che somiglianti compagni o deponevano volontariamente l’abito chericale, oppure venivano cacciati dal seminario appena conosciuti per quello che erano. Ma mentre dimoravano in seminario erano peste pei buoni e pei cattivi.
Per evitare il pericolo di tali condiscepoli io mi scelsi alcuni che erano notoriamente conosciuti per modelli di virtù. Essi erano Garigliano Guglielmo, Giacomelli Gioanni di Avigliana e di poi Comollo Luigi. Questi tre compagni furono per me un tesoro.
Le pratiche di pietà si adempivano assai bene. Ogni mattino messa, meditazione, la terza parte del Rosario; a mensa lettura edificante. In quel tempo leggevasi la storia eccl[esiasti]ca di Bercastel. La confessione era obbligatoria ogni quindici giorni, ma chi voleva poteva anche accostarsi tutti i sabati. La santa comunione però potevasi soltanto fare la domenica od in altra speciale solennità. Qualche volta si faceva lungo la settimana, ma per ciò fare bisognava commettere una disubbidienza. Era uopo scegliere l’ora di colazione, andare di soppiatto nell’attigua chiesa di S. Filippo, fare la comunione, e poi venire raggiungere i compagni al momento che tornavano allo studio o alla scuola. Questa infrazione di orario era proibita, ma i superiori ne davano tacito consenso, perché lo sapevano e talvolta vedevano, e non dicevano niente in contrario. Con questo mezzo ho potuto frequentare assai più la santa comunione, che posso chiamare con ragione il più efficace alimento della mia vocazione. A questo difetto di pietà si è ora provveduto, quando, per disposizione dell’Arcivescovo Gastaldi furono ordinate le cose da poter ogni mattino accostarsi alla comunione, purché uno siane preparato.
I1 trastullo più comune in tempo libero era il noto giuoco di Bara rotta. In principio ci presi parte con molto gusto, ma siccome questo giuoco si avvicinava molto a quelli dei ciarlatani, cui aveva assolutamente rinunziato, così pure ho voluto da quello cessare. In certi giorni era permesso il giuoco dei tarocchi, e a questo ci ho preso parte per qualche tempo. Ma anche qui trovava il dolce misto coll'amaro. Sebbene non fossi valente giuocatore, tuttavia era così fortunato, che guadagnava quasi sempre. In fine delle partite io aveva le mani piene di soldi, ma al vedere i miei compagni afflitti perché li avevano perduti, io diveniva più afflitto di loro. Si aggiugne che nel giuoco io fissava tanto la mente che dopo non poteva più né pregare, né studiare avendo sempre l’immaginazione travagliata dal Re da Cope e dal Fante da Spada, dal 13 o dal quindici da Tarocchi. Ho pertanto presa la risoluzione di non più prendere parte a questo giuoco come aveva già rinunziato ad altri. Ciò feci alla metà del secondo anno di Filosofia 1836.
La ricreazione, quando era più lunga dell'ordinaria, era allegrata da qualche passeggiata che i seminaristi facevano spesso ne' luoghi amenissimi, che circondano la città di Chieri. Quelle passeggiate tornavano anche utili allo studio, perciocché ciascuno procurava di esercitarsi in cose scolastiche, interrogando il suo compagno, o rispondendo alle fatte dimande. Fuori del tempo di pubblica passeggiata, ognuno si poteva anche ricreare passeggiando cogli amici pel seminario discorrendo di cose amene, edificanti, e scientifiche.
Nelle lunghe ricreazioni spesso ci raccoglievamo in Refettorio per fare il così detto circolo scolastico. Ciascuno colà faceva quesiti intorno a cose che non sapesse, o che non avesse ben intese nei trattati o nella scuola. Ciò mi piaceva assai, e mi tornava molto utile allo studio, alla pietà ed alla sanità. Celebre a fare dimande era Comollo, che era venuto in seminario un anno dopo di me. Un certo Peretti Domenico, ora parroco di Buttigliera, era assai loquace e rispondeva sempre; Garigliano era eccellente uditore. Faceva soltanto qualche riflesso. Io poi era presidente e giudice inappellabile.
Siccome nei nostri famigliari discorsi mettevansi in campo certe questioni, certi punti scientifici, cui talvolta niuno di noi sapeva dare esatta risposta, così ci dividevamo le difficoltà. Ciascuno entro un tempo determinato doveva preparare la risoluzione di quanto era stato incaricato.
La mia ricreazione era non di rado dal Comollo interrotta. Mi prendeva egli per un brano dell'abito e dicendomi di accompagnarlo conducevami in cappella per fare la visita al SS. Sacramento pegli agonizzanti, recitare il rosario o l'ufficio della Madonna in suffragio delle anime del purgatorio.
Questo maraviglioso compagno fu la mia fortuna. A suo tempo sapeva avvisarmi, correggermi, consolarmi, ma con si bel garbo e con tanta carità, che in certo modo era contento di dargliene motivo per gustare il piacere di esserne corretto. Trattava famigliarmente con lui, mi sentiva naturalmente portato ad imitarlo, e sebbene fossi mille miglia da lui indietro nella virtù, tuttavia se non sono stato rovinato dai dissipati, e se potei progredire nella mia vocazione ne sono veramente a lui debitore. In una cosa sola non ho nemmeno provato ad imitarlo: nella mortificazione. Il vedere un giovanetto sui diciannove anni digiunare rigorosamente l'intera quaresima ed altro tempo dalla Chiesa comandato; digiunare ogni sabato in onore della B.V.; spesso rinunziare alla colezione del mattino; talvolta pranzare a pane ed acqua; sopportare qualunque disprezzo, ingiuria senza mai dare minimo segno di risentimento; il vederlo esattissimo ad ogni piccolo dovere di studio, e di pietà; queste cose mi sbalordivano, e mi faceva ravvisare in quel compagno un idolo come amico, un eccitamento al bene, un modello di virtù per chi vive in seminario.
Un grande pericolo pei cherici sogliono essere le vacanze tanto più in quel tempo che duravano quattro mesi e mezzo. Io impiegava il tempo a leggere, a scrivere, ma non sapendo ancora a trar partito dalle mie giornate ne perdeva molte senza frutto. Cercava di ammazzarle con qualche lavoro meccanico. Faceva fusi, cavigliotti, trottole, bocce o pallottole al torno; cuciva abiti, tagliava, cuciva scarpe; lavorava nel ferro, nel legno. Ancora presentemente avvi nella casa mia di Murialdo uno scrittoio, una tavola da pranzo con alcune sedie che ricordano i capi d'opera di quelle mie vacanze. Mi occupava pure a segare l'erba nei prati, a mietere il frumento nel campo; a spampinare, a smoccolare, a vendemmiare, a vineggiare, a spillare il vino e simili. Mi occupava de' miei soliti giovanetti, ma ciò poteva solamente fare ne' giorni festivi. Trovai però un gran conforto a fare catechismo a molti miei compagni che trovavansi ai sedici ed anche ai diciassette anni digiuni affatto delle verità della fede. Mi sono eziandio dato ad ammaestrarne alcuni nel leggere e nello scrivere con assai buon successo, poiché il desiderio anzi la smania d'imparare mi traeva giovanetti di tutte età. La scuola era gratuita, ma metteva per condizione assiduità, attenzione e la confessione mensile. In principio alcuni per non sottoporsi a queste condizioni cessarono. La qual cosa tornò di buon esempio e di incoraggiamento agli altri.
Ho pure cominciato a fare prediche e discorsi col permesso e coll’assistenza del mio prevosto. Predicai sopra il SS. Rosario nel paese di Alfiano, nelle vacanze di fisica; sopra S. Bartolomeo Apostolo dopo il primo anno di teologia in Castelnuovo d’Asti; sopra la Natività di Maria in Capriglio. Non so quale ne sia stato il frutto. Da tutte parti però era applaudito, sicché la vanagloria mi andò guidando finché ne fui disingannato come segue. Un giorno dopo la detta predica sulla Nascita di Maria ho interrogato uno, che pareva dei più intelligenti, sopra la predica, di cui faceva elogii sperticati, e mi rispose: La sua predica fu sopra le povere anime del Purgatorio ed io aveva predicato sopra le glorie di Maria. Ad Alfiano ho anche voluto richiedere il parere del paroco, persona di molta pietà e dottrina, di nome Pelato Giuseppe, e lo pregai a dirmi il suo parere intorno alla mia predica.
— La vostra predica, mi rispose, fu assai bella, ordinata, esposta con buona lingua, con pensieri scritturali; e che continuando così potete riuscire nella predicazione.
— Il popolo avrà capito?
— Poco. Avranno capito il mio fratello prete, io, e pochissimi altri.
— Come mai non furono intese cose tanto facili?
— A voi sembrano facili, ma pel popolo sono assai elevate. Lo sfiorare la storia sacra, volare ragionando sopra un tessuto di fatti della storia ecclesiastica, sono tutte cose che il popolo non capisce.
— Che adunque mi consiglia di fare?
— Abbandonare la lingua e l’orditura dei classici, parlare in volgare dove si può, od anche in lingua italiana, ma popolarmente, popolarmente, popolarmente. Invece poi di ragionamenti tenetevi agli esempi, alle similitudini, ad apologi semplici e pratici. Ma ritenete sempre che il popolo capisce poco, e che le verità della fede non gli sono mai abbastanza spiegate.
Questo paterno consiglio mi servi di norma in tutta la vita. Conservo ancora a mio disdoro que’ discorsi, in cui presentemente non iscorgo più altro che vanagloria e ricercatezza. Dio misericordioso ha disposto che avessi quella lezione, lezione fruttuosa nelle prediche, nei catechismi, nelle istruzioni e nello scrivere, cui mi era fin da quel tempo applicato.
5° Festino di campagna - Il suono del violino - La caccia▲
Mentre poco fa diceva che le vacanze sono pericolose intendeva di parlare per me. Un povero cherico senza che se ne accorga gli accade spesso di trovarsi in gravi pericoli. Io ne fui alla prova. Un anno fui invitato ad un festino in casa di alcuni miei parenti. Non voleva andare, ma adducendosi che non eravi alcun cherico che servisse in chiesa, ai ripetuti inviti di un mio zio credei bene di accondiscendere e ci sono andato. Compiute le sacre funzioni, cui presi parte a servire e cantare, ce ne andammo a pranzo. Fino ad una parte del desinare andò bene, ma quando si cominciò ad essere un po' brilli di vino si misero in scena certi parlari, che non potevansi più tollerare da un cherico. Provai a fare qualche osservazione, ma la mia voce fu soffocata. Non sapendo più a qual partito appigliarmi me ne volli fuggire. Mi alzai da mensa, presi il cappello per andarmene; ma lo zio si oppose; un altro si mise a parlare peggio, e ad insultare tutti i commensali. Dalle parole si passava ai fatti; schiamazzi, minaccie, bicchieri, bottiglie, piatti, cucchiai, forchette, e poi coltelli, si univano insieme a fare un baccano orribile. In quel momento io non ho più avuto altro scampo che darmela a gambe. Giunto a casa ho rinnovato di tutto cuore il proponimento già fatto più volte, di stare ritirato se non si vuole cadere in peccato.
Fatto di altro genere, ma eziandio spiacente mi succedette a Croveglia Frazione di Buttigliera. Volendosi celebrare la festa di S. Bartolomeo, fui invitato da altro mio zio ad intervenire per aiutare nelle sacre funzioni, cantare ed anche suonare il violino, che era stato per me un istrumento prediletto, a cui aveva rinunciato. Ogni cosa andò benissimo in chiesa. I1 pranzo era a casa di quel mio zio, che era priore della festa, e fino allora niente era a biasimarsi. Finito il desinare i commensali mi invitarono a suonare qualche cosa a modo di ricreazione. Mi sono rifiutato. Almeno, disse un musicante, mi farà l'accompagnamento. Io farò la prima ella farà la seconda parte.
Miserabile! non seppi rifiutarmi e mi posi a suonare e suonai per un tratto, quando si ode un bisbiglio ed un calpestio che segnava moltitudine di gente. Mi faccio allora alla finestra e miro una folla di persone che nel vicino cortile allegramente danzava al suono del mio violino. Non si può esprimere con parole la rabbia da cui fui invaso in quel momento. Come, dissi ai commensali, io che grido sempre contro ai pubblici spettacoli, io ne son divenuto promotore? Ciò non sarà mai più. Feci in mille pezzi il violino, e non me ne volli mai più servire, sebbene siansi presentate occasioni e convenienza nelle funzioni sacre.
Ancora un episodio avvenutomi alla caccia. Andava alle nidiate lungo l’estate, di autunno uccellava col vischio, colla trapoletta, colla passeriera e qualche volta anche col fucile. Un mattino mi sono dato ad inseguire una lepre e camminando di campo in campo, di vigna in vigna, trapassai valli e colli per più ore. Final mente giunsi a tiro di quell’animale, che con una fucilata gli ruppi le coste, sicché la povera bestiolina cadde lasciandomi in sommo abbattimento in vederla estinta. A quel colpo corsero i miei compagni, e mentre essi rallegravansi per quella preda portai uno sguardo sopra di me stesso e mi accorsi che era in manica di camicia, senza sottana, con un cappello di paglia, per cui faceva la comparsa di uno sfrosadore, e ciò in sito lontano oltre a due miglia da casa mia.
Ne fui mortificatissimo, chiesi scusa ai compagni dello scandalo dato con quella foggia di vestire, me ne andai tosto a casa, e rinunciai nuovamente e definitivamente ad ogni sorta di caccia. Coll’aiuto del Signore questa volta mantenni la promessa. Dio mi perdoni quello scandalo.
Questi tre fatti mi hanno dato una terribile lezione, e d'allora in poi mi sono dato con miglior proposito alla ritiratezza, e fui davvero persuaso che chi vuole darsi schiettamente al servizio del Signore bisogna che lasci affatto i divertimenti mondani. È vero che spesso questi non sono peccaminosi, ma è certo che pei discorsi che si fanno, per la foggia di vestire, di parlare e di operare contengono sempre qualche rischio di rovina per la virtù, specialmente per la delicatissima virtù della castità.
Finché Dio conservo in vita questo incomparabile compagno, ci fui sempre in intima relazione. Nelle vacanze più volte io andava da lui, più volte egli veniva da me. Frequenti erano le lettere che ci indirizzavamo. Io vedeva in lui un santo giovanetto; lo amava per le sue rare virtù; egli amava me perché l'aiutava negli studi scolastici, e poi quando era con lui mi sforzava di imitarlo in qualche cosa.
Una vacanza venne a passar meco una giornata in tempo che i miei parenti erano in campagna per la mietitura. Egli mi fece leggere un suo discorso che doveva recitare alla prossima festa dell'Assunzione di Maria; di poi lo recitò accompagnando le parole col gesto. Dopo alcune ore di piacevole trattenimento ci siamo accorti essere ore del pranzo. Eravamo soli in casa. Che fare? — Alto là, disse il Comollo, io accenderò il fuoco, tu preparerai la pentola e qualche cosa faremo cuocere.
— Benissimo, risposi, ma prima andiamo a cogliere un pollastrino nell'aia e questo ci servirà di pietanza e di brodo, tale è l’intenzione di mia madre.
Presto siamo riusciti a mettere le mani addosso ad un pollino, ma poi chi sentivasi di ucciderlo? Ne l’uno ne l’altro. Per venire ad una conclusione vantaggiosa fu deciso che il Comollo tenesse l’animale col collo sopra un tronco di legno appianato, mentre con un falcetto senza punta glielo avrei tagliato. Fu fatto il colpo, la testa spiccata dal busto. Di che ambidue spaventati ci siamo dati a precipitosa fuga e piangendo.
Sciocchi che siamo, disse di lì a poco il Comollo, il Signore ha detto di servirci delle bestie della terra pel nostro bene, perché dunque tanta ripugnanza in questo fatto? Senz’altra difficoltà abbiamo raccolto quell’animale, e spennatolo e cottolo, ci servì per pranzo.
Io doveva recarmi a Cinzano per ascoltare il discorso del Comollo sull’Assunta, ma essendo anch’io incaricato di fare altrove il medesimo discorso ci andai il giorno dopo. Era una maraviglia l’udire le voci di encomio, che da tutte parti risuonavano sulla predica del Comollo. Quel giorno (16 di agosto) correva festa di S. Rocco, che suole chiamarsi festino della pignatta o della cucina, perché i parenti e gli amici sogliono approfittarne per invitare vicendevolmente i loro cari a pranzo ed a godere qualche pubblico trattenimento. In quella occasione avvenne un episodio che dimostrò fin dove giungesse la mia audacia.
Si aspettò il predicatore di quella solennità quasi fino all’ora di montare in pulpito e non giunse. Per togliere il prevosto di Cinzano dall'impaccio io andava ora dall’uno ora dall’altro dei molti parroci colà intervenuti, pregando ed insistendo che qualcheduno indirizzasse un sermoncino al numeroso popolo raccolto in chiesa. Niuno voleva acconsentire. Seccati da’ miei ripetuti inviti mi risposero acremente: Minchione che siete; il fare un discorso sopra S. Rocco all’improvviso non è bere un bicchiere di vino; e invece di seccare gli altri fatelo voi. A quelle parole tutti batterono le mani. Mortificato e ferito nella mia superbia io risposi: Non osava certamente offerirmi a tanta impresa, ma poiché tutti si rifiutano, io accetto.
Si cantò una laude sacra in chiesa per darmi alcuni istanti a pensare; poi richiamando a memoria la vita del Santo, che aveva già letto, montai in pulpito, feci un discorso che mi fu sempre detto essere stato il migliore di quanti avessi fatto prima e di poi.
In quelle vacanze e in quella stessa occasione (1838) uscii un giorno a passeggio col mio amico sopra un colle, donde scorgevasi vasta estensione di prati, campi e vigne. Vedi, Luigi presi a dirgli, che scarsezza di raccolti abbiamo quest'anno! Poveri contadini! Tanto lavoro e quasi tutto invano!
È la mano del Signore, egli rispose, che pesa sopra di noi. Credimi, i nostri peccati ne sono la cagione.
— L’anno venturo spero che il Signore ci donerà frutti più abbondanti.
— Lo spero anch’io, è buon per coloro che si troveranno a goderli.
— Su via, lasciamo a parte i pensieri malinconici, per quest’anno pazienza, ma l'anno venturo avremo più copiosa vendemmia e faremo miglior vino.
— Tu ne beverai.
— Forse tu intendi continuare a bere la solita tua acqua?
— Io spero di bere un vino assai migliore.
— Che cosa vuoi dire con ciò?
— Lascia, lascia... il Signore sa quel che si fa.
— Non dimando questo, io dimando che cosa vuoi dire con quelle parole: Io spero di bere un vino migliore. Vuoi forse andartene al Paradiso?
— Sebbene io non sia affatto certo di andare al paradiso dopo mia morte, tuttavia ne ho fondata speranza, e da qualche tempo mi sento un si vivo desiderio di andare a gustar l’ambrosia dei Beati, che parmi impossibile che siano ancora lunghi i giorni di mia vita. Questo diceva il Comollo colla massima ilarità di volto in tempo che godeva ottima sanità, e si preparava per ritornare in Seminario.
Le cose più memorabili che precedettero ed accompagnarono la preziosa morte di questo caro amico furono descritte a parte e chi lo desidera può leggerle a piacimento. Qui non voglio omettere un fatto che diede motivo a molto parlare, e di cui appena si fa cenno nelle memorie già pubblicate. È il seguente. Attesa l'amicizia, la confidenza illimitata che passava tra me e il Comollo, eravamo soliti parlare di quanto poteva ad ogni momento accadere, della nostra separazione pel caso di morte. Un giorno dopo aver letto un lungo brano della vita dei Santi, tra celia e serietà dicemmo che sarebbe stata una grande consolazione, se quello che di noi fosse primo a morire avesse portato notizie dello stato suo. Rinnovando più volte tal cosa abbiamo fatto questo contratto. Quello che di noi sarà il primo a morire, se Dio lo permetterà, recherà notizia di sua salvezza al compagno superstite. Io non conosceva l’importanza di tale promessa, e confesso che ci fu molta leggerezza, né mai sarei per consigliare altri a farla. Tuttavia l’abbiamo fatta e più volte ripetuta special mente nell'ultima malattia del Comollo. Anzi le ultime sue parole e l'ultimo sguardo confermavano quanto si era detto a questo uopo. Molti compagni erano di ciò consapevoli.
Moriva Comollo il due aprile 1839 e la sera del dì seguente era con gran pompa portato alla sepoltura nella chiesa di San Filippo. I consapevoli di quella promessa erano ansiosi di saperla verificata. Io ne era ansiosissimo, perché così sperava un grande conforto alla mia desolazione. La sera di quel giorno essendo già a letto in un dormitorio di circa 20 seminaristi, io era in agitazione, persuaso che in quella notte sarebbesi verificata la promessa. Circa alle 11 ½ un cupo rumore si fa sentire pei corridoi: sembrava che un grosso carrettone tirato da molti cavalli si andasse avvicinando alla portina del dormitorio. Facendosi ad ogni momento più tetro e a guisa di tuono fa tremare tutto il dormitorio. Spaventati i cherici fuggono dai loro letti per raccogliersi insieme e darsi animo a vicenda. Fu allora, ed in mezzo a quella specie di violento e cupo tuono che si udì la chiara voce del Comollo dicendo tre volte: Bosco, io son salvo. Tutti udirono il rumore, parecchi intesero la voce senza capirne il senso; alcuni però la intesero al par di me, a segno che per molto tempo si andava ripetendo pel seminario. Fu la prima volta che a mia ricordanza io abbia avuto paura; paura e spavento tali che caduto in grave malattia fui portato vicino alla tomba. Non sarei mai per dare ad altri consigli di questo genere. Dio è onnipotente. Dio è misericordioso. Per lo più non da ascolto a questi patti, talvolta però nella sua infinita misericordia permette che abbiano il loro compimento, come nel caso esposto.
7° Premio - Sacristia - Il T. Gioanni Borrelli▲
Nel seminario io sono stato assai fortunato ed ho sempre goduto l’affezione de’ miei compagni e quella di tutti i miei superiori. All’esame semestrale si suole dare un premio di fr. 60 in ogni corso a colui che riporta i migliori voti nello studio e nella condotta morale. Dio mi ha veramente benedetto, e nei sei anni che passai in seminario sono sempre stato favorito di questo premio. Nel secondo anno di Teologia fui fatto sacristano, che era una carica di poca entità, ma un prezioso segno di benevolenza dei superiori, cui erano annessi altri franchi sessanta. Così che godeva già metà pensione, mentre il caritatevole D. Caffasso provvedeva al rimanente. Il sacrista deve aver cura della nettezza della chiesa, della sacristia, dell’altare, e tenere in ordine lampade, candele, gli altri arredi ed oggetti necessari al divin culto.
Fu in quest’anno che ebbi la buona ventura di conoscere uno de’ più zelanti ministri del santuario venuto a dettar gli esercizi spirituali in seminario. Egli apparve in sacristia con aria ilare, con parole celianti, ma sempre condite di pensieri morali. Quando ne osservai la preparazione e il ringraziamento della messa, il contegno, il fervore nella celebrazione di essa, mi accorsi subito, che quegli era un degno sacerdote, quale appunto era il T. Gioanni Borrelli di Torino. Quando poi cominciò la sua predicazione e se ne ammirò la popolarità, la vivacità, la chiarezza, e il fuoco di carità che appariva in tutte le parole, ognuno andava ripetendo che egli era un santo.
Di fatto tutti facevano a gara per andarsi a confessare da lui, trattare con lui della vocazione ed avere qualche particolare ricordo. Io pure ho voluto conferire col medesimo delle cose dell’anima. In fine avendogli chiesto qualche mezzo certo per conservare lo spirito di vocazione lungo l’anno e specialmente in tempo delle vacanze, egli mi lasciò con queste memorande parole: Colla ritiratezza, e colla frequente comunione si perfeziona e si conserva la vocazione e si forma un vero ecclesiastico.
Gli esercizi spirituali del T. Borrelli fecero epoca in seminario, e parecchi anni appresso si andavano ancora ripetendo le sante massime, che aveva in pubblico predicate o privatamente consigliate.
Intorno agli studi fui dominato da un errore che in me avrebbe prodotto funeste conseguenze, se un fatto provvidenziale non me lo avesse tolto. Abituato alla lettura dei classici in tutto il corso secondario, assuefatto alle figure enfatiche della mitologia e delle favole dei pagani, non trovava gusto per le cose ascetiche. Giunsi a persuadermi che la buona lingua e la eloquenza non si potesse conciliare colla religione. Le stesse opere dei santi Padri mi sembravano parto di ingegni assai limitati, eccettuati i principii religiosi, che essi esponevano con forza e chiarezza.
Sul principio del secondo anno di filosofia andai un giorno a fare la visita al SS. Sacramento e non avendo meco il libro di preghiera mi feci a leggere de imitatione Christi di cui lessi qualche capo intorno al SS. Sacramento. Considerando attentamente la sublimità dei pensieri, e il modo chiaro e nel tempo stesso ordinato ed eloquente con cui si esponevano quelle grandi verità, cominciai a dire tra me stesso: L'autore di questo libro era un uomo dotto. Continuando altre e poi altre volte a leggere quell' aurea operetta, non tardai ad accorgermi, che un solo versicolo di essa conteneva tanta dottrina e moralità, quanta non avrei trovato nei grossi volumi dei classici antichi: E’ a questo libro cui son debitore di aver cessato dalla lettura profana. Datomi pertanto alla lettura del Calmet, Storia dell'Antico e Nuovo Testamento; a quella di Giuseppe Flavio, Delle Antichità giudaiche; Della Guerra giudaica; di poi di Monsig. Marchetti, Ragionamenti sulla Religione; di poi Frassinous, Balmes, Zucconi, e molti altri scrittori religiosi. Gustai pure la lettura del Fleury, Storia Ecclesiastica, che ignorava essere libro da evitarsi. Con maggior frutto ancora ho letto le Opere del Cavalca, del Passavanti, del Segneri, e tutta la Storia della Chiesa dell’Henrion.
Voi forse direte: Occupandomi in tante letture, non poteva attendere ai trattati. Non fu così. La mia memoria continuava a favorirmi, e la sola lettura e la spiegazione dei trattati fatta nella scuola mi bastavano per soddisfare i miei doveri. Quindi tutte le ore stabilite per lo studio, io le poteva occupare in letture diverse. I superiori sapevano tutto e mi lasciavano libertà di farlo.
Uno studio che mi stava molto a cuore era il greco. Ne aveva già appreso i primi elementi nel corso classico, aveva studiato la grammatica ed eseguite le prime versioni coll’uso dei Lessici. Una buona occasione mi fu a tale uopo assai vantaggiosa. L’anno 1836, essendovi in Torino minaccia di cholera, i Gesuiti anticiparono la partenza dei convittori dal collegio del Carmine per Montaldo. Quell’anticipazione richiedeva doppio personale insegnante perché dovevansi tuttora coprire le classi degli esterni, che intervenivano al collegio. I1 Sac. D. Caffasso, che ne era stato richiesto, propose me per una classe di greco. Ciò mi spinse ad occuparmi seriamente di questa lingua per rendermi idoneo di insegnarla. Di più trovandosi nella stessa Compagnia un sacerdote di nome Bini, profondo conoscitore del greco, di lui mi valsi con molto vantaggio. In soli quattro mesi mi fece tradurre quasi tutto il Nuovo Testamento; i due primi libri di Omero con parecchie odi di Pindaro e di Anacreonte. Quel degno sacerdote ammirando la mia buona volontà continuò ad assistermi e per quattro anni ogni settimana leggeva una composizione greca o qualche versione da me spedita, e che egli puntualmente correggeva e poi rimandava colle opportune osservazioni. In questa maniera potei giungere a tradurre il greco quasi come si farebbe del latino.
Fu pure in questo tempo che io studiai la lingua Francese, ed i principii di lingua ebraica. Queste tre lingue, ebraico, Greco e Francese mi furono sempre predilette dopo il latino e l'Italiano.
9° Sacre ordinazioni – Sacerdozio▲
L’anno della morte del Comollo (1839) riceveva la tonsura coi quattro minori nel terzo anno di Teologia. Dopo quell’anno mi nacque il pensiero di tentare cosa che in quel tempo rarissimamente si otteneva: fare un corso nelle vacanze. A tale uopo senza farne motto ad alcuno mi presentai solo dall’Arcivescovo Fransoni chiedendogli di poter istudiare i trattati del 4° anno in quelle vacanze e così compiere il quinquennio nel successivo anno scolastico 1840-1. Adduceva per ragione la mia avanzata età di 24 anni compiuti.
Quel santo Prelato mi accolse con molta bontà, e verificato l’esito de’ miei esami fino allora sostenuti in seminario, mi concedette il favore implorato a condizione, che io portassi tutti i trattati corrispondenti al corso, che io desiderava di guadagnare. Il T. Cinzano mio Vicario Foraneo era incaricato di eseguire la volontà del superiore. In due mesi ho potuto collo studio esaurire i trattati prescritti e per l’ordinazione delle quattro tempora di autunno sono stato ammesso al Suddiaconato. Ora che conosco le virtù che si ricercano per quell'importantissimo passo, resto convinto che io non era abbastanza preparato; ma non avendo chi si prendesse cura diretta della mia vocazione, mi sono consigliato con D. Caffasso; che mi disse di andare avanti e riposare sopra la sua parola. Nei dieci giorni di spirituali esercizi fatti nella casa della Missione in Torino ho fatto la confessione generale affinché il confessore potesse avere un'idea chiara di mia coscienza e darmi l’opportuno consiglio. Desiderava di compiere i miei studi, ma tremava al pensiero di legarmi per tutta la vita, perciò non volli prendere definitiva risoluzione se non dopo avere avuto il pieno consentimento del confessore.
D’allora in poi mi sono dato il massimo impegno di mettere in pratica il consiglio del Teologo Borrelli; colla ritiratezza e colla frequente comunione si conserva e si perfeziona la vocazione. Ritornato poi in seminario fui annoverato fra quelli del quinto anno e venni costituito prefetto, che è la carica più alta cui possa essere sollevato un seminarista.
Al Sitientes del 1841 ricevetti il Diaconato, alle tempora estive doveva essere ordinato sacerdote. Ma un giorno di vera costernazione era quello in cui doveva uscire definitivamente dal Seminario. I superiori mi amavano e mi diedero continui segni di benevolenza. I compagni mi erano affezionatissimi. Si può dire che io viveva per loro, essi vivevano per me. Chi avesse avuto bisogno di farsi radere la barba o la cherica ricorreva a Bosco. Chi avesse abbisognato di berretta da prete, di cucire, rappezzare qualche abito faceva capo a Bosco. Perciò mi torno dolorosissima quella separazione, separazione da un luogo dove era vissuto per sei anni; dove ebbi educazione, scienza, spirito ecclesiastico e tutti i segni di bontà e di affetto che si possano desiderare.
Il giorno della mia ordinazione era la vigilia della SS. Trinità, ed ho celebrato la mia prima messa nella chiesa di S. Francesco d’Assisi dove era capo di conferenza D. Caffasso. Era ansiosamente aspettato in mia patria, dove da molti anni non si era più celebrata messa nuova; ma ho preferito di celebrarla in Torino senza rumore, e quello posso chiamarlo il più bel giorno della mia vita. Nel Memento di quella memoranda messa ho procurato di fare divota menzione di tutti i miei professori, benefattori spirituali e temporali, e segnatamente del compianto D. Calosso che ho sempre ricordato come grande ed insigne benefattore. Lunedì andai a celebrare alla Chiesa della SS. Consolata, per ringraziare la gran Vergine Maria degli innumerabili favori, che mi aveva ottenuto dal suo Divin Figliuolo Gesù.
Martedì mi recai a Chieri e celebrai messa nella chiesa di S. Domenico, dove tuttora viveva l'antico mio professore P. Giusiana, che con paterno affetto mi attendeva.
Durante quella messa egli pianse sempre per commozione. Ho passato con lui tutto quel giorno che posso chiamare giornata di paradiso.
Il Giovedì, Solennità del Corpus Domini, appagai i miei patriotti, cantai messa e feci quivi la processione di quella Solennità. Il prevosto volle invitare a pranzo i miei parenti, il clero ed i principali del paese. Tutti presero parte a quell'allegrezza, perciocché io era molto amato dai miei cittadini ed ognuno godeva di tutto quello, che avesse potuto tornare a mio bene. La sera di quel giorno mi sono restituito in famiglia. Ma quando fui vicino a casa e mirai il luogo del sogno fatto all’età di circa nove anni non potei frenare le lagrime e dire: Quanto mai sono maravigliosi i disegni della Divina Provvidenza! Dio ha veramente tolto dalla terra un povero fanciullo per collocarlo coi primari del suo popolo.
10° Principii del sacro ministero - Discorso di Lavriano e Giovanni Brina▲
In quell’anno (1841) mancando il mio prevosto di Vicecurato io ne compii l'uffizio per cinque mesi. Provava il più grande piacere a lavorare. Predicava tutte le domeniche, visitava gli ammalati, amministrava loro i santi sacramenti, eccetto la penitenza, perché non aveva ancora subito l’esame di confessione. Assisteva alle sepolture, teneva in ordine i libri parochiali, faceva certificati di povertà o di altro genere. Ma la mia delizia era fare catechismo ai fanciulli, trattenermi con loro, parlare con loro. Da Murialdo mi venivano spesso a visitare; quando andava a casa era sempre da loro intorniato. In paese poi cominciavano pure a farsi compagni ed amici. Uscendo dalla casa parochiale era sempre accompagnato da una schiera di fanciulli e dovunque mi recassi, era sempre attorniato da’ miei piccoli amici, che mi festeggiavano.
Avendo molta facilità ad esporre la parola di Dio era spesso ricercato di predicare[,] di fare panegirici nei paesi vicini. Fui invitato a dettare quello di S. Benigno a Lavriano sul finire dell'ottobre di quell'anno. Accondiscesi di buon grado, essendo quella patria del mio amico e collega D. Grassino Gioanni ora parroco di Scalenghe. Desiderava di rendere onore a quella solennità e perciò preparai e scrissi il mio discorso in lingua popolare ma pulita; lo studiai bene persuaso di acquistarne gloria. Ma Dio voleva dare terribile lezione alla mia vanagloria. Essendo giorno festivo, e prima di partire dovendo celebrare la santa messa a comodità della popolazione, fu mestieri servirmi di un cavallo per fare a tempo a predicare. Percorsa metà strada trottando e galoppando, era giunto nella valle di Casalborgone tra Cinzano e Bersano, quando da un campo seminato di miglio all'improvviso si alza una moltitudine di passeri, al cui volo e rumore il mio cavallo spaventato si dà a correre per via, campi e prati. Mi tenni alquanto in sella, ma accorgendomi che questa piegava sotto al ventre dell'animale, tentai una manovra di equitazione, ma la sella fuori di posto mi spinse in alto ed io caddi capovolto sopra un mucchio di pietre spaccate.
Un uomo dalla vicina collina poté osservare il compassionevole incidente e con un suo servo corse in mio aiuto e trovatomi privo dei sensi, mi portò in casa sua e mi adagiò nel miglior letto che avesse. Prodigatemi cure le più caritatevoli, dopo un'ora riacquistai me stesso e conobbi di essere in casa altrui.—Non datevi pena, disse il mio ospite, non inquietatevi perché siete in casa altrui. Qui non vi mancherà niente. Ho già mandato pel medico; ed altra persona andò in traccia del cavallo. Io sono un contadino, ma provveduto di quanto mi è necessario. Si sente molto male?
— Dio vi compensi di tanta carità, o mio buon amico. Credo non vi sia grave male; forse una rottura nella spalla, che più non posso muovere. Qui dove mi trovo?
— Ella è sulla collina di Bersano in casa di Gioanni Calosso soprannominato Brina suo umile servitore. Ho anch’io girato pel mondo ed anch'io ho avuto bisogno degli altri. Oh quante me ne sono accadute andando alle fiere ed ai mercati!
— Mentre attendiamo il medico raccontatemi qualche cosa.
— Oh quante ne avrei da raccontare; ne ascolti una. Parecchi anni or sono di autunno io era andato in Asti colla mia somarella a fare provvigioni per l’inverno. Nel ritorno, giunto nelle valli di Murialdo la mia povera bestia carica assai cadde in un pantano e restò immobile in mezzo la via. Ogni sforzo per rialzarla tornò inutile. Era mezzanotte, tempo oscurissimo e piovoso. Non sapendo più che fare mi diedi a gridare chiamando aiuto. Dopo alcuni minuti mi si corrispose dal vicino casolare. Vennero un cherico un suo fratello con due altri uomini portando fiaccole accese. Mi aiutarono a scaricare la giumenta, la tirarono fuori del fango, e condussero me e tutte le cose mie in casa loro. Io ero mezzo morto; ogni cosa imbrattata di melma. Mi pulirono, mi ristorarono con una stupenda cena, poi mi diedero un letto morbidissimo. Al mattino prima di partire ho voluto dare compenso come di dovere; il cherico ricusò tutto dicendo: Non può darsi che dimani noi abbiamo bisogno di voi?!
A quelle parole mi sentii commosso e l'altro si accorse delle mie lagrime. Si sente male, dissemi.
— No, risposi; mi piace tanto questo racconto, che mi commuove.
— Se sapessi che cosa fare per quella buona famiglia!... Che buona gente!
— Come si chiamava?
— Famiglia Bosco, detta volgarmente Boschetti. Ma perché si mostra tanto commosso? Forse conosce quella famiglia... Vive, sta bene quel cherico?
— Quel cherico, mio buon amico, è quel sacerdote cui ricompensate mille volte di quanto ha fatto per voi. È quello stesso che voi portaste in vostra casa, collocaste in questo letto. La divina provvidenza ha voluto farci conoscere con questo fatto che chi ne fa, ne aspetti.
Ognuno può immaginarsi la maraviglia, il piacere di quel buon cristiano e di me, che nella disgrazia Dio mi aveva fatto capitare in mano di tale amico. La moglie, una sorella, altri parenti ed amici furono in grande festa nel sapere che era capitato in casa colui, di cui avevano tante volte udito a parlare. Non ci fu riguardo che non mi fosse usato. Giunto di lì a poco il medico trovò che non esistevano rotture, e perciò in pochi giorni sul ritrovato cavallo potei rimettermi in cammino alla volta della mia patria. Gioanni Brina mi accompagnò sino a casa, e finché egli visse abbiamo sempre conservato le più care rimembranze di amicizia.
Dopo questo avviso ho fatto ferma risoluzione di voler per l’avvenire preparare i miei discorsi per la maggior gloria di Dio, e non per comparire dotto o letterato.
11° Convitto ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi▲
Sul finire di quelle vacanze mi erano offerti tre impieghi, di cui doveva scegliere uno: L'uffizio di Maestro in casa di un signore genovese collo stipendio di mille franchi annui; di cappellano di Murialdo, dove i buoni popolani, pel vivo desiderio di avermi raddoppiavano lo stipendio dei cappellani antecedenti; di Vice curato in mia patria. Prima di prendere alcuna definitiva deliberazione ho voluto fare una gita a Torino per chiedere consiglio a D. Caffasso, che da parecchi anni era divenuto mia guida nelle cose spirituali e temporali. Quel santo sacerdote ascoltò tutto, le profferte di buoni stipendii, le insistenze dei parenti e degli amici, il mio buon volere di lavorare. Senza esitare un istante egli mi indirizzò queste parole: "Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione. Rinunciate per ora ad ogni proposta e venite al Convitto". Seguii con piacere il savio consiglio e il 3 Novembre 1841 entrai nel mentovato Convitto.
Il Convitto Ecclesiastico si può chiamare un complemento dello studio teologico, perciocché ne' nostri seminarii si studia soltanto la dommatica, la speculativa. Di morale si studia soltanto le proposizioni controverse. Qui si impara ad essere preti. Meditazione, lettura, due conferenze al giorno, lezioni di predicazione, vita ritirata, ogni comodità di studiare, leggere buoni autori, erano le cose intorno a cui ognuno deve applicare la sua sollecitudine. Due celebrità in quel tempo erano a capo di questo utilissimo Istituto: il Teologo Luigi Guala e D. Giuseppe Caffasso. Il T. Guala era il fondatore dell’opera. Uomo disinteressato, ricco di scienza, di prudenza e di coraggio, si era fatto tutto a tutti in tempo del governo di Napoleone I. Affinché poi i giovani leviti, terminati i corsi in seminario, potessero imparare la vita pratica del sacro ministero, fondò quel maraviglioso semenzaio, da cui provenne molto bene alla Chiesa specialmente a sbarbare alcune radici di giansenismo che tuttora si conservava tra noi.
Fra le altre era agitatissima la questione del probabilismo e del probabiliorismo. In capo ai primi era l'Alasia, l'Antoine con altri rigidi autori la cui pratica può condurre al giansenismo. I probabilisti seguivano la dottrina di S. Alfonso, che ora è stato proclamato dottore di S. Chiesa e la cui autorità si può dire la teologia del Papa, perché la Chiesa proclamò le sue opere potersi insegnare, predicare, praticare, né esservi cosa che meriti censura. I1 T. Guala si mise fermo in mezzo ai due partiti, e per centro di ogni opinione mettendo la carità di N. S. G. C. riuscì a ravvicinare quegli estremi. Le cose giunsero a tal segno che merce il T. Guala S. Alfonso divenne il maestro delle nostre scuole con quel vantaggio che fu lungo tempo desiderato, e che oggidì se ne provano i salutari effetti.
Braccio forte del Guala era D. Caffasso. Colla sua virtù che resisteva a tutte prove, colla sua calma prodigiosa, colla sua accortezza, prudenza poté togliere quell'acrimonia che in alcuni ancora rimaneva dei probabilioristi verso ai liguoristi.
Una miniera d’oro nascondevasi nel sacerdote torinese T. Golzio Felice, egli pure convittore. Nella sua vita modesta fece poco rumore; ma col suo lavoro indefesso, colla sua umiltà, e colla sua scienza era un vero appoggio o meglio un braccio forte del Guala e del Caffasso. Le carceri, gli ospedali, i pulpiti, gli istituti di beneficenza, gli ammalati a domicilio; le città, i paesi e possiamo dire i palazzi dei grandi ed i tuguri dei poveri provarono i salutari effetti dello I zelo di questi tre luminari del Clero Torinese.
Questi erano i tre modelli che la Divina Provvidenza mi porgeva, e dipendeva solamente da me seguirne le traccie, la dottrina, le virtù. D. Caffasso, che da sei anni era mia guida, fu eziandio mio Direttore spirituale, e se ho fatto qualche cosa di bene lo debbo a questo degno ecclesiastico nelle cui mani riposi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione della mia vita. Per prima cosa egli prese a condurmi nelle carceri, dove imparai tosto a conoscere quanto sia grande la malizia e la miseria degli uomini. Vedere turbe di giovanetti, sull’età dei 12 ai 18 anni; tutti sani, robusti, d'ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire. L’obbrobrio della patria, il disonore delle famiglie, l'infamia di se stesso erano personificati in quegli infelici. Ma quale non fu la mia maraviglia e sorpresa quando mi accorsi che molti di loro uscivano con fermo proposito di vita migliore ed intanto erano in breve ricondotti al luogo di punizione, da cui erano da pochi giorni usciti.
Fu in quelle occasioni che mi accorsi come parecchi erano ricondotti in quel sito perché abbandonati a se stessi. Chi sa, diceva tra me, se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il numero di coloro, che ritornano in carcere? Comunicai questo pensiero a D. Caffasso, e col suo consiglio e co’ suoi lumi mi sono messo a studiar modo di effettuarlo abbandonandone il frutto alla grazia del Signore senza cui sono vani tutti gli sforzi degli uomini.
12° La festa delI’Immacolata Concezione e il principio dell'Oratorio festivo ▲
Appena entrato nel Convitto di S. Francesco, subito mi trovai una schiera di giovanetti che mi seguivano pei viali, per le piazze e nella stessa sacristia della chiesa dell'Istituto. Ma non poteva prendermi diretta cura di loro per mancanza di locale. Un lepido incidente porse occasione di tentare l’attuazione del progetto in favore dei giovanetti vaganti per le vie della città specialmente quelli usciti dalle carceri.
I1 giorno solenne all’Immacolata Concezione di Maria (8 dicembre 1841) all’ora stabilita era in atto di vestirmi dei sacri paramentali per celebrare la santa messa. Il cherico di sacristia, Giuseppe Comotti, vedendo un giovanetto in un canto lo invita di venirmi a servire la messa. Non so, egli rispose tutto mortificato.
— Vieni, replicò l’altro, voglio che tu serva messa.—Non so, replicò il giovanetto, non l’ho mai servita. — Bestione che sei, disse il cherico di sacristia tutto furioso, se non sai servire messa, a che vieni in sacristia?
Ciò dicendo da di piglio alla pertica dello spolverio, e giù colpi sulle spalle o sulla testa di quel poverino. Mentre l’altro se la dava a gambe: Che fate, gridai ad alta voce, perché battere costui in cotal guisa, che ha fatto?
— Perché viene in sacristia, se non sa servir messa?
— Ma voi avete fatto male.
— A Lei che importa?
— Importa assai, e un mio amico, chiamatelo sull'istante, ho bisogno di parlare con lui.
— Tuder, tuder, si mise a chiamare; e correndogli dietro, e assicurandolo di miglior trattamento me lo ricondusse vicino.
L’altro si approssimò tremante e lagrimante per le busse ricevute. Hai già udita la messa? gli dissi colla amorevolezza a me possibile.
—No, rispose l’altro.
— Vieni adunque ad ascoltarla; dopo ho piacere di parlarti di un affare, che ti farà piacere. Me lo promise. Era mio desiderio di mitigare l'afflizione di quel poveretto e non lasciarlo con quella sinistra impressione verso ai direttori di quella sacristia. Celebrata la santa messa e fattone il dovuto ringraziamento condussi il mio candidato in un coretto. Con faccia allegra ed assicurandolo, che non avesse più timore di bastonate, presi ad interrogarlo così:
— Mio buon amico, come ti chiami?
— Mi chiamo Bartolomeo Garelli.
— Di che paese tu sei?
— D'Asti.—Vive tuo padre?—No, mio padre è morto.—E tua madre? Mia madre e anche morta.
— Quanti anni hai?—Ne ho sedici.
— Sai leggere e scrivere?—Non so niente.
— Sei stato promosso alla s. comunione?—Non ancora.
— Ti sei già confessato?
— Si, ma quando era piccolo.
— Ora vai al catechismo?—Non oso.—Perché?
— Perché i miei compagni più piccoli sanno il catechismo; ed io tanto grande ne so niente. Perciò ho rossore di recarmi a quelle classi.
— Se ti facessi un catechismo a parte, verresti ad ascoltarlo?
— Ci verrei molto volentieri.
— Verresti volentieri in questa cameretta?
— Verrò assai volentieri, purché non mi diano delle bastonate. I
— Sta tranquillo, che niuno ti maltratterà. Anzi tu sarai mio amico, e avrai da fare con me e con nissun altro. Quando vuoi che cominciamo il nostro catechismo?
— Quando a Lei piace.—Stasera?—Si.
— Vuoi anche adesso?
— Si anche adesso con molto piacere.
Mi alzai e feci il segno della S. Croce per cominciare, ma il mio allievo nol faceva perché ignorava il modo di farlo. In quel primo catechismo mi trattenni a fargli apprendere il modo di fare il segno della Croce e a fargli conoscere Dio Creatore e il fine per cui ci ha creati. Sebbene di tarda memoria, tuttavia coll’assiduità e coll’attenzione in poche feste riuscì ad imparare le cose necessarie per fare una buona confessione e poco dopo la sua santa comunione.
A questo primo allievo se ne aggiunsero alcuni altri e nel corso di quell'inverno mi limitai ad alcuni adulti che avevano bisogno di catechismo speciale e soprattutto per quelli che uscivano dalle carceri.
Fu allora che io toccai con mano, che i giovanetti usciti dal luogo di punizione, se trovano una mano benevola, che di loro si prenda cura, li assista nei giorni festivi, studi di collocarli a lavorare presso di qualche onesto padrone, e andandoli qualche volta a visitare lungo la settimana, questi giovanetti si davano ad una vita onorata, dimenticavano il passato, divenivano buoni cristiani ed onesti cittadini. Questo è il primordio del nostro Oratorio, che benedetto dal Signore prese quell'incremento, che certamente non avrei potuto allora immaginare.
Nel corso pertanto di quell’inverno mi sono adoperato di consolidare il piccolo Oratorio. Sebbene mio scopo fosse di raccogliere soltanto i più pericolanti fanciulli, e di preferenza quelli usciti dalle carceri; tuttavia per avere qualche fondamento sopra cui basare la disciplina e la moralità, ho invitato alcuni altri di buona condotta e già istruiti. Essi mi aiutavano a conservare l’ordine ed anche a leggere e cantare laudi sacre; perciocché fin d'allora mi accorsi che senza la diffusione di libri di canto e di amena lettura le radunanze festive sarebbero state come un corpo senza spirito. Alla festa della Purificazione (2 Febbraio 1842) che allora era ancora festa di precetto, aveva già una ventina di fanciulli con cui per la prima volta potemmo cantare Lodate Maria, o lingue fedeli.
Alla festa della Vergine Annunziata eravamo già in numero di 30. In quel giorno si fece un po’ di festa. Al mattino gli allievi si accostarono ai santi sacramenti; la sera si cantò una lode e dopo il catechismo si raccontò un esempio in modo di predica. Il coretto in cui ci eravamo fino allora radunati essendo divenuto ristretto ci siamo trasferiti nella vicina cappella della sacristia.
Qui l’Oratorio si faceva così: Ogni giorno festivo si dava comodità; di accostarsi ai santi sacramenti della confessione e comunione; ma un sabato ed una domenica al mese era stabilita per compiere questo religioso dovere. La sera ad un'ora determinata si cantava una lode, si faceva il catechismo, poi un esempio colla distribuzione di qualche cosa ora a tutti ora tirata a sorte.
Fra i giovani che frequentarono i primordi dell'Oratorio vuolsi notare Buzzetti Giuseppe, che fu costante ad intervenire in modo esemplare. Esso si affezionò talmente a D. Bosco ed a quella radunanza festiva, che ebbe a rinunziare di recarsi a casa in sua famiglia (a Caronno Ghiringhello) come erano soliti di fare gli altri suoi fratelli ed amici. Primeggiavano eziandio i suoi fratelli, Carlo, Angelo, Giosuè; Gariboldi Gioanni e suo fratello, allora semplici garzoni ed ora capi mastri muratori.
In generale l’Oratorio era composto di scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori, quadratori e di altri che venivano di lontani paesi. Essi non essendo pratici né di chiese né di compagni erano esposti ai pericoli di perversione specialmente nei giorni festivi.
Il buon Teologo Guala e D. Caffasso godevano di quella raccolta di fanciulli e mi davano volentieri immagini, foglietti, libretti, medaglie, piccole croci da regalare. Talvolta mi diedero mezzi per vestire alcuni che erano in maggior bisogno; e dar pane ad altri per più settimane, fino a tanto che col lavoro potessero guadagnarsene da sé. Anzi, essendo cresciuto assai il loro numero, mi concedettero di poter qualche volta radunare il mio piccolo esercito nel cortile annesso per fare ricreazione. Se la località l’avesse permesso saremmo presto giunti a più centinaia, ma dovemmo limitarci ad ottanta circa.
Quando si accostavano ai santi sacramenti lo stesso T. Guala o D. Caffasso solevano sempre venirci a fare una visita e raccontarci qualche episodio edificante.
Il T. Guala desiderando che si facesse una bella festa in onore di S. Anna, festa dei muratori, dopo le funzioni del mattino li invitò tutti a fare seco lui colezione. Si raccolsero quasi in numero di cento nella gran sala detta delle conferenze. Colà furono tutti serviti abbondantemente di caffè, latte, cioccolato, Ghiffer, briossi, semolini ed altri simili pani dolci, che sono cose ghiottissime pei fanciulli. Ognuno può immaginarsi quanto rumore eccitasse quella festa, e quanti sarebbero venuti se il locale avesse ciò permesso!
La festa era tutta consacrata ad assistere i miei giovanetti; lungo la settimana andava a visitarli in mezzo ai loro lavori nelle officine, nelle fabbriche. Tal cosa produceva grande consolazione ai giovanetti, che vedevano un amico prendersi cura di loro; faceva piacere ai padroni, che tenevano volentieri sotto la loro disciplina giovanetti assistiti lungo la settimana e più ne' giorni festivi che sono giorni di maggior pericolo.
Ogni sabato mi recava nelle carceri colle saccoccie piene ora di tabacco, ora di frutti, ora di pagnottelle sempre nell’oggetto di coltivare i giovanetti che avessero la disgrazia di essere cola condotti; assisterli, rendermeli amici, e così eccitati di venire all’Oratorio quando avessero la buona ventura di uscire dal luogo di punizione.
14° Sacro ministero - Scelta di un impiego presso al Rifugio (settembre 1844)▲
In quel tempo ho cominciato a predicare pubblicamente in alcune chiese di Torino, nell’Ospedale di Carità, all’Albergo di Virtù, nelle carceri, nel Collegio di S. Francesco di Paola dettando tridui, novene od esercizi spirituali. Compiuti due anni di morale ho subìto l'esame di confessione; e così potei con maggior successo coltivare la disciplina, la moralità e il bene dell'anima de' miei giovanetti nelle carceri, nell’Oratorio ed ovunque ne fosse mestieri.
Era per me cosa consolante lungo la settimana e segnatamente ne' giorni festivi vedere il mio confessionale intorniato da quaranta o cinquanta giovanetti attendere ore ed ore perché venisse il loro torno per potersi confessare.
Questo fu l’andamento ordinario dell'Oratorio per quasi tre anni, cioè fino all'ottobre del 1844.
Intanto cose nuove, mutazioni, ed anche tribolazioni andava la divina Provvidenza preparando.
Sul finire del triennio di morale doveva applicarmi a qualche parte determinata del sacro Ministero. Il vecchio e cadente zio del Comollo, D. Giuseppe Comollo Rettore di Cinzano, col parere dell’Arcivescovo mi aveva chiesto ad economo amministratore della parocchia, cui per età e malori non poteva più reggere. Il T. Guala mi dettò egli stesso la lettera di ringraziamento all’Arcivescovo Fransoni, mentre mi preparava ad altro. Un giorno D. Caffasso mi chiamò a sé e mi disse: Ora avete compiùto il corso de’ vostri studi; uopo è che andiate a lavorare. In questi tempi la messe è copiosa assai. A quale cosa vi sentite specialmente inclinato?
— A quella che Ella si compiacera di indicarmi.
— Vi sono tre impieghi: Vicecurato a Buttigliera d’Asti; Ripetitore di morale qui al Convitto; Direttore del piccolo Ospedaletto accanto al Rifugio. Quale scegliereste?
— Quello che Ella giudicherà.
— Non vi sentite propensione ad una cosa più che ad un’altra?
— La mia propensione è di occuparmi per la gioventù. Ella poi faccia di me quel che vuole; io conosco la volontà del Signore nel suo consiglio.
— In questo momento che cosa occupa il vostro cuore, che si ravvolge in mente vostra?
— In questo momento mi pare di trovarmi in mezzo ad una moltitudine di fanciulli, che mi dimandano aiuto.
Andate adunque a fare qualche settimana di vacanza. Al vostro ritorno vi dirò la vostra destinazione.
Dopo quelle vacanze D. Caffasso lasciò passare qualche settimana senza dirmi niente; io gli chiesi niente affatto. — Perché non dimandate quale sia la vostra destinazione? mi disse un giorno. — Perché io voglio riconoscere la volontà di Dio nella sua deliberazione e voglio metter niente del mio volere.
— Fatevi il fagotto e andate col T. Borrelli; là sarete direttore del piccolo Ospedale di S. Filomena; lavorerete anche nell'Opera del Rifugio. Intanto Dio vi metterà tra mano quanto dovrete fare per la gioventù.
A prima vista sembrava che tale consiglio contrariasse le mie inclinazioni, perciocché la direzione di un Ospedale; il predicare e confessare in un istituto di oltre a quattrocento giovanette mi avrebbero tolto il tempo ad ogni altra occupazione. Pure erano questi i voleri del cielo, come ne fui in appresso assicurato.
Dal primo momento che ho conosciuto il T. Borrelli ho sempre osservato in lui un santo sacerdote un modello degno di ammirazione e di essere imitato. Ogni volta che poteva trattenermi con lui aveva sempre lezioni di zelo sacerdotale, sempre buoni consigli, eccitamenti al bene. Nei tre anni passati al Convitto fui dal medesimo più volte invitato a servire nelle sacre funzioni, a confessare, a predicare seco lui. Di modo che il campo del mio lavoro era già conosciuto e in certo modo famigliare.
Ci siamo parlato a lungo più volte intorno alle regole da seguirsi per aiutarci a vicenda nel frequentare le carceri, e compiere i doveri a noi affidati, e nel tempo stesso assistere i giovanetti, la cui moralità ed abbandono richiamava sempre di più l'attenzione dei sacerdoti. Ma come fare? Dove raccogliere que’ giovanetti?
La camera, disse il T. Borrelli, che è destinata per Lei, può per qualche tempo servire a raccogliere i giovanetti che intervenivano a S. Francesco d’Assisi. Quanto poi potremo andare nell’edifizio preparato pei preti accanto all'Ospedaletto, allora studieremo località migliore.
La seconda domenica di ottobre di quell’anno (1844) doveva partecipare ai miei giovanetti, che l’Oratorio sarebbe stato trasferito in Valdocco. Ma l’incertezza del luogo, dei mezzi, delle persone mi lasciavano veramente sopra pensiero. La sera precedente andai a letto col cuore inquieto. In quella notte feci un nuovo sogno, che pare un’appendice di quello fatto ai Becchi quando aveva nove anni. Io giudico bene di esporlo letteralmente.
Sognai di vedermi in mezzo ad una moltitudine di lupi, di capre, e capretti, di agnelli, pecore, montoni, cani, ed uccelli. Tutti insieme facevano 98s un rumore, uno schiamazzo o meglio un diavolio da incutere spavento ai più coraggiosi. Io voleva fuggire, quando una Signora, assai ben messa a foggia di pastorella, mi fe’ cenno di seguire ed accompagnare quel gregge strano, mentre Ella precedeva. Andammo vagando per vari siti; facemmo tre stazioni o fermate. Ad ogni fermata molti di quegli animali si cangiavano in agnelli, il cui numero andavasi ognor più ingrossando. Dopo avere molto camminato mi sono trovato in un prato, dove quegli animali saltellavano e mangiavano insieme senza che gli uni tentassero di nuocere agli altri.
Oppresso dalla stanchezza voleva sedermi accanto di una strada vicina, ma la pastorella mi invitò a continuare il cammino. Fatto ancora breve tratto di via, mi sono trovato in un vasto cortile con porticato attorno alla cui estremità eravi una chiesa. Allora mi accorsi che quattro quinti di quegli animali erano diventati agnelli. Il loro numero poi divenne grandissimo. In quel momento sopraggiunsero parecchi pastorelli per custodirli. Ma essi fermavansi poco, e tosto partivano. Allora succedette una maraviglia: Molti agnelli cangiavansi in pastorelli, che crescendo prendevano cura degli altri. Crescendo i pastorelli in gran numero, si divisero e andavano altrove per raccogliere altri strani animali e guidarli in altri ovili.
Io voleva andarmene, perché mi sembrava tempo di recarmi a celebrar messa, ma la pastora mi invitò di guardare al mezzodì. Guardando vidi un campo in cui era stata seminata meliga, patate, cavoli, barbabietole, lattughe e molti altri erbaggi.—Guarda un’altra volta, mi disse, e guardai di nuovo. Allora vidi una stupenda ed alta chiesa. Un’orchestra, una musica istrumentale e vocale mi invitavano a cantar messa. Nell’interno di quella chiesa era una fascia bianca, in cui a caratteri cubitali era scritto: Hic domus mea, inde gloria mea.
Continuando nel sogno volli dimandare alla pastora dove mi trovassi; che cosa volevasi indicare con quel camminare, colle fermate, con quella casa, chiesa, poi altra chiesa. Tu comprenderai ogni cosa quando cogli occhi tuoi materiali vedrai di fatto quanto ora vedi cogli occhi della mente. Ma parendomi di essere svegliato, dissi: Io vedo chiaro e vedo cogli occhi materiali; so dove vado e quello che faccio. In quel momento suonò la campana dell'Ave Maria nella chiesa di S. Francesco ed io mi svegliai.
Questo mi occupò quasi tutta la notte; molte particolarità l’accompagnarono; allora ne compresi poco il significato perché poca fede ci prestava, ma capii le cose di mano in mano avevano il loro effetto. Anzi più tardi[,] congiuntamente ad altro sogno, mi servì di programma nelle mie deliberazioni.
16° Trasferimento dell'Oratorio presso al Rifugio▲
La seconda domenica di ottobre sacra alla Maternita di Maria partecipai ai miei giovanetti il trasferimento dell'Oratorio presso al Rifugio. Al primo annunzio provarono qualche turbazione, ma quando loro dissi che colà ci attendeva vasto locale, tutto per noi, per cantare, correre, saltare e ricrearci ne ebbero piacere, ed ognuno attendeva impaziente la seguente domenica per vedere le novità che si andavano immaginando. La terza domenica di quell'ottobre, giorno sacro alla purità di M. V., un po' dopo il mezzodì ecco una turba di giovanetti di varia età e diversa condizione correre giù in Valdocco in cerca dell'Oratorio novello.
Dove è l’Oratorio, dov’è D. Bosco? si andava da ogni parte chiedendo. Niuno sapeva dirne parola, perché niuno in quel vicinato aveva udito a parlare né di D. Bosco né dell'Oratorio. I postulanti credendosi burlati alzavano la voce e le pretese. Gli altri credendosi insultati opponevano minacce e percosse. Le cose cominciavano a prendere severo aspetto, quando io e il T. Borrelli, udendo gli schiamazzi, uscimmo di casa. Al nostro comparire cessò ogni rumore, ogni alterco. Corsero in folla intorno a noi; dimandando dove fosse l’Oratorio.
Fu detto che il vero Oratorio non era ancora ultimato, che per intanto venissero in mia camera, che, essendo spaziosa, avrebbeci servito assai bene. Di fatto per quella domenica le cose andarono abbastanza bene. Ma la domenica successiva, agli antichi allievi, aggiugnendosene parecchi del vicinato, non sapeva più ove collocarli. Camera, corridoio, scala, tutto era ingombro di fanciulli. Al giorno dei Santi col T. Borrelli essendomi messo a confessare, tutti volevano confessarsi, ma che fare? Eravamo due confessori, erano oltre dugento fanciulli. Uno voleva accendere il fuoco, l’altro si adoperava di spegnerlo. Costui portava legna, quell'altro acqua, secchia, molle, palette, brocca, catinella, sedie, scarpe, libri ed ogni altro oggetto era messo sossopra, mentre volevano ordinare ed aggiustare le cose. Non è più possibile andare avanti, disse il caro Teologo, uopo è provvedere qualche locale più opportuno. Tuttavia si passarono sei giorni festivi in quello stretto locale, che era la camera superiore al vestibolo della prima porta di entrata al Rifugio.
Intanto si andò a trattare coll'Arcivescovo Fransoni, il quale capì l'importanza del nostro progetto. Andate, ci disse, fate quanto giudicate bene per le anime, io vi dò tutte le facoltà che vi possono occorrere, parlate colla Marchesa Barolo; forse essa potra somministrarvi qualche locale opportuno. Ma ditemi: questi ragazzi non potrebbero recarsi alle rispettive loro parocchie?
--- Sono giovanetti per lo più stranieri, i quali passano a Torino soltanto una parte dell'anno. Non sanno nemmeno a quale parocchia appartengano. Di essi molti sono mal messi, parlano dialetti poco intelligibili, quindi intendono poco e poco sono dagli altri intesi. Alcuni poi sono già grandicelli e non osano associarsi in classe coi piccoli.
— Quindi, ripigliò l'Arcivescovo, è necessario un luogo a parte adattato per loro. Andate adunque. Io benedico voi e il vostro progetto. In quel che potrò giovarvi, venite pure e farò sempre quanto potrò!
Si andò di fatto a parlare colla Marchesa Barolo, e siccome fino all’agosto dell'anno successivo non si apriva l'Ospedaletto, la caritàtevole signora si contentò che noi riducessimo a cappella due spaziose camere destinate per la ricreazione dei preti del Rifugio, quando essi avessero colà trasferito la loro abitazione. Per andare adunque al novello Oratorio passavasi dove ora e la porta dell'ospedale, e pel piccolo viale che separa l'Opera Cottolengo dall'edifizio citato, si andava fino all'abitazione attuale dei preti, e per la scala interna si saliva al 3° piano.
Là era il sito scelto dalla Divina Provvidenza per la prima chiesa dell’Oratorio. Esso cominciò a chiamarsi di S. Francesco di Sales per due ragioni: la Perché la Marchese Barolo aveva in animo di fondare una Congregazione di preti sotto a questo titolo, e con questa intenzione aveva fatto eseguire il dipinto di questo Santo che tuttora si rimira all'entrata del medesimo locale; 2a perché la parte di quel nostro ministero esigendo grande calma e mansuetudine, ci eravamo messi sotto alla protezione di questo Santo, affinché ci ottenesse da Dio la grazia di poterlo imitare nella sua straordinaria mansuetudine e nel guadagno delle anime. Altra ragione era quella di metterci sotto alla protezione di questo santo, affinché ci aiutasse dal cielo ad imitarlo nel combattere gli errori contro alla religione specialmente il protestantismo, che cominciava insidioso ad insinuarsi nei nostri paesi e segnatamente nella città di Torino.
Pertanto l'anno 1844 il giorno 8 Dicembre, sacro all'Immacolato Concepimento di Maria, coll'autorizzazione dell'Arcivescovo, per un tempo freddissimo, in mezzo ad alta neve, che tuttora cadeva fitta dal cielo, fu benedetta la sospirata cappella, si celebro la santa messa, parecchi giovanetti fecero la loro confessione e comunione, ed io compii quella sacra funzione con un tributo di lagrime di consolazione; perché vedeva in modo, che parevami stabile, l’Opera dell'Oratorio collo scopo di trattenere la gioventù più abbandonata e pericolante dopo avere adempiùti i doveri religiosi in chiesa.
MEMORIE DELL'ORATORIO DAL 1845 AL 1855
ESCLUSIVAMENTE PEI SOCI SALESIANI
17° L'Oratorio a S. Martino dei Molazzi – Difficoltà - La mano del Signore▲
Nella cappella annessa all'edifizio dell'Ospedaletto di S. Filomena l'Oratorio prendeva ottimo avviamento. Nei giorni festivi intervenivano in folla i giovanetti per fare la loro confessione e comunione. Dopo la messa tenevasi breve spiegazione del vangelo. Dopo mezzodì catechismo, canto di laudi sacre, breve istruzione, litanie lauretane e Benedizione. Nei varii intervalli i giovani erano trattenuti in piacevole ricreazione con trastulli diversi. Ciò si faceva nel piccolo viale che tuttora esiste tra il monastero delle Maddalene e la via pubblica. Passammo colà sette mesi e noi ci pensavamo di aver trovato il paradiso terrestre, quando dovemmo abbandonare l'amato asilo per andarcene a cercarcene un altro.
La Marchesa Barolo, sebbene vedesse di buon occhio ogni opera di carità, tuttavia, avvicinandosi l'apertura del suo Ospedaletto (fu aperto il 10 agosto 1845) volle che il nostro Oratorio venisse di la allontanato. E’ vero che il locale destinato a cappella, a scuola, o a ricreazione dei giovani non aveva alcuna comunicazione coll'interno dello stabilimento; le medesime persiane erano fisse e rivolte all'insù; nulla di meno si dovette ubbidire. Si promosse viva istanza al Municipio Torinese e mercè raccomandazione dell’Arcivescovo Fransoni si ottenne di trasferire l'Oratorio alla chiesa di S. Martino dei Molazzi ovvero dei Molini di città.
Ed eccoci una domenica del mese di Luglio 1845, si prendono panche, inginocchiatoi, candelieri; alcune sedie, croci, quadri e quadretti, e ciascuno portando quell'oggetto, di cui era capace, a guisa I di popolare emigrazione p. Io fra gli schiamazzi, il riso ed il rincrescimento siamo andati a stabilire il nostro quartiere generale nel luogo sopra indicato.
Il T. Borelli fece un discorso di opportunita tanto prima della partenza, quanto nell'arrivo alla novella chiesa.
Quel degno ministro del santuario con una popolarità, che si può chiamare piuttosto unica che rara espresse questi pensieri: I cavoli, o amati giovani, se non sono trapiantati non fanno bella e grossa testa. Diciamo lo stesso del nostro Oratorio. Finora fu spesso trasferito di luogo in luogo, ma ne' vari siti dove fece qualche fermata ebbe sempre un notabile incremento con non leggero vantaggio dei giovani che sono intervenuti. S. Francesco di Assisi lo vide cominciar come catechismo e un po' di canto. Colà non si poteva fare di più. Il Rifugio lo volle momentaneamente a fare una fermata come dicono farsi da chi cammina in ferrovia, e ciò affinché i nostri giovani non mancassero in quei pochi mesi dell'aiuto spirituale delle confessioni, dei catechismi, delle prediche e di ameni trastulli.
— Accanto all'Ospedaletto cominciò un vero Oratorio, e ci sembrava di avere trovato la vera pace, un luogo opportuno per noi, ma la divina Provvidenza dispose che dovessimo sloggiare e venire qua a S. Martino. Qui staremo molto tempo? nol sappiamo; speriamo di sì, ma comunque sia noi crediamo che, come i cavoli trapiantati, il nostro Oratorio crescerà nel numero di giovani amanti della virtù, crescerà il desiderio del canto, della musica, delle scuole serali ed anche diurne.
Adunque passeremo qui molto tempo? Non occupiamoci di questo pensiero; gettiamo ogni nostra sollecitudine tra le mani del Signore, egli avra cura di noi. E’ certo che egli ci benedice, ci aiuta e ci provvede; egli penserà al luogo conveniente per promuovere la sua gloria e pel bene delle nostre anime. Siccome però le grazie del Signore formano una specie di catena in guisa che un anello è collegato coll'altro; così, approfittando noi delle prime grazie siamo sicuri che Dio ne concederà delle maggiori; e noi corrispondendo allo scopo dell'Oratorio, cammineremo di virtù in virtù finché giungeremo alla patria Beata dove l'infinita misericordia di N. S. G. C. darà il premio che ognuno colle sue buone opere si sarà meritato.
A quella solenne funzione era presente una folla immensa di giovanetti; e colla massima emozione si canto un Te Deum di ringraziamento.
Le pratiche religiose qui si compievano come al Rifugio. Ma non si poteva celebrar Messa, né dare la benedizione alla sera, quindi non poteva avere luogo la comunione, che è l'elemento fondamentale della nostra istituzione. La stessa ricreazione era non poco disturbata, incagliata a motivo che i ragazzi dovevano trattenersi nella via e nella piazzetta situata avanti la chiesa per dove passavano spesso gente a piedi, carri, cavalli e carrettoni. Non potendo avere di meglio ringraziavamo il cielo di quanto ci aveva concesso, aspettando località migliore; ma nuovi disturbi ci caddero addosso.
I mugnai, i garzoni, i commessi, non potendo tollerare i salti, i canti e talvolta gli schiamazzi dei nostri allievi, si allarmarono e d'accordo promossero lamenti al medesimo Municipio. Fu allora che si cominciò a dire che quelle radunanze di giovanetti erano pericolose, che da un momento all'altro potevano fare sommosse e rivoluzioni. Ciò dicevano appoggiati alla pronta ubbidienza con cui eglino si prestavano ad ogni piccolo cenno del Superiore. Si aggiungeva senza fondamento che i ragazzi facevano mille guasti in Chiesa; fuori di Chiesa, nel selciato, e sembrava che Torino dovesse subbissare se noi avessimo continuato a radunarci in quel luogo.
Pose poi il colmo ai nostri guai una lettera scritta da un segretario dei Molini al Sindaco di Torino, in cui si raccoglievano tutte le voci vaghe ed amplificando i guasti immaginarii (1), diceva essere impossibile che le famiglie
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(1) Il Sindaco mandò a verificare e trovò mura, selciato esterno, pavimento[,] tutte le cose di Chiesa a suo posto. Il solo guasto consisteva che un ragazzo colla punta di un chiodino aveva fatto una breve riga nelle pareti.
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addette a quegli uffizi potessero continuare i loro doveri ed avere tranquillita. Si giunse fino a dire che quello era un semenzaio d'immoralità. Il Sindaco, sebbene persuaso della relazione infondata, scrisse una calda lettera in forza di cui dovevasi immediatamente portare altrove il nostro Oratorio. Rincrescimento generale, sospiri inutili! Dovemmo sgombrare.
E’ bene però di notare che il segretario di nome Cussetti (non mai da pubblicarsi) autore della famosa lettera, scrisse per l'ultima volta, giacché fu colpito da un tremolo violento alla destra, dietro a cui passati tre anni andò alla tomba. Dio dispose che il figlio di lui fosse abbandonato in mezzo ad una strada e costretto di venire a chiedere pane e ricetto nell'Ospizio che si apri di poi in Valdocco.
18° L'Oratorio in S. Pietro in Vincoli- La serva del cappellano - Una lettera - Un tristo accidente
Siccome il Sindaco e in generale il Municipio erano persuasi della insussistenza di quanto scrivevasi contro di noi, così a semplice richiesta, e con raccomandazione dell'Arcivescovo, si ottenne di poterci raccogliere nel cortile e nella Chiesa del Cenotafio del SS.mo Crocifisso detto volgarmente S. Pietro in Vincoli. Così dopo due mesi di dimora a S. Martino noi dovemmo con amaro rincrescimento trasferirci in altra nuova località, che per altro era più opportuna per noi. Il lungo porticato, lo spazioso cortile, la Chiesa adattata per le sacre funzioni, tutto servì ad eccitare entusiasmo nei giovanetti, sicché parevano frenetici per la gioia. Ma in quel sito esisteva un terribile rivale, da noi ignorato. Era questi non un defunto, che in gran numero riposavano nei vicini sepolcri; ma una persona vivente[,] la serva del cappellano. Appena costei ncominciò a udire i canti e le voci e, diciamo, anche gli schiamazzi degli allievi uscì fuori di casa tutta sulle furie, e colla cuffia per traverso e colle mani sui fianchi si diede ad apostrofare la moltitudine dei trastullanti. Con lei inveiva una ragazzina, un cane, un gatto, tutte le galline dimodoché sembrava essere imminente una guerra europea. Studiai di avvicinarmi per acquetarla, facendole osservare che quei ragazzi non avevano alcuna cattiva volontà, che si trastullavano, ne facevano alcun peccato. Allora si volse contro di me e diedemi il fatto mio.
In quel momento ho giudicato di far cessare la ricreazione[,] fare un po' di Catechismo, e recitato il Rosario in Chiesa, ce ne partimmo colla speranza di ritrovarci con maggiore quiete la Domenica seguente. Ben il contrario. Allora che in sulla sera giunse il Cappellano, la buona domestica se gli mise attorno e chiamando D. Bosco e i suoi figli rivoluzionari, profanatori dei luoghi santi e tutto fior di canaglia spinse il buon padrone a scrivere una lettera al Municipio.
Scrisse sotto il dettato della fantesca ma con tale acrimonia, che fu immediatamente spedito ordine di cattura per chiunque di noi fosse colà ritornato. Duole il dirlo, ma quella fu l'ultima lettera del Cappellano D. Tesio, il quale scrisse il Lunedì, e poche ore dopo era preso da colpo apoplettico che lo rese cadavere quasi sull'istante. Due giorni dopo simile sorte toccava alla fantesca. Queste cose si dilatarono e fecero profonda impressione sull'animo dei giovani e di tutti quelli cui pervenne tale notizia. La smania di venire, di udire i tristi casi era grande in tutti; ma essendo proibiti di raccoglierci in S. Pietro in Vincoli, né essendosi potuto dare avviso opportuno, nissuno più poteva immaginarsi, nemmeno io, dove sarebbesi potuto avere un luogo di radunanza.
19° L’Oratorio in Casa Moretta▲
La domenica successiva a quella proibizione una moltitudine di giovanetti si reco a S. Pietro in Vincoli; perciocché non si era potuto dare loro alcun avviso preventivo. Trovando tutto chiuso si versarono in massa sulla mia abitazione presso l'Ospedaletto. Che fare! Io mi trovava un mucchio di attrezzi di chiesa e di ricreazione; una turba di fanciulli seguiva ovunque i miei passi, mentre io non aveva un palmo di terreno dove poterci raccogliere.
Celando tuttavia le mie pene mi mostrava con tutti di buon umore e tutti li rallegrava raccontando mille maraviglie intorno al futuro Oratorio che per allora esisteva soltanto nella mente mia e nei decreti del Signore. Per poterli poi in qualche modo occupare ne' giorni festivi li conduceva quando a Sassi, quando alla Madonna del Pilone; alla Madonna di Campagna; al monte dei Cappuccini ed anche fino a Superga: In queste chiese procurava di celebrare loro la S. Messa nel mattino colla spiegazione del vangelo. La sera un po' di catechismo, canto di lodi, qualche racconto, quindi giri, passeggiate fino all'ora di fare ritorno alle proprie famiglie. Sembrava che questa critica posizione dovesse mandare in fumo ogni pensiero di Oratorio, ed invece aumentava in numero straordinario gli avventori.
Intanto eravamo al mese di novembre (1845) stagione non più opportuna per fare passeggiate o camminate fuori città. D'accordo col T. Borrelli abbiamo preso a pigione tre camere della casa di D. Moretta, che è quella vicina, quasi di fronte all'attuale chiesa di Maria Ausil. Ora quella casa a forza di riparazioni venne pressoché rifatta. Colà passammo quattro mesi, angustiati pel locale, ma contenti di poter almeno in quelle camerette raccogliere i nostri allievi, istruirli e dar loro comodità specialmente delle confessioni. Anzi in quello stesso inverno abbiamo cominciato le scuole serali. Era la prima volta che nei nostri paesi parlavasi di tal genere di scuole; perciò se ne fece gran rumore[,] alcuni in favore, altri in avverso.
Fu pure in quel tempo che si propagarono alcune dicerie strane assai. Taluni chiamavano D. Bosco rivoluzionario, altri il volevano pazzo oppure eretico. La ragionavano così: Questo Oratorio allontana i giovanetti dalle parocchie, quindi il paroco si vedrà la chiesa vuota, né più potrà conoscere i fanciulli, di cui dovra rendere I conto al tribunale del Signore. Dunque D. Bosco mandi i fanciulli alle loro parocchie e cessi di raccoglierli in altre località.
Così dicevanmi due rispettabili paroci di questa città che mi visitarono a nome anche dei loro colleghi.
— I giovani che raccolgo, loro rispondeva, non turbano la frequenza alle parocchie, perché la maggior parte di essi non conoscono né paroco né parocchia.
— Perché?—Perché sono quasi tutti forestieri, i quali rimangono abbandonati dai parenti in questa città, o qui venuti per trovare lavoro, che non poterono avere. Savoiardi, Svizzeri, Valdostani, Biellesi, Novaresi, Lombardi sono quelli che per ordinario frequentano le mie adunanze.
— Non potrebbe mandare questi giovanetti alle rispettive parocchie?
— Non le conoscono.—Perché non farle conoscere?
— Non è possibile. La lontananza dalla patria, la diversità di linguaggio, la incertezza del domicilio, e l'ignoranza dei luoghi rendono difficile per non dire impossibile l'andare alle parocchie. Di più molti di essi sono già adulti: taluni toccano i 18, i 20 ed anche i 25 anni d'età, e sono affatto ignari delle cose di religione. Chi mai potrebbe indurre costoro di andarsi ad associare con ragazzi di 8 o 10 anni, molto più di loro istrutti?
—Non potrebbe Ella stessa condurli e venire a fare il Catechismo nelle stesse Chiese parocchiali?
—Potrei al più recarmi ad una parocchia, ma non a tutte. Si potrebbe a ciò provvedere se ogni parroco volesse prendersi cura di venire, od inviare chi raccogliesse questi fanciulli e li guidasse alle rispettive parocchie. Ma anche tal cosa riesce difficile, perché non pochi di quelli sono dissipati, ed anche discoli, i quali lasciandosi adescare dalla ricreazione, dalle passeggiate, che tra noi hanno luogo, si risolvono a frequentare anche i Catechismi e le altre pratiche di pietà. Perciò sarebbe necessario che ogni Parocchia avesse eziandio un luogo determinato dove radunare e trattenere questi giovanetti in piacevole ricreazione.
— Queste cose sono impossibili. Non ci sono locali, né preti che abbiano libero il giorno festivo per queste occupazioni.
— Dunque?
— Dunque faccia come giudica bene, intanto stabiliremo tra di noi quello che sia meglio di fare.
Venne quindi agitata la questione tra i paroci Torinesi, se gli Oratorii dovevansi promuovere oppure riprovarsi. Si disse pro e contro. Il Curato di Borgo Dora D. Agostino Cattino col T. Ponzati Curato di S. Agostino[,] mi portò la risposta in questi termini: I paroci della Città di Torino raccolti nelle solite loro Conferenze trattarono sulla convenienza degli Oratorii. Ponderati i timori e le speranze da una parte e dall'altra, non potendo ciascun paroco provvedere un Oratorio nella rispettiva parocchia incoraggiscono il Sac. Bosco a continuare finché non sia presa altra deliberazione.
Mentre queste cose avvenivano giungeva la primavera del 1846. La casa Moretta era abitata da molti inquilini, i quali, sbalorditi dagli schiamazzi e dal continuo rumore dell'andare e venire dei giovanetti mossero lagnanza al padrone, dichiarando di smettersi tutti dalla pigione se non cessavano immantinenti quelle radunanze. Così il buon sacerdote Moretta dovette avvisarci di cercarci immediatamente altra località dove raccogliere i nostri giovani se volevamo tenere in vita il nostro Oratorio.
20° L’Oratorio in un prato - Passeggiata a Superga▲
Con grave rincrescimento e con non leggero disturbo delle nostre radunanze nel Marzo del 1846 dovemmo abbandonare Casa Moretta e prendere in affitto un prato dai fratelli Filippi, dove attualmente avvi una fonderia di getto ossia ghisa. Io mi trovai la a cielo scoperto, in mezzo ad un prato, cinto da grama siepe, che lasciava libero adito a chiunque volesse entrare. I giovanetti erano da tre a quattrocento, i quali trovavano il loro Paradiso terrestre in quell'Oratorio, la cui volta, le cui pareti erano la medesima volta del Cielo.
Ma in questo luogo mai praticare le cose di religione? Alla bella meglio qui si faceva il Catechismo, si cantavano lodi, si cantavano i Vespri, quindi il T. Borrelli od io montavamo sopra di una riva o sopra di una sedia e indirizzavamo il nostro sermoncino ai giovani, che ansioni venivano ad ascoltarci.
Le confessioni poi si facevano così: Ne' giorni festivi di buon mattino io mi trovava nel prato dove già parecchi attendevano. Mettevami a sedere sopra di una riva ascoltando le confessioni degli uni mentre altri ne facevano la preparazione od il ringraziamento, dopo cui non pochi ripigliavano la loro ricreazione. Ad un certo punto della mattinata si dava un suono di tromba, che radunava tutti i giovanetti, altro suono di tromba indicava il silenzio, che mi dava campo a parlare e segnare dove andavamo ad ascoltare la Santa Messa e fare la Comunione.
Talvolta, come si disse, andavamo alla Madonna di Campagna, alla Chiesa della Consolata, a Stupinigi o nei luoghi sopra mentovati. Siccome poi facevamo frequenti camminate in luoghi anche lontani, così io ne descriverò una fatta a Superga, da cui si conoscerà come si facevano le altre.
Raccolti i giovani nel prato e dato loro tempo a giuocare alquanto alle bocce, alle piastrelle[,] alle stampelle, etc., si suonava un tamburo quindi una tromba che segnava la radunanza e la partenza. Si procurava che ognuno ascoltasse prima la Messa e poco dopo le 9 partimmo alla volta di Superga. Chi portava canestri di pane, chi cacio o salame o frutta od altre cose necessarie per quella giornata. Si osservava silenzio sin fuori delle abitazioni della città, di poi cominciavano gli schiamazzi, canti e grida ma sempre in fila ed ordinati.
Giunti poi a' piedi della salita, che conduce a quella basilica, trovai uno stupendo cavallino che, bardato a dovere, il Sac. Anselmetti, Curato di quella Chiesa mi aveva mandato. Laàpure riceveva una letterina del T. Borrelli, che ci aveva preceduti, nella quale diceva: "Venga tranquillo coi cari nostri giovani, la minestra, la pietanza, il vino sono preparati". Io montai sopra quel cavallo e poi lessi ad alta voce quella lettera. Tutti si raccolsero intorno al cavallo e udita quella lettura unanimi si posero a fare applausi ed ovazioni gridando, schiamazzando e cantando. Gli uni prendevano il cavallo per le orecchie, gli altri per le narici o per la coda urtando ora la povera bestia, ora chi la cavalcava. Il mansueto animale tutto sopportava in pace dando segni di pazienza maggiore di quella che avrebbe dato chi era portato sul dorso. In mezzo a que' trambusti avevamo la nostra musica che consisteva in un tamburo, in una tromba ed in una chitarra. Era tutto disaccordo, ma servendo a fare rumore colle voci dei giovani bastava per fare una maravigliosa armonia.
Stanchi dal ridere, scherzare, cantare e direi di urlare[,] giungemmo al luogo stabilito. I giovanetti, perché sudati, si raccolsero nel cortile del santuario e furono tosto provveduti di quanto era necessario pel vorace loro appetito. Dopo alquanto riposo li radunai tutti e loro raccontai minutamente la storia maravigliosa di quella Basilica, delle tombe reali che esistono sotto alla medesima, e dell'Accademia Ecclesiastica ivi eretta da Carlo Alberto e promossa dai Vescovi degli Stati Sardi.
Il T. Guglielmo Audisio, che ne era preside, fece la graziosa spesa di una minestra colla pietanza a tutti gli ospitati. Il paroco donò vino e frutta. Si concedette lo spazio di un paio d'ore per visitare i locali, di poi ci siamo radunati in Chiesa, dove era pure intervenuto molto popolo. Alle 3 pomeridiane ho fatto un breve discorso dal pulpito, dopo cui alcuni più favoriti dalla voce cantarono un Tantum ergo in musica, che per la novità delle voci bianche trasse tutti in ammirazione. Alle sei si fecero salire alcuni globi areostatici, di poi tra vivi ringraziamenti a chi ci aveva beneficati partimmo alla volta di Torino. Il medesimo cantare, ridere, correre e talvolta pregare occupò la nostra via. Giunti in città, di mano in mano che alcuno giungeva al sito più vicino alla propria casa cessava dalle file e si ritirava in famiglia. Quand'io giunsi al Rifugio aveva ancora con me 7 od 8 giovani dei più robusti che portavano gli attrezzi usati nella giornata.
21° Il Marchese Cavour e sue minacce - Nuovi disturbi per l'Oratorio▲
Non è a dire quale entusiasmo eccitassero nei giovanetti quelle passeggiate. Affezionati a questa mescolanza di divozione, di trastulli, di passeggiate ognuno mi diveniva affezionatissimo a segno, che non solamente erano ubbidientissimi a' miei comandi, ma erano ansiosi che loro affidassi qualche incumbenza da compiere. Un giorno un carabiniere vedendomi con un cenno di mano ad imporre silenzio ad un quattrocento giovanetti, che saltellavano e schiamazzavano pel prato, si pose ad esclamare: Se questo prete fosse un generale d'armata, potrebbe combattere contro al più potente esercito del mondo. E veramente l'ubbidienza e l'affezione de' miei allievi andava alla follia.
Questo per altro die' cagione a rinnovare la voce che D. Bosco co' suoi figli poteva ad ogni momento eccitare una rivoluzione. Tale asserzione, che appoggiava sul ridicolo, trovò di nuovo credenza tra le autorità locali e specialmente presso al Marchese di Cavour, padre dei celebri Camillo e Gustavo, allora Vicario di Città, che era quanto dire capo del potere urbano. Egli adunque mi fece chiamare al Palazzo Municipale e tenutomi lungo ragionamento sopra le fole che si spacciavano a mio conto conchiuse con dirmi:— Mio buon prete, prendete il mio consiglio, lasciate in libertà quei mascalzoni: Essi non daranno che dispiaceri a voi ed alle pubbliche autorità. Io sono assicurato, che tali radunanze sono pericolose, e perciò io non posso tollerarle.
— Io, risposi io, non ho altra mira, Sig. Marchese, che migliorare la sorte di questi poveri figli del popolo. Non dimando mezzi pecuniarii ma soltanto un luogo dove poterli raccogliere. Con questo mezzo spero di poter diminuire il numero dei discoli, e di quelli che vanno ad abitare le prigioni.
— V'ingannate, mio buon prete; vi affaticate invano. Io non posso assegnarvi alcuna località ravvisando tali radunanze pericolose; e voi dove prenderete i mezzi per pagare pigioni e sopperire a tante spese, che vi cagionano questi vagabondi? Vi ripeto qui, che io non posso permettervi tali radunanze.
— I risultati ottenuti, Sig. Marchese, mi assicurano che non fatico invano. Molti giovanetti totalmente abbandonati furono raccolti, liberati dai pericoli, avviati a qualche mestiere, e le prigioni non furono più loro abitazione. I mezzi materiali finora non mi mancarono, essi sono nelle mani di Dio, il quale talvolta si serve di spregevoli istrumenti per compiere i suoi sublimi disegni.
— Abbiate pazienza, ubbiditemi senz'altro, io non posso permettervi tali radunanze.
— Non concedetelo per me, Sig. Marchese, ma concedetelo pel bene di tanti giovanetti abbandonati, che forse andrebbero a fare trista fine.
— Tacete, io non sono qui per disputare. Questo è un disordine, ed io lo voglio e lo debbo impedire. Non sapete che ogni assembramento è proibito, ove non vi sia legittimo permesso?
— Li miei assembramenti non hanno scopo politico: Io insegno il Catechismo a' poveri ragazzi e questo faccio col permesso dell'Arcivescovo.
— L'Arcivescovo è inforrnato di queste cose?
— Ne è pienamente informato, e non ho mai mosso un passo senza il consentimento di lui.
— Ma io non posso permettere questi assembramenti?
— Io credo, Sig. Marchese, che voi non vorrete proibirmi di fare un Catechismo col permesso del mio Arcivescovo.
— E se l'Arcivescovo vi dicesse di desistere da questa vostra ridicola impresa, non opporreste difficoltà?
— Nissunissima. Ho cominciato ed ho finora continuato col parere del mio Superiore Ecclesiastico, e ad un semplice suo motto sarò tutto a' cenni suoi.
— Andate, parlerò coll'Arcivescovo, ma non siate poi ostinato agli ordini suoi, altrimenti mi costringerete a misure severe, che io non vorrei usare.
Ridotte le cose a questo punto, credeva, almeno per qualche tempo, essere lasciato in pace. Ma quale non fu la mia perturbazione quando giunsi a casa e trovai una lettera con cui i fratelli Filippi mi licenziavano dal locale a me pigionato.
— I suoi ragazzi, mi dicevano, calpestando ripetutamente il nostro prato faranno perdere fino la radice dell'erba. Noi siamo contenti di condonarle la pigione scaduta purché entro a quindici giorni ci dia libero il nostro prato. Maggior dilazione non le possiamo concedere.
Sparsa la voce di tante difficoltà parecchi amici mi andavano dicendo di abbandonare l'inutile impresa, così detta da loro. Altri poi vedendomi sopra pensiero e sempre circondato da ragazzi cominciavano a dire che io era venuto pazzo.
Un giorno il Teologo Borrelli in presenza del sac. Pacchiotti Sebastiano e di altri prese a dirmi così: Per non esporci a perdere tutto è meglio salvare qualche cosa. Lasciamo in libertà tutti gli attuali giovanetti, riteniamone soltanto una ventina dei più piccoli. Mentre continueremo ad istruire costoro nel Catechismo, Dio ci aprirà la via e l'opportunità di fare di più. Loro risposi: Non occorre aspettare altra opportunità, il sito è preparato, vi è un cortile spazioso, una casa con molti fanciulli, porticato, Chiesa, preti, cherici, tutto ai nostri cenni.
— Ma dove sono queste cose, interruppe il T. Borrelli.
— Io non so dire dove siano, ma esistono certamente e sono per noi.
Allora il T. Borrelli dando in copioso pianto, povero D. Bosco, esclamò, gli è dato la volta al cervello. Mi prese per mano, mi baciò e si allontano con D. Pacchiotti, lasciandomi solo nella mia camera.
22° Congedo dal Rifugio - Altra imputazione di pazzia▲
Le molte cose che andavansi dicendo sul conto di D. Bosco cominciavano ad inquietare la Marchesa Barolo, tanto più da che il Municipio Torinese si mostrava contrario a' miei progetti.
Un giorno adunque venuta in mia camera Ella prese a parlarmi così:
— Io sono assai contenta delle cure che si prende pei miei istituti. La ringrazio che abbia cotanto lavorato per introdurre in quelli il canto delle laudi sacre, il canto fermo, la musica, l’aritmetica ed anche il sistema metrico.
— Non occorre ringraziamenti: I preti devono lavorare per loro dovere, Dio paghera tutto, e non si parli più di questo.
— Voleva dire che mi rincresce assai, che la moltitudine delle sue occupazioni abbiano alterata la sua sanità. Non e possibile che possa continuare la direzione delle mie opere e quella dei ragazzi abbandonati, tanto più presentemente, che il loro numero è cresciuto fuori misura. Io sono per proporle di fare soltanto quello, che è di obbligo suo, cioè direzione dell'Ospedaletto, non più andare nelle carceri, nel Cottolengo e sospendere ogni sollecitudine pei fanciulli. Che ne dice?
— Signora Marchesa, Dio mi ha finora aiutato e non mancherà di aiutarmi. Non si inquieti sul da farsi. Tra me, D. Pacchiotti, il T. Borrelli faremo tutto.
— Ma io non posso più tollerare che ella si ammazzi. Tante e così svariate occupazioni da volere o non volere tornano a detrimento della sua sanità e de' miei istituti. E poi le voci che corrono intorno alla sua sanità mentale; l’opposizione delle autorità locali mi costringono a consigliarla...
— A che, signora Marchesa?
— O a lasciare l'opera de' ragazzi, o l'opera del Rifugio. Ci pensi e mi risponderà.
La mia risposta è già pensata. Ella ha danaro e con facilità troverà preti quanti ne vuole pe' suoi istituti. De' poveri fanciulli non è così. In questo momento se io mi ritiro, ogni cosa va in fumo perciò io continuerò a fare parimenti quello che posso pel Rifugio, cesserò dall'impiego regolare e mi darò di proposito alla cura dei fanciulli abbandonati.
— Ma come potrà vivere?
— Dio mi ha sempre aiutato e mi aiuterà anche per l'avvenire.
— Ma Ella è rovinata di sanità, la sua testa non la serve più; andra ad ingolfarsi nei debiti; verrà da me, ed io protesto fin d'ora che non le darò mai un soldo pei suoi ragazzi. Ora accetti il mio consiglio di madre. Io le continuerò lo stipendio, e l'aumenterò se vuole. Ella vada a passare uno, tre, cinque anni in qualche sito: si riposi, quando sia ben ristabilito, ritorni al Rifugio e sarà sempre il benvenuto. Altrimenti mi mette nella spiacevole necessità di congedarlo da' miei istituti. Ci pensi seriamente.
— Ci ho già pensato, signora Marchesa. La mia vita e consacrata al bene della gioventù. La ringrazio delle profferte che mi fa, ma non posso allontanarmi dalla via che la divina Provvidenza mi ha tracciato.
— Dunque preferisce i suoi vagabondi ai miei Istituti? Se è così, resta congedato in questo momento. Oggi stesso provvederò chi la deve rimpiazzare.
Le feci vedere che un diffidamento così precipitoso avrebbe fatto supporre motivi non onorevoli né a me né a Lei: era meglio agire con calma, e conservare tra noi quella stessa carità, con cui dovremo poi parlare ambidue al tribunale del Signore.
— Dunque, conchiuse, le darò tre mesi, dopo cui lascierà ad altri la direzione del mio Ospedaletto.
Accettai il diffidamento, abbandonandomi a quello che Dio avrebbe disposto di me.
Intanto prevaleva ognor più la voce che D. Bosco era divenuto pazzo. I miei amici si mostravano dolenti; altri ridevano; ma tutti si tenevano lontani da me. L'Arcivescovo lasciava fare; D. Caffasso consigliava di temporeggiare, il T. Borrelli taceva. Così tutti i miei collaboratori mi lasciarono solo in mezzo a circa quattrocento ragazzi.
In quell'occasione alcune rispettabili persone vollero prendersi cura della mia sanità. Questo D. Bosco, diceva uno di loro, ha delle fissazioni, che lo condurranno inevitabilmente alla pazzia. Forse una cura gli farà bene. Conduciamolo al manicomio e colà, coi dovuti riguardi, si farà quanto la prudenza suggerira.
Furono incaricati due di venirmi a prendere con una carrozza e condurmi al manicomio. I due messaggeri mi salutarono cortesemente, di poi chiestemi notizie della sanità, dell'Oratorio, del futuro edifizio e chiesa, trassero in fine un profondo sospiro e proruppero in queste parole: E’ vero.
Dopo ciò mi invitarono di recarmi seco loro a fare una passeggiata. Un po' di aria ti farà bene; vieni; abbiamo appunto la carrozza, andremo insieme ed avremo tempo a discorrere. Mi accorsi allora del giuoco che mi volevano fare, e senza mostrarmene accorto, li accompagnai alla vettura, insistetti che essi entrassero primi a prendere posto nella carrozza, e invece di entrarci anch'io, ne chiusi lo sportello in fretta dicendo al cocchiere: Andate con tutta celerita al manicomio, dove questi due ecclesiastici sono aspettati.
23° Trasferimento nell'attuale Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco▲
Mentre succedevansi le cose sopramentovate, era venuta l'ultima domenica, in cui mi era ancora permesso di tenere l’Oratorio nel prato (15 marzo 1846). Io taceva tutto, ma tutti sapevano i miei imbarazzi e le mie spine. In sulla sera di quel giorno rimirai la moltitudine di fanciulli, che si trastullavano; e considerava la copiosa messe, che si andava preparando pel sacro ministero, per cui era solo di operai, sfinito di forze, di sanità male andata senza sapere dove avrei in avvenire potuto radunare i miei ragazzi. Mi sentii vivamente commosso.
Ritiratomi pertanto in disparte, mi posi a passeggiare da solo e forse per la prima volta mi sentii commosso fino alle lacrime. Passeggiando e alzando gli occhi al Cielo, mio Dio, esclamai, perché non mi fate palese il luogo in cui volete che io raccolga questi fanciulli? O fatemelo conoscere o ditemi quello che debbo fare?
Terminava quelle espressioni, quando giunge un cotale, di nome Pancrazio Soave che balbettando mi dice: E vero che cerca un sito per fare un laboratorio?
— Non un laboratorio, ma un Oratorio.
— Non so se sia lo stesso Oratorio o laboratorio; ma un sito c’è, lo venga a vedere. È di proprietà del Sig. Giuseppe Pinardi, onesta persona. Venga e farà un buon contratto.
Giunse opportuno in quel momento un fedele mio collega di Seminario, D. Merla Pietro, fondatore dell'Opera pia nota sotto al nome di famiglia di S. Pietro. Egli si occupava con zelo nel sacro ministero, ed aveva iniziato il suo istituto ad oggetto di provvedere al triste abbandono in cui si trovano tante zitelle o donne sgraziate, che, dopo aver scontato la pena del carcere, per lo più sono abborrite dalla società degli onesti a segno che loro riesce pressoché impossibile trovare chi loro voglia dare pane o lavoro. Quando a quel degno Sacerdote rimaneva qualche momento di tempo, correva con piacere in aiuto del suo amico, che per lo più si trovava solo in mezzo ad una moltitudine di ragazzi.
— Che c'è, disse appena mi vide, non ti vidi mai così malinconico. Ti colse qualche disgrazia?
— Disgrazia no, ma un grande imbarazzo. Oggi è l'ultimo giorno, che mi è permesso dimorare in questo prato. Siamo alla sera; rimangono due [ore] di giorno; debbo dire ai miei figli dove si raduneranno un'altra domenica e non so. Avvi qui un amico, che mi dice esservi un locale forse conveniente. Vieni, assisti un momento la ricreazione; io vado a vedere e presto saro di nuovo qua.
Giunto al luogo indicato vidi una casupola di un solo piano colla scala e balcone di legno tarlato, attorniata da orti, prati, campi. Io voleva salire la scala, ma il Pinardi ed il Pancrazio, no, mi dissero. Il sito destinato per Lei è qui di dietro. Era una tettoia prolungata, che da un lato appoggiava al muro, dall'altro terminava coll'altezza di circa un metro da terra. Poteva per necessità servire a magazzino o per legnaia e non di più. Per entrarci dentro ho dovuto tenere chino il capo a fine di non urtare nel solaio.
— Non mi serve, perché troppo bassa: dissi.
— Io la farò aggiustare come vuole, ripigliò graziosamente il Pinardi. Io scaverò, farò scalini, farò altro pavimento; ma desidero tanto che il suo laboratorio venga stabilito qui.
— Non un laboratorio, ma un Oratorio, una piccola chiesa per radunare dei giovanetti.
— Più volentieri ancora. Mi presterò assai di buon grado. Facciamo contratto. Sono anch'io cantore, verrò ad aiutarla; porterò due sedie, una per me l'altra per mia moglie. E poi in mia casa ho una lampana, la porterò ancora qua.
Quel dabben uomo sembrava che vaneggiasse per la contentezza di avere una chiesa in sua casa.
— Vi ringrazio, o mio buon amico, della vostra carità e del vostro buon volere. Accetto queste belle offerte. Se voi mi potete abbassare il pavimento non meno di un piede (cent. 50) io l'accetto, ma quanto dimandate?
— Trecento franchi; me ne vogliono dare di più, ma preferisco Lei, che vuole destinare questo locale al pubblico vantaggio ed alla religione.
— Ve ne do trecentoventi, purché mi diate anche la striscia di sito che lo circonda per la ricreazione dei giovani; purché mi promettiate che domenica prossima io possa già venir qua co' miel ragazzi.
— Inteso, patto conchiuso: Venga pure. Tutto sarà ultimato.
Non cercai di più. Corsi tosto da' miei giovani; li raccolsi intorno a me e ad alta voce mi posi a gridare: — Coraggio, miei figli, abbiamo un Oratorio più stabile del passato; avremo chiesa, sacristia, camere per le scuole, sito per la ricreazione. Domenica, domenica andremo nel novello Oratorio che e colà in casa Pinardi; e loro additava il luogo.
Quelle parole furono accolte col più vivo entusiasmo. Chi faceva corse o salti di gioia; chi stava come immobile; chi gridava con voci e sarei per dire con urli e strilli. Ma commossi come chi prova un gran piacere e non sa come esprimerlo, trasportati da profonda gratitudine e per ringraziare la S. Vergine che aveva accolte ed esaudite le nostre preghiere, che in quel mattino stesso avevam fatto alla Madonna di Campagna, ci siamo inginocchiati per l'ultima volta in quel prato, ed abbiamo recitato il SS. Rosario dopo cui ognuno si ritiro a casa sua. Così veniva dato l'ultimo saluto a quel luogo, che ciascuno aveva amato per necessità, ma che per la speranza di averne un altro migliore abbandonava senza rincrescimento.
La Domenica seguente solennita di Pasqua nel giorno 12 di Aprile, si trasportarono colà tutti gli attrezzi di chiesa e di ricreazione, e andammo a prendere possesso della nuova località.
MEMORIE DELL'ORATORIO DI S. FRANCESCO DI SALES
DAL 1846 AL 1855
Sebbene questa nuova chiesa fosse una vera meschinità, tuttavia essendo pigionato con un contratto formale ci liberava dalle inquietudini di dover ad ogni momento emigrare da un luogo ad un altro con gravissimi disturbi. A me poi sembrava essere veramente il sito dove aveva sognato scritto: Haec est domus mea, inde gloria mea, sebbene fossero diverse le disposizioni del cielo. Non piccola difficoltà presentava la casa presso cui ci trovavamo; era casa d'immoralità; difficoltà eziandio per parte dell'albergo della Giardiniera, attuale casa Bellezza, dove si raccoglievano specialmente ne' giorni festivi, tutti i buontemponi della città. Ciò nulla di meno potemmo tutto superare e cominciare a fare regolarmente le nostre radunanze.
Ultimati i lavori, l’Arcivescovo in data... aprile concedeva la facoltà di benedire e consacrare al divin culto quel modesto edifizio. Ciò avveniva la domenica del... aprile 1846. Il medesimo Arcivescovo per mostrare la sua soddisfazione rinnovò la facoltà già concessa quando eravamo al Rifugio, cioè di cantar messa, fare tridui, novene, esercizi spirituali, promuovere alla cresima, alla santa comunione, e di poter eziandio soddisfare al precetto pasquale a tutti quelli che avessero frequentata la nostra Istituzione.
Il sito stabile, i segni d'approvazione dell'Arcivescovo, le solenni funzioni, la musica, il rumore di un giardino di ricreazione, attraevano fanciulli da tutte parti. Parecchi ecclesiastici presero a ritornare. Tra quelli che prestavano l'opera loro vuolsi notare, D. Trivero Giuseppe, T. Carpano Giascinto, T. Gio. Vola, il T. Roberto Murialdo, e l'intrepido T. Borrelli.
Le funzioni si facevano così. Ne' giorni festivi di buon mattino si apriva la chiesa: e si cominciavano le confessioni, che duravano fino all'ora della messa. Essa era fissata alle ore otto, ma per appagare la moltitudine di quelli, che desideravano confessarsi, non di rado era differita fino alle nove ed anche di più. Qualcuno de' preti, quando ce n'erano, assisteva, e con voce alternata recitava le orazioni. Tra la messa facevano la s. comunione quelli che erano preparati. Finita la messa e tolti i paramentali io montava sopra una bassa cattedra per fare la spiegazione del Vangelo, che allora si cangiò per dare principio al racconto regolare della Storia Sacra. Questi racconti ridotti a forma semplice e popolare vestiti dei costumi dei tempi, dei luoghi, dei nomi geografici coi loro confronti, piacevano assai ai piccolini, agli adulti ed agli stessi ecclesiastici che trovavansi presenti. Alla predica teneva dietro la scuola che durava fino a mezzo giorno.
Ad un'ora pom. cominciava la ricreazione, colle bocce, stampelle, coi fucili, colle spade in legno, e coi primi attrezzi di Ginnastica. Alle due mezzo si dava principio al catechismo. L'ignoranza in generale era grandissima. Più volte mi avvenne di cominciare il canto dell'Ave Maria e di circa quattrocento giovanetti, che erano presenti, non uno era capace di rispondere, e nemmeno di continuare, se cessava la mia voce.
Terminato il catechismo, non potendosi per allora cantare i Vespri si recitava il Rosario. Più tardi si cominciò a cantare l'Ave Maris Stella, poi il Magnificat, poi il Dixit, quindi gli altri salmi; e in fine un'Antifona e nello spazio di un anno ci siamo fatti capaci di cantare tutto il Vespro della Madonna.
A queste pratiche teneva dietro un breve sermoncino, che per lo più era un esempio, in cui si personificava un vizio o qualche virtù. Ogni cosa aveva termine col canto delle Litanie e colla benedizione del SS. Sacramento.
Usciti di chiesa cominciava il tempo libero in cui ciascuno poteva occuparsi a piacimento. Chi continuava la classe di catechismo, altri del canto, o di lettura, ma la maggior parte se la passava saltando, correndo e godendosela in varii giuochi e trastulli. Tutti i ritrovati pei salti, corse, bussolotti, corde, bastoni, siccome anticamente aveva appreso dai saltimbanchi, erano messi in opera sotto alla mia disciplina. Così potevasi tenere a freno quella moltitudine, la quale in gran parte potevansi dire: Sicut equus et mulus, quibus non est intellectus ( I ).
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(1) Tob. c. VI, 17 e Psal. XXXI, 9.
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Debbo dire per altro che nella grande ignoranza ho sempre ammirato un grande rispetto per le cose di chiesa, pei sacri ministri ed un grande trasporto per imparare le cose di religione.
0pklioAnzi io mi serviva di quella smodata ricreazione per insinuare a' miei 600 allievi pensieri di religione e di frequenza ai santi sacramenti. Agli uni con una parola nell'orecchio raccomandava maggior ubbidienza, maggior puntualità nei doveri del proprio stato; ad altri di frequentare il catechismo, di venirsi a confessare e simili. Di modo che per me quei trastulli erano un mezzo opportuno per provvedermi una moltitudine di fanciulli che al sabato a sera o la domenica mattina con tutto buon volere venivano a fare la loro confessione:
Talvolta li toglieva dagli stessi trastulli per condurli a confessarsi, qualora li avessi veduti alquanto restii a quegli importanti doveri. Riferirò uno dei molti fatti. Un giovanetto era stato invitato più volte di venire a fare pasqua; egli prometteva ogni domenica di venire, ma poi non manteneva la parola. Un giorno festivo, dopo le sacre funzioni egli si pose a fare ricreazione la più vivace. Mentre correva in tutti i lati saltando e correndo e tutto molle di sudore[,] tutto rosso nella faccia da non sapere più se fosse in questo mondo o nell'altro, lo chiesi in tutta fretta pregandolo a recarsi meco in sacristia per aiutarmi a compiere un affare. Voleva venire com'era, in manica di camicia; no[,] gli dissi, mettiti la giubbetta e vieni. Giunti alla sacristia il condussi in coro quindi soggiunsi:
Inginocchiati sopra questo genu~lessorio. Lo fece; ma egli voleva traslocare l'inginocchiatoio.
— No, soggiunsi, lascia ogni cosa come è.
— Che vuole adunque da me?
— Confessarti. Non sono preparato.—Lo so.
— Dunque?—Dunque preparati, e poi ti confesserai.
— Bene, benone, esclamò; ne avevo proprio bisogno; ne aveva vero bisogno, ha fatto bene a prendermi in questo modo, altrimenti per timore dei compagni non mi sarei ancora venuto a confessare. Mentre recitai una parte di Breviario, l’altro si preparò alquanto; di poi fece assai di buon grado la sua confessione con divoto ringraziamento. D'allora in poi fu costantemente dei più assidui a compiere i suoi religiosi doveri. Soleva poi raccontare il fatto ai suoi compagni conchiudendo: Don Bosco uso un bello stratagemma per cogliere il merlo nella gabbia.
Sul far della notte, con un segno di campanello erano tutti raccolti in chiesa, dove si faceva un po' di preghiera o si recitava il Rosario coll' Angelus, ed ogni cosa compievasi col canto di Lodato sempre sia etc.
Usciti di chiesa mettevami in mezzo di loro, li accompagnava mentre essi cantavano o schiamazzavano. Fatto la salita del Rondo, si cantava ancora qualche strofa di laude sacra, di poi si invitavano per la seguente domenica, ed augurandoci a vicenda ad alta voce la buona sera, ognuno se ne andava pei fatti suoi.
Una scena singolare era la partenza dall'Oratorio. Usciti di chiesa ciascuno dava le mille volte la buona sera senza punto staccarsi dall'assemblea dei compagni. Io aveva un bel dire: — Andate a casa, si fa notte, i parenti vi attendono.
Inutilmente. Bisognava che li lasciassi radunare; sei dei più robusti facevano colle loro braccia una specie di sedia sopra cui come sopra di un trono era giuocoforza che io mi ponessi a sedere. Messisi quindi in ordine a più file, portando D. Bosco sopra quel palco di braccia, che superava i più alti di statura, procedevano cantando[,] ridendo e schiamazzando fino al circolo detto comunemente il Rondo. Colà si cantavano ancora alcune lodi, che avevano per conclusione il solenne canto del Lodato sempre sia. Fattosi di poi un profondo silenzio io poteva allora a tutti augurare buona sera e buona settimana. Tutti con quanto avevano di voce rispondevano buona sera. In quel momento io veniva deposto dal mio trono; ognuno andava in seno della propria famiglia, mentre alcuni dei più grandicelli mi accompagnavano fino a casa mezzo morto per la stanchezza.
2° Di nuovo Cavour - Ragioneria - Guardie civiche▲
Malgrado l’ordine[,] la disciplina e la tranquillità dell'Oratorio nostro, il Marchese Cavour, Vicario di città, pretendeva che avessero fine i nostri assembramenti, che egli chiamava pericolosi. Quando seppe che io aveva sempre proceduto col consenso dell'Arcivescovo, convocò la così detta Ragioneria nel palazzo vescovile essendo quel prelato allora alquanto ammalato.
La Ragioneria era una scelta de’ primari consiglieri municipali, nelle cui mani concentravasi tutto il potere della civica amministrazione. Il capo della Ragioneria detto Mastro di Ragione, primo Decurione od anche Vicario di città, in potere era superiore al sindaco.
Quando io vidi tutti quei magnati, disse di poi l'Arcivescovo, a raccogliersi in questa sala, mi parve doversi tenere il giudizio universale. Si disputò molto pro e contro; ma in fine si conchiuse doversi assolutamente impedire e disperdere quegli assembramenti, perché compromettevano la pubblica tranquillita.
Faceva parte della Ragioneria il conte Giuseppe Provana di Collegno, p. 124 nostro insigne benefattore, e allora Ministro al Controllo generale, ossia delle Finanze presso al Re Carlo Alberto. Più volte mi aveva dato sussidii e del suo proprio ed anche per parte del Sovrano. Questo principe udiva assai con piacere a parlare dell'Oratorio, e quando si faceva qualche solennità leggeva sempre volentieri la relazione che io gli mandava scritta, o che il prefato conte faceva verbalmente. Mi ha più volte fatto dire che egli molto stimava questa parte di ecclesiastico ministero, paragonandolo al lavoro delle missioni straniere, esprimendo vivo desiderio che in tutte le città e paesi del suo stato fossero attivate simili istituzioni. Per buon capo d'anno soleva sempre mandarmi un sussidio di L. 300 con queste parole: Ai monelli di D. Bosco.
Quando venne a sapere che la Ragioneria minacciava la dispersione delle nostre adunanze die carico al prefato conte di comunicare la sua volontà con queste parole: E’ mia intenzione che queste radunanze festive siano promosse e protette; se avvi pericolo di disordine si studi modo di prevenirli e di impedirli.
Il conte Collegno, che silenzioso aveva assistito a tutta quella viva discussione, quando osservò che se ne proponeva l'ordine di dispersione e definitivo scioglimento, si alzò, chiese di parlare e comunico la sovrana intenzione, e la protezione che il Re intendeva di prendere di quella microscopica istituzione.
A quelle parole tacque il Vicario e tacque la Ragioneria. Con premura il Vicario mi mandò novellamente a chiamare e continuando il tono minaccievole e chiamandomi ostinato, conchiuse con queste benevole parole: Io non voglio il male di nissuno. Voi lavorate con buona intenzione, ma ciò che fate è pieno di pericoli. Essendo io obbligato a tutelare la pubblica tranquillità, io manderò a sorvegliare voi e le vostre radunanze. Alla minima cosa che vi possa compromettere io farò immediatamente disperdere i vostri monelli e voi mi darete conto di quanto sarà per avvenire.
Fossero le agitazioni, cui andò soggetto, fosse qualche malanno che già lo travagliasse, fatto fu che quella è stata l'ultima volta che il Vicario Cavour andò al Palazzo Municipale. Assalito dalla podagra, dovette soffrire assai e fra pochi mesi venne condotto alla tomba.
Ma per i sei mesi che visse ancora mandava ogni domenica alcuni arceri o guardie civiche a passare con noi tutta la giornata, vegliando sopra tutto quello che in chiesa o fuori di chiesa si diceva o si faceva.
— E bene, disse il Marchese Cavour ad una di quelle guardie, che cosa avete veduto, udito in mezzo a quella marmaglia?
— Sig. Marchese, abbiamo veduto una moltitudine immensa di ragazzi a divertirsi in mille modi: abbiamo udito in chiesa delle prediche che fanno paura. Si raccontarono tante cose sull'inferno e sui demonii, che mi fecero venir volontà di andarmi a confessare.
— E di politica?
— Di politica non si parlò punto, perché quei ragazzi non ne capirebbero niente. Credo tratterebbero bene l'argomento delle pagnottelle, intorno a cui ciascuno sarebbe in grado di fare la prima parte.
Morto Cavour non fu più alcuno del Municipio che ci abbia cagionato molestia, anzi ogni volta se ne presento occasione il Municipio torinese ci fu sempre favorevole fino al 1877.
3° Scuole domenicali - Scuole serali▲
A S. Francesco di Assisi io aveva già conosciuta la necessità di qualche scuola. Certi fanciulli sono alquanto inoltrati negli anni e tuttora ignoranti delle verità della fede. Per costoro il puro ammaestramento verbale sarebbe lungo e per lo più loro annoierebbe, perciò facilmente cessano di intervenire. Si provò a fare un po' di scuola, ma non si poteva per difetto di locali e di maestri opportuni che ci volessero aiutare. Al Rifugio, di poi in casa Moretta si cominciò una scuola domenicale stabile[,] ed anche la scuola serale regolare quando venimmo in Valdocco. Per ottenere qualche buon risultato si prendeva un solo ramo d'insegnamento per volta. Per esempio si faceva una domenica o due passare e ripassare l'alfabeto e la relativa sillabazione; poi si prendeva subito il piccolo catechismo intorno a cui si faceva leggere e sillabare fino a tanto che fossero in grado di leggere una o due delle prime dimande del catechismo, e ciò serviva di lezione lungo la settimana. La successiva domenica si faceva ripetere la stessa materia, aggiugnendo altre dimande e risposte. In questa guisa in otto giorni festivi ho potuto ottenere che taluni giungessero a leggere e a studiare da sé delle intere pagine di catechismo. Ciò fu di grande guadagno nel tempo, giacché i più grandicelli dovevano frequentare il catechismo quasi degli anni prima di poterli istruire abbastanza per la sola confessione.
Le prove delle scuole domenicali riuscivano vantaggiose a molti, ma non bastavano; perciocché non pochi perché di tardissimo ingegno, dimenticavano affatto quanto la domenica prima avevano imparato. Furono allora introdotte le scuole serali che cominciate al Rifugio si fecero con maggior regolarita in casa Moretta, e meglio ancora appena si poté avere abitazione stabile in Valdocco.
Le scuole serali producevano due buoni effetti: animavano i giovanetti ad intervenire per istruirsi nella letteratura, di cui sentivano grave bisogno; nel tempo stesso davano grande opportunita per istruirli nella religione, che formava lo scopo delle nostre sollecitudini.
Ma dove prendere tanti maestri, mentre quasi ogni giorno uopo era di aggiugnere nuove classi?
Per provvedere a questo bisogno mi sono messo a fare scuola ad un certo numero di giovanetti della città. Somministrava loro l'insegnamento gratuito d'Italiano, di Latino, di Francese, di Aritmetica, ma coll'obbligo di venirmi ad aiutare ad insegnare il catechismo e fare la scuola domenicale e serale. Questi miei maestrini, allora in numero di otto o dieci, continuarono ad aumentare in numero, e di qui cominciò la categoria degli studenti.
Quando era ancora al Convitto di S. Francesco d'Assisi, fra i miei allievi ebbi Gioanni Coriasco, ora Maestro Falegname[,] Vergnano Felice, ora neg. in passamanterie[,] Delfino Paolo. Quest'ultimo ora è professore di corso Tecnico. Al Rifugio ebbi Melanotte Anto[nio], ora Droghiere, Melanotte Gioanni, confetturiere, Ferrero Felice, sensale; Ferrero Pietro, compositore; Piola Gioanni, falegname, padrone di bottega; ad essi unironsi Genta Luigi, Mogna Vittorio; ed altri che però non continuarono stabilmente. Doveva spendere molto tempo e molto danaro, e generalmente al punto del bisogno la maggior parte mi abbandonava.
A costoro si aggiunsero altri pii signori di Torino. Costanti furono il sig. Gagliardi Giuseppe chincagliere, Fino Gius. della stessa professione; Ritner Vittorio orefice ed altri. I sacerdoti mi aiutavano specialmente per la celebrazione della santa messa, per la predicazione e per le classi di catechismo ai più adulti.
Una difficoltà grande si presentava nei libri, perciocché terminato il piccolo catechismo non aveva più alcun libro di testo. Ho esaminato tutte le piccole Storie Sacre, che tra noi solevansi usare nelle scuole; ma non ne potei trovare alcuna che soddisfacesse al mio bisogno. Mancanza di popolarità, fatti inopportuni, questioni lunghe o fuori di tempo, erano comuni difetti. Molti fatti poi erano esposti in modo che mettevano a pericolo la moralità dei giovanetti. Tutti poi si curavano poco di far rilevare i punti che devono servire di fondamento alle verità della fede. Lo stesso dicasi dei fatti che si riferiscono al culto esterno, al purgatorio, alla confessione, Eucaristia e simili.
A fine di provvedere a questa parte di educazione che i tempi reclamavano assolutamente, mi sono di proposito applicato a compilare una Storia Sacra che oltre alla facilità della dicitura e popolarita dello stile fosse scevra dei mentovati difetti. E’ questa la ragione che mi mosse a scrivere e stampare la così detta Storia Sacra ad uso delle Scuole. Non poteva garantire un lavoro elegante, ma ho lavorato con tutto il buon volere di giovare alla gioventù.
Fatti alcuni mesi di scuola abbiamo dato pubblici saggi del nostro insegnamento festivo, in cui gli allievi furono interrogati su tutta la Storia Sacra, sulla relativa geografia, con tutte le opportune interrogazioni. Erano spettatori il celebre Ab. Aporti[,] Boncompagni, T. Pietro Baricco, Prof. Gius. Rayneri, e tutti applaudirono a quell'esperimento.
Animati dai progressi ottenuti nelle scuole domenicali e serali[,] alla lettura e scrittura fu eziandio aggiunta la classe di aritmetica e di disegno. Era la prima volta che nei nostri paesi avevano luogo tali scuole. Da tutte parti se ne parlava come di una grande novità. Molti professori ed altri distinti personaggi ci venivano con frequenza a visitare. Lo stesso Municipio con alla testa il Comm. Gius. Duprè mandò una commissione appositamente incaricata di recarsi a verificare se i decantati risultati delle scuole serali erano realtà. Facevano eglino stessi delle dimande sulla pronuncia; sulla contabilità; sulla declamazione e non potevano darsi ragione: affatto illetterati fino ai 18 ed anche 20 anni potessero in pochi portarsi così avanti nella educazione e nella istruzione. Al vedere quel gran numero di giovani adulti, raccolti alla sera, che invece di girovagare per le vie, attendevano all’istruzione, quei signori partirono pieni di entusiasmo. Fattane relazione in pieno Municipio venne assegnata come premio una annualita di trecento franchi, che si e percepita fino al 1 1878 quando, non se ne poté mai sapere la ragione, fu tolto quel sussidio per darlo ad un altro istituto.
Il Cav. Gonella, il cui zelo e carità lasciarono in Torino gloriosa ed imperitura memoria, era in quel tempo Direttore dell'Opera La mendicità istruita. Venne egli pure più volte a vederci e l'anno dopo (1847) introdusse le stesse scuole, gli stessi metodi nell'opera a lui affidata. Ma avendo riferita ogni cosa agli amministratori di quell'Opera, con piena deliberazione decretarono un premio di mille franchi per le nostre Scuole. Il Municipio lo seguì, e nello spazio di pochi anni, le scuole serali si propagarono in tutte le principali città del Piemonte.
Altro bisogno apparve: un libro di divozione adattato ai tempi. Sono innumerabili quelli, che, redatti da valente penna, corrono per le mani di tutti. Ma questi libri in generale sono fatti per le persone culte, adulte, e per lo più possono servire pei cattolici, ebrei e protestanti. Vedendo come l'eresia insidiosa si andava ogni giorno più insinuando ho procurato di compilare un libro adatto alla gioventù, opportuno per le loro idee religiose, appoggiato sulla Bibbia, il quale esponesse i fondamenti della religione cattolica colla massima brevità e chiarezza. Questo fu il Giovane Provveduto.
La stessa cosa mi era necessaria per l'insegnamento dell'aritmetica e del sistema metrico. E’ vero che l'uso del sistema metrico non era obbligatorio fino al 1850; ma cominciò ad introdursi nelle scuole nel 1846. Sebbene introdotto legalmente nelle scuole, mancavano affatto i libri di testo. A ciò ho provveduto col libretto intitolato: ll sistema metrico decimale ridotto a semplicità, etc.
4° Malattia - Guarigione - Dimora progettata per Valdocco▲
I molti impegni che io aveva nelle carceri, nell'Opera Cottolengo, nel Rifugio, nell'Oratorio e nelle scuole facevano si, che dovessi occuparmi di notte per compilare i libretti che mi erano assolutamente necessari. Per la qual cosa la mia sanità, già per se stessa assai cagionevole, deteriorò al punto che i medici mi consigliarono a desistere da ogni occupazione. Il Teologo Borrelli, che assai mi amava, per mio bene mi mandò a passare qualche tempo presso al curato di Sassi. Riposava lungo la settimana; la domenica mi recava a lavorare all'Oratorio. Ma ciò non bastava. I giovanetti a turbe venivano a visitarmi; a costoro si aggiunsero quelli del paese. Sicché era disturbato più che a Torino, mentre io stesso cagionava immenso disturbo ai miei piccoli amici.
Non solamente quelli che frequentavano l'Oratorio correvano, si può dire ogni giorno, a Sassi, ma gli stessi allievi dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Tra i molti avvenne questo episodio. Si dettarono gli esercizi spirituali agli alunni delle scuole di S. Barbara amministrate eziandio dai medesimi religiosi. Essendo soliti in gran numero confessarsi da me, sul terminare degli esercizi vennero in corpo a cercarmi all'Oratorio; ma non avendomi trovato colà partirono alla volta di Sassi, distante quattro chilometri da Torino. Era tempo piovoso; eglino inesperti della via andavano vagando ne' prati, ne' campi e nelle vigne in cerca di D. Bosco. Ci giunsero finalmente in numero di circa quattrocento, tutti sfiniti dal cammino e dalla fame, molli di sudore, coperti di zacchere anzi di fango, e chiedenti di potersi confessare. Noi, dicevano, abbiamo fatto gli esercizi, vogliamo farci buoni, vogliamo tutti fare la nostra confessione generale, e col permesso dei nostri Maestri siamo qua venuti.
Fu detto loro che ritornassero tosto al collegio per togliere dalla ansietà i loro Maestri ed i loro parenti, ma essi rispondevano con asseveranza che volevano confessarsi. Fra il Maestro comunale, Curato, Vicecurato e me si confesso quanto si pote; ma ci volevano almeno una quindicina di confessori.
Ma come ristorare o meglio acquetare l’appetito a quella moltitudine? Quel buon curato, e l'attuale T. Abbondioli, diede a quei viaggiatori ogni suo commestibile, pane, polenta, fagiuoli, riso, patate, cacio, frutta, ogni cosa fu acconciata e loro somministrata.
Quale non fu poi lo sconcerto, quando i predicatori, i maestri, alcuni personaggi invitati intervennero per la chiusa degli esercizi, per la messa, comunione generale e non trovarono un allievo in collegio? Fu un vero disordine; e si diedero efficaci provvedimenti a che non venissero più rinnovati.
Venuto a casa, fui preso da sfinimento, portato a letto. La malattia si manifestò con una bronchite, cui si aggiunse tosse ed infiammazione violenta assai. In otto giorni fui giudicato all’estremo della vita. Aveva ricevuto il SS. Viatico, l’Olio santo. Mi sembra che in quel momento fossi preparato a morire; mi rincresceva di abbandonare i miei giovanetti, ma era contento che terminava i miei giorni dopo aver dato una forma stabile all’Oratorio.
Sparsa la notizia che la mia malattia era grave, si manifestò generale e vivissimo rincrescimento da non potersi dire maggiore. Ad ogni momento schiere di giovanetti lagrimanti e bussando alla porta chiedevano del mio male. Più si davano notizie, più se ne dimandavano. Io udiva i dialogi che si facevano col domestico e ne era commosso. In appresso ho saputo quello che aveva fatto fare l'affezione de' miei giovani. Spontaneamente pregavano, digiunavano, ascoltavano messe, facevano comunioni. Si alternavano passando la notte in preghiera e la giornata avanti l’immagine di Maria Consolatrice. Al mattino si accendevano lumi speciali, e fino a tarda sera erano sempre in numero notabile a pregare e scongiurare l'augusta Madre di Dio a voler conservare il povero loro D. Bosco.
Parecchi fecero voto di recitare il Rosario intiero per un mese, altri per un anno, alcuni per tutta la vita. Né mancarono quelli che promisero di digiunare a pane ed acqua per mesi, anni ed anche tutta la vita. Mi consta che parecchi garzoni muratori digiunarono a pane ed acqua delle intere settimane punto non rallentando da mattino a sera i pesanti loro lavori. Anzi, rimanendo qualche breve tratto di tempo libero andavano frettolosi a passarlo davanti al SS. Sacramento.
Dio li ascoltò! Era un sabato a sera e si credeva quella notte essere l’ultima di mia vita; così dicevano i medici, che vennero a consulto; così ne era io persuaso, scorgendomi affatto privo di forze con perdite continue di sangue. A tarda notte mi sentii tendenza a dormire. Presi sonno, mi svegliai fuori di pericolo. Il dottor Botta e il dottor Caffasso al mattino nel visitarmi dissero che andassi a ringraziare la Madonna della Consolata per la grazia ricevuta.
I miei giovani non potevano credere se non mi vedevano, e mi videro di fatto poco dopo col mio bastoncino a recarmi all'Oratorio con quelle commozioni che ognuno può immaginare ma non descrivere. Fu cantato un TeDeum. Mille acclamazioni, entusiasmo indescrivibile.
Fra le prime cose, una fu quella di cangiare in cose possibili i voti e le promesse che non pochi avevano fatto senza la dovuta riflessione quando io era in pericolo della vita.
Questa malattia avveniva sul principio di luglio 1846 quando appunto doveva lasciare il Rifugio e trasferirmi altrove.
Io sono andato a fare alcuni mesi di convalescenza in famiglia, a casa, a Murialdo. Avrei più a lungo protratta la mia dimora in quel luogo nativo, ma i giovanetti cominciarono a venire a schiere a farmi visita a segno che non era più possibile godere né riposo né tranquillità. Tutti mi consigliavano a passar almeno qualche anno fuori di Torino in luoghi sconosciuti per tentar l’acquisto della primiera sanità. D. Caffasso e l’Arcivescovo erano di questo parere. Ma tal cosa tornandomi di troppo grave rincrescimento, mi fu acconsentito di venire all'Oratorio con obbligo che per due anni non avessi più preso parte ne alle confessioni ne alla predicazione. Ho disubbidito: Ritornando all’Oratorio, ho continuato a lavorare come prima e per 27 anni non ho più avuto bisogno né di medico, né di medicine. La qual cosa mi ha fatto credere che il lavoro non sia quello che rechi danno alla sanità corporale.
5° Stabile dimora all'Oratorio di Valdocco▲
Passati alcuni mesi in convalescenza in famiglia sembravami di poter fare ritorno a' miei amati figli, di cui parecchi ogni giorno venivano a vedermi o mi scrivevano eccitandomi a fare presto ritorno tra loro. Ma dove prendere alloggio, essendo stato congedato dal Rifugio? Con quali mezzi sostenere un’opera che diveniva ogni giorno più laboriosa e dispendiosa? Di che avrei potuto vivere io e le persone che meco erano indispensabili?
In quel tempo si resero vacanti due camere in casa Pinardi e queste si pigionarono per abitazione mia e di mia madre.
Madre, le dissi un giorno, io dovrei andar ad abitare in Valdocco, ma a motivo delle persone che occupano quella casa non posso prendere meco altra persona che voi. Ella capì la forza delle mie parole e soggiunse tosto: Se ti pare tal cosa piacere al Signore, io sono pronta a partire in sul momento. Mia madre faceva un grande sacrifizio; perciocché in famiglia, sebbene non fosse agiata, era tuttavia padrona di tutto, amata da tutti, ed era considerata come la regina dei piccoli e degli adulti.
Abbiamo fatto precedere alcune cose di maggiormente necessarie che con quelle già esistenti al Rifugio furono spedite alla novella abitazione. Mia madre empié un canestro di biancheria e di altri oggetti indispensabili; io presi il breviario, un messale con alcuni [libri] e quaderni più necessari. Era questa tutta la nostra fortuna. Partimmo a piedi dai Becchi alla volta di Torino. Facemmo breve fermata a Chieri e la sera del 3 Novembre 1846 giungemmo in Valdocco.
Al vederci in quelle camere sprovviste di tutto, mia madre scherzando disse: A casa aveva tanti pensieri per amministrare e comandare; qui sono assai più tranquilla perché non ho più né che maneggiare né a chi fare comandi.
Ma come vivere, che mangiare, come pagare i fitti e provvedere a molti fanciulli che ad ogni momento dimandavano pane, calzamenta, abiti o camicie, senza cui non potevano recarsi al lavoro? Avevamo fatto venire da casa un po' di vino, di meliga, fagiuoli, grano e simili. Per fare fronte alle prime spese aveva venduto qualche pezzo di campo ed una vigna. Mia madre avevasi fatto portare il corredo sposalizio, che fino allora aveva gelosamente conservato intero. Alcune sue vesti servirono a formare pianete, colla biancheria si fecero degli amitti, dei purificatori, rocchetti, camici e delle tovaglie. Ogni cosa passo per mano di madama Margherita Gastaldi, che fin d’allora prendeva parte ai bisogni dell’Oratorio.
La stessa mia madre aveva qualche anello, una piccola collana d'oro, che tosto vendette per comperare galloni e guarniture pei sacri paramentali. Una sera mia madre, che era sempre di buon umore, mi cantava ridendo:
Guai al mondo se ci sente.
Forestieri senza niente.
Sistemate in qualche modo le cose domestiche ho preso a pigione un’altra camera, che venne destinata a sacristia. Non potendosi aver locali per le scuole, qualche tempo dovetti farla in cucina od in mia camera[,] ma gli allievi, fior di monelli, o tutto guastavano o tutto mettevano sossopra.
Si cominciarono alcune classi in sacristia, in coro, e nelle altre parti della chiesa; ma le voci, il canto, l'andirivieni degli uni disturbavano quanto volevano fare gli altri. Alcuni mesi dopo si poterono avere due altre camere a pigione, e quindi organizzare meglio le nostre classi serali. Come fu detto sopra nell'inverno del 1846-7 (1) le nostre scuole ottennero ottimi risultati.
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(I) Si ritenga che le prime scuole serali attuate in Torino furono quelle che nel novembre del 1845 vennero aperte in casa Moretta. Non si potevano ricevere che 200 allievi in tre camere classi. Il buon risultato ottenuto ci mosse a riaprirle nell'anno seguente, appena si poté avere dimora stabile in Valdocco.
Fra quelli che aiutavano nelle scuole serali, e preparavano i giovani per la declamazione, pei dialoghi e teatrini, si devono ricordare il prof. Teologo Chiaves, D. Musso, e T. Giacinto Carpano.
In media avevano trecento allievi ogni sera. Oltre alla parte scientifica animava le nostre classi il canto fermo e la musica vocale, che tra noi furono in ogni tempo coltivati.
6° Regolamento per gli Oratorii - Compagnia e festa di S. Luigi - Visita di Monsignor Fransoni
Stabilita così regolare dimora in Valdocco mi sono messo con tutto l’animo a promuovere le cose che potevano contribuire a conservare l’'unità di spirito, di disciplina e di amministrazione. Per prima cosa ho compilato un Regolamento, in cui ho semplicemente esposto quanto si praticava nell'Oratorio, e il modo uniforme con cui le cose dovevano essere fatte. Questo essendo stampato a parte ognuno può leggerlo a piacimento. Il vantaggio di questo piccolo Regolamento fu assai notabile: ognuno sapeva quello che aveva da fare, e siccome io soleva lasciare ciascuno risponsale del suo uffizio, così ognuno si dava sollecitudine per conoscere e compiere la parte sua. Molti Vescovi e paroci ne fecero dimanda e si studiarono e si adoperarono per introdurre l'opera degli Oratorii nei paesi e nelle città delle rispettive diocesi.
Stabilite le basi organiche per la disciplina e l'amministrazione dell’Oratorio era mestieri dare eccitamento alla pietà con qualche pratica stabile e uniforme. Ciò fu fatto coll'istituzione della Compagnia di S. Luigi. Compiùte le Regole nel limite che mi sembravano più adatte per la gioventù, le presentai all’Arcivescovo, che ne fece lettura, di poi le diede ad altri, che ne facessero studio e riferissero. In fine le lodò, le approvò concedendo particolari indulgenze in data 12 Aprile 1847. Queste Regole si possono leggere a parte.
Grande entusiasmo cagionò tra i nostri giovanetti la Compagnia di S. Luigi, tutti ci si volevano ascrivere. A ciò conseguire erano necessarie due condizioni: Buon esempio in chiesa e fuori di chiesa; evitare i cattivi discorsi e frequentare i santi sacramenti. Quindi si vide un notabilissimo miglioramento nella moralità.
Per animare poi tutti i giovani a celebrare le sei domeniche di S. Luigi fu comperata una statua del Santo, fu fatto fare un Gonfalone, e si dava ai giovani la comodita di venirsi a confessare a qualunque ora del giorno[,] della sera o della notte. Siccome poi quasi nissuno di loro aveva ricevuta la cresima, così ne furono preparati per la festa di S. Luigi. Concorso immenso! Coll'aiuto però di varii ecclesiastici e signori Laici si poterono preparare, e pel giorno della festa del Santo tutto era in ordine (1). Era la prima [volta]
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(I) Tra quelli che si ascrissero con piacere alla Compagnia di S. Luigi sono da notarsi l’Ab. Antonio Rosmini, il Can.co Arcip. Pietro De Gaudenzi ora Vescovo di Vigevano, Camillo e Gustavo Cavour, il Card. Antonucci Arciv. di Ancona, S. S. Pio IX, il Card. Antonelli e molti altri
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che facevansi tali funzioni nell'Oratorio, ed era eziandio la prima volta che l’Arcivescovo ci veniva a far visita.
Avanti la piccola chiesuola fu fatta una specie di padiglione sotto cui venne ricevuto l'Arcivescovo. Ho letto qualche cosa di opportunità; poi alcuni giovani rappresentarono una breve commedia intitolata: Un Caporale di Napoleone. Non era altro che un caporale in caricatura che per esprimere le sue maraviglie in quella solennità diceva mille facezie. Ciò fu causa di molto riso e di amena ricreazione per quel prelato, che ebbe a dire di non aver mai riso tanto in vita sua. Egli si compiacque di rispondere a tutti, esprimendo la sua grande consolazione per quella istituzione; lodò ed incoraggiò a perseverare, e ringraziò della cordiale accoglienza che gli avevamo fatto.
Celebrò la santa messa in cui diede la santa comunione ad oltre trecento giovanetti, di poi amministro la santa cresima.
Fu in quella occasione, che l'Arcivescovo nell’atto che se gli pose la mitra sul capo, non riflettendo che non era in Duomo, alzo in fretta il capo e con quella urtò nel soffitto della chiesa. La qual cosa eccito ilarita in lui e in tutti gli astanti. Assai spesso l’Arcivescovo soleva con piacere ripetere quell'episodio, ricordando così le nostre adunanze, che l'Abate Rosmini ebbe a paragonarle con quelle che si fanno nei paesi e nelle chiese delle missioni straniere.
E’ bene di notare che per le sacre funzioni vennero due canonici della metropolitana ad assistere l'Arcivescovo con molti altri ecclesiastici. Finita la funzione si fece una specie di verbale in cui si notava chi aveva amministrato quel sacramento, nome e cognome del padrino colla data del luogo e del giorno, quindi si raccolsero i biglietti, che ripartiti secondo le varie parocchie vennero portati alla Curia ecclesiastica perché li trasmettesse al rispettivo paroco.
7° Primordii dell'ospizio - Prima accettazione di giovanetti▲
Mentre si organizzavano i mezzi per agevolare l'istruzione religiosa e letteraria apparve altro bisogno assai grande cui era urgente un provvedimento. Molti giovanetti Torinesi e forestieri pieni di buon volere di darsi ad una vita morale e laboriosa; ma invitati a cominciarla solevano rispondere, non avere né pane[,] né vestito, né alloggio ove ricoverarsi almeno per qualche tempo. Per alloggiarne almeno alcuni, che la sera non sapevano più dove ricoverarsi, avevasi preparato un fienile, dove si poteva passare la notte sopra un po' di paglia. Ma gli uni ripetutamente portarono via le lenzuola, altri le coperte, e infine la stessa paglia fu involata e venduta.
Ora avvenne che una piovosa sera di maggio sul tardi si presentò un giovanetto sui quindici anni tutto inzuppato dall'acqua. Egli dimandava pane e ricovero. Mia madre l’accolse in cucina, l’avvicinò al fuoco e mentre si riscaldava e si asciugava gli abiti, diedegli minestra e pane da ristorarsi.
Nello stesso tempo lo interrogai se era andato a scuola, se aveva parenti, e che mestiere esercitava. Egli mi rispose: Io sono un povero orfano, venuto da Valle di Sesia per cercarmi lavoro. Aveva meco tre franchi, i quali ho tutti consumati prima di poterne altri guadagnare e adesso ho più niente e sono più di nissuno.
— Sei già promosso alla s. comunione?
— Non sono ancora promosso.
— E la cresima?
— Non l'ho ancora ricevuta.
— E a confessarti?
— Ci sono andato qualche volta.
— Adesso dove vuoi andare?
— Non so, dimando per carità di poter passare la notte in qualche angolo di questa casa.
Ciò detto si mise a piangere; mia madre piangeva con lui, io era commosso.
— Se sapessi che tu non sei un ladro, cercherei di aggiustarti, ma altri mi portarono via una parte delle coperte e tu mi porterai via l'altra.
— Non signore. Stia tranquillo; io sono povero, ma non ho mai rubato niente.
— Se vuoi, ripiglio mia Madre, io l'accomodero per questa notte, e dimani Dio provvederà.
— Dove?—Qui in cucina.—Vi portera via fin le pentole.
— Provvederò a che ciò non succeda.
— Fate pure.
La buona donna aiutata dall'orfanello uscì fuori[,] raccolse alcuni pezzi di mattoni, e con essi fece in cucina quattro pilastrini, sopra cui adagiò alcuni assi, e vi soprapose un saccone, preparando così il primo letto dell'Oratorio. La buona mia Madre fecegli di poi un sermoncino sulla necessità del lavoro, della fedeltà e della religione. Infine lo invitò a recitare le preghiere. Non le so, rispose. Le reciterai con noi, gli disse; e così fu.
Affinché poi ogni cosa fosse assicurata, venne chiusa a chiave la cucina né più si aprì fino al mattino.
Questo fu il primo giovane del nostro Ospizio. A questo se ne aggiunse tosto un altro, e poi altri, però per mancanza di sito in quell'anno abbiamo dovuto limitarci a due. Correva l'anno 1847.
Accorgendomi che per molti fanciulli tornerebbe inutile ogni fatica se loro non si da ricovero, mi sono dato premura di prendere altre e poi altre camere a pigione sebbene a prezzo esorbitante. Così oltre all'Ospizio si poté pure iniziare la scuola di canto fermo e di musica vocale. Essendo la prima volta (1845) che avevano luogo pubbliche scuole di musica, la prima volta che la musica era insegnata in classe a molti allievi contemporaneamente, vi fu un concorso stragrande.
I famosi Maestri Rossi Luigi, Blanchi Giuseppe, Cerutti, Can.co Luigi Nasi, venivano ansiosi ad assistere ogni sera le mie lezioni. Ciò era contradditorio al Vangelo, che dice non essere l'allievo sopra il maestro, mentre io che non sapeva un milionesimo di quanto sapevano quelle celebrità, la faceva da Dottore in mezzo di loro. Essi per altro venivano per osservare come era eseguito il nuovo metodo, che è quello stesso che oggidì è praticato nelle nostre case. Nei tempi passati ogni allievo che avesse desiderato imparare musica, doveva cercarsi un maestro che gli desse lezione separata.
SULL’ORATORIO DI S. FRANCESCO DI SALES
DAL 1846 AL 1855
8° Oratorio di S. Luigi - Casa Moretta - Terreno del Seminario ▲
Quanto più era grande la sollecitudine a promuovere l’istruzione scolastica, tanto più cresceva il numero degli allievi. Ne' giorni festivi una parte appena poteva raccogliersi nella chiesa per le funzioni e nel cortile per la ricreazione. Allora sempre d'accordo col T. Borrelli[,] a fine di provvedere a quel crescente bisogno venne aperto un novello Oratorio in altro quartiere della città. A tale uopo venne presa a pigione una piccola casa a Porta Nuova sul viale del Re comunemente detto Viale dei Platani dalle piante che lo fiancheggiano.
Per avere quella casa si dovette sostenere una battaglia assai accanita cogli abitanti. Era occupata da parecchie lavandaie, le quali credevano dover succedere la fine del mondo qualora avessero dovuto abbandonare l'antica loro dimora. Ma prese alle buone e mediante qualche indennità si poterono comporre le cose senza che le parti belligeranti venissero alle ostilità.
Di quel sito e del giardino per la ricreazione era proprietaria la Sig. Vaglienti, che di poi lasciò erede il Cav. Gius. Turvano. La pigione era di f. 450: L'Oratorio fu detto di S. Luigi Gonzaga, titolo che gli fu finora conservato (1).
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(I) L'attuale chiesa di S. Giovanni Evangelista, cuopre il sito dove giaceva la chiesa, sacristia, e piccola casa del portinaio dell'Oratorio di S. Luigi.
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L'inaugurazione fu fatta da me e dal T. Borrelli il giorno della Immacolata Concezione 1847. Vi fu straordinario concorso di giovanetti che così diradarono alquanto le file troppo compatte di quelli di Valdocco. La direzione di quell'Oratorio fu affidata al T. Giacinto Carpano, che vi lavorò alcuni anni totalmente gratis. Lo stesso Regolamento compilato per l'istituto di Valdocco fu applicato a quello di S. Luigi senza che fosse introdotta veruna modificazione.
In questo anno medesimo nel desiderio di dare ricetto ad una moltitudine di fanciulli che dimandavano ricovero si comperò tutta la casa Moretta. Ma essendoci messi all'opera per adattarla al nostro bisogno si trovò che le mura non reggevano. Perciò si giudicò meglio di rivenderla, tanto più che ci era offerto prezzo assai vantaggioso.
Allora facemmo acquisto di una giornata di terreno (38 are) dal seminario di Torino, ed è quel sito, dove di poi fu fabbricata la chiesa di Maria Ausiliatrice e l’edifizio dove al presente esistono i laboratorii dei nostri artigiani.
9° 1848 - Aumento degli artigiani e loro maniera di vita - Sermoncino della sera - Concessioni dell'Arcivescovo - Esercizi spirituali▲
In quest’anno gli affari politici e lo spirito pubblico presentarono un dramma, il cui scioglimento non si può ancora prevedere.
Carlo Alberto aveva concessa la Costituzione. Molti si pensavano che colla Costituzione si fosse eziandio concessa la liberta di fare bene o male a capriccio. Appoggiavano questa asserzione sopra la emancipazione degli ebrei e dei protestanti, cui mercè si pretendeva di non esservi più distinzione tra cattolici e le altre credenze (1). Ciò era vero in politica, ma non in fatto di religione (2).
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(1) Il 20 dicembre del 1847 Carlo Alberto riceveva una petizione di 600 rinomati cattolici, dietro cui era firmata la famosa emancipazione di cui qui si parla.
(2) Nel dicembre 1847 fu presentata al Re Carlo Alberto una Supplica firmata da 600 illustri cittadini, in gran numero ecclesiastici, che dimandavano quella famosa emancipazione. Si esponevano le ragioni, ma non si badavano alle espressioni ereticali che entro quella supplica si incontrano in fatto di religione. Dopo quell’epoca gli ebrei uscirono dal ghetto e divennero primari possidenti. I protestanti poi sciolsero il freno alla loro audacia, e sebbene sia scarso tra noi il loro numero, tuttavia appoggiati dall'autorità civile, ne ritornòo gran danno alla religione ed alla moralità.
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Intanto una specie di frenesia invade le menti degli stessi giovanetti, che assembrandosi in varii punti della città, nelle vie e nelle piazze, giudicavano ben fatto ogni sfregio contro al prete o contro alla religione. Io fui più volte assalito in casa e per istrada. Un giorno mentre faceva il catechismo una palla di archibugio entrò per una finestra, mi forò la veste tra il braccio e le coste, e andò a fare largo-guasto nel muro. Altra volta un cotale, assai conosciuto, mentre io era in mezzo ad una moltitudine di fanciulli, di pieno giorno, mi assalì con lungo coltello alla mano. E fu per miracolo se correndo a precipizio potei ritirarmi e salvarmi in mia camera. Il T. Borrelli poté pure scampare come per prodigio di una pistolettata, e dai colpi di coltello in un momento che fu scambiato per un altro. Era perciò difficile assai domare tale sfrenata gioventù. In quel pervertimento di idee e di pensieri, appena si poterono avere altre camere, si aumentò il numero degli artigiani, che si portò fino a quindici, tutti dei più abbandonati e pericolanti. 1847.
Eravi però una grande difficoltà: Non avendosi ancora i laboratorii nell'istituto, i nostri allievi andavano a lavorare e a scuola in Torino, con grande scapito della moralità perciocché i compagni che incontravano[,] i discorsi che udivano, e quello che vedevano, facevano tornare frustraneo quanto loro si faceva e si diceva nell'Oratorio.
Fu allora che ho cominciato a fare un brevissimo sermoncino alla sera dopo le orazioni collo scopo di esporre o confermare qualche verità che per avventura fosse stata contraddetta nel corso della giornata. Ciò che succedeva degli artigiani era ugualmente a lamentarsi degli studenti. Perciocché per le varie classi in cui erano divisi, i più avanzati negli studi dovevansi inviare (i grammatici) presso al Prof. Gius. Bonzanino; i Retorici al Prof. D. Picco Matteo. Erano scuole ottime, ma per l’andata e pel ritorno erano piene di pericoli. L’anno 1856 con gran vantaggio furono definitivamente stabilite le scuole ed i laboratorii nella casa dell’Oratorio.
In quel momento apparve tale un pervertimento di idee e di azioni, che io non poteva più fidarmi di gente di servizio; quindi ogni lavoro domestico era fatto da me e mia madre. Fare la cucina, preparare la tavola, scopare, spaccar legna, tagliare e fare mutande, camicie, calzoni, giubbetti, asciugamani, lenzuola, e farne le relative riparazioni; erano cose di mia spettanza. Ma queste cose tornavano assai vantaggiose moralmente, perché io poteva comodamente indirizzare ai giovani un consiglio od una parola amica, mentre loro somministrava pane, minestra od altro.
Scorgendo poi la necessità di avere qualcheduno che mi venisse in aiuto nelle cose domestiche e scolastiche nell'Oratorio, cominciai a condurne meco alcuni in campagna, altri a villeggiare a Castelnuovo mia patria, taluni meco a pranzo, altri alla sera venivano per leggere o scrivere alcun che, ma sempre collo scopo di opporre un antidoto alle velenose opinioni del giorno. Ciò fu fatto con maggiore o minore frequenza dal 1841 al 1848. Io adoperava tutti i mezzi per conseguire eziandio uno scopo mio particolare, che era studiare, conoscere, scegliere alcuni individui che avessero attitudine e propensione alla vita comune e riceverli meco in casa.
Con questo medesimo fine in questo anno (1848) ho fatto esperimento di una piccola muta di esercizi spirituali. Ne raccolsi una cinquantina entro la casa dell'Oratorio; mangiavano tutti meco; ma non essendoci letti per tutti una parte andava a dormire presso la propria famiglia per fare ritorno il mattino seguente. L'andare e venire a casa loro mattino e sera rischiava quasi tutto il profitto che si raccoglieva dalle prediche e dalle altre istruzioni che sogliono avere luogo in quella occasione. Cominciavano la domenica a sera e terminavano il sabato a sera. Ciò riusci assai bene. Molti, intorno a cui erasi lavorato lungo tempo inutilmente, si diedero davvero ad una vita virtuosa. Parecchi si fecero religiosi, altri rimasero nel secolo, ma divennero modelli nella frequenza agli Oratorii (1). Di questa materia si parlerà a parte nella
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(I) Arnaud Giacinto, Sansoldi, ambidue defunti; Buzzetti Giuseppe, Galesio Nicola; Costantino Gioanni, defunto; Cerutti Giacomo, defunto; Gastini Carlo, Gravano Gio.;Borgialli Domenico, defunto, sono annoverati fra quelli che fecero i primi esercizii in quell'anno e che si mostrarono sempre buoni cristiani.
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storia della Società salesiana.
In quest’anno pure alcuni paroci, specialmente quello di Borgodora, del Carmine e di S. Agostino, mossero nuovi lamenti presso all’Arcivescovo perché si amministravano i sacramenti negli Oratorii. In quell'occasione l’Arcivescovo emanò un decreto con cui dava ampia facoltà di preparare e presentare i fanciulli a ricevere la cresima, la santa comunione e a soddisfare il precetto pasquale a quelli che avessero frequentati i nostri Oratorii. Rinnovava la facoltà di fare ogni funzione religiosa che siasi solita a fare nelle parochie. Queste chiese, diceva l’Arcivescovo, per tali fanciulli forestieri ed abbandonati saranno come chiese parochiali pel tempo che dimoreranno in Torino.
10° Progresso della musica - Processione alla Consolata - Premio dal Municipio e dall'Opera di Mendicità - Il giovedì santo - Il Lavabo▲
I pericoli, cui i giovanetti erano esposti in fatto di religione e di moralità, richiedevano maggiori sforzi per tutelarli. Alla scuola serale ed anche diurna, alla musica vocale si giudico bene di aggiugnere la scuola di piano e di organo e la stessa musica istrumentale. Quindi io mi sono trovato maestro di musica vocale ed istrumentale, di piano e di organo senza esserne mai stato vero allievo. Il buon volere suppliva a tutto. Preparate alcune voci bianche più belle, si cominciarono a fare funzioni all'Oratorio, di poi per Torino, a Rivoli, a Moncalieri, Chieri e in altri siti. Il canonico Luigi Nasi, D. Michelangelo Chiatellino si prestavano assai di buon grado ad esercitare i nostri musici ed accompagnarli, e dirigerli nelle pubbliche funzioni in varii paesi, perciocché non essendosi fino allora uditi cori di voci argentine sulle orchestre, gli a soli, i duetti, i ripieni, faceva tale novità che da tutte parti si parlava della nostra musica e si andava a gara per avere i nostri cantori. Il can.co Luigi Nasi, D. Chiatellino Michelangelo per lo più erano i due accompagnatori della nostra nascente società filarmonica.
Eravamo soliti andare ogni anno a fare una religiosa funzione alla Consolata, ma in quest'anno vi si andò processionalmente dall’Oratorio. Il canto per la via, la musica in chiesa trassero innumerabile folla di gente. Si celebrò la messa, si fece la s. comunione, quindi ho fatto un sermoncino di opportunità nella cappella sotterranea, e infine gli Oblati di Maria ci improvvisarono una stupenda colazione nei claustri del Santuario. In questa guisa si andava vincendo il rispetto umano, si raccoglievano giovanetti e si avevano opportunita di insinuare colla massima prudenza lo spirito di moralità, di rispetto alle autorità, e la frequenza dei santi sacramenti. Ma tali novità facevano gran romore.
In questo anno pure il Municipio di Torino mandò altra deputazione composta del Cav. Pietro Ropolo del Capello detto Moncalvo, e comm. Duprè a verificare quanto la voce pubblica vagamente riferiva. Ne furono assai soddisfatti; e fattane la dovuta relazione, venne decretato un premio di f. 1000 con lettera assai lusinghiera. Da quell’anno il Municipio stanzio un sussidio annuo che fu ogni anno pagato fino al 1878. In quest’anno furono tolti i 300 f. che gli assennati Reggitori di Torino bilanciarono per provvedere i lumi per la scuola serale a benefizio dei figli del popolo.
L’opera della Mendicità, che col nostro metodo aveva pur introdotte le scuole serali e musicali, in capo al Cav. Gonella mandò eziandio una deputazione per farci una visita. In segno di gradimento ci diedero altro premio di mille franchi.
Noi eravamo soliti di andare insieme ogni anno a fare le visite ai sacri sepolcri del giovedì santo; ma in seguito ad alcune burle che vogliamo dire anche disprezzi, non pochi non osavano più associarsi cogli altri loro compagni. Egli fu per incoraggiare ognor più i nostri giovani a disprezzare il rispetto umano che in quell'anno si andò per la prima volta processionalmente a fare quelle visite cantando in musica lo Stabat Mater ed il Miserere. Allora furono veduti giovanetti di ogni età e condizione, lungo la processione andare a gara per unirsi alle nostre file. Ogni cosa procedette con ordine e tranquillità.
Alla sera fu per la prima volta fatta la funzione del Lavabo. A questo scopo si scelsero dodici giovanetti, che soglionsi appellare i dodici apostoli. Dopo la lavanda secondo il rituale, si tenne morale discorso al pubblico. Quindi i dodici apostoli vennero tutti insieme ammessi ad una frugale cena con un piccolo regalo che ciascuno con somma gioia portò a casa sua.
Parimenti in quell'anno fu eretta regolarmente la via Crucis, e se ne benedissero le stazioni con grande solennità. Ad ogni stazione si teneva breve sermoncino, cui teneva dietro analogo mottetto cantato in musica.
Così andavasi consolidando l’umile nostro Oratorio, mentre si compievano gravi avvenimenti che dovevano mutare l'aspetto alla politica d'Italia e forse del mondo.
11° Il 1849 - Chiusura dei seminari - Casa Pinardi - Obolo di S. Pietro; coroncine di Pio IX- Oratorio dell'Angelo Custode - Visita dei Deputati▲
Quest’anno è assai memorando. La guerra del Piemonte contro l'Austria cominciata l'anno antecedente aveva scosso tutta l’Italia. Le pubbliche scuole rimasero sospese, i seminarii, specialmente quello di Chieri e di Torino furono chiusi ed occupati dai militari; e per conseguenza i cherici della nostra diocesi rimasero senza maestri e senza luogo, dove raccogliersi. Fu allora che per avere almeno la consolazione di aver fatto quanto si poteva e per mitigare le pubbliche calamità, si prese a pigione tutta la casa Pinardi. Strillarono gli inquilini, minacciarono me, mia madre, lo stesso proprietario, si dovette fare grande sacrifizio di danaro; tuttavia si ottenne che quell’edifizio fosse tutto messo a nostra disposizione. Così quel nido di iniquità che da vent'anni era a servizio di Satana rimase in nostro potere. Abbracciava tutto il sito, che forma l'attuale cortile tra la chiesa di Maria Ausilitrice e la casa dietro stante.
In questa guisa potemmo aumentare le nostre classi, ingrandire la chiesa e lo spazio per la ricreazione fu raddoppiato, e il numero dei giovani tu portato a trenta. Ma lo scopo principale era di poter accogliere, come di fatto si accolsero, i cherici della diocesi; e si può dire che la casa dell'Oratorio per quasi 20 anni divenne il Seminario diocesano.
Sul finire del 1848 gli avvenimenti politici costrinsero il S. Padre Pio IX a fuggire da Roma e ricoverarsi a Gaeta. Questo grande Pontefice ci aveva già molte volte usata benevolenza. Essendosi sparsa la voce come egli trovavasi nelle strettezze pecuniarie, si apri in Torino una questua sotto il nome di obolo di S. Pietro. Una commissione composta del T. Can.co Francesco Valinotti e del Marchese Gustavo Cavour venne all'Oratorio. La nostra questua monto a f. 35. Era poca cosa, che noi procurammo di rendere in qualche modo gradevole al S. Padre con un indirizzo che gli pi acque assai. Palesò il suo gradimento con una lettera diretta al Card. Antonucci, allora Nunzio a Torino, ed ora Arcivescovo di Ancona, incaricò di esprimerci quanto gli fosse consolante la nostra offerta, ma assai più i pensieri che l'accompagnavano. In fine colla sua Apostolica Benedizione inviava un pacco di 60 dozzine di coroncine, che furono solennemente distribuite il 20 luglio di quell’anno. V. libretto stampato in quell'occasione e diversi giornali. Lettera del Card. Antonucci, allora Nunzio a Torino.
A motivo del crescente numero dei giovanetti esterni, che intervenivano agli Oratorii, si dovette pensare ad altro locale, e questo fu l'Oratorio del Santo Angelo Custode in Vanchiglia, poco distante dal sito dove per opera specialmente della Marchesa Barolo sorse di poi la chiesa di S. Giulia.
Il Sac. Gio. Cocchis aveva da più anni fondato quell'Oratorio con uno scopo alquanto analogo al nostro. Ma acceso di amor di patria giudicò bene di ammaestrare i suoi allievi a maneggiar fucile e spada per mettersi alla loro testa e marciare, come fece di fatto, contro agli Austriaci.
Quell'Oratorio rimase chiuso un anno. Dopo l'abbiamo affittato noi, e ne fu affidata la direzione al T. Gioanni Vola, di buona memoria. Questo Oratorio si tenne aperto fino all'anno 1871 quando venne trasferito presso alla chiesa parochiale. La Marchesa Barolo lasciò un legato per questo bisogno colla condizione che il locale e la cappella fossero destinati ai giovani annessi alla parochia come tuttora si pratica.
Una solenne visita fu fatta in quel tempo all'Oratorio da una commissione di Deputati con altri incaricati dal Ministero dell'interno, che vennero ad onorarci di loro presenza. Visitarono tutti e tutto in senso amichevole, di poi fecero una lunga relazione alla Camera dei Deputati. Ciò diede motivo a lunga e viva discussione che si può vedere nella Gazzetta Piemontese del 29 marzo 1849. La Camera dei Deputati fece una largizione di fr. 300 ai nostri giovani; Urbano Ratazzi allora Ministro dell’interno decretò la somma di fr. 2000. Si consultino i documenti.
Fra i miei allievi finalmente potei averne uno che vestì l'abito chericale, Savio Ascanio, attuale Rettore del Rifugio, fu il primo cherico dell'Oratorio, e ne era vestito sul finire di ottobre di quell’anno.
Un fatto strano venne in que' giorni a cagionare non leggero disturbo alle nostre radunanze. Si voleva che l’umile nostro Oratorio prendesse parte alle pubbliche dimostrazioni che si andavano ripetendo nelle città e nei paesi sotto al nome di Feste Nazionali. Chi ci prendeva parte e voleva pubblicamente mostrarsi amante della nazione si ispartiva i capelli sulla fronte e li lasciava cadere inanellati di dietro, con farsetto attillato e a vari colori, con Bandiera nazionale, con medaglia ed azzurra coccarda sul petto. Così abbigliati andavasi in processione cantando inni all'unità nazionale.
Il Marchese Roberto d'Azeglio, promotore principale di tali dimostrazioni ci fece formale invito, e, malgrado il mio rifiuto, provvide quanto ci occorreva perché potessimo cogli altri fare onorevole comparsa. Un posto ci stava preparato in piazza Vittorio accanto a tutti gli istituti di qualsiasi nome, scopo e condizione. Che fare? Rifiutarmi era un dichiararmi nemico dell'Italia; accondiscendere, valeva l’accettazione di principii che io giudicava di funeste conseguenze.
— Sig. Marchese, risposi al prelodato d’Azeglio, questa mia famiglia, i giovani che dalla città qui si raccolgono, non sono ente morale; io mi farei burlare, se pretendessi di fare mia una istituzione, che e tutta della carità cittadina.
— Appunto così. Sappia la carità cittadina, che tale opera nascente non e contraria alle moderne istituzioni; ciò vi fara del bene; aumenteranno le offerte, il Municipio, io stesso largheggeremo in vostro favore.
— Sig. Marchese, è mio fermo sistema tenermi estraneo ad ogni cosa che si riferisca alla politica. Non mai pro, non mai contro.
— Che cosa dunque volete fare?
— Fare quel po' di bene che posso ai giovanetti abbandonati adoperandomi con tutte le forze affinché diventino buoni cristiani in faccia alla religione, onesti cittadini in mezzo alla civile società.
— Capisco tutto: ma voi vi sbagliate, e se persistete su questo principio voi sarete abbandonato da tutti, e l’opera vostra diventa impossibile. Bisogna studiar il mondo, conoscerlo e portare le antiche e le moderne istituzioni all'altezza dei tempi.
— Vi ringrazio del vostro buon volere e dei consigli che mi date. Invitatemi a qualunque cosa, dove il prete eserciti la carità, e voi mi vedrete pronto a sacrificare vita e sostanze, ma io voglio essere ora e sempre estraneo alla politica.
Quel rinomato patrizio mi lasciò con soddisfazione, e d'allora in poi non ebbesi più relazione di sorta tra noi. Dopo di lui parecchi altri laici ed ecclesiastici mi abbandonarono. Anzi rimasi come solo dopo il fatto che sono per raccontare.
Capo 13° Un fatto particolare▲
La domenica dopo la festa accennata alle due pomeridiane io era in ricreazione coi giovanetti mentre un cotale stava leggendo l'Armonia, quando i preti soliti venire ad aiutarmi nel sacro ministero si presentano in corpo con medaglia, coccarda, bandiera a tricolore, più con un giornale veramente immorale detto Opinione. Uno di loro, assai rispettabile per zelo e dottrina mi si fa davanti e rimirando che a mio fianco eravi chi tra mano aveva l'Armonia, — Vitupero, prese a dire, è tempo di finirla con questi rugiadosi. — Ciò dicendo strappo da l'altrui mano quel foglio, lo ridusse in mille pezzi, lo gitto per terra, e sputandoci sopra, lo pesto e calpesto cento volte. Dato questo primo sfogo di fervore politico, venne in mio cospetto, questo si che è buon giornale, disse avvicinandomi l'Opinione alla faccia, questo e non altro si deve leggere da tutti i veri e dagli onesti cittadini.
Rimasi sbalordito a quel modo di parlare e di agire e non volendo che si aumentassero gli scandali nel sito dove si doveva dar buon esempio; mi limitai di pregare lui e i suoi colleghi a parlare di quegli argomenti in privato e tra noi soltanto.
Non signore, ripiglio, non ci deve più essere ne privato ne segreto. Ogni cosa sia posta in chiara luce.
In quel momento il campanello chiamo tutti I in chiesa, e chiamava appunto uno di quegli ecclesiastici stato incaricato di fare un sermoncino morale ai poveri giovanetti. Ma quella volta fu veramente immorale. Libertà, emancipazione, indipendenza risuonarono in tutta la durata di quel discorso.
Io era in sacristia impaziente di poter parlare e porre un freno al disordine; ma il predicatore uscì tosto di chiesa e data appena la benedizione, invitò preti e giovani ad associarsi con lui, e intonando a tutta gola inni nazionali facendo freneticamente sventolare la bandiera, andarono difilato intorno a Monte dei Cappuccini. Colà fu fatta formale promessa di non più intervenire all'Oratorio se non invitati e ricevuti con tutte le forme nazionali.
Tutto questo succedevasi senza che io potessi in alcun modo esprimere né ragioni né pensieri. Ma io non paventava cosa alcuna che si opponesse a' miei doveri. Feci dire a quei preti che erano severamente proibiti di ritornare presso di me; i giovani poi dovessero uno per volta presentarsi a me prima di rientrare nell’Oratorio.
La cosa mi riusci bene. Niuno dei preti tento di ritornare; i giovanetti chiesero scusa asserendo essere stati ingannati, e promisero ubbidienza e disciplina.
14° Nuove difficoltà - Un conforto - L'Abate Rosmini e l'Arciprete Pietro De Gaudenzi ▲
Ma io rimasi solo. Ne' giorni festivi doveva di buon mattino comincia le confessioni, alle nove celebrare la messa, dopo fare la predica, quindi scuola di canto, di letteratura fino a mezzogiorno. All’una pomeridiana: ricreazione, di poi catechismo, vespri, istruzione, benedizione, indi ricreazione, canto e scuola fino a notte.
Nei giorni feriali, lungo il giorno doveva lavorare per li miei artigiani, fare scuola ginnasiale ad una decina di giovanetti; la sera scuola di francese, di aritmetica, di canto fermo, di musica vocale, di pianoforte e di organo erano tutte cose cui doveva attendere. No so come io abbia potuto reggere. Dio mi aiutò! Un grande conforto però ed un grande appoggio in quei momenti l'ebbi nel Teologo Borrelli. Quel maraviglioso sacerdote, sebbene oppresso da altre gravissime occupazioni di sacro ministero, studiava ogni briciolo di tempo per venirmi in aiuto. Non di rado esso rubava le ore del sonno per recarsi a confessare i giovani; negava il ristoro allo stanco corpo per venire a predicare. Questa critica posizione duro fino a tanto che potei avere qualche sollievo nel ch. Savio, Bellia, Vacchetta, di cui per altro ne rimasi presto privato; perciocché, secondando essi il suggerimento altrui, senza farmene parola fuggirono per entrare negli Oblati di Maria.
In uno di que' giorni festivi fui visitato da due sacerdoti, che io credo opportuno di nominare. Nel cominciare il catechismo era tutto in moto per ordinare le mie classi, allora che si presentano due ecclesiastici, i quali in contegno umile e rispettoso venivano a rallegrarsi con me e dimandavano ragguaglio sull’origine e sistema di quella istituzione. Per unica risposta dissi: — Abbiano la bonta di aiutarmi. Ella venga in coro ed avrà i più grandicelli; a Lei, dissi all'altro di più alta statura, affido questa classe che e di più dissipati. — Essendomi accorto che facevano a maraviglia il catechismo, pregai uno a regalare un sermoncino ai nostri giovani, e l'altro a compartirci la benedizione col Venerabile. Ambidue accondiscesero graziosamente.
Il Sacerdote di minore statura era l'Abate Antonio Rosmini fondatore dell'Istituto della Carità; l’altro era il Can. Arciprete De Gaudenzi, ora Vescovo di Vigevano, che d'allora in poi l'uno e l'altro si mostrarono sempre benevoli[,] anzi benefattori della Casa.
Capo 15° Compra di casa Pinardi e di casa Bellezza - L'anno 1850▲
L'anno 1849 fu spinoso, sterile, sebbene abbia costato grandi fatiche ed enormi sacrifizi; ma ciò era una preparazione per l'anno 1850 che e meno burrascoso, e assai più fecondo di buoni risultati. Cominciamo dalla casa Pinardi. Coloro che erano stati sloggiati da questa casa non potevano darsi opace.
Non ripugna, si andava dicendo, che una casa di ricreazione e di sollievo cada nelle mani di un prete e di un prete intollerante?
Venne pertanto proposta al Pinardi una pigione quasi due volte maggiore alla nostra. Ma egli sentiva non leggero rimorso nel ricavare maggior lucro da mezzi iniqui, perciò mi aveva talvolta fatto proposta di vendere qualora io avessi voluto comperare. Ma le pretese di lui erano esorbitanti. Chiedeva ottanta mila franchi per un edifizio il cui valore doveva essere di un terzo. Iddio vuole far vedere che è padrone dei cuori, ed ecco come.
Un giorno festivo mentre il teologo Borrelli predicava, io stava sulla porta del cortile per impedire gli assembramenti e i disturbi, quando si presenta il Sig. Pinardi; alto la, disse, bisogna che D. Bosco compri la mia casa.
— Alto là[,] bisogna che il Sig. Pinardi me la dia pel suo prezzo, ed io la compro subito.
— Si che la do pel suo prezzo.
— Quanto?
— Al prezzo richiesto.
— Non posso fare offerte.—Offra.—Non posso.—Perché?
— Perché e prezzo esagerato. Non voglio offendere chi dimanda. —
Offra quel che vuole.
— Me la dà pel suo valore?—Parola d'onore, che la do. — Mi stringa la mano e faro l'offerta.—Di quanto?—La ho fatta stimare da un suo e mio amico, e mi assicuro che nello stato attuale deve patteggiarsi tra il 26 ed il 28 mila franchi; ed io, affinché sia cosa compiuta, le do 30.000 fr.
— Regalerà ancora uno spillo di fr. 500 a mia moglie?
— Farò questo regalo.
— Mi pagherà in contanti.
— Pagherò in contanti.
— Quando faremo lo strumento?
— Quando a Lei piace.
— Dimani a quindici giorni, ma con un pagamento solo.
— Tutto inteso come desidera.
— Cento mila franchi di multa a chi desse indietro.
— Così sia. —
Quell'affare fu trattato in cinque minuti; ma dove prendere tale somma in così breve tempo? Cominciò allora un bel tratto della divina Provvidenza. Quella stessa sera D. Caffasso, cosa insolita nei giorni festivi, mi viene a far visita, e mi dice che una pia persona, contessa Casazza-Riccardi, l’aveva incaricato di darmi dieci mila franchi da spendersi in quello che avrei giudicato della maggior gloria di Dio. Il giorno dopo giunge un religioso Rosminiano che veniva in Torino per mettere a frutto fr. 20.000, e me ne chiedeva consiglio. Proposi di prenderli a mutuo pel contratto Pinardi, e così fu messa insieme la somma ricercata. I tre mila franchi di spese accessorie furono aggiunti dal Cav. Cotta nella cui Banca venne stipulato il sospirato istrumento.
Assicurato così l'acquisto di quello edifizio si porto il pensiero sopra la così detta Giardiniera. Era questa una bettola, dove nei giorni festivi solevano radunarsi gli amatori del buon tempo. Organini, pifferi, clarinetti, chitarre, violini, bassi, contrabassi e canto di ogni genere succedevansi nel corso della giornata; anzi non di rado erano contemporaneamente tutti raccolti insieme pei loro concerti. Siccome quell'edifizio, casa Bellezza, era da un semplice muriccio diviso dal nostro cortile, così spesso avveniva che i cantici di nostra cappella restassero confusi o soffocati dagli schiamazzi del suono e delle bottiglie della Giardiniera. Di più era un continuo andirivieni da casa Pinardi alla Giardiniera. Ognuno può di leggieri immaginarsi con quale disturbo nostro e con quale pericolo pei nostri giovani.
Per liberarci da quella grave molestia ho tentato di farne acquisto, ma non mi è riuscito; cercai di prendere a pigione, cui la padrona acconsentiva; ma la padrona della bettola reclamava danni favolosi.
Allora feci proposta di rilevare tutta l'osteria, assumermi la pigione, e comperare tutto il suppellettile di camera, di tavole, di cantina, di cucina etc.; e pagando ogni cosa a ben caro prezzo, potei divenire arbitro del locale cui diedi immediatamente altra destinazione. In questa guisa veniva disperso il secondo semenzaio d'iniquità che accanto di casa Pinardi tuttora sussisteva in Valdocco.
Capo 16° Chiesa di S. Francesco di Sales▲
Liberati dalle vessazioni morali di casa Pinardi e della Giardiniera era mestieri pensare ad una chiesa più decorosa pel culto, è più adattata al crescente bisogno. L'antica, è vero, erasi alquanto ingrandita, e corrispondeva all'attuale sito del Refettorio dei Superiori, ma era incomoda per la capacità, e per la bassezza. Siccome per entrarvi bisognava discendere due scalini, così d'inverno e in tempo piovoso eravamo allagati, mentre di estate eravamo soffocati dal caldo e dal tanfo eccessivo. Pel che passavano pochi giorni festivi senza che qualche allievo venisse preso da sfinimento e portato fuori come asfissiato. Era dunque necessità che si desse mano ad un edifizio più proporzionato al numero dei giovanetti, più ventilato e salubre.
Il Cav. Blachier fece un disegno, la cui esecuzione doveva dare l'attuale chiesa di S. Francesco e l'edifizio che circonda il cortile posto a fianco della chiesa. Impresario era il Sig. Bocca Federico.
Scavate le fondamenta fu fatta la benedizione della pietra fondamentale il 20 luglio 1850. Il Cav. Giuseppe Cotta la poneva a suo posto; il can.co Moreno economo generale la benediceva; il celebre Padre Barrera, commosso alla vista della moltitudine di gente accorsa, montò sopra un rialzo di terra ed improvviso uno stupendo discorso di opportunità. Egli esordiva con queste testuali parole: "Signori, quella pietra che abbiamo testè benedetta e collocata a fondamento di questa chiesa ha due grandi significati. Significa il granello di senapa che crescerà in albero mistico, presso cui molti ragazzi verranno a rifugiarsi; significa che quest'opera basa sopra una pietra angolare, che è Cristo Gesù contro cui saranno vani gli sforzi che i nemici della fede faranno per abbatterla". Dimostrava quindi l'una e l'altra di queste premesse con grande soddisfazione degli uditori, che giudicavano come inspirato l’eloquente predicatore.
Ecco il verbale etc. Si trascriva il verbale di quella solennità.
Quelle rumorose solennità traevano giovanetti esterni da tutte parti, mentre ad ogni ora del giorno molti altri venivano chiedendo ricovero. Il loro numero in quell'anno passò i cinquanta, e si diè principio a qualche laboratorio in casa; perciocché ognor più funesta si esperimentava l'uscita dei giovanetti a lavorare in città.
Già il sacro e sospirato edifizio usciva fuori di terra, quando mi accorsi essere le finanze totalmente esauste. Aveva messo insieme 35 mila franchi colla vendita di alcuni stabili, ma questi scomparvero come ghiaccio al sole. L’Economato assegnò nove mila franchi, ma da versarsi ad opera quasi compiuta. Il Vescovo di Biella, Monsig. Pietro Losana, riflettendo che il novello edifizio, e tutta quella istituzione tornava a speciale vantaggio dei garzoni muratori biellesi, diramò una circolare a' suoi paroci invitandoli a concorrere col loro obolo. Si trascriva la circolare.
La questua frutto mille franchi. Ma queste erano gocce d’acqua sopra arsiccio terreno; onde fu ideata una lotteria di oggetti ossia di piccoli doni. Era la prima volta che ricorreva in questo modo alla pubblica beneficenza, e si ebbe accoglienza assai favorevole. Si raccolsero tre mila trecento doni. Il Sommo Pontefice, il Re, la Regina Madre, la Regina Consorte, e in generale tutta la corte sovrana si segnalo colle sue offerte. Lo spaccio dei biglietti (cent. 50 caduno) fu compiùto; e quando si fece la pubblica estrazione al Palazzo di Città vi fu chi andavane in cerca offrendo cinque franchi l'uno e non poteva più rinvenirne. Si può mettere il Programma e il Regolamento di quella Lotteria.
Molti di quelli, che vinsero qualche dono, il lasciarono con gran piacere a benefizio della chiesa. Dal che si ricavò altro provento. È vero che ci furono non piccole spese, tuttavia si ottenne netta la somma di fr. 26 mila.
Capo 17° Scoppio della polveriera - Fascio Gabriele -Benedizione della nuova Chiesa▲
Mentre gli oggetti erano in pubblica esposizione avvenne (26 aprile 1852) lo scoppio della polveriera sita accanto al Cenotafio di S. Pietro in Vincoli. L'urto che ne segui fu orribile e violento. Molti edifizi vicini e lontani vennero scossi e ne riportarono grave danno. Dei lavoranti 28 rimasero vittime, e sarebbero stato assai maggiore il danno se un certo sergente di nome Sacco, con grande pericolo della propria vita non avesse impedita la comunicazione del fuoco ad una maggior quantità di polvere, che avrebbe potuto rovinare l'intera città di Torino. La casa dell'Oratorio, che era di cattiva costruzione, ne soffrì assai; e i deputati ci mandarono l'offerta di f. 300 per aiutarne la riparazione.
Voglio a questo proposito raccontare un fatto che si riferisce ad un nostro giovanetto artigiano di nome Fascio Gabriele. L'anno antecedente egli cadde in malattia, che lo porto all’estremo di vita. Nell'eccesso del suo male andava ripetendo:
Guai a Torino, guai a Torino! I suoi compagni li dissero: — Perché? Perché è minacciata da un gran disastro.
— Quale? — E’ un orribile terremoto.
— Quando sarà? — Altro anno. Oh guai a Torino al 26 di aprile.
— Che cosa dobbiamo fare? Pregare S. Luigi che protegga l'Oratorio e quelli che vi abitano.
Fu allora che a richiesta di tutti i giovanetti della casa che aggiunse mattino e sera nelle comuni preghiere un Pater Ave e Gloria a questo Santo. Di fatto la nostra casa rimase poco danneggiata in paragone del pericolo, ed i ricoverati non ebbero a lamentare alcun danno personale.
Intanto i lavori della chiesa di S. Francesco di Sales progredivano con alacrita incredibile, e nello spazio di undici mesi fu condotta al suo termine.
Il 20 giugno 1852 fu consacrata al divin culto con una solennità tra noi piùttosto unica che rara. Un arco di altezza colossale erasi elevato all'entrata del cortile. Sopra di esso, in caratteri cubitali stava scritto: In caratteri dorati — scriveremo in tutti i lati — Viva eterno questo dì.
Da ogni parte echeggiavano questi versi posti in musica dal Maestro Blanchi Giuseppe, di grata memoria:
Prima il sole dall'occaso
Fia che torni al suo oriente,
Ogni fiume a sua sorgente
prima indietro tornerà,
Che da noi ci si cancelli
Questo dì, che tra i più belli
Tra di noi sempre sarà.
Si recitò e si cantò con grande sfarzo la poesia seguente:
Come augel di ramo in ramo
Va cercando albergo fido, etc.
Molti giornali parlarono di questa solennita: v. L'Armonia e la Patria di que' giorni.
Il primo di giugno dell'anno stesso si die principio alla Società di mutuo soccorso per impedire che i nostri giovani andassero ad ascriversi colla Società detta degli Operai, che fin dal suo principio manifesto principii tutt'altro che religiosi. Si prenda il libretto stampato. Servì a maraviglia al nostro scopo. Più tardi questa medesima nostra Società si cangio in Conferenza annessa di S. Vincenzo de' Paoli che tuttora sussiste.
Terminata la chiesa occorrevano arredi di tutti i generi. La carità cittadina non mancò. Il Comm. Giuseppe Duprè fece abbellire una cappella, che fu dedicata a S. Luigi, e comperò un altare di marmo, che tuttora adorna quella chiesa. Altro benefattore fece fare l'orchestra, sopra cui fu collocato il piccolo organo destinato a favore dei giovani esterni. Il sig. Michele Scannagatti comperò una compiuta muta di candelieri; il marchese Fassati fece fare l'altare della Madonna, provvide una muta di candelieri di bronzo e più tardi la statua della Madonna. D. Caffasso pagò tutte le spese occorse pel pulpito. L'altare magg. venne provveduto dal Dottore Francesco Vallauri e completato da suo figlio D. Pietro sacerdote. Così la novella chiesa in breve tempo si vide provveduta di quanto era più necessario per le private e solenni funzioni.
Colla nuova chiesa di S. Francesco di Sales[,] colla sacristia e col campanile si dava provvedimento a quei giovanetti che avessero desiderato d’intervenire alle sacre funzioni del giorno festivo, delle scuole serali ed anche diurne. Ma come provvedere alla moltitudine di poveri fanciulli che ad ogni momento chiedevano di essere ricoverati? Tanto più che lo scoppio della polveriera, avvenuto l'anno prima, aveva quasi rovinato l'antico edifizio. In quel momento di supremo bisogno fu presa la deliberazione di fabbricare un nuovo braccio di casa. Affinché si potesse tuttora usufruire il vecchio locale, si cominciò il nuovo in sito separato, cioè dal termine dell'attuale refettorio fino alla fonderia dei caratteri tipografici.
I lavori progredirono con tutta alacrità, e sebbene la stagione autunnale fosse già alquanto inoltrata, tuttavia si giunse fino all'altezza del coperchio. Anzi tutta la travatura era stata collocata al suo posto, tutti i listelli inchiodati, e le tegole stavano ammucchiate sui travi culminanti per essere ordinatamente collocate, quando un violento acquazzone fece interrompere ogni lavoro. L’acqua diluviò più giorni e più notti, e scorrendo e colando dalle travi e dagli stessi listelli rose e trasse seco la calcina fresca restando così le mura di soli mattoni e ciottoli lavati. Era circa la mezzanotte[,] tutti eravamo in riposo, quando si ode un rumore violento che ad ogni momento si rende più intenso e spaventoso. Ognuno si sveglia ed ignorando che ci fosse, pieno di terrore si avviluppa nelle coperte o nelle lenzuola, esce di dormitorio e fugge confuso senza sapere dove, ma con animo di allontanarsi dal pericolo, che s'immaginava. Cresce il disordine ed il frastuono; l’armatura del tetto, le tegole si mischiano coi materiali delle mura e tutto cadde rovinoso, con immenso fracasso.
Siccome quella costruzione poggiava contro al muro del basso e vecchio edifizio, si temeva che tutti rimanessero schiacciati sotto alle cadenti rovine; ma non si ebbe a provare altro male che un orrendo frastuono, che non cagiono alcun danno personale.
Giunto il mattino, venne una visita di ingegneri per parte del Municipio. Il Cav. Gabbetti vedendo un alto pilastro smosso dalla base pendere sopra un dormitorio esclamò:
Andate pure a ringraziare la Madonna della Consolata. Quel pilastro si regge per miracolo e cadendo avrebbe sepolto nelle rovine D. Bosco con trenta giovanetti coricati nel dormitorio sottostante. I lavori essendo ad impresa, il maggior danno fu del capomastro. Il nostro danno fu valutato a fr. 10.000. Il fatto avveniva la mezzanotte del 2 dicembre 1852.
In mezzo alle continue tristi vicende che opprimono la povera umanità avvi sempre la mano benefica del Signore che mitiga le nostre sciagure. Se quel disastro fosse succeduto due ore prima avrebbe sepolto i nostri allievi delle scuole serali. Terminavano queste alle dieci, ed usciti dalle loro classi in numero di circa 300 scorazzarono per oltre mezz'ora lungo i vani dell'edifizio in costruzione. Un po' dopo succedeva quella rovina.
La stagione inoltrata non permetteva più non dico di terminare; ma nemmeno di cominciare né in tutto né in parte i lavori della casa rovinata, e intanto chi provvederà alle nostre strettezze? Che fare in mezzo a tanti giovani, con sì poco locale e mezzo rovinato? Si fece di necessità virtù. Assicurate le mura della chiesa antica venne ridotta a dormitorio. Le scuole poi vennero trasferite nella chiesa nuova, che perciò era chiesa nei giorni festivi, collegio lungo la settimana.
In questo anno fu pure costrutto il campanile che fiancheggia la chiesa di S. Francesco di Sales, ed il benefico Sig. Michele Scannagatti provvide una elegante muta di candelieri per l'altare maggiore, che formano tuttora uno de’ più belli arredi di questa chiesa.
Appena la stagione il permise si diede immediatamente mano a rialzare la casa rovinata. I lavori si progredirono alacremente e col mese di ottobre l'edifizio era compiùto. Essendo nel massimo bisogno di locale, siamo tosto volati ad occuparlo. Io andai pel primo nella camera che Dio mi concede di poter tuttora abitare. Scuole, refettorio, dormitorio poterono stabilirsi e regolarizzarsi, e il numero degli allievi fu portato a sessantacinque.
Continuarono le provviste da parte di varii benefattori. Il cav. Giuseppe Duprè provvide a sue spese la balaustra di S. Luigi in marmo; ne fece abbellire l'altare e stuccare tutta la Cappella. Il Marchese Domenico Fassati regalò la piccola balaustra dell'altare della Madonna, una muta di candelieri di bronzo dorato, pel medesimo altare. Il conte Carlo Cays, nostro insigne benefattore, per la seconda volta Priore della Compagnia di S. Luigi, ci pagò un vecchio debito di mille duecento franchi al panattiere, che cominciava a fare difficoltà a somministrarci il pane. Compro una campana, che fu oggetto di una graziosa festa. Il T. Cattino, nostro curato di felice memoria, la venne a benedire; di poi fece un sermoncino di opportunità alla molta gente accorsa dalla città. Dopo le sacre funzioni venne rappresentata una commedia che fu tema di molta allegria per tutti. Lo stesso conte Cays provvide una bella panta, l’attuale baldacchino con altri attrezzi di chiesa.
Fornita così la nuova chiesa delle cose più necessarie al culto si poté finalmente appagare per la prima volta il comune desiderio mercè l'esposizione delle quarantore. Non vi era grande ricchezza di addobbi, ma vi fu straordinario concorso di fedeli. Per secondare quel religioso trasporto e dare a tutti comodità di soddisfare la propria divozione alle quarantore fecesi seguire un ottavario di predicazione, che fu letteralmente impiegato ad ascoltare le confessioni della moltitudine. Quell'insolito concorso fu motivo che negli anni successivi continuo a farsi l'esposizione delle quarantore con regolare predicazione con grande frequenza dei santi sacramenti e di altre pratiche di pietà.
Quest'anno, al mese di marzo cominciò la periodica pubblicazione delle Letture Cattoliche. Nel 1847 quando ebbe luogo l'emancipazione degli ebrei e dei protestanti divenne necessario qualche antidoto da porre in mano dei fedeli cristiani in genere, specialmente della gioventù. Con quell'atto pareva che il governo intendesse solamente dare libertà a quelle credenze, ma non a detrimento del cattolicismo. Ma i protestanti non la intesero così, e si diedero a fare propaganda con tutti i mezzi loro possibili. Tre giornali (La buona Novella, La luce Evangelica, Il Rogantino piemontese)[,] molti libri biblici e non biblici; largheggiare soccorsi, procacciare impieghi, somministrare lavori; offerire danaro, abiti, commestibili a chi andava alle loro scuole o frequentava le loro conferenze o semplicemente il loro tempio, sono tutti mezzi da loro usati per fare proseliti.
Il governo sapeva tutto e lasciava fare e col suo silenzio li proteggeva efficacemente. Aggiungasi che i protestanti erano preparati e forniti di ogni mezzo materiale e morale; mentre i cattolici fidandosi delle leggi civili che fino allora li avevano protetti e difesi, appena possedevano qualche giornale, qualche opera classica o di erudizione, ma niun giornale, niun libro da mettere nelle mani del basso popolo.
In quel momento prendendo consiglio dalla necessità, ho cominciato a formare alcune tavole sinottiche intorno alla Chiesa cattolica; poi altri cartelli intitolati: Ricordi pei Cattolici, e mi diedi a spacciarli fra i giovanetti e fra gli adulti specialmente in occasione di esercizi spirituali e di missioni.
Quelle pagelle, quei libretti erano accolti con grande ansietà; e in breve se ne spacciarono migliaia di migliaia. Ciò mi persuase della necessità di qualche mezzo popolare con cui agevolare la conoscenza dei principii fondamentali del cattolicismo. [Fu] fatto quindi stampare un librettino col titolo: Avvisi ai Cattolici, che ha lo scopo di mettere i cattolici all'erta e non lasciarsi cogliere nella rete degli eretici. Lo spaccio ne fu straordinario; in due anni se ne diffusero oltre a duecentomila esemplari. Ciò piacque ai buoni, ma fece dare alle furie i protestanti, che si pensavano di essere i soli padroni del campo evangelico.
Mi avvidi allora essere cosa urgente di preparare e stampare libri pel popolo, e progettai le così dette Letture Cattoliche. Preparati alcuni fascicoli voleva tosto pubblicarli, quando nacque una difficoltà né aspettata né immaginata. Niun Vescovo voleva mettersi alla testa. Vercelli, Biella, Casale si rifiutarono, dicendo essere cosa pericolosa lanciarsi in battaglia coi protestanti. Monsignor Fransoni, allora dimorante in Lione, approvava, raccomandava, ma niuno voleva assumersi nemmeno la Revisione ecclesiastica. Il Can.co Giuseppe Zappata, Vicario Generale, fu il solo, che a richiesta dell’Arcivescovo ne rivedesse un mezzo fascicolo, di poi mi ritorno il manoscritto dicendomi:
Si prenda il suo lavoro; io non mi sento di segnarmi: il fatto di Ximenes e di Palma (1) sono troppo recenti. Ella sfida e prende di fronte i nemici ed io amo meglio battere la ritirata in tempo utile.
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(1) L'Abate Ximenes Direttore di un giornale cattolico, Il Contemporaneo di Roma, fu assassinato. Monsig. Palma, Seg. pontificio e scrittore di quel giornale, finiva per un colpo di archibugio nelle medesime sale del Quirinale.
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D'accordo col Vicario Generale esposi ogni cosa all'Arcivescovo, e ne ebbi risposta con lettera da portare a Monsig. Moreno Vescovo di Ivrea. Con essa pregava quel prelato a prendere la progettata pubblicazione sotto alla sua protezione, di assisterla colla revisione e colla sua autorità. Il Moreno si prestò volentieri; delegò l’avv. Pinoli, suo Vic[ario] Gen[erale,] per la revisione, tacendo però il nome del Revisore. Si compilò tosto un programma, e col primo marzo 1853 uscì il primo fascicolo del Cattolico provv.
Le Letture Cattoliche furono accolte con generale applauso, e il numero dei lettori fu straordinario; ma di qui appunto cominciarono le ire dei protestanti. Provarono a combatterle coi loro giornali, colle loro Letture Evangeliche; ma non potevano avere lettori. Quindi ogni sorta di attacchi contro al povero D. Bosco. Ora gli uni ora gli altri venivano a disputare persuasi, essi dicevano, che niuno valesse a resistere alle loro ragioni. I preti cattolici fossero tanti gonzi e perciò con due parole potevano confondersi.
Eglino pertanto vennero ad attaccarmi ora uno ora due, ed ora più insieme. Io li ho sempre ascoltati e mi raccomandava sempre che le difficoltà, cui essi non sapevano rispondere, fossero presentate ai loro ministri, e di poi mi fossero cortesi darmene comunicazione. Venne Amedeo Bert, di poi Meille, l'evangelista Pugno, poi altri ed altri, ma non poterono ottenere che io cessassi né dal parlare, né dallo stampare i nostri trattenimenti: cosa che li eccito a massima rabbia. Credo bene di riferire alcuni fatti relativi a questa materia.
Una domenica a sera del mese di Gennaio mi sono annunziati due signori che venivano per parlarmi. Entrarono e dopo una lunga serie di complimenti e di lusinghe uno di loro prese ad esprimersi così:
— Voi, Sig. Teologo, avete sortito dalla natura un gran dono: quello di farvi capire e di farvi leggere dal popolo; perciò saremmo a pregarvi di volere occupare questo dono prezioso in cose utili per l’umanità, in vantaggio della scienza, delle arti, del commercio.
— I miei pensieri sono appunto rivolti alle Letture Cattoliche; di cui intendo occuparmi con tutto l’animo.
— Sarebbe assai meglio occuparvi di qualche buon libro per la gioventù, come sarebbe una storia antica, un trattato di Geografia, di Fisica e Geometria, non però delle Let[ture] Catt[oliche].
— Perché non di queste Letture?
— Perché è un lavoro già fritto e rifritto da tanti.
— Questi lavori furono già eseguiti da tanti, ma in volumi di erudizione, non però pel popolo, come appunto è mio scopo colle Letture Cattoliche.
— Ma questo lavoro non vi da alcun vantaggio, al contrario, se faceste i lavori che noi vi raccomandiamo, fareste anche un bene materiale al maraviglioso istituto che la Provvidenza vi ha affidato. Prendete, qui avete già qualche cosa (erano quattro biglietti da mille franchi) ma non sarà l'ultima oblazione, anzi ne avrete delle maggiori.
— Per quale ragione tanto danaro?
— Per incoraggiarvi ad intraprendere le opere accennate e per coadiuvare a questo non mai abbastanza lodato istituto.
— Perdonatemi, Signori, se vi ritorno il vostro danaro; io non posso per ora intraprendere altro lavoro scientifico, se non quello che concerne alle Letture Cattoliche.
— Ma se è un lavoro inutile...
— Se e un lavoro inutile perché volete prendervene pensiero? Perché spendere questo danaro per farmi desistere?
— Voi non badate all'azione che fate; perciocché con questo rifiuto voi fate un danno all'opera vostra, esponete voi a certe conseguenze, a certi pericoli...
— Signori, io capisco quello che volete significarmi, ma vi dico chiaro che per la verità non temo alcuno, facendomi prete, mi sono consacrato al bene della Chiesa e pel bene della povera umanità, e intendo di continuare colle deboli mie fatiche a promuovere le Let[ture] Catt[oliche].
— Voi fate male, soggiunsero con voce e con volto alterato alzandosi in piedi, voi fate male, voi ci fate un insulto, e poi chi sa che sarà di voi qui, e, in modo minaccioso, se uscite di casa sarete sicuro di rientrare?
— Voi, Signori, non conoscete i preti cattolici, finché vivono, essi lavorano per compiere il loro dovere; che se in mezzo a questo lavoro e per questo motivo dovessero morire, per loro sarebbe la più grande fortuna, la massima gloria. —
In quel momento apparvero ambidue così irritati che temeva mi mettessero le mani addosso. Mi alzai, misi la sedia tra me e loro dicendo: Se volessi usare la forza non temerei le vostre minaccie, ma la forza del prete sta nella pazienza e nel perdono; ma partitevi di qui.
Fatto intanto un giro intorno alla sedia, aprii l’uscio della camera, Buzzetti, dissi, conduci questi signori fino al cancello, essi non sono guari periti della scala. — Rimasero confusi a quell'intimazione, e dicendo ci vedremo altro momento più opportuno, se ne uscirono col volto e cogli occhi infiammati di sdegno. — Questo fatto fu pubblicato da alcuni giornali, specialmente dall’Armonia.
Sembrava che ci fosse una trama personale segreta contro di me, ordita dai protestanti o dalla massoneria. Racconterò, ma in breve, alcuni fatti.
Una sera mentre stava in mezzo ai giovani facendo scuola; vennero due uomini chiamandomi in fretta al Cuor d'Oro per un moribondo.
Ci andai tosto, ma volli essere accompagnato da alcuni dei più grandicelli. Non occorre, mi dissero, che siano disturbati questi suoi allievi. Noi la condurremo dall'infermo e la ricondurremo a casa. L’infermo forse sarebbe disturbato dalla presenza di costoro.
— Non datevi pensiero di ciò, aggiunsi; questi miei allievi fanno una breve passeggiata, e si arresteranno ai pie' della scala pel tempo che io passerò presso l'infermo. —
Ma giunti alla casa del Cuor d'Oro: venga qua un momento, mi dissero, si riposi alquanto e intanto andremo a prevenire l'ammalato della sua venuta.
Mi condussero in una camera a pian terreno, dove eranvi parecchi bontemponi che dopo cena stavano mangiando castagne. Mi accolsero con mille parole di encomio e di applausi, vollero che mi servissi e mangiassi delle loro castagne, che però non posi in bocca, adducendo per ragione che aveva testé fatta la mia cena.
— Almeno beverà un bicchiere del nostro vino ripigliarono. Non le spiacerà; viene dalle parti di Asti.
— Non mi sento, non sono solito a bere fuori pasto, mi farebbe male.
— Un piccolo bicchiere non le farà certamente alcun male. — Ciò dicendo versano vino per tutti, giunti poi a me uno si recò a prendere bottiglia e bicchiere a parte. Mi accorsi allora del perverso loro divisamento, ciò non di meno presi tra mano il bicchiere, feci con loro un brindisi, ma invece di bere cercava riporlo sulla tavola.
— Non faccia questo, è un dispiacere, diceva uno; e un insulto, soggiungeva un altro. Non ci faccia questo rifiuto.
— Non mi sento, non posso e non voglio bere.
— Bisogna che beva a qualunque costo.
Ciò detto, uno prese la mia spalla sinistra, un altro la spalla destra soggiungendo: Non possiamo tollerare questo insulto. Beva per amore o per forza.
— Se volete assolutamente che io beva; il farò, ma lasciatemi alquanto in libertà, e siccome io non posso bere lo darò ad uno de’ miei figli che beveranno in vece mia.
Pronunciando quelle simulate parole feci un lungo passo verso l'uscio, lo aprii invitando i miei giovani ad entrare.
— Non occorre, non occorre che altri beva. Stia tranquillo, andremo tosto a prevenire l'ammalato, questi stiano in fondo alla scala. — Non avrei certamente dato ad altri quel bicchiere, ma agiva per meglio scuoprire la loro trama che era di farrni bere il veleno.
Fui poscia condotto in una camera al secondo piano, dove, invece di un infermo, mi accorsi star coricato quello stesso che era venuto a chiamarmi, e che dopo avere sostenute alcune mie dimande diede in uno scroscio di riso dicendo: Mi confesserò poi dimani mattina. — Me ne andai tosto pei fatti miei.
Una persona amica fece alcune indagini intorno a coloro che mi avevano chiamato, intorno al loro scopo, e potei essere assicurato che un cotale aveva loro pagata una lauta cena coll'intendimento che eglino si fossero adoperati per farmi bere un po' di vino che egli aveva preparato.
Aggressione - Pioggia di bastonate▲
Sembrano favole gli attentati che vo raccontando, ma pur troppo sono dolorose verità che ebbero moltissimi testimoni. Eccone altro più strano ancora.
Una sera di agosto, circa alle ore sei di sera, circondato da' miei giovani io stava sulla cancellata che metteva nel cortile dell'Oratorio, quando un grido inaspettato si fa sentire: È un assassino, è un assassino. Ed ecco un cotale, da me assai conosciuto ed anche beneficato; messo in manica di camicia con lungo coltello in mano correva furioso, verso di me dicendo: Voglio D. Bosco, voglio D. Bosco. Tutti si diedero a fuggire sbandati, e l'altro continuò la sua corsa dietro ad un cherico creduto per vece mia. Allorché si accorse dello scambio, ripigliò furioso il suo passo contro di me. Appena ebbi tempo di rifuggirmi su per le scale dell'antica abitazione, e la serratura del cancello non era per anco ferma quando sopravvenne il malcapitato. Batteva, gridava, mordeva le stanghe di ferro per aprirle, ma inutilmente: io era in sicuro. I miei giovani volevano assalire quel miserabile e farlo in pezzi, ma io li ho costantemente proibiti e mi ubbidirono. Fu dato avviso alla pubblica sicurezza, alla questura, ai carabinieri, ma non si poté avere alcuno fino alle 9 ½ della stessa sera, ora in cui due carabinieri catturarono il malandrino e seco lo condussero alla caserma.
Il giorno seguente il questore mi mandò un uomo di polizia chiedendo se io perdonava quell'oltraggiatore. Risposi che io perdonava quella ed altre ingiurie, che però in nome della legge mi raccomandava alle autorità di tutelare meglio le persone e le abitazioni dei cittadini. Chi lo crederebbe? All’ora stessa in cui erasi tentata l’aggressione il mio rivale il giorno appresso mi stava attendendo a poca distanza che uscissi di casa.
Un mio amico osservando che non potevasi avere difesa dalle autorità volle parlare a quel miserabile. Io sono pagato, rispose, e mi si dia quanto altri mi danno, io me ne vado in pace. Gli vennero pagati 80 franchi di fitto scaduto, altri 80 per anticipazione di altro alloggio lontano da Valdocco, e così termino quella prima commedia.
Non così fu la seconda, che sto per raccontare. Circa un mese dopo al fatto sopra narrato una domenica a sera fui richiesto in fretta in casa Sardi vicino al Rifugio per confessare un'ammalata che si diceva all’estremo di vita. A motivo dei fatti precedenti invitai parecchi giovani grandicelli ad accompagnarmi. Non occorre, mi si diceva, noi l'accompagneremo, si lascino questi giovani ai loro trastulli. Questo bastò perché io non andassi da solo. Ne lasciai alcuni nella via a piè della scala; Buzzetti Giuseppe e Giacinto Arnaud si arrestarono al 1° piano sul pianerottolo della scala a poca distanza dall'uscio della camera dell'ammalata.
Entrai, e vidi una donna ansante a guisa di chi sta per mandare l’ultimo respiro. Invitai gli astanti in numero di quattro ad allontanarsi alquanto per parlare di religione.—Prima di confessarmi, ella prese a dire con gran voce, io voglio che quel briccone che mi sta di fronte, si ricreda delle calunnie che mi ha imputate.
— No, rispose un altro.
— Silenzio, aggiunse un altro alzandosi in piedi. Allora si levarono tutti da sedere. Si, no, guarda, ti strozzo, ti scanno erano voci che miste ad orrende imprecazioni facevano un eco diabolico per quella camera. In mezzo a quel diavolio si spengono i lumi; aumentandosi gli schiamazzi, comincia una pioggia di bastonate dirette la dove io era seduto. Indovinai tosto il giuoco, che consisteva nel farmi la festa; e in quel momento non avendo tempo né a pensare né a riflettere presi consiglio dalla necessità, diedi mano ad una sedia, me la misi in capo, e sotto a quel parabastonate camminando verso l'uscita riceveva que' colpi di bastone che con gran rumore cadevano sopra la sedia.
Uscito da quella fucina di Satana mi lanciai tra le braccia de’ miei giovani, che a quel rumore e a quegli schiamazzi volevano ad ogni costo entrare in quella casa. Non riportai grave ferita eccetto una bastonata, che colpi il pollice della sinistra appoggiato sullo schienale della sedia e ne riportò via l'unghia colla metà della falange, siccome tuttora serbo la cicatrice. Il maggior male fu lo spavento.
Io non ho mai potuto sapere il vero motivo di tali vessazioni, ma sembra che ogni cosa fosse sempre ordita ad attentarmi la vita per farmi desistere, essi dicevano, dal calunniare i protestanti.
Il cane Grigio fu tema di molti discorsi e di varie supposizioni. Non pochi di voi l’avranno veduto ed anche accarezzato. Ora lasciando a parte le strane storielle che di questo cane si raccontano, io vi verrò esponendo quanto è pura verità. I frequenti insulti di cui era fatto segno mi consigliarono a non camminare da solo nell'andare o nel venire dalla città di Torino. A quel tempo il Manicomio era l’ultimo edifizio verso l'Oratorio, il rimanente era terreno ingombro di bossoli e di acacie.
Una sera oscura alquanto sul tardi veniva a casa soletto non senza un po' di panico; quando mi vedo accanto un grosso cane che a primo aspetto mi spavento; ma non minacciando atti ostili, anzi facendo moine come se io fossi il suo padrone, ci siamo tosto messi in buona relazione, e mi accompagnò sino all'Oratorio. Ciò che avvenne in quella sera, succedette molte altre volte; sicché io posso dire che il grigio mi ha reso importanti servigi.
Ne esporrò alcuni. Sul finire di novembre 1854 una sera nebbiosa e piovosa veniva dalla città e per non fare lunga via da solo discendeva per la via che dalla Consolata mette al Cottolengo. Ad un punto di strada mi accorgo che due uomini camminavano a poca distanza dinanzi a me. Costoro acceleravano o rallentavano il passo ogni volta rallentava o accelerava il mio. Quando poi io tentava portarmi nella parte opposta per evitarne lo scontro, eglino destramente si recavano davanti di me. Tentai rifare la via, ma non fui più a tempo; perciocché facendo improvvisamente due salti indietro, conservando cupo silenzio, mi gettarono un mantello nella faccia.
Mi sforzai per non lasciarmi avviluppare, ma inutilmente, anzi uno tentava di turarmi la bocca, con un moccichino. Voleva gridare, ma non poteva più. In quel momento appare il grigio, e urlando a guisa di orso si lancia colle zampe contro alla faccia di uno, colla bocca spalancata verso l'altro in modo che dovevano avviluppare il cane prima di me.
— Chiami questo cane, si posero a gridare tremanti.
— Si che lo chiamo, ma lasciate in libertà i passeggieri.
— Ma lo chiami tosto, esclamavano.—Il grigio continuava ad urlare come lupo o come orso arrabbiato.
Ripigliarono gli altri la loro via, e il grigio, standomi sempre a fianco mi accompagnò fino a che entrai nell'Opera Cottolengo. Riavuto dallo spavento, e ristorato con una bibita che la carità di quell'Opera sa sempre trovare opportunamente, con buona scorta me ne andai a casa.
Tutte le sere che non era da altri accompagnato, passati gli edifizi, mi vedeva spuntare il grigio da qualche lato della via. Più volte lo videro i giovani dell'Oratorio, ma una volta ci servì di commedia. Lo videro i giovani della casa entrare nel cortile: chi lo voleva battere, chi prenderlo a sassate.
— Non si disprezzi, disse Buzzetti Giuseppe, e il cane di D. Bosco.
Allora ognuno si fece ad accarezzarlo in mille guise e lo accompagnarono da me. Io era in Refettorio a cena con alcuni cherici e preti, e con mia madre. A quella vista inaspettata rimasero tutti sbigottiti: Non temete, io dissi, e il mio grigio, lasciatelo venire. Di fatto compiendo egli un largo giro intorno alla tavola si recò vicino a me tutto festoso. Io pure lo accarezzai e gli offerii minestra, pane e pietanza, ma egli tutto rifiutò, anzi volle nemmeno fiutare queste offerte.—Ma dunque che vuoi? soggiunsi. Egli non fece altro se non isbattere le orecchie e muovere la code. — O mangiar, o bere, o altrimenti stammi allegro, conchiusi. Continuando allora a dar segni di compiacenza, appoggiò il capo sulla mia tovaglia come volesse parlare e darmi la buona sera, quindi, con grande maraviglia ed allegria fu accompagnato dai giovani fuori della porta. Mi ricordo che quella sera venni sul tardi a casa, ed un amico mi aveva portato nella sua carrozza.
L'ultima volta che io vidi il grigio fu nel 1866 nel recarmi da Murialdo a Moncucco presso di Luigi Moglia mio amico. Il paroco di Buttigliera mi volle accompagnare un tratto di via, e ciò fu cagione che fossi sorpreso dalla notte a metà cammino. — O se avessi il mio grigio, dissi tra me, quanto mi sarebbe opportuno! — Ciò detto, montai in un prato per godere l'ultimo sprazzo di luce. In quel momento il grigio mi corre incontro con gran festa, e mi accompagnò pel tratto di via da farsi, che era ancora di tre chilometri. Giunto alla casa dell'amico, dove ero atteso, mi prevennero di passare in sito appartato, affinché il mio grigio non venisse a battaglia con due grossi cani della casa. Si sbranerebbero l'un l'altro, se si misurassero, diceva il Moglia.
Si parlò assai con tutta la famiglia, di poi si andò a cena, e il mio compagno fu lasciato in riposo in un angolo della sala. Terminata la mensa, bisogna dare la cena anche al grigio, disse l’amico, e preso un po' di cibo lo si portò al cane, che si cercò in tutto gli angoli della sala e della casa. Ma il grigio non si trovò più. Tutti rimasero maravigliati, perciocché non si era aperto né uscio né finestra, né i cani della famiglia diedero alcun segno della sua uscita; si rinnovarono le indagini nelle abitazioni superiori, ma niuno più poté rinvenirlo.
È questa l'ultima notizia che io ebbi del cane grigio, che fu tema di tante indagini e discussioni. Né mai mi fu dato poterne conoscere il padrone. Io so solamente che quell'animale fu per me una vera provvidenza in molti pericoli in cui mi sono trovato.