Il sogno dei nove anni. |
1 Questioni ermeneutiche e lettura teologica |
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Andrea Bozzolo
Il racconto che don Bosco fa nelle Memorie dell’Oratorio del sogno che ebbe a nove anni costituisce uno dei testi più rilevanti della tradizione salesiana. La sua narrazione ha accompagnato in modo vitale la trasmissione del carisma, divenendone uno dei simboli più efficaci e una delle sintesi più eloquenti. Per questo il testo giunge al lettore che si riconosce in quella tradizione spirituale con le caratteristiche di una pagina “sacra”, che rivendica una non comune autorevolezza carismatica ed esercita una consistente energia performativa, toccando gli affetti, muovendo all’azione e generando identità. In essa, infatti, gli elementi costitutivi della vocazione salesiana sono allo stesso tempo fissati in modo autorevole, come un testamento da consegnare alle generazioni future, e ricondotti, attraverso l’esperienza misteriosa del sogno, alla loro origine trascendente. Come nelle grandi pagine bibliche, il movimento in avanti verso il compimento e il richiamo all’Origine s’intrecciano nella narrazione in modo inseparabile.
Di fatto nella ricezione degli eredi, il racconto ha esercitato una ricca storia degli effetti, generando una vera communitas di lettori, che si sono identificati con il suo messaggio. Innumerevoli sono gli uomini e donne, consacrati e laici, che vi hanno trovato ispirazione per il discernimento della loro personale vocazione e per l’attuazione del loro servizio educativo e pastorale. L’ampiezza di questa storia degli effetti istruisce fin da principio chi si dispone ad analizzare il testo circa la delicatezza dell’operazione ermeneutica cui mette mano. Studiare questo sogno significa non soltanto indagare su un accadimento verificatosi circa duecento anni fa nella vita di un ragazzo, ma intervenire criticamente su un vettore spirituale, su un simbolo identificante, su un racconto che per il mondo salesiano ha il peso di un “mito fondativo”. Un racconto non può acquisire una tale forza generativa senza che vi sia una ragione profonda che la giustifichi e lo studioso non può che interrogarsi per coglierne la natura.
La storia degli effetti del sogno, d’altra parte, ha riguardato prima ancora che gli eredi spirituali, l’esperienza stessa del fondatore. Don Bosco racconta che, dalla notte in cui è avvenuto, il sogno gli è rimasto «profondamente impresso nella mente per tutta la vita»,1 tanto più che esso si è «altre volte rinnovato in modo assai più chiaro»,2 suggerendogli l’orientamento della sua esistenza e guidandolo nell’adempimento della sua missione. Nelle Memorie dell’Oratorio, inoltre, egli ricorda lo stato d’animo che lo aveva colto quando, divenuto prete e tornato al paese nella solennità del Corpus Domini per celebrarvi una delle sue prime Messe, era giunto alla borgata dove era nato:
quando fui vicino a casa e mirai il luogo del sogno fatto all’età di circa nove anni non potei frenare le lacrime e dire: Quanto mai sono meravigliosi i disegni della Divina Provvidenza! Dio ha veramente tolto dalla terra un povero fanciullo per collocarlo coi primari del suo popolo.3
Quando poi nel 1858 si recò a Roma per trattare della fondazione della Congregazione e Pio IX «si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali», don Bosco espose al Papa il sogno, ricevendo l’ordine di «scriverlo nel suo senso letterale, minuto e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione».4 Un’ulteriore conferma del fatto che quell’esperienza notturna è rimasta per tutta la vita don Bosco un punto di riferimento essenziale si trova in un episodio ben documentato della vecchiaia del santo.5 Don Bosco era a Roma per la solenne consacrazione della Chiesa del Sacro Cuore, della cui costruzione si era fatto carico su richiesta di Leone XIII. La mattina del 16 maggio 1887 si recò a celebrare all’altare di Maria Ausiliatrice, ma durante la celebrazione fu costretto più volte a fermarsi, preso da un’intensa commozione che gli impediva persino di parlare. Rientrato in sacrestia e recuperata la calma abituale, don Viglietti, che lo aveva assistito durante la Messa, interrogò l’anziano sacerdote sul motivo di quelle lacrime ed egli rispose: «Avea […] così viva innanzi ai miei occhi la scena di allora che a dieci anni sognai della Congregazione, e vedea ed udiva così bene i miei fratelli e la mia mamma a discorrere e questionare sul sogno fatto».6 Don Bosco, ormai al termine della sua vita, coglieva finalmente in tutto il suo significato il messaggio che nel sogno gli era stato comunicato come una parola aperta in avanti: «A suo tempo tutto comprenderai». Riportando l’episodio Lemoyne annota: «trascorsi ormai da quel giorno sessantadue anni di fatiche, di sacrifizi, di lotte, ecco che un lampo improvviso gli aveva rivelato nell’erezione della chiesa del Sacro Cuore a Roma il coronamento della missione adombratagli misteriosamente sull’esordire della vita».7
In qualunque modo si debbano intendere i contorni di quell’esperienza onirica infantile e precisare i particolari della sua narrazione, si può dunque condividere pienamente ciò che Stella afferma a proposito del rilievo che essa ebbe nella coscienza di don Bosco:
Questo dei nove anni non fu per don Bosco un sogno come molti altri che certamente avrà avuto nella sua infanzia. A parte i problemi che sono legati ad esso, cioè alla sua rievocazione, ai testi che ce lo tramandano; a parte l’ormai insolubile interrogativo sul tempo in cui effettivamente avvenne, e quelli sulle circostanza che eventualmente lo provocarono e immediatamente fornirono le suggestioni fantastiche; a parte tutto questo, risulta netto che don Bosco ne rimase vivamente colpito; traspare anzi che dovette sentirlo come una comunicazione divina, come qualche cosa – dice egli stesso – che aveva l’apparenza (i segni e le garanzie) del soprannaturale. Per lui fu come un nuovo carattere divino stampato indelebilmente nella sua vita.8
Il sogno dei nove anni, insomma, «condizionò tutto il modo di vivere e di pensare di don Bosco. E in particolare, il modo di sentire la presenza di Dio nella vita di ciascuno e nella storia del mondo».9
1.1 1. Fonti |
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Il sogno dei nove anni ci è stato trasmesso in diverse redazioni. Desramaut, affrontando il problema delle fonti cui Lemoyne ha attinto per la stesura delle Memorie Biografiche, ha rintracciato sei versioni diverse.10 La prima (A) è quella scritta da don Bosco nelle Memorie dell’Oratorio.11 La seconda (B) è contenuta nella deposizione di Cagliero al processo ordinario per la canonizzazione; Cagliero dice di aver udito il sogno da don Bosco nel 1858-59, dopo che questi nel suo viaggio a Roma aveva ricevuto da Pio IX l’ordine di metterlo per iscritto.12 La terza (C) è quella di don Barberis, che ripete sostanzialmente don Bosco.13 La quarta (D) proviene da Giuseppe Turco, compagno d’infanzia di don Bosco; trasmessa da un intermediario non identificato, essa è stata raccolta da don Lemoyne.14 La quinta (E) è l’esposizione che don Rua fa al processo ordinario del racconto appreso da Lucia Turco, sorella di Giuseppe.15 La sesta (F) è il brevissimo resoconto che lo stesso Giuseppe Turco fece al processo.16 Desramaut evidenzia come le forme A, B e C abbiano don Bosco come fonte diretta, mentre la D, E e F dipendano dai ricordi trasmessi nella famiglia Turco.
Lemoyne, basandosi sull’affermazione di don Bosco che il sogno si era ripetuto più volte e assecondando la sua inclinazione a conservare tutte le fonti a sua diposizione, ha riportato nelle Memorie Biografiche le diverse versioni del sogno, che peraltro sono largamente convergenti, attribuendole a età diverse.17 Desramaut, nello studio citato, discute la plausibilità della scelta di Lemoyne, considerandola per lo più frutto di un’associazione artificiosa, tranne forse nel caso della versione D. È verosimile infatti, anche se non dimostrabile con argomenti storici sicuri, che Giovanni Bosco abbia parlato all’amico Giuseppe Turco del sogno a seguito di una delle occasioni in cui esso si era ripetuto.
In ogni caso, la versione cui riferirsi per il nostro lavoro è senza dubbio quella che don Bosco ha scritto di suo pugno nelle Memorie dell’Oratorio. La stesura del sogno e di tutte le vicende connesse all’origine dell’Oratorio era stata sollecitata, come si è detto, da Pio IX nel 1858. Don Bosco però, trattenuto da molti impegni e dalla ritrosia a parlare di se stesso, tardava a metter mano al lavoro. Per questo nel 1867, in occasione di un’altra udienza, il Papa lo sollecitò nuovamente a scrivere i suoi ricordi. Dopo aver temporeggiato per altri sei anni, don Bosco iniziò finalmente il manoscritto delle Memorie nel 1873, terminandolo nel 1875. Ricopiato in bella forma dal segretario don Gioacchino Berto, il testo fu rivisto e corretto dall’autore a più riprese, fino al 1879.18
Sulla base di questi dati possiamo dire che il sogno, avvenuto intorno al 1824 (non è possibile essere più precisi sulla data), e ripetutosi più volte negli anni successivi «in modo assai più chiaro», fu scritto da don Bosco circa cinquant’anni dopo l’accadimento. A quell’epoca egli poteva ormai cogliere il significato del messaggio onirico in modo più ricco e profondo di ciò che aveva intuito da ragazzo. L’intelligenza del sogno, infatti, era certamente venuta crescendo in lui attraverso le molteplici esperienze della vita, generando un incremento narrativo e interpretativo. Tale evoluzione pone di fronte a una situazione ermeneutica complessa, di cui bisogna essere consapevoli. Nel testo che leggiamo, infatti, si fondono diversi orizzonti temporali che interagiscono tra di loro: il tempo del compimento (almeno parziale) del sogno, che corrisponde all’epoca in cui don Bosco lo fissa nel manoscritto delle Memorie, il tempo della crescita nella sua comprensione, che inizia con la prima narrazione ai familiari e si sviluppa via via nella coscienza del protagonista, il tempo cronologico in cui il sogno è avvenuto e il tempo onirico, ossia quella sorta di “tempo sospeso” o “tempo altro” che è interno al vissuto notturno. Questi diversi orizzonti temporali, fusi insieme nella narrazione di don Bosco, interagiscono a loro volta con il tempo del lettore, con le sue attese, le sue domande, le sue precomprensioni, all’interno di una tradizione interpretativa che l’ha trasmesso fino a noi. Non è possibile affrontare con serietà lo studio di questo sogno senza avere consapevolezza di questa molteplicità di livelli, da cui derivano questioni ermeneutiche di rilievo che cercheremo di mettere a tema nel prossimo paragrafo. Prima di addentrarci in tali problemi, però, dobbiamo anzitutto collocare il racconto del sogno nel suo contesto narrativo, ossia nell’insieme dell’opera che ce lo ha trasmesso.19
Le Memorie dell’Oratorio sono un testo autobiografico in cui don Bosco raccoglie in un solo intreccio la storia dell’Oratorio di san Francesco di Sales e le sue vicende personali, con l’intento di lasciare ai suoi eredi spirituali un insegnamento prezioso per il futuro.20 Le intenzioni dell’autore sono esplicitate fin dalle prime righe del manoscritto:
A che dunque potrà servire questo lavoro? Servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre, e le leggeranno assai più volentieri quando, chiamato da Dio a rendere conto delle mie azioni, non sarò più tra loro.21
Le Memorie sono dunque una narrazione edificante che intende trasmettere, attraverso la selezione e il concatenamento dei fatti, non solo gli accadimenti fondamentali che hanno segnato la nascita dell’Oratorio, ma anche il segreto profondo che ha dato origine a quell’esperienza, ciò che l’ha resa possibile e l’ha caratterizzata in modo essenziale. L’opera, pertanto, non è una mera cronaca degli avvenimenti, ma lascia trasparire chiaramente l’intenzione di coinvolgere il lettore nell’avventura narrata, fino a renderlo partecipe di essa come una storia che lo riguarda e che egli, trascinato dal racconto, è chiamato a proseguire.22 Tale tratto è stato efficacemente posto in risalto da Pietro Braido, che ha coniato la felice espressione memorie di futuro, per evidenziare il carattere di testamento, prima ancora che di documento, che connota la narrazione di don Bosco.23
In questa ricostruzione interpretativa del passato, che collega la genesi dell’Oratorio a una precisa vicenda spirituale del narratore, il sogno dei nove anni viene ad avere un ruolo “strategico”. È proprio attraverso di esso, infatti, che viene offerta la chiave di lettura dell’intera vicenda, individuando il fatto prodigioso che ne costituisce l’origine soprannaturale. A fondamento dell’Oratorio di san Francesco di Sales e della Congregazione religiosa che in esso è sorta, non c’è solo l’intraprendenza di un prete generoso, ma una vera e propria iniziativa divina, di cui il sogno è la cifra più evidente.
Rilevando il ruolo che il sogno ha nella struttura narrativa delle Memorie, Giraudo afferma:
Questo evento viene a inserirsi nella strategia del testo come il vero inizio della “memoria” oratoriana, determinandone la suddivisione in tre decadi. I Dieci anni d’infanzia (1815-1824) infatti sono rappresentati come un preludio significativo, ma non propriamente “oratoriano”. Mentre il decennio 1825-1835, la Prima decade, principia appunto con la descrizione del narratore che si raffigura all’età di dieci anni, intento ad occuparsi dei fanciulli facendo «quello che era compatibile alla mia età e che era una specie di Oratorio festivo». In tal modo il sogno-inizio, rievocato con artifici letterari mutuati dalla forma romanzesca, assume un valore speciale: diventa prefigurazione di un testo storico-letterario, di cui anticipa consapevolmente i significati, le strategie, le strutture; diventa insomma una traccia identificabile di una orchestrazione retorica finalizzata agli intenti dell’Autore. È significativo il fatto che proprio in senso profetico-prefigurativo esso sia stato interpretato nella tradizione salesiana.24
Il sogno si colloca dunque dentro l’architettura delle Memorie come il pilastro da cui prendono avvio le arcate della narrazione. Nella sua qualità di accadimento prodigioso costituisce, in qualche modo, la premessa decisiva per comprendere la logica soprannaturale di tutto ciò che ne seguirà. Certo don Bosco non attribuisce a questa premessa alcun carattere fatalistico, come se vi avesse trovato prestabilito in modo cogente il suo destino. Nello sviluppo del racconto, egli non nasconde in alcun modo la tortuosità di un cammino complesso di discernimento vocazionale da cui il sogno non l’ha minimamente dispensato. Eppure, rileggendolo a posteriori dalla sua posizione di prete e fondatore, egli non può che intenderlo come una manifestazione anticipatrice e profetica. Le parole con cui sigilla il racconto – «le cose che esporrò in appresso daranno a ciò qualche significato» – ne sono una chiara testimonianza.25
Riconosciuti questi elementi, la domanda che lo studioso di don Bosco e della sua esperienza spirituale deve necessariamente porsi non può che essere la seguente: il rilievo eccezionale che don Bosco attribuisce a questo sogno, tanto da porlo come chiave di lettura delle Memorie, è essenzialmente frutto di un artificio narrativo, mosso da intenti edificanti, oppure esprime una convinzione personale seriamente radicata nella realtà dei fatti? Detto in altri termini e più schiettamente: don Bosco esagera le tinte, enfatizzando la portata dell’avvenimento per riuscir meglio a trascinare i suoi lettori nell’epopea oratoriana, oppure restituisce al vivo i colori originali di un fatto che fu in sé eccezionale? Vi è una grandezza originaria nel fatto storico o essa va meramente attribuita alla narrazione?
Va detto chiaramente che dalla risposta che si dà a queste domande, dipende il modo di intendere il lavoro dell’interpretazione critica: se esso debba avere la forma di una decostruzione demitizzante, quale via per accedere a una verità storica effettiva al di là del racconto, oppure se debba configurarsi come una ricezione fiduciale (ma non per questo ingenua) della narrazione, quale via per trovare attraverso di essa la portata storica dell’accadimento.
1.2 2. Questioni ermeneutiche |
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Rispondere alle domande che il racconto del sogno pone, è necessario ma assai impegnativo. È necessario, perché esse incidono profondamente sul modo di intendere l’esperienza spirituale di don Bosco e il carisma cui ha dato origine. Per quanto la grandezza di don Bosco si fondi sulla santità della sua vita, e non sui fenomeni straordinari che l’hanno accompagnata, questi ultimi non possono essere considerati come irrilevanti e secondari né sotto il profilo storico né sotto quello teologico. Vale, infatti, per il prodigioso nella vita dei santi – ovviamente su un piano derivato e analogico – lo stesso approccio critico che la teologia mette in campo di fronte ai gesti miracolosi di Gesù narrati dai Vangeli. Tali gesti non sono riducibili a elementi marginali, ma «sono un momento essenziale della rivelazione del Regno, che Gesù ha esplicitamente collegato al suo annuncio come segni del Regno che è già qui (Mt 12,28). I miracoli di Gesù non sono che un aspetto della sua parola: essi dicono che la parola di Gesù non è dottrina, ma atto, atto che guarisce».26 Essi sono dunque una sorta di “firma” che il Padre pone sulle opere del Figlio incarnato, per mostrare che le sue opere rendono presente nella storia l’azione di Dio e inaugurano per gli uomini il tempo escatologico.
Nei gesti taumaturgici di Gesù il discepolo è dunque convocato a contemplare l’agire liberante di Dio, che si prende cura dell’uomo, e a ricevere una parola che lo interpella per la fede. L’interrogativo circa il fatto che la narrazione evangelica dia voce a eventi reali, così da restituirne la portata interpellante, o solo a ricostruzioni enfatiche e tardive, ultimamente distanti dalla realtà storica, non è ovviamente questione che possa lasciare indifferenti. Fatte tutte le debite proporzioni, la domanda che ci dobbiamo porre circa lo straordinario nella vita di don Bosco e in particolare circa il sogno dei nove anni appartiene allo stesso ordine di considerazioni.
Formulare la risposta però è assai impegnativo, perché implica di affrontare almeno tre ordini di problemi, con i quali tenteremo ora di confrontarci, consapevoli della loro complessità e dei limiti della nostra ricerca. Essi riguardano rispettivamente il rapporto tra memoria, racconto e storia (§ 2.1.), la natura dell’esperienza onirica (§ 2.2.) e i criteri teologici che consentono di accostarsi ai fenomeni straordinari della vita spirituale e interpretarne il senso (§ 2.3.). Quale affidabilità può avere un racconto edificante, formulato cinquant’anni dopo i fatti, per accedere alla qualità effettiva dell’esperienza? Posto che la narrazione sia affidabile, può un’esperienza così “vaga” come quella del sogno avere un rilievo tanto forte da proporsi, alla luce dei fatti successivi e della loro interpretazione credente, come chiave di lettura della vicenda di don Bosco? Acquisito anche questo dato, si può ritenere ragionevolmente che il sogno dei nove anni sia stato un fenomeno soprannaturale di natura profetica?
I tre interrogativi, ovviamente, sono strettamente intrecciati tra di loro, perché l’eventuale carattere soprannaturale del sogno non può che avere un risalto particolare per il modo in cui il narratore ne custodisce il ricordo e per i margini di libertà narrativa con cui ne trasmette il messaggio. Così anche la consistenza antropologica che si riconosce all’esperienza onirica incide ovviamente sulla possibilità che essa abbia un forte rilievo esistenziale e sia spazio di una comunicazione divina. I tre problemi andrebbero in certo senso considerati insieme, ma la loro complessità e il desiderio di essere chiari, per quanto possibile in questo tipo di questioni (!), suggerisce di procedere per partes. Il lettore che ritenesse ostico fare i conti con tali ragionamenti, potrà dispensarsi dalla fatica e accedere direttamente al commento del sogno.
1.2.1 2.1. Memoria, racconto e storia |
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La riflessione più matura sul tema della narrazione è probabilmente quella proposta dal filosofo francese Paul Ricoeur con l’idea di identità narrativa, formulata dapprima in Tempo e racconto, nell’orizzonte di una teoria del racconto, e ripresa in Sé come un altro, nell’ambito di una teoria del soggetto.27 L’incrocio tra le due prospettive – quella della narrazione e quella dell’identità personale – è rivelativo, perché la tesi di Ricoeur consiste nel sostenere che il mondo del soggetto e il mondo del testo non possono essere intesi come due mondi separati e autonomi, di cui il primo (il racconto) sarebbe semplicemente il segno (sempre in difetto rispetto all’originale) del secondo (la realtà storica, ultimamente irraggiungibile nella sua fatticità). La teoria dell’identità narrativa afferma, al contrario, che soggetto e racconto esistono solo insieme: l’uomo non può accedere a se stesso se non raccontandosi e il racconto non può essere inteso se non attraverso la disponibilità a lasciar trasformare la propria identità.28
Alla base di questa teoria vi è la presa di coscienza della dialettica che è interna a ciò che il linguaggio chiama, con un’unica parola, identità dell’uomo. In questo termine si sovrappongono due significati che nella lingua latina sono espressi da due lemmi diversi: idem e ipse. Il primo significato designa l’identità come “medesimezza” e implica l’idea di qualcosa che permane e non muta, il secondo designa l’identità come “ipseità” e indica ciò che vi è di proprio, di personale, di non estraneo. Attraverso questa distinzione, Ricoeur mostra che non si può comprendere l’identità di una persona soltanto come la permanenza nel tempo di una realtà uguale a se stessa (idem) se non a prezzo di perderne l’irriducibile ipseità. L’identità personale, infatti, si realizza nella dialettica di ciò che permane e di ciò che continuamente muta e per questo assomiglia più a un racconto che a un oggetto. L’uso del medesimo nome per designare una persona dalla nascita alla morte non annulla il fatto che essa sperimenti continuamente il cambiamento corporeo e psichico. Il tempo vissuto dall’ipse, infatti, non è mai riducibile al tempo fisico-cosmico, anche se non ne è separabile. Secondo Ricoeur, dunque, il concetto di narrazione può fornire un buon modello per dare accesso all’ipseità perché il processo di costituzione di sé organizza in unità una sequenza d’eventi separati, conflittuali ed eterogenei. La comprensione della vita umana come un’unità narrativa consente di sintetizzare la permanenza e il cambiamento, senza che l’una prenda il sopravvento sull’altro.29
La teoria dell’identità narrativa pone dunque la questione dell’identità personale al di là dell’alternativa tra un Io che avrebbe accesso immediato alla propria identità, risultando trasparente a se stesso, e un Egli che si può cogliere dall’esterno con gli strumenti della ricostruzione analitica, ossia un attore storico ridotto alla sua rappresentazione oggettiva. L’identità personale non è né quella dell’Io cartesiano né quella dell’Egli storico, ma è quella di un Sé cui si accede soltanto attraverso la forma del narrare. Essa non può essere restituita nella forma di un concetto (nessuno può dire il Sé semplicemente nella forma astratta di un’idea), né attraverso il modello euristico delle scienze della natura (il Sé non è mai per definizione oggettivabile come un fatto). La complessità dell’esperienza vissuta può essere restituita soltanto attraverso la mimesis del racconto che raccoglie in un intreccio gli accadimenti dell’esistenza. La mediazione narrativa mostra che la conoscenza di sé è una interpretazione di sé.
A questi elementi teorici, rapidamente richiamati, vanno ancora aggiunte due annotazioni. La ragione profonda per cui l’uomo può conoscersi solo interpretandosi va individuata nel fatto che gli accadimenti stessi della vita, e non semplicemente il linguaggio che li narra a distanza, hanno un’originaria sporgenza simbolica, che li rende irriducibili alla mera fatticità empirica. In essi il Sé accade e non solo si manifesta. Per questo la memoria che li articola nel racconto è l’unica chiave di accesso alla qualità intenzionale che essi hanno e che costituisce, fuori da ogni riduzionismo positivistico, la forma singolare della loro storicità.30
In secondo luogo, l’atto con cui il narratore configura la fabula del proprio discorso non termina semplicemente al testo, ma si destina al lettore. La lettura è un momento cruciale, poiché nella “fusione d’orizzonti” risiede la capacità del racconto di trasfigurare l’esperienza di colui che lo riceve. Il testo invita sempre il lettore a vedere il mondo in modo differente e, poiché la narrazione non è mai eticamente neutra, invita anche il lettore ad agire in modo diverso. Non si può, dunque, accedere al senso del testo senza mettere in gioco la configurazione della propria identità, l’orizzonte simbolico entro cui si colloca la propria storia.
Per il problema di cui ci stiamo occupando, ossia il nesso tra memoria, racconto e storia nella narrazione del sogno dei nove anni, la teoria di Ricoeur offre degli elementi teorici d’indubbio interesse. Essa consente di cogliere con maggiore chiarezza che il racconto che don Bosco ci ha trasmesso della sua esperienza non può essere assunto come un mero resoconto materiale dell’accadimento, ma deve essere inteso come la mimesis narrativa attraverso cui don Bosco configura la propria identità, raccogliendo secondo un certo intreccio gli episodi della sua storia. In questo modo, consegnandoci le sue Memorie, don Bosco ci rende accessibile il suo Sé, in una forma che non sarebbe raggiungibile attraverso la semplice ricostruzione documentaria.
Il fatto che nell’architettura narrativa delle Memorie l’episodio del sogno figuri come un elemento fondativo, indica il rilievo che il narratore gli ha riconosciuto nella strutturazione della sua identità. Don Bosco disegna le arcate del suo racconto facendo del sogno l’anticipazione prolettica del quadro generale della storia perché, nella ripresa a posteriori che fa della sua vita, vi ritrova l’evento che rende possibile raccoglierla in unità.
In questo senso, il fatto che il racconto sia redatto cinquant’anni dopo il fatto non riduce la sua credibilità. Un resoconto stilato al risveglio o addirittura una (impossibile) registrazione empirica del fenomeno psichico non ci offrirebbe un accesso più autentico a ciò che Giovanni Bosco fanciullo ha vissuto nella sua ipseità. Un ragionamento di questo genere tradirebbe una visione dell’io come trasparenza della coscienza a se stessa e ridurrebbe i contorni del vissuto umano nei limiti di un immediatismo senza profondità. L’esperienza che quotidianamente facciamo della vita non coincide con il grado di consapevolezza che la accompagna e con la restituzione che siamo in grado di farne sul momento. Molti accadimenti (azioni, scelte, atteggiamenti, incontri) ci diventano chiari nelle loro implicanze solo a distanza, attraverso la ripresa che ne facciamo nel dialogo con un amico o con una guida spirituale. Proprio la narrazione e il confronto con altri ci permettono così di riconoscere quanto la stretta contemporaneità dei fatti impediva di vedere. Per dirlo nella maniera più accessibile, il senso dell’esperienza è come un seme che cresce nel terreno della coscienza e dispiega le sue energie soltanto attraverso le risorse della “cultura” che consentono di interpretarlo. La memoria, dunque, non è soltanto un filtro che seleziona e trattiene ricordi, destinati a divenire via via più sbiaditi; essa è il luogo di elaborazione narrativa della profondità simbolica dell’esperienza di cui vive il nostro Sé. Questo è il motivo ultimo per cui senza memoria non c’è identità.
Leggere il sogno dei nove anni come una sorta di cronaca dei fatti, trattando le parole del sogno come fossero ipsissima verba, sarebbe un’ermeneutica ingenua. Una lettura di questo genere potrebbe forse apparire come espressione della massima fiducia nei confronti del realismo del testo, ma in realtà implicherebbe una sostanziale disattenzione nei confronti della complessa trama del racconto con l’illusione di poter arrivare alla materialità di un dato incontrovertibile. La “crescita” che l’accadimento di cinquant’anni prima ha conosciuto nella coscienza di don Bosco non è un elemento da ignorare o da rimuovere, perché proprio attraverso tale crescita il senso dell’esperienza onirica è maturato fino a trovare il tempo, il contesto e le parole più adeguate per essere restituito nella forma interpellante che ha avuto.31
Leggere viceversa il sogno come una mera “costruzione artificiosa”, frutto di un’enfasi intenzionale che avrebbe colmato le lacune del ricordo, sarebbe un’ermeneutica del sospetto che non pare francamente giustificata. Essa infatti metterebbe in dubbio non solo la riproposizione di un accadimento, ma l’affidabilità complessiva del quadro d’insieme che don Bosco ci offre della sua identità narrativa. Il ruolo strutturale che il racconto del sogno ha nella trama delle Memorie è, infatti, pari al rilievo che esso ha nella configurazione che il narratore dà della sua vita. L’interpretazione di quel sogno come manifestazione di un’iniziativa divina, tanto evidente tra le righe del racconto quanto giustamente prudente nella sua formulazione esplicita, chiama in causa le convinzioni più profonde che hanno accompagnato don Bosco nell’esercizio della sua missione e nella trasmissione del carisma: come qualcosa che non veniva da lui, ma aveva appunto altra origine. Di tale origine il sogno si pone narrativamente – e quindi nella coscienza di don Bosco realmente – come simbolo. Per questo una diffidenza radicale nei confronti di un santo che si racconta rimanderebbe piuttosto a una verifica dell’orizzonte esistenziale del lettore, ossia a una verifica della sua disponibilità a lasciarsi rifigurare dall’evento di parola che gli viene offerto.
In conclusione, riteniamo che leggere il racconto del sogno dei nove anni come la mimesis narrativa che restituisce onestamente il rilievo che l’esperienza onirica ha avuto nella costituzione del Sé di don Bosco sia l’ermeneutica più coerente: allo stesso tempo critica e fiduciale. Ciò permette di affermare che la grandezza appartiene dunque originariamente al fatto reale (storia), ma solo attraverso la crescita nella coscienza (memoria) ha potuto trovare le parole per essere restituita dalla narrazione (racconto).
1.2.2 2.2. L’esperienza onirica |
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Ma può un sogno avere un tale rilievo? La ragione dell’uomo moderno occidentale è portata immediatamente a rispondere di no. Questa immediatezza, però, non è semplicemente frutto di spontaneità, ma degli schemi culturali che nei secoli dell’illuminismo si sono sedimentati nella nostra cultura.
Mentre per l’uomo antico, eccezione fatta per Aristotele e alcuni suoi seguaci, i sogni rimandano a qualcosa di oggettivo, reale e concreto, sia esso legato al divino, al magico o all’ordinario,32 per l’uomo moderno, che tende a far coincidere gli spazi della coscienza spirituale con quelli della consapevolezza vigile, esso si presenta come una sorta di esperienza diminuita, cui si può assegnare soltanto un modestissimo coefficiente di realtà. La storia della filosofia mostra che all’affermarsi del Cogito cartesiano, corrisponde una proporzionale estromissione del sogno dai confini del vero e una sua tendenziale emarginazione nell’ambito dell’illusione. Ciò che non è riconducibile al dominio delle idee chiare e distinte, ciò che non appartiene al mondo dei significati lucidi e razionali, viene considerato come momento debole della coscienza.
Scrive lucidamente Luisa De Paula:
Nel periodo che va dalle Meditationes de prima philosophia alla Traumdeutung l’uomo sveglio prende le distanze dal proprio sé notturno confinandolo nel non-luogo dell’irrealtà. La scissione dualistica tra mente desta e intelligenza onirica è anche e immediatamente monopolio della prima nella sfera del reale. Il divorzio della coscienza di veglia dal cogito notturno e la supremazia della prima sul secondo non possono quindi essere compresi né come un dato biologico e costitutivo dell’essere uomo, né come una variabile indipendente del processo storico, ma andrebbero piuttosto inquadrati in quel più ampio cammino della civiltà occidentale che ha portato al divorzio tra Io e mondo, corpo e anima, sensi e ragione, insieme alla progressiva emarginazione di uno dei due termini dall’orizzonte della realtà.33
L’Interpretazione dei sogni di Freud costituisce in larga misura il punto di arrivo di questo processo. La teoria del padre della psicanalisi, infatti, riporta la questione del sogno al centro dell’attenzione della cultura al prezzo di intenderlo non come un’esperienza originaria, da comprendere nella sua valenza propria, ma come una realtà derivata, un sintomo, un residuo. Nella concezione di Freud il “contenuto manifesto” del sogno è come una facciata illusoria che nasconde una verità nascosta, il “pensiero latente” che deve essere raggiunto. L’esperienza immaginaria del sogno non ha dunque alcun valore per sé, non ha una propria portata di senso, ma è solo il riverbero distorto di qualcosa che è altrove, nell’inconscio. Essa dunque interessa solo in quanto rimanda a un significato preesistente, di cui non è altro che espressione. Perché il sogno tornasse ad avere un senso, la psicologia moderna ha postulato l’inconscio, un non luogo in cui le creazioni notturne rimandano a desideri frustrati e fantasie rimosse.34
Questo approccio ha però mostrato col tempo la sua inadeguatezza e la stessa psicanalisi ha ormai preso le distanze dall’impostazione freudiana. La coscienza, infatti, «vive le avventure della notte con la stessa intensità del giorno; le immagini dei sogni ci si presentano con un’evidenza per nulla inferiore alle immagini di veglia».35 La percezione non coincide con la consapevolezza: noi siamo continuamente immersi in percezioni (sonore, visive, tattili) che non necessariamente attirano su di sé la nostra attenzione vigile, ma non per questo cessano di essere reali. Non è dunque possibile ridurre la realtà della coscienza alla veglia attenzionale e agli strumenti del pensiero. Il modo in cui la percezione del mondo e la donazione di senso avvengono in noi implica di prendere in considerazione una gamma di vissuti più ampia di quelli che possiamo razionalmente dominare.
Nel sogno, dunque, l’uomo non è “meno” se stesso rispetto alla veglia, ma lo è in una forma differente, cui va riconosciuto il suo specifico valore nel continuum dell’esistenza. Sognando, l’uomo instaura un rapporto diverso con le cose, attua un modo diverso di abitare il mondo, che non è meramente “illusione”, anche se non ha la forma lucida dell’astrazione cognitiva. Su questo dato concordano ormai le neuroscienze grazie a ricerche consolidate. La visualizzazione radioscopica evidenzia che mentre sogniamo il nostro cervello registra picchi massimi di attività, paragonabili a quelli che raggiunge solo in momenti di massima concentrazione nella veglia.
Per restituire dunque al sogno la sua possibilità di parlare, è necessario recuperare il rapporto originario della coscienza con il corpo e con il mondo. La filosofia contemporanea di matrice fenomenologica offre apporti significativi per l’elaborazione di un approccio equilibrato che consenta l’integrazione tra i dati delle neuroscienze e l’attenzione ai vissuti del soggetto. In questo modo il sogno passa da non-luogo della coscienza a risveglio fenomenologico del Mondo Proprio (Eigenwelt). Questo naturalmente implica il rispetto per la dimensione di chiaroscuro che il sogno porta con sé, il suo sottrarsi alle pretese dell’Io insonne di rinchiuderlo forzatamente nelle proprie categorie.
L’idea che il sogno manifesti il dischiudersi del Lebenswelt o mondo vitale della persona nelle pieghe del suo costituirsi, recupera e reinterpreta un’intuizione del filosofo greco Eraclito, che in uno dei suoi frammenti afferma: «per coloro che sono svegli esiste un solo mondo comune, mentre chi si addormenta entra in un mondo suo proprio» (idios kosmos).36 Ludwig Binswanger,37 massimo esponente dell’analisi esistenziale e della psichiatria fenomenologica, e Michel Foucault, nella fase iniziale del suo pensiero, hanno offerto un contributo importante per elaborare questa intuizione. Anziché fissarsi sulle singole immagini oniriche, per decifrarne un significato razionale nascosto, essi hanno mostrato l’opportunità di guardare al sogno come atto intenzionale della coscienza, per farne emergere le direzioni di senso.
Scrive al riguardo Foucault:
Il sogno, nella sua trascendenza e per la sua trascendenza, svela il movimento originario col quale l’esistenza, nella sua irriducibile solitudine, si proietta verso un mondo che si costituisce come il luogo della sua storia […] Rompendo con questa oggettività che incanta la coscienza vigile, restituendo al soggetto umano la sua libertà radicale, il sogno rivela paradossalmente il movimento della libertà verso il mondo, il punto originario a partire dal quale la libertà si fa mondo.38
Si recupera in questo modo il ruolo originario dell’immaginazione all’interno del movimento di trascendimento della coscienza. Essa
non è qualcosa di semplicemente aggiuntivo o accessorio rispetto a ciò che è oggetto di percezione o di sensazione, ma è piuttosto la condizione prima dell’apparire, il presupposto imprescindibile perché qualsiasi “realtà”, cosa o persona, mi si renda presente, e l’esperienza onirica è la rivelazione in trasparenza del lavoro incessante dell’immaginazione.39
L’immaginazione mostra il movimento originariamente costitutivo dell’esser-ci nel mondo, la serie degli atti intenzionanti per cui alla coscienza si fa presente un mondo. Tale recupero è molto importante, perché allarga gli orizzonti del rapporto tra l’uomo e la verità: questa non può apparire all’uomo senza mostrare il proprio legame con il mondo e senza coinvolgere la dimensione immaginativa.
Si recupera, parimenti, l’esigenza di cogliere il sogno all’interno dell’orizzonte vitale del soggetto, dentro l’insieme della sua apertura al mondo e alla vita. Così ne parla la filosofa María Zambrano:
Invece di venire semplicemente analizzato, (il sogno) dev’essere assimilato, il che è un vero e proprio processo. L’interpretazione dei sogni di realtà avviene con una certa lucidità in una specie di sogno di secondo grado durante la veglia. La persona che ha preso parte al sogno lo prosegue lucidamente […]. La conoscenza valida e adeguata ai processi della persona dev’essere attiva: soltanto così sarà conoscenza vera e liberatoria.40
L’immaginazione onirica non può dunque accedere alla veglia attraverso l’analisi che la decostruisce, ma deve trasferirsi nell’agire del sognatore. Essa è più aperta in avanti che all’indietro, è più espressione di un movimento in cui la persona si situa che non un deposito di ciò che ha già vissuto. Il sogno dunque indica un “verso”, un “orientamento” del mondo proprio: non con la chiarezza lucida dell’idea, ma come il movimento interiore dell’immaginazione. È ascoltando tale movimento che il sogno può essere capito.
Non è difficile comprendere a questo punto che, qualora si esca dal pregiudizio moderno nei confronti dell’onirico, la forza ispiratrice e orientativa che il sogno dei nove anni ha avuto sulla vita di don Bosco vanta solide ragioni di plausibilità. Nell’orizzonte delle acquisizioni antropologiche più recenti sulla “coscienza onirica” esso è un dato che non presenta obiezioni. Il sogno infantile ha espresso un “verso”, un “movimento” intenzionale della vita del sognatore (anzi, come vedremo, una correzione di movimento) che chiedeva di trasformarsi in realtà. Il Lebenswelt di Giovanni ragazzo vi si esprime in modo affascinante, con la ricchezza dei suoi riferimenti ambientali (il prato, la casa), relazionali (la mamma), religiosi (i due personaggi maestosi), culturali (i compagni, gli animali feroci, gli agnelli), ma soprattutto con la chiarezza di una direzione di vita che vi si esprime: non con la lucidità dell’idea, giacché proprio a questo livello il sognatore non capisce, ma con il carattere trascinante di immagini cariche di energia.
Assodata la possibilità antropologica che un sogno abbia una vera forza orientativa per l’esistenza, veniamo ora al terzo ordine di interrogativi. Nel sogno di Giovanni incontriamo due personaggi che si presentano con caratteri trascendenti, anzi con una chiara connotazione cristologica e mariana: l’uomo venerando e la donna di maestoso aspetto. Si tratta semplicemente di immagini partorite dalla fantasie notturne di un ragazzo, magari a seguito di qualche accadimento precedente che ne ha offerto lo spunto, oppure si tratta, come don Bosco sembra aver ritenuto con crescente convinzione, di un fenomeno soprannaturale? Nella consapevolezza che in questo genere di questioni non è possibile per lo più arrivare a risposte apodittiche – se non altro perché in questo campo, più che in altri, giocano le convinzioni, gli atteggiamenti, le esperienze e le prese di posizione personali – tentiamo di fornire al lettore almeno alcuni elementi che possano contribuire al chiarimento, senza rinunciare a proporre quella che ci pare la risposta più convincente.
1.2.3 2.3. Il fenomeno straordinario |
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Per affrontare la domanda circa il carattere “soprannaturale” del sogno dei nove anni, conviene anzitutto ricordare che nella vita di don Bosco la presenza di fenomeni straordinari è un dato ben documentato e molto consistente. Gli episodi in cui il prodigioso irrompe nella vita del santo sono numerosi e, in molti casi, ciò avviene sotto gli occhi stessi di coloro che ne daranno poi testimonianza giurata nel processo di canonizzazione. È il caso delle guarigioni improvvise da malattie gravi o incurabili, come la cecità o la paralisi, che avvengono quando don Bosco imparte la benedizione di Maria Ausiliatrice, o della moltiplicazione dei pani, narrata tra gli altri da don Dalmazzo, che da ragazzo assistette direttamente al prodigio, o delle profezie di avvenimenti futuri, di cui vari testimoni attestano il puntuale compimento.
Altrettanto importante è poi richiamare l’atteggiamento che don Bosco ha sempre avuto nei confronti di questi fenomeni eccezionali che accompagnavano il suo ministero. Secondo le deposizioni dei testimoni, egli se ne mostrava assai distaccato, non cercava in alcun modo la fama che gliene derivava, anzi temeva il clamore che tali fatti suscitavano intorno alla sua persona. Per quanto riguarda più direttamente l’atteggiamento di don Bosco nei confronti dei suoi sogni, abbiamo una significativa testimonianza di don Cagliero che nelle deposizioni del processo ordinario racconta:
Mi trovava presente, quando nel 1861, ci raccontò un altro sogno, nel quale aveva veduto l’avvenire della nascente Congregazione, non ancora lodata, né commendata dalla S. Sede. E qui noto una delicatezza del Servo di Dio, il quale, fin da principio che ebbe questi sogni, si consigliava col suo Direttore Spirituale, il dotto e santo sac. D. Cafasso, il quale disse a D. Bosco che andasse pure avanti tuta conscientia nel dare importanza a quei sogni, che egli giudicava fossero di maggior gloria di Dio e delle anime! E questo ce lo disse a noi, suoi più intimi, D. Bosco.41
Don Bosco manifesta dunque nei confronti dei sogni e, più in generale, dello “straordinario” che circonda la sua vita, gli atteggiamenti di responsabilità, gratitudine e umiltà che i grandi maestri di spirito hanno sempre raccomandato in queste circostanze, mostrando anche sotto quest’angolatura un’eccezionale levatura spirituale e un’ammirevole libertà di spirito. I suoi sogni, accolti con umile docilità e saggio discernimento,
fondarono convinzioni e sostennero imprese. Senza di essi non si spiegherebbero alcuni lineamenti caratteristici della religiosità di don Bosco e dei salesiani. Per questo essi meritano di essere studiati attentamente non soltanto per il loro contenuto pedagogico e moralistico, ma già per quello che furono in sé e per il modo come furono intesi da don Bosco, dai suoi giovani, dai suoi ammiratori ed eredi spirituali.42
Il realismo e il senso del concreto che don Bosco aveva ereditato dalla sua gente, e di cui la sentenza lapidaria della nonna «Non bisogna badare ai sogni» era eloquente espressione, non avrebbero consentito che i sogni lo influenzassero così profondamente, se egli non li avesse ritenuti portatori di un messaggio spirituale da assecondare.43
Per quanto riguarda più direttamente il sogno dei nove anni, il punto di partenza per ragionare sul suo carattere soprannaturale non può che essere questo passo delle Memorie:
Ma quando, nel 1858, andai a Roma per trattar col Papa della congregazione salesiana, egli si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali. Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto in età di nove in dieci anni. Il Papa mi comandò di scriverlo nel suo senso letterale, minuto e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione, che formava lo scopo di quella gita a Roma.
Con queste parole don Bosco, che era profondamente persuaso che nessuno debba mettere mano alla fondazione di un Istituto religioso senza chiari segni dall’alto, sembra esprimere la sua convinzione che il sogno fatto da ragazzo era stato appunto uno di tali segni. L’ordine di Pio IX di redigerne un’accurata stesura ne appariva un’autorevole, per quanto implicita, conferma.
Ma come vanno intese queste comunicazioni sopranaturali, di cui la storia della spiritualità offre numerose testimonianze, e fino a che punto è possibile pronunciarsi sulla loro autenticità? Ci può aiutare a formulare una risposta a questi interrogativi, la riflessione accurata che un teologo del calibro di Karl Rahner ha sviluppato al riguardo nel saggio Visioni e profezie.44
Nell’intelligenza teologica di questi fenomeni Rahner ha introdotto un’importante correzione all’impostazione dell’apologetica manualistica, che li considerava all’interno della problematica del rapporto tra rivelazione pubblica e rivelazioni private. Rilevando le incongruenze di questo schema, il teologo tedesco ha mostrato l’opportunità di inquadrare il tema nell’orizzonte dei fenomeni carismatici con cui lo Spirito Santo contribuisce a condurre la Chiesa nel corso dei secoli, offrendole luci particolari per affrontare le sfide che essa trova di fronte a sé. Di fronte alle visioni, non si tratta dunque di chiedersi se esse aggiungano qualcosa alla rivelazione cristologica, ma piuttosto quanto e come esse contribuiscano a incarnarla in una precisa epoca e situazione. Il loro valore non è essenzialmente sul piano assertorio, come attestazione di una determinata verità, ma su quello imperativo. Esse non trasmettono primariamente un’idea, ma un comando, un atteggiamento da assumere; sono segni che configurano un’esperienza spirituale, sollecitando il destinatario, ed eventualmente altri coinvolti con lui, ad adempiere un determinato compito importante per la vita della Chiesa. In sintesi Rahner afferma: «L’imperativo ispirato da Dio a un membro della Chiesa per l’agire della Chiesa in una determinata situazione storica, questo ci sembra l’essenza di una “rivelazione privata” profetica di tipo postcristiano».45
Che tali fenomeni siano possibili è un dato di fede sicuro: «La possibilità di una rivelazione privata attraverso visioni e connesse audizioni è, per un cristiano, fondamentalmente certa. Dio, in quanto Dio personale e libero, può rendersi percepibile allo spirito creato non solo attraverso le sue opere ma anche attraverso la sua parola, libera e personale».46 Quali invece lo siano, può essere soltanto frutto di un accurato discernimento, che in ogni caso non implica mai un assenso vero e proprio della fides catholica, poiché il loro contenuto non è affidato alla Chiesa ufficiale perché le trasmetta autorevolmente ai fedeli, ma un credito che è legato alla chiarezza che si riesce a raggiungere. In certi casi, tale credito può arrivare ad essere per il destinatario della visione, ed eventualmente anche per altri, di vera e propria fides divina, ossia un credito dato personalmente a Dio riconoscendosi da Lui interpellati.
Rahner invita dunque a un atteggiamento di sano equilibrio che sappia riconoscere, molto più di quanto avvenuto in passato, il ruolo essenziale e insostituibile del carisma profetico per la vita della Chiesa, ma insieme ricordi che «in tali questioni, le risposte più chiare e apodittiche, come pure le soluzioni più semplici e pratiche, non sono necessariamente anche le più giuste».47
Per quanto riguarda le modalità della visione soprannaturale, occorre anzitutto notare che il manifestarsi di Dio attraverso segni e immagini «corrisponde maggiormente al carattere fondamentale del cristianesimo piuttosto che una pura unio mystica priva di “immagini”, nei cui confronti emerge sempre daccapo l’antico problema, se una tale religiosità della pura trascendenza dello spirito sia autenticamente cristiana».48 L’analogia di tali visioni con la struttura dell’incarnazione, in cui umano e divino si trovano congiunti senza confusione, implica di riconoscere che nel fenomeno di cui ci occupiamo è necessario tenere presente tanto le leggi psichiche che derivano dalle capacità spirituali della persona che ha la visione, quanto l’iniziativa con cui Dio interviene nel soggetto.
Ciò significa anzitutto che «affinché una visione possa essere veramente la realtà spirituale di un particolare soggetto, deve essere davvero, detto metafisicamente, l’“atto” di questo soggetto, e cioè, non solo causata in esso da Dio, ma anche realmente operazione di questo soggetto, da lui stesso compiuta».49 Anche le visioni provocate da Dio, infatti, si radicano nella struttura psico-fisiologica del soggetto, che le sperimenterà all’interno del proprio orizzonte vitale (ad es. nella lingua che egli parla, con immagini che egli può riconoscere e così via).50 Nel nostro caso, qualunque sia la qualità teologale dell’accadimento, occorre mantenere fermo che ciò che avviene si realizza mediante le facoltà umane di Giovanni Bosco ragazzo. È realmente lui che sogna, la sua coscienza non è una sorta di schermo passivo, su cui siano per così dire proiettate immagini celesti, ma concorre pienamente, con la sua capacità immaginativa, a produrne la figura e il discorso.
Una seconda precisazione importante riguarda il fatto che, come annota Rahner, l’espressione “questa visione è causata da Dio” è in se stessa straordinariamente ambigua, perché qualunque grazia è causata da Dio, anche quando è perfettamente spiegabile all’interno delle leggi naturali. L’uomo religioso scorge a buon diritto la libera grazia di Dio per la sua salvezza anche in un avvenimento spiegabile naturalmente. Ciò non toglie, tuttavia, che «in un senso tutto particolare tuttavia, devono essere qualificate “di origine divina” quelle visioni che hanno la loro origine in un intervento di Dio autenticamente soprannaturale, cioè eccedente le leggi della natura fisica e psichica».51 E anche in questo caso bisogna ancora distinguere tra (a) ciò che è frutto dell’abituale inabitazione di Dio nell’anima – che può far sorgere in un credente fenomeni psichici che possono essere chiamate veramente visioni soprannaturali, senza essere in senso tecnico miracoli – e (b) ciò che è frutto di un intervento miracoloso di Dio che sospende le leggi della natura e quindi anche le normali leggi psicologiche. Molto opportunamente Rahner afferma:
Si vede chiaramente che, in concreto, non sarà facile dire se una visione sia da considerare come causata da Dio nel primo o nel secondo senso di un avvenimento soprannaturale, tanto più che i due momenti possono convergere insieme nella stessa visione. Inoltre, bisogna ricordare che il significato religioso di una visione soprannaturale nel primo senso, per natura sua, può essere essenzialmente più grande di una che è soprannaturale nel secondo senso, poiché ciò che miracoloso in senso tecnico non deve, dal punto di vista ontologico ed etico, essere anche necessariamente il più perfetto.52
Infine, tralasciando altri aspetti di questa complessa problematica, è ancora importante raccogliere un elemento che aiuta a comprendere che cosa s’intende quando s’interpreta una visione come “profezia” e che cosa distingue l’autentica profezia cristiana dal (discusso) fenomeno psichico della preveggenza. Nel caso delle visioni parapsicologiche, dice Rahner, il veggente vede «una piccola parte a caso del futuro, si potrebbe dire un piccolo pezzo assolutamente casuale di un lungo film, ma senza che questo pezzo sia inserito in uno svolgimento più ampio, in se stesso significativo, avente una spiegazione di senso».53 Ben diversa è la natura della genuina visione profetica:
Questa non è, almeno nel suo nucleo, una “visione”, ma una “parola”. Essa propriamente non mostra un pezzo del futuro come un’immagine, ma partecipa qualcosa di esso mentre lo spiega. Una tale spiegazione è proprio per questo oscura nei suoi particolari – precisamente perché viene da Dio, non nonostante che venga da Dio –, perché parla del senso del futuro e, lungi dall’esser intesa come un mezzo per ripararsi da questo o per prevederlo, intende piuttosto mantener aperta la libertà dell’uomo che osa confidare in Dio. Essa non ha perciò lo stile di un cronista che si trasferisce miracolosamente nel futuro stesso e di là spiega ciò che ha sperimentato, ma piuttosto svela all’uomo al quale si rivolge, qualcosa della sua situazione attuale, attraverso quello sguardo sul futuro di cui egli ha bisogno per reggere adesso il suo presente, in fedeltà e fiducia.54
Dobbiamo a questo punto tornare al nostro sogno, riassumendo i dati già acquisiti e cercando di fare il passo avanti definitivo. Abbiamo affermato che il sogno dei nove anni riveste un ruolo architettonico fondamentale per l’elaborazione dell’intreccio narrativo delle Memorie, ruolo che corrisponde al rilievo esistenziale che don Bosco attribuisce a quell’esperienza onirica nella strutturazione della sua identità narrativa. Si è già detto parimenti che il racconto, stilato a cinquant’anni di distanza, non è semplicemente un resoconto, ma è una ripresa narrativa che nasce dalla memoria che raccoglie in unità la propria storia e restituisce in modo maturo e ponderato il senso dell’esperienza originaria. Ciò diventa tanto più comprensibile ora che abbiamo visto che il significato dei sogni non va cercato nelle singole immagini o nelle parole precise, bensì nella direzione in cui l’immaginazione mostra di muoversi nel suo atto di trascendimento e di apertura. Dentro quel contesto dinamico i singoli particolari manifestano infatti la loro unità e il loro orientamento.
Ora, alla luce di quanto si è detto a proposito delle visioni soprannaturali, ci chiediamo se questa pagina, cui don Bosco attribuisce tanta importanza, sia solo la vuota eco di un’esperienza in cui, senza accorgersene, egli ha ascoltato solo se stesso oppure se essa ci consegni effettivamente il contenuto di una speciale comunicazione divina, di carattere profetico e anticipatore.
Le precisazioni fin qui fornite ci permettono di impostare la riposta evitando eccessi massimalistici o minimalistici. Massimalistica e fuorviante sarebbe l’idea che il contenuto del sogno è un incontro con il Signore e con la Vergine, in cui essi siano visti e uditi in modo analogo a ciò che avviene nella normale percezione sensibile. Le loro affermazioni pertanto andrebbero intese al modo di parole uscite “materialmente” dalle labbra di Gesù e di Maria, venuti dal cielo a visitare il ragazzo dei Becchi. Come si è visto, tale concezione scavalca la dimensione antropologica dell’accadimento, trascura cioè il ruolo che nel fenomeno ha avuto la coscienza di Giovanni Bosco ragazzo, il suo orizzonte conoscitivo, la sua immaginazione, l’atto delle sue facoltà, cadendo nell’idea ingenua di un immediatismo spirituale. Minimalistico, invece, e altrettanto fuorviante sarebbe il ridurre il sogno a una creazione dell’inconscio del sognatore o a un’espressione della sua fervida immaginazione religiosa. Il contenuto del sogno non avrebbe affatto i contorni di qualcosa di ricevuto, ma semplicemente di qualcosa di prodotto. Questa tesi non è metafisicamente impossibile, ma si scontra contro una serie di evidenze morali e spirituali di grande spessore. Per sostenerla, infatti, bisogna affermare che don Bosco, ponendo il racconto del sogno dei nove anni come chiave di lettura delle Memorie dell’Oratorio e quindi della sua vicenda apostolica e spirituale, si è ingannato o, peggio ancora, ha ingannato, a proposito di un elemento assolutamente decisivo per la sua storia personale e per la vita e la missione della sua Congregazione religiosa, ossia la presenza di una chiamata dall’alto del tutto particolare, di cui il sogno è stato il segno e i sigillo. L’inconscio di un ragazzo avrebbe prodotto dal nulla un importante testo carismatico, che ha ispirato migliaia e migliaia di credenti, e avrebbe offerto importanti luci spirituali a uno dei grandi fondatori della storia della Chiesa, senza alcun intervento particolare da parte di Dio: davvero difficile pensarlo!
Tralasciando questi opposti eccessi e tenendo conto della statura teologale della missione che Dio ha assegnato a don Bosco – la statura di una missione destinata a svilupparsi in modo sorprendente a beneficio della Chiesa universale – è del tutto ragionevole ritenere che il sogno sia stato effettivamente, come don Bosco l’ha inteso, una comunicazione soprannaturale, assimilabile a quelle che si possono leggere nelle grandi storie bibliche dei sogni dei patriarchi o delle visioni notturne dei profeti. Sulla base dei criteri normalmente presi in considerazione nella teologia spirituale, tale valutazione pare la più coerente con l’insieme della vicenda spirituale di questo santo. Difficile, invece, ma anche meno importante, ci sembra poter dire se la natura soprannaturale di questa comunicazione vada intesa come un riflesso carismatico dell’azione della grazia nel cuore del chiamato oppure come una vera e propria visione “miracolosa” in senso tecnico. Si è detto, infatti, che non è propriamente da questo che dipende il suo significato “religioso”.
Più rilevante, infine, è evidenziare che, proprio perché quella luce veniva da Dio, essa non aveva semplicemente i tratti di un’immediata intelligibilità, che dispensasse dalle fatiche del discernimento vocazionale e dal riferimento alla mediazione ecclesiale. In buona sostanza il contenuto del sogno non ha prospettato al ragazzo dei Becchi il futuro al modo di una preveggenza chiara, ma attraverso un’ingiunzione nel presente. Egli si è sentito dire ciò che doveva fare al presente perché quel futuro diventasse possibile, come un dono che non esimeva dall’impegno, ma anzi lo imponeva, e in modo assai esigente. Anche questo conferma che il sogno non era una vuota eco in cui il ragazzo ascoltava solo il suo inconscio, ma una vera esperienza religiosa nella quale ascoltava un messaggio di Dio.
Atto della coscienza onirica di Giovanni Bosco ragazzo e insieme parola profetica di Dio, restituita nella forma di un racconto rammemorante in cui la profezia è già letta nel suo adempimento in corso: questo è in conclusione il sogno che ora ci apprestiamo a ripercorrere e di cui cerchiamo di interpretare il messaggio.
1.3 3. Lettura teologica |
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1.3.1 3.1. Struttura narrativa e movimento onirico |
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Sulla base delle premesse ermeneutiche fin qui svolte, possiamo ora accostare il testo del sogno dei nove anni, che riportiamo secondo l’edizione critica di Antonio da Silva Ferreira, da cui ci discostiamo solo per due piccole varianti.55 Suddividiamo il racconto in paragrafi che, per comodità, accompagniamo con una sigla tra parentesi quadre.
[C1] A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita.
[I] Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All’udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere.
[II] In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona; ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole: «Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti adunque immediatamente a fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù». Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que’ giovanetti. In quel momento que’ ragazzi cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui, che parlava.
[III] Quasi senza sapere che mi dicessi, «Chi siete voi», soggiunsi, «che mi comandate cosa impossibile?» «Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza». «Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza?». «Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza». «Ma chi siete voi, che parlate in questo modo?» «Io sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno». «Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome». «Il mio nome dimandalo a Mia Madre».
[IV] In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle mie dimande e risposte, mi accennò di avvicinarmi a Lei, che presemi con bontà per mano, e «guarda», mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali. «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei». Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando come per fare festa a quell’uomo e a quella signora. A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare. Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi: «A suo tempo tutto comprenderai».
[C2] Ciò detto un rumore mi svegliò ed ogni cosa disparve. Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi duolesse per gli schiaffi ricevuti; di poi quel personaggio, quella donna, le cose dette e le cose udite mi occuparono talmente la mente, che per quella notte non mi fu possibile prendere sonno. Al mattino ho tosto con premura raccontato quel sogno prima a’ miei fratelli, che si misero a ridere, poi a mia madre ed alla nonna. Ognuno dava al medesimo la sua interpretazione. Il fratello Giuseppe diceva: «Tu diventerai guardiano di capre, di pecore o di altri animali». Mia madre: «Chi sa che non abbi a diventar prete». Antonio con secco accento: «Forse sarai capo di briganti». Ma la nonna, che sapeva assai di teologia, era del tutto inalfabeta, diede sentenza definitiva dicendo: «Non bisogna badare ai sogni». Io era del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile di togliermi quel sogno dalla mente. Le cose che esporrò in appresso daranno a ciò qualche significato. Io ho sempre taciuto ogni cosa; i miei parenti non ne fecero caso. Ma quando, nel 1858, andai a Roma per trattar col Papa della congregazione salesiana, egli si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali. Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto in età di nove in dieci anni. Il Papa mi comandò di scriverlo nel suo senso letterale, minuto e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione, che formava lo scopo di quella gita a Roma.
Il racconto del sogno presenta uno sviluppo che, pur non essendo privo di qualche complessità, segue strutture narrative molto semplici. Esse si basano fondamentalmente su uno schema tripartito, che prevede di volta in volta la presentazione dell’attore, l’azione e la reazione. Senza poter escludere, soprattutto nei dialoghi, una componente letteraria di completamento dell’intreccio, è abbastanza chiara l’assenza di ogni ricercatezza artificiale nella costruzione della trama. Ciò conferma, anche sul piano analitico, la plausibilità della sostanziale corrispondenza all’esperienza onirica di un bambino.
Anche se nel tessuto narrativo sono ovviamente presenti elementi fondamentali della spiritualità salesiana, si può ulteriormente osservare l’assenza di alcune parole che diventeranno “tecniche” per dire la missione di don Bosco, quali “amorevolezza”, “assistenza”, “educazione”, “anime”, “salvezza” e così via. Le idee che vi corrispondono sono espresse attraverso il linguaggio accessibile a un ragazzo contadino: “porsi alla testa”, “guadagnare i tuoi amici”, “campo” in cui “lavorare”, rendersi “umile, forte, robusto”, “istruzione su peccato e virtù”.
Il protagonista del sogno è chiaramente lo stesso sognatore, i luoghi sono quelli a lui familiari, popolati di una presenza giovanile allegra e festante, ma anche già guastata dal male (risse, schiamazzi, bestemmie). Gli altri personaggi sono in qualche modo tutti a lui noti. A parte i fanciulli, di cui nessuno è identificato, e la mamma, che è una presenza evocata ma non personalmente attiva nel sogno, i due interlocutori del sognatore sono l’uomo venerando e la donna di maestoso aspetto, chiaramente identificabili come Gesù e Maria. I tratti dell’uomo venerando sono l’età virile, il vestito nobile, precisato con il dettaglio di un manto bianco che avvolge tutta la persona, il volto tanto luminoso da non poter essere fissato: tutti particolari che sembrano rinviare all’immaginario evangelico della trasfigurazione del Signore. Il suo agire è segnato da autorevole signoria («mi ordinò»), ma anche da vicinanza verso Giovanni («mi chiamò per nome») e da una efficacia pacificante verso i fanciulli, che si raccolgono intorno a colui che parla. La donna di maestoso aspetto è introdotta come madre dell’uomo venerando, anch’essa ha un manto che pare ricamato di fulgidissime stelle ed è la maestra da cui s’impara la vera sapienza. L’elemento che più direttamente disambigua la sua identità, rivelandola inequivocabilmente come mariana, è il riferimento al comportamento quotidiano del ragazzo, che ha appreso dalla mamma la preghiera dell’Angelus, con cui tre volte al giorno saluta la Vergine.
È interessante notare che nel sogno manca ogni riferimento alla figura paterna, il che corrisponde chiaramente alla situazione biografica di Giovanni, orfano di padre fin dall’età di due anni. Ciò forse si traduce anche nella mancanza di un riferimento diretto al Padre del cielo, poiché lo spazio del trascendente è tutto occupato dalla figura di Gesù e di Maria. Anche questo sembra un tratto dell’esperienza religiosa infantile di Giovanni che non subisce alcun completamento teologico nel momento della scrittura. Tale assenza di un’esplicita presenza paterna potrebbe forse suggerire qualche spunto di riflessione sul suo nesso con la missione che Giovanni riceve nel sogno: è proprio del padre, infatti, essere forte e robusto e lavorare per il bene dei figli. In effetti, la paternità sarà proprio la caratteristica più evidente dell’amore che don Bosco incarnerà per una schiera innumerevole di giovani. Lasciamo comunque sospeso questo discorso, come l’ha lasciato il sogno, limitandoci a suggerire che l’assenza del padre possa essere proprio lo spazio simbolico che Giovanni dovrà personalmente riempire.
La pagina si presenta con una struttura che si può suddividere in queste sezioni:
[C1] cornice iniziale
[I] visione dei ragazzi e intervento di Giovanni
[II] apparizione dell’uomo venerando
[III] dialogo sull’identità del personaggio
[IV] apparizione della donna di maestoso aspetto
[C2] cornice conclusiva
Lasciando da parte, per ora, la cornice iniziale (molto breve) e finale (assai più ampia), portiamo l’attenzione sul contenuto dell’esperienza onirica. La suddivisione in quattro sezioni corrisponde a una chiara successione delle scene.
La prima [I] presenta l’inizio della visione, con una situazione sfidante cui Giovanni dà una risposta immediata e impulsiva. La seconda [II] introduce il “colpo di scena” dell’apparizione dell’uomo venerando che interrompe l’iniziativa di Giovanni e la orienta in altro modo, attraverso un ordine e un insegnamento che provocano in lui confusione e spavento. Si potrebbe far proseguire questa scena, includendo anche la parte del dialogo con il personaggio, ma la descrizione dei ragazzi che cessano dalle risse e si raccolgono intorno a colui che parla introduce di fatto una cesura narrativa, inaugurando a nostro giudizio una nuova unità. La terza sezione [III] si distingue dalle altre perché non contiene azioni, ma solo un dialogo serrato, fatto di quattro domande incalzanti e delle relative risposte. Al centro del dialogo vi è l’interrogativo sull’identità del personaggio, ma le risposte spostano gradualmente l’attenzione sulla presenza di sua madre. L’ultima parte del sogno [IV] presenta l’apparizione del secondo personaggio, la donna maestosa attraverso cui i dubbi di Giovanni dovrebbero trovare risposta. Anch’essa indica un compito da svolgere e propone un ammaestramento, ma il suo discorso s’intreccia con una scena che costituisce come una “visione dentro la visione”, esplicitamente introdotta dall’imperativo: «guarda». Le parole e la visione trasmettono un messaggio esplicativo, ma la conclusione è in realtà segnata da un crescendo di oscurità nel sognatore e dal rimando della comprensione a tempi futuri.
Riprendendo più in dettaglio le singole unità per far emergere la tensione narrativa che le attraversa, possiamo dire che nella prima sezione [I] è possibile riconoscere anzitutto la collocazione spaziale del sogno, in un cortile assai spazioso vicino a casa. Fin dall’inizio vicinanza domestica e apertura dell’orizzonte qualificano l’ambiente immaginifico in cui si dischiude il Lebenswelt del sognatore. L’ambiente è allegramente popolato di fanciulli che si divertono. Subentra però subito l’elemento di disturbo di non pochi che bestemmiano. Il comportamento è percepito dal sognatore come inaccettabile e sfidante ed egli interviene con un moto risoluto e violento, in cui non è difficile riconoscere il carattere naturalmente impetuoso del ragazzo dei Becchi.56 Il primo episodio può essere dunque schematicamente suddiviso in questi tre momenti: (1) collocazione spaziale del sogno, (2) comportamento negativo di un gruppo di fanciulli, (3) reazione spontanea di Giovanni.
Tra la sezione II e IV c’è un parallelismo strutturale evidente. In entrambe infatti c’è una nitida scansione ternaria: apparizione del personaggio, suo ordine/ammaestramento (presentato a sua volta in forma tripartita), reazione alle parole del personaggio. Nel caso dell’uomo venerando il testo può essere ordinato in questo modo:
(1) apparizione dell’uomo venerando e sue caratteristiche
(2) suo ordine/ammaestramento
a. porsi alla testa dei fanciulli [discorso indiretto]
b. non colle percosse
c. mettiti adunque immediatamente...
(3) reazione di Giovanni e reazione dei fanciulli.
Nel caso della donna di maestoso aspetto:
(1) visione della donna e sue caratteristiche
(2) suo ordine/ammaestramento, intrecciato con scena simbolica
* visione di animali feroci
a. ecco il tuo campo
b. renditi umile, forte e robusto
c. ciò che vedi… tu dovrai farlo,
** mutamento degli animali feroci in agnelli mansueti
(3) reazione di Giovanni e assicurazione della donna sulla futura comprensione.
Il parallelismo strutturale e tematico è evidente: i due personaggi sono presentati con caratteristiche simili, che uniscono trascendenza (nobiltà del vestito e splendore della persona) e vicinanza (lui chiama per nome, lei invita a avvicinarsi, prende per mano, pone la mano sul capo); in entrambi i casi c’è l’assegnazione imperativa («mettiti adunque immediatamente», «dovrai farlo») di una missione giovanile e l’insegnamento circa il metodo di dolcezza e mansuetudine da seguire. Anche l’esito dell’incontro è lo stesso in tutte e due le scene: Giovanni ne esce confuso e sgomento, mentre i destinatari della sua missione conoscono una trasformazione pacificante (nella prima scena i ragazzi cessano le risse e si radunano intorno al personaggio venerando, nella seconda gli animali feroci diventano agnelli mansueti che fanno festa intorno all’uomo e alla signora). Nonostante il parallelismo degli elementi, però, sotto il profilo funzionale e dinamico i due momenti non sono semplicemente una ripetizione. Il secondo, infatti, appare come una ripresa del primo che ne intensifica le dinamiche e i contrasti, aumentando la luce, ma paradossalmente anche il buio e il turbamento. Con questa dialettica, dunque, i due episodi mantengono viva la tensione del movimento onirico.
In modo pienamente adatto alla psicologia di un bambino, che spontaneamente si rivolge alla mamma per avere spiegazioni, la funzione della seconda scena è quella di offrire un chiarimento materno della prima. La mamma dell’uomo venerando vi appare come una mediazione per intenderne il messaggio, da lei conosciuto in modo appropriato. Essa però, mentre spiega il contenuto per immagini (la visione degli animali), come spesso le mamme fanno con i figli, custodisce anche la dimensione di mistero che lo avvolge. Il nome del personaggio, che Giovanni avrebbe dovuto sapere dalla donna, rimane infatti sconosciuto, mentre il compito che gli è stato affidato diviene solo in parte più chiaro. Quella che dapprima appariva un’istruzione morale da fare “immediatamente” a un gruppo di ragazzi, appare in seguito come una missione futura a lungo termine, un campo da lavorare assiduamente, svolgendo un’operazione illustrata in modo enigmatico: «ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei». Il lavoro assegnato è quello di far avvenire una metamorfosi (spirituale) che non pare certamente a misura d’uomo. Non c’è da stupirsi che il ragazzo di nove anni non abbia capito: la tensione tra chiarezza e oscurità della prima apparizione (sezione II) viene radicalizzata nella seconda (sezione IV), portandola alle estreme conseguenze.
L’incremento di tensione tra la prima e la seconda apparizione è raggiunto attraverso il dialogo teso della sezione III, con le sue quattro domande/richieste incalzanti: «Chi siete voi…?»; «Dove, con quali mezzi…?»; «Chi siete voi…?»; «Ditemi il vostro nome». È chiaro che la domanda centrale concerne l’identità del personaggio che ha prodotto il “colpo di scena” del sogno, richiedendo al sognatore di cambiare il suo modo di agire. Il tema della missione che il ragazzo dovrà compiere (centrale nelle sezioni II e IV) è, in tal modo, inseparabilmente congiunto all’interrogativo circa il mandante che gliela assegna. Ma insieme alla questione del mandante, emerge anche quella della fattibilità del compito, che pare del tutto sproporzionato alle risorse del sognatore. Alla dialettica tra chiarezza e oscurità della missione, sopra richiamata, si aggiunge così una tensione tra possibilità e impossibilità dell’impresa, restituita con evidenza dalle prime battute del dialogo: «Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?» «Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza».
Le risposte di questa sezione III, invece, spostano gradualmente l’attenzione verso il tema della madre, che apparirà nella IV, con un significativo raddoppio di figure. Le madri di cui si parla, infatti, sono due: quella dell’uomo venerando e quella di Giovanni. Quest’ultima è già per lui una maestra affidabile, ai cui insegnamenti egli si appella per giustificare la sua richiesta: «Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome». L’uomo venerando mostra di conoscere e approvare gli ammaestramenti della mamma di Giovanni, a cui egli pure si appella: «Io sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno». Ma un’altra è la madre, “Mia Madre” dice l’uomo, alla cui scuola Giovanni deve mettersi per imparare la sapienza che rende possibili le cose impossibili.
Questa sezione III, dunque, se per un verso pare una transizione tra le due apparizioni, per l’altro introduce elementi tematici di grande spessore: il sognatore troverà la chiave per accedere all’identità dell’uomo venerando e per acquisire la sapienza che rende possibile l’impossibile presso la Madre/Maestra del misterioso personaggio, che sua madre/maestra gli ha già fatto conoscere. Questa concatenazione mostra come la tensione tra “eccedenza dell’inedito” e “familiarità del già dato” sia il tono narrativo del sogno, la forma in cui il novum trascendente entra nel Lebenswelt del sognatore per modificarlo dalle fondamenta.
Riassumendo la struttura narrativa che emerge dall’analisi, possiamo dunque approdare a questo schema:
[I] situazione iniziale
1. collocazione spaziale del sogno
2. comportamento deviante dei fanciulli
3. reazione spontanea di Giovanni
[II] sezione dell’uomo venerando
1. apparizione dell’uomo venerando e sue caratteristiche
2. suo ordine/ammaestramento triplice:
a. porsi alla testa dei fanciulli (discorso indiretto)
b. non colle percosse…
c. mettiti adunque immediatamente...
3. diversa reazione di Giovanni e dei fanciulli
[III] dialogo intermedio
- «Chi siete voi…?»
- «Dove, con quali mezzi…?»
- «Chi siete voi…?»
- «Ditemi il vostro nome»
[IV] sezione della donna di maestoso aspetto
1. visione della donna e sue caratteristiche
2. suo ordine/ammaestramento triplice intrecciato con scena simbolica:
* visione di animali feroci
a. ecco il tuo campo
b. renditi umile, forte e robusto
c. ciò che vedi… tu dovrai farlo
* mutamento degli animali feroci in agnelli mansueti
3. reazione di Giovanni e assicurazione della donna sulla futura comprensione.
L’analisi della struttura del testo e l’esame della tensione narrativa che attraversa il racconto ci permette ora di giungere a cogliere il “verso”, la “direzione”, il “movimento intenzionale” che caratterizza l’esperienza onirica. Abbiamo visto che la scena si svolge in un ambiente familiare ma fin dall’inizio molto aperto e popolato di presenze (fanciulli che giocano). La percezione di un elemento di disturbo (le bestemmie) fa intervenire focosamente Giovanni che vuole reprimere quel comportamento negativo. Vi è dunque un primo “verso”, che esprime una tendenza naturale all’intervento attivo, all’assunzione di responsabilità e forse un’inclinazione al protagonismo, che corrispondono pienamente ai dati che conosciamo circa il temperamento naturale del sognatore.
Mentre, però, questo gesto prende corpo con tutto il suo impeto fatto di pugni e di parole («mi sono subito lanciato… in quel momento»), accade un fatto sorprendente che chiede un cambio deciso nel “movimento” intenzionale e imprime un nuovo “verso”. Gli elementi che devono cambiare sono due: anzitutto l’obiettivo, che deve essere quello di «guadagnare» i compagni divenendone il leader e non semplicemente reprimere il male; in secondo luogo il metodo: «non colle percosse, ma colla mansuetudine e la carità». Tutto lo sviluppo successivo del sogno può essere considerato come il chiarimento e l’approfondimento di questo cambio di direzione, delle sue prospettive future e delle sue esigenze presenti.
Di fronte a questo cambio di movimento intenzionale richiesto “dall’esterno”, però, emerge immediatamente una resistenza che proviene “dall’interno” del sognatore. Essa si manifesta sotto forma di obiezioni, che fanno leva su due elementi: l’inadeguatezza («povero e ignorante fanciullo, incapace di parlare di religione») e la difficoltà a comprendere («io non sapeva quale cosa si volesse significare»). Alla prima obiezione si dà risposta indicando i mezzi che rendono possibile l’impossibile: ubbidienza e scienza/sapienza. Alla seconda si risponde con un rinvio al futuro: ciò che non è chiaro ora, lo sarà a suo tempo. Non si può nascondere il paradosso contenuto in queste risposte, giacché in buona sostanza affermano che solo obbedendo al comando diventerà pienamente chiaro che cosa esso veramente richiede (!). Vi è comunque un’assicurazione di potenza/possibilità, garantita dall’alto, che compensa l’inadeguatezza/impossibilità percepita dal narratore e un’offerta di luce presente e futura che rende sostenibili gli ampi margini di oscurità. Per quanto il nuovo movimento – o per dirla francamente in termini cristiani: la nuova missione – possa apparire arduo e oscuro, esso va dunque attuato. Questo è il carattere di ingiunzione che il sogno porta con sé.
L’ingiunzione proviene dai due personaggi misteriosi. L’uomo venerando è realmente l’origine e il riferimento decisivo: non solo interviene per primo e in modo imperativo, ma l’obiezione successiva alla visione degli animali torna a essere rivola a lui («pregai quello a voler parlare in modo da capire»). La donna di maestoso aspetto, che è assegnata a Giovanni come maestra sicura e autorevole, in realtà dipende dal figlio, poiché ultimamente non fa altro che mediare il suo volere. Sotto il profilo teologico, che essa abbia da essere maestra circa ciò che all’uomo pare impossibile e oscuro (cfr. Lc 1,37) è del tutto pertinente.
L’impatto dell’ingiunzione sulla coscienza del sognatore è descritta nella cornice finale del sogno. Le Memorie narrano che Giovanni si sveglia e ogni cosa sparisce. Termina la visione onirica, ma non i suoi effetti, impressi non solo nella mente, ma anche nel corpo:
Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi duolesse per gli schiaffi ricevuti; di poi quel personaggio, quella donna, le cose dette e le cose udite mi occuparono talmente la mente, che per quella notte non mi fu possibile prendere sonno.
Ciò è del tutto plausibile, poiché i centri nervosi del cervello durante il sogno mandano realmente i loro segnali agli organi del corpo, in modo tale da disporli all’azione. Come un sogno può far gridare a piena voce, così, qualora l’esperienza sia molto coinvolgente, può far indolenzire le mani e la faccia. Nulla come il corpo, infatti, è testimone attendibile dell’impatto – fisico e psichico – del reale, perché esso non è solo massa organica, ma “carne” che pulsa e che vibra. La testimonianza del corpo, in questo, caso, è particolarmente forte, pari all’intensità dell’impulso che ha registrato: un impulso che avrebbe dovuto orientare una intera vita; anzi, avrebbe dovuto orientarne molte.
Giovanni, dopo esser stato a lungo sveglio, perché quella notte non riesce più a prender sonno, racconta «tosto con premura» il sogno ai fratelli, che si mettono a ridere, poi alla madre e alla nonna, come un giorno poi lo racconterà ai futuri lettori. Inizia così il conflitto delle interpretazioni, che don Bosco non nasconde: quelle buffe (guardiano di capre) e quelle irriguardose (capo di briganti), quelle scettiche (non bisogna badare ai sogni) e quelle spirituali (diventar prete). Colei che meglio si avvicina al cuore dell’esperienza è la madre, già evocata nell’esperienza onirica. Chi darà al sogno la copertura autorevole di cui aveva bisogno per divenire un messaggio pubblico e una profezia ecclesiale è colui che nella Chiesa riveste il ruolo simbolico di padre, il Papa.
Ma ci avviamo così già sul versante di una lettura di fede, che per potersi meglio dispiegare ha bisogno di dotarsi di uno sfondo. Le immagini e le dinamiche del sogno devono essere dunque rapportate a ciò che nella vita della Chiesa costituisce il “canone” del linguaggio della fede, ossia il testo della Scrittura.
1.3.2 3.2. Sfondo biblico |
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Tra i testi biblici che si devono prendere in considerazione come criterio ermeneutico dell’esperienza spirituale del sogno dei nove anni, vi sono ovviamente, anzitutto, quelli che si riferiscono alla possibilità che Dio comunichi con l’uomo attraverso la mediazione dell’immaginazione onirica. Questa convinzione è espressa, pur con le dovute cautele, in modo chiaro tanto nel Primo quanto nel Nuovo Testamento e conosce una serie ampia e articolata di attestazioni. Per il Primo Testamento basti ricordare i sogni di Abramo (Gen 15,12ss), Giacobbe (Gen 28,10), Giuseppe (Gen 37,5-11; in Gen 39-41 Giuseppe appare poi come interprete dei sogni di due dignitari e del faraone), Gedeone (Gdc 6,25ss.), Samuele (1Sam 3,2ss), Natan (2Sam 7,14-17) e Salomone (1Re 3). Dopo l’esilio sono descritte le visioni notturne di Zaccaria (Zc 1-6) e Daniele (Dn 7; in Dn 2 spiega i sogni di Nabocodonosor), mentre il profeta Gioele annuncia che sogni e visioni accompagneranno il tempo dell’effusione dello spirito: «Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (Gl 3,1). L’importanza particolare di questo testo appare se si tiene conto che esso è ripreso dagli Atti degli apostoli nella pagina che narra il prodigio della Pentecoste (At 2, 17-21), vedendo nell’effusione dello Spirito del Risorto il compimento della profezia di Gioele e nei segni che la accompagnano la venuta del tempo in cui il carisma profetico si diffonde nel popolo di Dio. Tra i testi veterotestamentari va ancora annoverato il sogno premonitore di Giuda Maccabeo, che, prima della battaglia contro Nicanore, pronostica la vittoria (2Mac 15,11ss.).
Nel Nuovo Testamento, il Vangelo di Matteo presenta ben tre comunicazioni divine in sogno a Giuseppe (Mt 1,20; 2,13; 2,20) e una ai Magi (Mt 2,12), e riferisce che, durante la passione di Gesù, la moglie di Pilato gli manda a dire: «Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua» (Mt 27,19). Negli Atti degli apostoli, poi, sono segnalate visioni notturne da parte di Anania (At 9,10-12) e di Paolo (At 16,9; 18,9).
La possibilità che Dio parli all’uomo attraverso il sogno trova dunque piena accoglienza nella Scrittura, anche se non mancano avvertimenti che mettono in guardia dal fidarsi di sogni ingannatori (Dt 13,2-4) e viene proibita in modo categorico ogni forma di divinazione (Dt 18,10).57 L’atteggiamento biblico nei confronti dei sogni è dunque complesso: saggiamente prudente, ma non preconcetto. Fa spazio alla possibilità che uomini di Dio ricevano particolari rivelazioni durante il sonno, ma esclude categoricamente che tali comunicazioni si possano chiedere o sollecitare.
La più evidente analogia che si può ritrovare tra un episodio biblico e il sogno del ragazzo dei Becchi è probabilmente da individuare nella vocazione notturna di Samuele, descritta in 1Sam 3,1ss. Anche se nel testo ispirato non viene descritto un sogno di Samuele, la pagina si introduce con l’affermazione che in quei giorni «le visioni non erano frequenti», lasciando così intendere che a questo genere di fenomeni appartiene l’esperienza che il giovane Samuele fa durante la notte, sentendosi ripetutamente chiamare per nome. D’altra parte l’idea di una vera visione notturna, mentre il ragazzo dorme, è confermata dal fatto che al mattino seguente Samuele «temeva di manifestare la visione a Eli» (3,15). Anche per Samuele l’esperienza di una chiamata notturna nel sonno si prolunga in altre visioni. Al termine della scena di vocazione notturna, si dice infatti che «il Signore continuò ad apparire a Silo, perché il Signore si rivelava a Samuele a Silo con la sua parola» (3,21).
Norbert Hofmann58 ha messo in risalto i parallelismi che si possono trovare tra il sogno dei nove anni e i racconti biblici di vocazione profetica, tra cui si può prendere come prototipo quello del profeta Geremia:
Mi fu rivolta questa parola del Signore: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni». Risposi: «Ahimè, Signore Dio! Ecco, io non so parlare, perché sono giovane». Ma il Signore mi disse: «Non dire: “Sono giovane”. Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò e dirai tutto quello che io ti ordinerò. Non aver paura di fronte a loro, perché io sono con te per proteggerti». Oracolo del Signore. Il Signore stese la mano e mi toccò la bocca, e il Signore mi disse: «Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca» (Ger 1,4-9).
Lo schema del racconto di vocazione che sottende questi versetti e che ricorre anche in altre scene di vocazione dell’Antico Testamento presenta questa serie di elementi: descrizione della situazione di partenza e incontro con colui che chiama, missione, obiezione del chiamato, assicurazione di aiuto, segno. Ponendo a confronto lo schema biblico di vocazione veterotestamentaria e la struttura del sogno Hofmann giunge alla conclusione che tra i due «appare globalmente una larga convergenza non solo di natura formale, ma anche di natura contenutistica, verificabile pure nell’analisi dei particolari».59 Meritano in particolare di essere evidenziati, tra questi tratti di somiglianza, quelli che hanno più chiaro rilievo teologico, come il carattere improvviso e inatteso della figura celeste che porta la chiamata; il carattere sociale della missione, che non riguarda mai solo la vicenda personale del chiamato, ma un popolo a lui affidato; la consapevolezza del chiamato della propria inadeguatezza radicale, a motivo della sproporzione che sussiste tra la grandezza dell’incarico e la pochezza delle capacità personali. Nel caso della pagina di Geremia, il parallelismo tra le obiezioni del giovane profeta – «Ahimè, Signore Dio! Ecco, io non so parlare, perché sono giovane» – e quelle di Giovanni nel sogno – «Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que’ giovanetti» – è del tutto evidente. Ciò non implica necessariamente un utilizzo consapevole dello schema biblico da parte dell’autore delle Memorie dell’Oratorio, poiché a giustificare la similitudine del testo basta la comune natura dell’esperienza di chiamata. Non dovrebbe stupire, in ogni caso, che i racconti biblici abbiano avuto un ruolo ispiratore, almeno implicito, nell’atto narrativo di don Bosco.
Rispetto al tema del cambio di “movimento intenzionale” – da un gesto impulsivo di repressione del male a un’azione liberante di guida verso il bene – il punto di riferimento veterotestamentario più evidente è la vicenda di Mosè. Il libro dell’Esodo non parla della giovinezza del condottiero. L’unico episodio che interpone tra la sua nascita e la sua maggiore età è quello dell’uccisione dell’egiziano e della fuga (Es 2,11-15), cui segue la narrazione del matrimonio con Sipporà, la figlia di Reuèl. Il brano merita di essere riportato, perché offre la possibilità di alcune considerazioni importanti:
11Un giorno Mosè, cresciuto in età, si recò [lett.: uscì] dai suoi fratelli e notò i loro lavori forzati. Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli. 12Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’Egiziano e lo sotterrò nella sabbia. 13Il giorno dopo uscì di nuovo e vide due Ebrei che litigavano; disse a quello che aveva torto: «Perché percuoti il tuo fratello?». 14Quegli rispose: «Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di potermi uccidere, come hai ucciso l’Egiziano?». Allora Mosè ebbe paura e pensò: «Certamente la cosa si è risaputa». 15Il faraone sentì parlare di questo fatto e fece cercare Mosè per metterlo a morte. Allora Mosè fuggì lontano dal faraone e si fermò nel territorio di Madian e sedette presso un pozzo.
Il testo evidenzia la crescita di Mosè, che non è solo fisica, ma anche spirituale. Tale crescita si esprime in un’uscita incontro ai suoi fratelli, che il testo narra due volte: al v. 11 e al v. 13. Compare così per la prima volta in questa pagina il verbo “uscire” che sarà centrale nella teologia dell’Esodo. Esso esprime qui il movimento spontaneo e naturale di Mosè, un movimento che, pur nascendo dalla volontà di fare giustizia e reprimere un male, si realizza però in modo violento e scomposto con esiti negativi. In questi versetti viene dunque descritto un primo “esodo” di Mosè, di cui si mostrano i limiti perché «la violenza non arriva a eliminare l’ingiustizia, anzi rende la situazione peggiore di prima, e soprattutto perché all’origine di questo esodo non c’è ancora alcuna missione da parte di Dio – significativamente in tutta questa vicenda egli tace –, ma soltanto l’ideale e l’entusiasmo di un uomo».60 Solo attraverso la vocazione al roveto ardente, luogo archetipo per la tematica della rivelazione del Nome divino, Mosè riceve la nuova direzione interiore, il movimento che lo metterà a capo del popolo e gli consentirà di guidare i suoi fratelli nel giusto percorso di uscita, nel vero esodo.
Nel Nuovo Testamento, lo stesso tema di un cambiamento di direzione interiore è riconoscibile nella storia di Paolo di Tarso. In un primo tempo, la sua adesione alla Legge di Dio trasmessa dai padri si esprime in uno zelo aggressivo e violento, che vuole sopprimere ciò che gli pare incompatibile con l’educazione religiosa ricevuta. Ma mentre Paolo dà corso alla propria spinta interiore, sperimenta sulla via di Damasco un incontro che lo capovolge. Si tratta dell’incontro con una luce che lo rende cieco e lo conduce a mettersi alla scuola di Anania, per imparare a comprendere in modo nuovo ciò che realmente Dio vuole da Lui. Paolo si definirà d’ora in poi «apostolo per vocazione» (cfr. Rm 1,1; 1Cor 1,1) o «apostolo per volontà di Dio» (2Cor 1,1,; Ef 1,1; Col 1,1), sottolineando così che questo cambiamento non è il risultato di una sua ricerca interiore, lo sviluppo di suoi pensieri o riflessioni, ma il frutto di un imprevedibile intervento divino, che ha orientato in una nuova direzione la sua vita. Per questo lui, che era stato «un persecutore e un violento» (1Tim 1,13), ha imparato a «farsi tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1Cor 9,22).
Tanto l’esperienza di Mosè quanto quella di Paolo illuminano in modo penetrante la trasformazione interiore richiesta a Giovanni per abbandonare il suo slancio spontaneo verso la realtà e la sua pretesa di migliorarla con le proprie forze, ed entrare nel movimento e nello stile con cui Dio agisce nella storia.
Tale stile è connotato essenzialmente, nel sogno come nella Scrittura, attraverso la simbolica pastorale. Per quanto nel sogno dei nove anni la terminologia del “pastore” non compaia in modo esplicito, l’immaginario che vi corrisponde è chiaramente attestato, soprattutto là dove i ragazzi per cui Giovanni dovrà lavorare sono rappresentati come mansueti agnelli.61 Tale immaginario, d’altra parte, era familiare a un ragazzo che, come tutti i suoi compagni, passava diverse ore della giornata al pascolo, badando agli animali. Quest’attività quotidiana costituiva dunque un elemento di collegamento spontaneo con l’esperienza religiosa del popolo di Israele, presso cui la pastorizia era uno dei simboli fondamentali per esprimere la guida della comunità e la cura della sua vita. Le greggi hanno bisogno di uomini abili che le guidino e le difendano dalle bestie feroci; allo stesso modo il popolo ha bisogno di guide sagge, che si prendano cura con dedizione e responsabilità della sua vita. Per questo nell’Antico Testamento il titolo di “pastore” viene normalmente attribuito ai re e ad altri ruoli di responsabilità, senza dimenticare che i due più grandi capi di Israele – Mosè e Davide – furono dapprima pastori anzitutto in senso letterale. Il titolo viene però riferito soprattutto a Dio, perché attraverso i pastori messi come capi per il popolo è Lui stesso in realtà che lo guida: «Tu pastore di Israele ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge» (Sal 80,2); «Noi siamo il suo popolo, il gregge che egli conduce» (Sal 95,7); «Il Signore è il mio pastore» (Sal 23,1); «Come un pastore egli fa pascolare il suo gregge e con il suo braccio lo raduna» (Is 40,11). Tra tutti i testi veterotestamentari che fanno uso di questa metafora, emerge in particolare il cap. 34 di Ezechiele. In esso il profeta esprime un duro giudizio sui falsi re-pastori, che anziché dedicarsi al bene del popolo seguono i propri interessi, e riporta la decisione di Dio di assumere in prima persona la funzione di pastore («Io stesso pascolerò le mie pecore … Andrò in cerca della pecora perduta, ricondurrò quella sviata, fascerò la ferita, curerò la malata»). Tale impegno si completa con la promessa che Dio fa di suscitare un pastore secondo il suo cuore: «Susciterò per loro un pastore, che le pascerà» (Ez 34,23).
Nel Nuovo Testamento l’immagine del pastore, che Gesù utilizza nelle parabole e che lascia intravedere il suo atteggiamento interiore quando si commuove di fronte alle folle abbandonate, giunge al suo culmine nel grande discorso cristologico di Gv 10. In polemica con le false guide politiche e religiose, qualificate come mercenari, Gesù si presenta come il “buon pastore”, ossia il pastore autentico inviato da Dio, che conosce le sue pecore una per una e offre per loro la vita. L’immagine del pastore è dunque una delle forme privilegiate in cui si esprime la teologia della missione di Cristo. Il Figlio inviato dal Padre è la guida attraverso cui Dio conduce l’umanità intera a sé, liberandola dal male e introducendola ai pascoli della vita. Questa immagine, però, viene utilizzata nel Nuovo Testamento anche per coloro che Gesù associa alla propria missione, gli apostoli e i solo successori, costituendoli a loro volta come guide e pastori della sua comunità. Le parole di Gesù a Pietro «Pasci i miei agnelli» (Gv 21,15) sono una delle espressioni più alte di questo mandato pastorale. Il compito che il Risorto affida all’apostolo appare come una vera partecipazione al gesto che Gesù stesso continua personalmente a realizzare, conducendo per le strade della storia coloro che fanno parte del suo gregge.
La profondità biblica della metafora pastorale proietta una luce significativa sulla scena del sogno che presenta gli agnelli mansueti che corrono facendo festa intorno all’uomo venerando e alla signora. La missione che il ragazzo del sogno riceve e che eccede totalmente le sue forze è resa possibile dal fatto che ultimamente non deve far leva sulle sue forze, ma piuttosto deve agire “dentro” lo spazio vitale del Risorto. Non è difficile intendere che il Pastore che trasformerà gli animali feroci è Lui stesso e che, per questo, gli agnelli si raduneranno festosi intorno a Lui e alla Madre, e non intorno a Giovanni.
Questa considerazione ci conduce così al tema della simbolica cristologica e mariologica del sogno, cui abbiamo già dovuto necessariamente far cenno, nel commento delle sezioni del racconto, tanto essa è determinante per la sua comprensione. Si è detto delle caratteristiche numinose e insieme familiari che connotano le due figure. Le caratterizza una luce sfavillante, che rende addirittura impossibile fissare lo sguardo sull’uomo, mentre rifulge da tutte le parti nel manto della donna. La luce è chiaramente uno dei tratti più caratteristici della simbologia religiosa per esprimere il divino e la trascendenza: Dio stesso è «avvolto di luce come un manto» (Sal 104,2). Non è il caso, però, di sintetizzare qui tutta la ricchezza biblica di questa metafora, come pure di esplicitare tutti i riferimenti scritturistici (soprattutto apocalittici) che si possono trovare per i tratti e per le azioni che qualificano i due soggetti. Il lettore che abbia un minimo di familiarità con la Scrittura ne coglierà immediatamente le suggestioni. Più importante è invece, a questo punto della riflessione, fermarsi a cogliere alcuni temi teologico-spirituali che il sogno presenta e che trasmette ai lettori come un’eredità di custodire e coltivare.
1.3.3 3.3. Temi spirituali |
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Un commento ai temi teologico-spirituali presenti nel sogno dei nove anni potrebbe avere sviluppi tanto ampi da includere una trattazione a tutto campo della “salesianità”. Letto, infatti, a partire dalla sua storia degli effetti, il sogno apre innumerevoli piste di approfondimento dei tratti pedagogici e apostolici che hanno caratterizzato la vita di san Giovanni Bosco e l’esperienza carismatica che da lui ha preso origine. La natura della nostra indagine e la sua collocazione all’interno di un progetto di ricerca più ampio impongono, tuttavia, di limitarsi ad alcuni elementi, incentrando l’attenzione sui temi principali e suggerendo le linee su cui se ne può approfondire la comprensione. Scegliamo dunque di concentrare l’attenzione su cinque piste di riflessione spirituale che riguardano rispettivamente (1) la missione oratoriana, (2) la chiamata all’impossibile, (3) il mistero del Nome, (4) la mediazione materna e, infine, (5) la forza della mansuetudine.
Il sogno dei nove anni è pieno di ragazzi. Essi sono presenti dalla prima all’ultima scena e sono i beneficiari di tutto ciò che avviene. La loro presenza è caratterizzata dall’allegria e dal gioco, che sono tipici della loro età, ma anche dal disordine e da comportamenti negativi. I fanciulli non sono dunque nel sogno dei nove anni l’immagine romantica di un’età incantata, non ancora toccata dai mali del mondo, né corrispondono al mito postmoderno della condizione giovanile, come stagione dell’agire spontaneo e della perenne disponibilità al cambiamento, che dovrebbe essere conservata in un’eterna adolescenza. I ragazzi del sogno sono straordinariamente “veri”, sia quando appaiono con la loro fisionomia, sia quando sono raffigurati simbolicamente sotto forma di animali. Essi giocano e bisticciano, si divertono ridendo e si rovinano bestemmiando, proprio come avviene nella realtà. Non paiono né innocenti, come li immagina una pedagogia spontaneista, né capaci di fare da maestri a se stessi, come li ha pensati Rousseau. Dal momento in cui appaiono, in un “cortile assai spazioso”, che fa presagire i grandi cortili dei futuri oratori salesiani, essi invocano la presenza e l’azione di qualcuno. Il gesto impulsivo del sognatore, però, non è l’intervento giusto; è necessaria la presenza di un Altro.
Con la visione dei fanciulli s’intreccia l’apparizione della figura cristologica, come ormai possiamo apertamente chiamarla. Colui che nel Vangelo ha detto: «Lasciate che i bambini vengano a me» (Mc 10,14), viene a indicare al sognatore l’atteggiamento con cui i ragazzi vanno avvicinati e accompagnati. Egli appare maestoso, virile, forte, con tratti che ne evidenziano chiaramente il carattere divino e trascendente; il suo modo di agire è contrassegnato da sicurezza e potenza e manifesta una piena signoria sulle cose che avvengono. L’uomo venerando, però, non incute paura, ma anzi porta la pace dove prima c’era confusione e schiamazzo, manifesta benevola comprensione nei confronti di Giovanni e lo orienta su una via di mansuetudine e carità.
La reciprocità tra queste figure – i ragazzi da una parte e il Signore (cui si aggiunge poi la Madre) dall’altra – definisce i contorni del sogno. Le emozioni che Giovanni prova nell’esperienza onirica, le domande che pone, il compito che è chiamato a svolgere, il futuro che gli si apre davanti sono totalmente vincolati alla dialettica tra questi due poli. Forse il messaggio più importante che il sogno gli trasmette, quello che probabilmente ha capito per primo perché gli è rimasto impresso nell’immaginazione, prima ancora di comprenderlo in modo riflesso, è che quelle figure si richiamano a vicenda e che egli per tutta la vita non potrà più dissociarle. L’incontro tra la vulnerabilità dei giovani e la potenza del Signore, tra il loro bisogno di salvezza e la sua offerta di grazia, tra il loro desiderio di gioia e il suo dono di vita devono diventare ormai il centro dei suoi pensieri, lo spazio della sua identità. La partitura della sua vita sarà tutta scritta nella tonalità che questo tema generatore gli consegna: modularlo in tutte le sue potenzialità armoniche sarà la sua missione, in cui dovrà riversare tutte le sue doti di natura e di grazia.
Il dinamismo della vita di Giovanni si prospetta dunque nel sogno-visione come un continuo movimento continuo, una sorta di andirivieni spirituale, tra i ragazzi e il Signore. Dal gruppo di fanciulli in mezzo a cui si è buttato con impeto Giovanni deve lasciarsi attirare al Signore che lo chiama per nome, per poi ripartire da Colui che lo invia e andare a mettersi, con ben altro stile, alla testa dei compagni. Anche se dai ragazzi riceve in sogno pugni così forti, da sentirne il male ancora al risveglio, e dall’uomo venerando ascolta parole che lo lasciano interdetto, il suo andare e venire non è un viavai inconcludente, ma un percorso che gradualmente lo trasforma e fa arrivare ai giovani un’energia di vita e di amore.
Che tutto ciò avvenga in un cortile è altamente significativo e ha un chiaro valore prolettico, poiché della missione di don Bosco il cortile oratoriano diventerà il luogo privilegiato e il simbolo esemplare. Tutta la scena è collocata in quest’ambiente, insieme vasto (cortile assai spazioso) e familiare (vicino a casa). Il fatto che la visione vocazionale non abbia come sfondo un luogo sacro o uno spazio celeste, ma l’ambiente in cui i ragazzi vivono e giocano, indica chiaramente che l’iniziativa divina assume il loro mondo come luogo dell’incontro. La missione che viene affidata a Giovanni, anche se è chiaramente indirizzata in senso catechetico e religioso («fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e la preziosità della virtù»), ha come proprio habitat l’universo dell’educazione. L’associazione della figura cristologica con lo spazio del cortile e le dinamiche del gioco, che certamente un ragazzo di nove anni non può aver “costruito”, costituisce una trasgressione dell’immaginario religioso più consueto, la cui forza ispiratrice è pari alla profondità misterica. Essa infatti sintetizza in sé tutta la dinamica del mistero dell’incarnazione, per cui il Figlio prende la nostra forma per poterci offrire la sua, e mette in luce come non vi sia nulla di umano che debba essere sacrificato per far spazio a Dio.
Il cortile dice dunque la vicinanza della grazia divina al “sentire” dei ragazzi: per accoglierla non occorre uscire dalla propria età, trascurarne le esigenze, forzarne i ritmi. Quando don Bosco, ormai adulto, scriverà nel Giovane provveduto che uno degli inganni del demonio è far pensare ai giovani che la santità sia incompatibile con la loro voglia di stare allegri e con l’esuberante freschezza della loro vitalità, non farà che restituire in forma matura la lezione intuita nel sogno e divenuta poi un elemento centrale del suo magistero spirituale. Il cortile dice allo stesso tempo la necessità di intendere l’educazione a partire dal suo nucleo più profondo, che riguarda l’atteggiamento del cuore verso Dio. Lì, insegna il sogno, non vi è solo lo spazio di un’apertura originaria alla grazia, ma anche l’abisso di una resistenza, in cui si annida la bruttezza del male e la violenza del peccato. Per questo l’orizzonte educativo del sogno è francamente religioso, e non solo filantropico, e mette in scena la simbolica della conversione, e non solo quella dello sviluppo di sé.
Nel cortile del sogno, colmo di ragazzi e abitato dal Signore, si dischiude dunque a Giovanni quella che sarà in futuro la dinamica pedagogica e spirituale dei cortili oratoriani. Di essa vogliamo ancora sottolineare due tratti, chiaramente evocati nelle azioni che nel sogno compiono i fanciulli prima, e gli agnelli mansueti poi.
Il primo tratto va ravvisato nel fatto che i ragazzi «cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui che parlava». Questo tema del “radunarsi” è una delle matrici teologiche e pedagogiche più importanti della visione educativa di don Bosco. In una celebre pagina scritta nel 1854, l’Introduzione al Piano di Regolamento per l’Oratorio maschile di S. Francesco di Sales in Torino nella regione Valdocco,62 egli presenta la natura ecclesiale e il senso teologico dell’istituzione oratoriana citando le parole dell’evangelista Giovanni: «Ut filios Dei, qui erant dispersi, congregaret in unum» (Gv 11,52). L’attività dell’Oratorio è così posta sotto il segno del raduno escatologico dei figli di Dio che ha costituito il centro della missione del Figlio di Dio:
Le parole del santo Vangelo che ci fanno conoscere essere il divin Salvatore venuto dal cielo in terra per radunare insieme tutti i figliuoli di Dio, dispersi nelle varie parti della terra, parmi che si possano letteralmente applicare alla gioventù de’ nostri giorni.
La gioventù, «questa porzione la più dilicata e la più preziosa dell’umana Società», si trova spesso a essere dispersa e sbandata per il disinteresse educativo dei genitori o per l’influenza di cattivi compagni. La prima cosa da fare per provvedere all’educazione di questi giovani è proprio «radunarli, loro poter parlare, moralizzarli». In queste parole dell’Introduzione al Piano di Regolamento l’eco del sogno, maturata nella coscienza dell’educatore ormai adulto, è presente in modo chiaro e riconoscibile. L’oratorio vi è presentato come una gioiosa “radunanza” dei giovani intorno all’unica forza calamitante in grado di salvarli e di trasformarli, quella del Signore: «Sono questi oratori certe radunanze in cui si trattiene la gioventù in piacevole ed onesta ricreazione, dopo di aver assistito alle sacre funzioni di chiesa». Fin da bambino, infatti, don Bosco ha capito che «questa fu la missione del figliuolo di Dio; questo può solamente fare la santa sua religione».
Il secondo elemento che diventerà un tratto identitario della spiritualità oratoriana è quello che nel sogno si rivela attraverso l’immagine degli agnelli che corrono «per fare festa a quell’uomo e a quella signora». La pedagogia della festa sarà una dimensione portante del sistema preventivo di don Bosco, che vedrà nelle numerose ricorrenze religiose dell’anno l’occasione per offrire ai ragazzi la possibilità di respirare a pieni polmoni la gioia della fede. Don Bosco saprà coinvolgere entusiasticamente la comunità giovanile dell’oratorio nella preparazione di eventi, rappresentazioni teatrali, ricevimenti che permettono di fornire uno svago rispetto alla fatica del dovere quotidiano, di valorizzare i talenti dei ragazzi per la musica, la recitazione, la ginnastica, di orientare la loro fantasia in direzione di una creatività positiva. Se si tiene conto che l’educazione proposta negli ambienti religiosi dell’Ottocento aveva solitamente un tenore piuttosto austero, che sembrava presentare come ideale pedagogico da raggiungere quello di una devota compostezza, le sane baraonde festive dell’oratorio si stagliano come espressione di un umanesimo aperto a cogliere le esigenze psicologiche del ragazzo e capace di assecondare il suo protagonismo. L’allegria festosa che segue alla metaformosi degli animali del sogno è dunque ciò cui deve mirare la pedagogia salesiana.
La festa offre, infatti, all’uomo la possibilità di uscire dalle costrizioni del quotidiano, di abbandonare i ruoli che ingabbiano le relazioni e di portare alla luce l’essenziale, ciò che può fondare realmente la gioia di vivere e permettere di riconoscersi insieme come comunità. Alla radice del comportamento festivo, però, si pone una domanda ineludibile, che riguarda il suo fondamento. In tutte le culture, il comportamento festivo presuppone un’autorizzazione, che i partecipanti ai festeggiamenti non possono darsi da sé. La festa non può essere semplicemente il frutto di una decisione autonoma; non si può festeggiare senza avere un motivo reale per farlo, e tale motivo deve nascere da un’esperienza che realmente allarga gli spazi del cuore e introduce nella libertà. Altrimenti la libertà che si mette in scena nella festa è solo un vuoto guscio esteriore, che riveste un’aspirazione frustrata; ultimamente è un’illusione che non può che deludere. Anziché libertà si sperimenta la trasgressione, invece che la comunità si produce il branco, al posto della gioia c’è solo lo schiamazzo che la imita, ma non la dona.
La festa oratoriana pone il proprio centro lì dove gli agnelli del sogno, metamorfosi del branco schiamazzante, l’hanno trovato. Centro, origine e meta della festa giovanile è la presenza di Gesù e di sua Madre. Don Bosco sa che la gioia autentica nasce dalla pace di una coscienza che vive nell’amicizia con il Signore. Per questo prepara le feste con novene che allenano il cuore alla vita di grazia e con il sacramento della Confessione, proposto come vera esperienza di guarigione interiore. La festa è quindi il momento culminante di un vero cammino di trasformazione spirituale, di cui la grazia di Dio è il motore profondo, mentre a sua volta rimanda a un compimento ulteriore, che si avrà nella gioia del cielo, quando la trasfigurazione dell’uomo sarà pienamente compiuta. La Scrittura insegna che tutta la creazione è fin dall’inizio orientata verso il sabato, giorno del riposo di Dio, che non è un tempo vuoto, ma uno spazio per la gratuità dell’incontro e la celebrazione dell’amicizia. L’uomo porta spontaneamente in sé l’anelito a entrare nel giorno di Dio, a tendere verso una pienezza di vita che non conosca più il peso dell’esistenza e la fatica del quotidiano. Questa tensione è particolarmente viva nell’età giovanile, che ricerca con più intensità il gioco e il divertimento, quasi per ricercarvi l’anticipo di una più grande felicità. Don Bosco ha saputo cogliere in questa tensione la base creaturale e lo spazio educativo per un’esperienza spirituale della vera festa, resa possibile dal dono della grazia.
Il legame tra la ricreazione del cortile e il fare festa nella liturgia è certamente uno dei risvolti maturi delle intuizioni che il sogno portava in sé. In un passo delle Memorie dell’Oratorio, descrivendo la vivacità di una giornata tipo in mezzo ai ragazzi, don Bosco afferma: «Io mi serviva di quella smodata ricreazione per insinuare a’ miei allievi pensieri di religione e di frequenza ai santi sacramenti».63 Nelle celebre Lettera da Roma del 1884, che costituisce una delle espressioni più preziose della sua sapienza spirituale, egli pone viceversa un rapporto molto stretto tra la “svogliatezza” della ricreazione e la “freddezza” nell’accostarsi ai sacramenti. Nella missione oratoriana che il sogno gli affida, cortile e chiesa, gioco e liturgia, divertimento sano e vita di grazia dovranno essere strettamente congiunti, come due elementi indissociabili di un’unica pedagogia.
Mentre per i ragazzi il sogno finisce con la festa, per Giovanni termina con lo sgomento e addirittura con il pianto. Si tratta di un esito che non può che stupire. Si è soliti pensare, infatti, con qualche semplificazione, che le visite di Dio siano portatrici esclusivamente di gioia e di consolazione. È paradossale dunque che per un apostolo della gioia, per colui che da seminarista fonderà la “società dell’allegria” e che da prete insegnerà ai suoi ragazzi che la santità consiste nello “stare molto allegri”, la scena vocazionale termini con il pianto.
Ciò può certamente indicare che l’allegria di cui si parla non è puro svago e semplice spensieratezza ma risonanza interiore alla bellezza della grazia. Come tale, essa potrà essere raggiunta solo attraverso impegnative battaglie spirituali, di cui don Bosco dovrà in larga misura pagare il prezzo a beneficio dei suoi ragazzi. Egli rivivrà così su di sé quello scambio di ruoli che affonda le sue radici nel mistero pasquale di Gesù e che si prolunga nella condizione degli apostoli: «noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo, noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati» (1Cor 4,10), ma proprio così «collaboratori della vostra gioia» (2Cor 1,24).
Il turbamento con cui il sogno si chiude, tuttavia, richiama soprattutto la vertigine che i grandi personaggi biblici provano di fronte alla vocazione divina che si manifesta nella loro vita, orientandola in una direzione del tutto imprevedibile e sconcertante. Il Vangelo di Luca afferma che perfino Maria Santissima, alle parole dell’angelo, provò un senso di profondo turbamento interiore («a queste parole ella fu molto turbata» Lc 1,29). Isaia si era sentito perduto di fronte alla manifestazione della santità di Dio nel tempio (Is 6), Amos aveva paragonato al ruggito di un leone (Am 3,8) la forza della Parola divina da cui era stato afferrato, mentre Paolo sperimenterà sulla via di Damasco il capovolgimento esistenziale che deriva dall’incontro con il Risorto. Pur testimoniando il fascino di un incontro con Dio che seduce per sempre, nel momento della chiamata gli uomini biblici sembrano più esitare impauriti di fronte a qualcosa che li eccede, che lanciarsi a capofitto nell’avventura della missione.
Il turbamento che Giovanni sperimenta nel sogno sembra un’esperienza analoga. Esso nasce dal carattere paradossale della missione che gli viene assegnata e che egli non esita a definire “impossibile” («Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»). L’aggettivo potrebbe sembrare “esagerato”, come a volte sono le reazioni dei bambini, soprattutto quando esprimono un senso d’inadeguatezza di fronte a un compito impegnativo. Ma questo elemento di psicologia infantile non sembra sufficiente a illuminare il contenuto del dialogo onirico e la profondità dell’esperienza spirituale che esso comunica. Tanto più che Giovanni ha una vera stoffa da leader e un’ottima memoria, che gli consentiranno nei mesi successivi al sogno di iniziare subito a fare un po’ di oratorio, intrattenendo i suoi amici con giochi da saltimbanco e ripetendo loro per filo e per segno la predica del parroco. Per questo nelle parole con cui dichiara schiettamente di essere «incapace di parlare di religione» ai suoi compagni, sarà bene sentir risuonare l’eco lontana dell’obiezione di Geremia alla vocazione divina: «non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6).
Non è sul piano delle attitudini naturali che si gioca qui la richiesta dell’impossibile, bensì sul piano di ciò che può rientrare nell’orizzonte del reale, di ciò che ci si può attendere in base alla propria immagine del mondo, di ciò che rientra nel limite dell’esperienza. Oltre questa frontiera, si apre appunto la regione dell’impossibile, che è però, biblicamente, lo spazio dell’agire di Dio. “Impossibile” è per Abramo avere un figlio da una donna sterile e anziana come Sara; “impossibile” è per la Vergine concepire e dare al mondo il Figlio di Dio fatto uomo; “impossibile” pare ai discepoli la salvezza, se è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli. Eppure Abramo si sente rispondere: «C’è forse qualcosa di impossibile per il Signore?» (Gen 18,14); l’angelo dice a Maria che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37); e Gesù risponde agli discepoli increduli che «ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27).
Il luogo supremo in cui si pone la questione teologica dell’impossibile è, però, il momento decisivo della storia della salvezza, ossia il dramma pasquale, in cui la frontiera dell’impossibile da superare è lo stesso abisso tenebroso del male e della morte. Com’è possibile infatti vincere la morte? Non è essa stessa l’emblema tassativo dell’impossibilità, il limite invalicabile di ogni possibilità umana, la potenza che domina sul mondo, designandone lo scacco? E la morte di Gesù non sigilla forse tale limite in modo irrevocabile? «Con questa morte, più che con qualsiasi altra, la morte trionfa come fine di ogni possibilità, poiché con la morte del Santo si tratta dell’uccisione della possibilità di tutto e di tutti».64 Eppure proprio nel grembo di quell’impossibilità suprema, Dio ha suscitato la novità assoluta. Risuscitando il Figlio fatto uomo nella potenza dello Spirito, Egli ha capovolto radicalmente ciò che noi chiamiamo il mondo del possibile, sfondando il limite entro cui noi rinchiudiamo la nostra attesa di realtà. Poiché neppure l’impotenza della croce può impedire il dono del Figlio, l’impossibile della morte viene superato dall’inedito della vita risorta, che dà origine alla creazione definitiva e fa nuove tutte le cose. D’ora in poi e “una volta per tutte” non è più la vita a essere sottomessa alla morte, ma la morte alla vita.
È in questo spazio generato dalla risurrezione che l’impossibile diventa effettiva realtà, è in esso che l’uomo venerando del sogno, splendente di luce pasquale, chiede a Giovanni di rendere possibile l’impossibile. E lo fa con una formula sorprendente: «Perché tali cose ti sembrano impossibili devi renderle possibili coll’ubbidienza». Sembrano le parole con cui i genitori esortano i bambini, quando sono riluttanti, a fare qualcosa di cui non si sentono capaci o che non hanno voglia di fare. «Obbedisci e vedrai che ci riesci» dicono allora mamma o papà: la psicologia del mondo infantile è perfettamente rispettata. Ma sono anche, e assai più, le parole con cui il Figlio rivela il segreto dell’impossibile, un segreto che è tutto nascosto nella sua obbedienza. L’uomo venerando che comanda una cosa impossibile, sa attraverso la sua umana esperienza che l’impossibilità è il luogo in cui il Padre opera con il suo Spirito, a condizione che gli si apra la porta con la propria obbedienza.
Giovanni ovviamente rimane turbato e sbalordito, ma è l’atteggiamento che l’uomo sperimenta di fronte all’impossibile pasquale, di fronte cioè al miracolo dei miracoli, di cui ogni altro evento salvifico è segno. Dopo un’acuta analisi della fenomenologia dell’impossibile, J.L. Marion afferma: «Al mattino di Pasqua, solo il Cristo può ancora dire Io: così che, davanti a Lui, ogni Io trascendentale deve riconoscersi come […] un me interrogato, perché sconcertato».65 La Pasqua fa sì che ciò che di più reale c’è nella storia sia qualcosa che l’Io incredulo considera a priori impossibile. L’impossibile di Dio, per essere riconosciuto nella sua realtà, richiede un cambiamento di orizzonte, che si chiama fede.
Non deve dunque stupire che nel sogno la dialettica del possibile-impossibile s’intrecci con l’altra dialettica, quella della chiarezza e della oscurità. Essa caratterizza anzitutto la stessa immagine del Signore, la cui faccia è talmente luminosa che Giovanni non riesce a guardarla. Su quel volto splende, infatti, una luce divina che paradossalmente produce oscurità. Vi sono poi le parole dell’uomo e della donna che, mentre spiegano in modo limpido ciò che Giovanni deve fare, lo lasciano però confuso e spaventato. Vi è infine un’illustrazione simbolica, attraverso la metamorfosi degli animali, che però conduce a un’incomprensione ancora maggiore. Giovanni non può che chiedere ulteriori chiarimenti: «pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare», ma la risposta che ottiene dalla donna di maestoso aspetto rinvia in avanti il momento della comprensione: «A suo tempo tutto comprenderai».
Ciò significa certamente che solo attraverso l’esecuzione di ciò che del sogno è già afferrabile, ossia attraverso l’obbedienza possibile, si dischiuderà in modo più ampio lo spazio per chiarirne il messaggio. Esso non consiste, infatti, semplicemente in un’idea da spiegare, ma in una parola performativa, una locuzione efficace, che proprio realizzando la propria potenza operativa manifesta il suo senso più profondo.
Questa dialettica di luce e oscurità e la forma pratica di accesso alla verità che vi corrisponde sono gli elementi che caratterizzano la struttura teologale dell’atto di fede. Credere, infatti, significa camminare in una nube luminosa, che indica all’uomo la strada da percorrere ma contemporaneamente gli sottrae la possibilità di dominarla con lo sguardo. Camminare nella fede è camminare come Abramo che «partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8); non però nel senso che partì all’avventura, muovendosi a casaccio, ma nel senso che partì in obbedienza «per un luogo che doveva ricevere in eredità». Egli non poteva conoscere in anticipo la terra che gli era promessa, perché la sua disponibilità e consegna interiore contribuivano realmente a farla esistere come tale, come terra dell’incontro e dell’alleanza con Dio, e non solo come uno spazio geografico da raggiungere in modo materiale. Le parole di Maria a Giovanni – «a suo tempo tutto comprenderai» – non sono dunque solo un benevolo incoraggiamento materno, come quello che le mamme danno ai loro figli quando non possono spiegare di più, ma contengono realmente il massimo di luce che può essere offerto a chi deve camminare nella fede.
Giunti a questo punto della riflessione, siamo in grado di interpretare meglio un altro elemento importante dell’esperienza onirica. Si tratta del fatto che al centro della duplice tensione tra possibile e impossibile e tra conosciuto e sconosciuto, e anche, materialmente, al centro della narrazione del sogno, vi sia il tema del Nome misterioso dell’uomo venerando. Il fitto dialogo della sezione III è, infatti, intessuto di domande che ribattono lo stesso tema: «Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»; «Chi siete voi che parlate in questo modo?», e infine: «Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome». L’uomo venerando dice a Giovanni di chiedere il Nome a sua madre, ma in realtà quest’ultima non glielo dirà. Esso resta fino alla fine avvolto nel mistero.
Abbiamo già accennato, nella parte dedicata a ricostruire lo sfondo biblico del sogno, che il tema del Nome è strettamente correlato all’episodio della vocazione di Mosè al roveto ardente (Es 3). Questa pagina costituisce uno dei testi centrali della rivelazione veterotestamentaria e pone le basi di tutto il pensiero religioso di Israele. André LaCoque ha proposto di definirla “rivelazione delle rivelazioni”, perché costituisce il principio di unità della struttura narrativa e prescrittiva che qualifica la narrazione dell’Esodo, cellula-madre dell’intera Scrittura.66 È importante notare come il testo biblico articoli in stretta unità la condizione di schiavitù del popolo in Egitto, la vocazione di Mosè e la rivelazione teofanica. La rivelazione del Nome di Dio a Mosè non avviene come la trasmissione di un’informazione da conoscere o di un dato da acquisire, ma come la manifestazione di una presenza personale, che intende suscitare una relazione stabile e generare un processo di liberazione. In questo senso la rivelazione del Nome divino è orientata in direzione dell’alleanza e della missione.67 «Il Nome è insieme teofanico e performativo, poiché quelli che lo ricevono non sono semplicemente introdotti nel segreto divino, ma sono i destinatari di un atto di salvezza».68
Il Nome, infatti, a differenza del concetto, non designa meramente un’essenza da pensare, ma un’alterità cui riferirsi, una presenza da invocare, un soggetto che si propone come vero interlocutore dell’esistenza. Pur implicando l’annuncio di un’incomparabile ricchezza ontologica, quella stessa dell’Essere che non può mai essere adeguatamente definito, il fatto che Dio si riveli come un “Io” indica che solo attraverso la relazione personale con Lui sarà possibile accedere alla sua identità, al Mistero dell’Essere che Egli è. La rivelazione del Nome personale è dunque un atto di parola che interpella il destinatario, chiedendogli di situarsi nei confronti del parlante. Solo così, infatti, è possibile coglierne il senso. Tale rivelazione, inoltre, si pone esplicitamente come fondamento per la missione liberatrice che Mosè deve realizzare: «Io-sono mi ha mandato a voi» (Es 3,14). Presentandosi come un Dio personale, e non un Dio legato a un territorio, e come il Dio della promessa, e non puramente come il signore dell’immutabile ripetizione, Jahwè potrà sostenere il cammino del popolo, il suo viaggio verso la libertà. Egli ha dunque un Nome che si fa conoscere in quanto suscita alleanza e muove la storia.
Tale Nome sarà però pienamente rivelato soltanto attraverso Gesù. La cosiddetta preghiera sacerdotale di Gesù, che leggiamo in Gv 17, identifica nella rivelazione del Nome di Dio il cuore della missione cristologica (v.6,11,12,26). In questa pagina, come afferma Ratzinger, «Cristo stesso ci appare quasi come il roveto ardente, dal quale fluisce sugli uomini il nome di Dio».69 In Lui Dio diviene pienamente invocabile, poiché in Lui è entrato pienamente in coesistenza con noi, abitando la nostra storia e conducendola nel suo esodo definitivo. Il paradosso qui è che il Nome divino che viene rivelato da Gesù coincide con il Mistero stesso della sua persona. Gesù infatti può attribuire a sé il nome divino – “Io sono” – rivelato a Mosè nel roveto. Il Nome divino viene così rivelato nella sua inimmaginabile profondità trinitaria, di cui solo la vicenda pasquale manifesterà in pienezza il Mistero. Per la sua obbedienza fino alla morte di croce, Gesù infatti è esaltato nella gloria e riceve un Nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché dinnanzi a Lui ogni ginocchio si pieghi, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Solo nel Nome di Gesù, dunque, c’è salvezza, perché nella sua storia Dio ha pienamente compiuto la rivelazione del proprio mistero trinitario.
«Ditemi il vostro nome»: questa domanda di Giovanni non può ricevere risposta semplicemente attraverso una formula, un nome inteso come etichetta esteriore della persona. Per conoscere il Nome di Colui che parla nel sogno non basta ricevere un’informazione, ma è necessario prendere posizione di fronte al suo atto di parola. È necessario cioè entrare in quel rapporto di intimità e di consegna, che i Vangeli descrivono come un “rimanere” presso di Lui. Per questo quando i primi discepoli interrogano Gesù sulla sua identità – «Maestro, dove abiti?» o alla lettera «dove rimani?» – egli risponde «Venite e vedrete» (Gv 1,38s.). Solo “rimanendo” con lui, abitando nel suo mistero, entrando nella sua relazione con il Padre, si può conoscere realmente Chi egli sia.
Il fatto che il personaggio del sogno non risponda a Giovanni con un appellativo, come noi faremmo presentando ciò che c’è scritto sulla nostra carta di identità, indica che il suo Nome non può essere conosciuto come una pura designazione esterna, ma mostra la sua verità solo quando sigilla un’esperienza di alleanza e di missione. Giovanni dunque conoscerà quel Nome proprio attraversando la dialettica del possibile e dell’impossibile, della chiarezza e dell’oscurità; lo conoscerà realizzando la missione oratoriana che gli è stata affidata. Lo conoscerà, dunque, portandoLo dentro di sé, grazie a una vicenda vissuta come storia abitata da Lui. Un giorno Cagliero testimonierà di don Bosco che il suo modo di amare era «tenerissimo, grande, forte, ma tutto spirituale, puro, veramente casto», tanto che «dava un’idea perfetta dell’amore che il Salvatore portava ai fanciulli» (Cagliero 1146r). Questo indica che il Nome dell’uomo venerando, il cui volto era tanto luminoso da accecare la vista del sognatore, è realmente entrato come un sigillo nella vita di don Bosco. Egli ne ha avuta la experientia cordis attraverso il cammino della fede e della sequela. È questa l’unica forma in cui la domanda del sogno poteva trovare risposta.
Nell’incertezza circa Colui che lo invia, l’unico punto fermo cui Giovanni può appigliarsi nel sogno è il rimando a una madre, anzi a due: quella dell’uomo venerando e la propria. Le risposte alle sue domande, infatti, suonano così: «Io sono il figlio di colei che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno» e poi «il mio nome dimandalo a Mia Madre».
Che lo spazio del chiarimento possibile sia mariano e materno è indubbiamente un elemento su cui merita riflettere. Maria è il luogo in cui l’umanità realizza la più alta corrispondenza alla luce che viene da Dio e lo spazio creaturale in cui Dio ha consegnato al mondo la sua Parola fatta carne. È altresì indicativo che al risveglio dal sogno, colei che ne intuisce al meglio il senso e la portata sia la mamma di Giovanni, Margherita. Su livelli diversi, ma secondo una reale analogia, la Madre del Signore e la madre di Giovanni rappresentano il volto femminile della Chiesa, che si mostra capace di intuizione spirituale e costituisce il grembo in cui le grandi missioni vengono gestate e partorite.
Non c’è dunque da stupirsi che le due madri siano accostate tra loro e proprio nel punto in cui si tratta di andare al fondo della questione che il sogno presenta, ossia la conoscenza di Colui che affida a Giovanni la missione di una vita. Come già per il cortile vicino a casa, così anche per la madre, nell’intuizione onirica gli spazi dell’esperienza più familiare e quotidiana si dischiudono e mostrano nelle loro pieghe un’insondabile profondità. I gesti comuni della preghiera, il saluto angelico che era usuale tre volte al giorno in ogni famiglia, improvvisamente appaiono per ciò che sono: dialogo con il Mistero. Giovanni scopre così che alla scuola di sua madre ha già instaurato un legame con la Donna maestosa, che può spiegargli tutto. Vi è già dunque una sorta di canale femminile che consente di superare l’apparente distanza che c’è tra «un povero ed ignorante fanciullo» e l’uomo «nobilmente vestito». Tale mediazione femminile, mariana e materna, accompagnerà Giovanni per tutta la vita e farà maturare in lui una particolare disposizione a venerare la Vergine con il titolo di Aiuto dei cristiani, divenendone l’apostolo per i suoi ragazzi e per la Chiesa intera.
Il primo aiuto che la Madonna gli offre è quello di cui un bambino ha naturalmente bisogno: quello di una maestra. Ciò che essa devi insegnargli è una disciplina che rende veramente sapienti, senza cui «ogni sapienza diviene stoltezza». Si tratta della disciplina della fede, che consiste nel dare credito a Dio e nell’obbedire anche di fronte all’impossibile e all’oscuro. Maria la trasmette come l’espressione più alta della libertà e come la sorgente più ricca della fecondità spirituale e educativa. Portare in sé l’impossibile di Dio e camminare nell’oscurità della fede è, infatti, l’arte in cui la Vergine eccelle al di sopra di ogni creatura.
Essa ne ha fatto un arduo tirocinio nella sua peregrinatio fidei, segnata non di rado dal buio e dall’incomprensione. Basti pensare all’episodio del ritrovamento di Gesù dodicenne nel Tempio (Lc 2,41-50). Alla domanda della madre: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», Gesù risponde in modo sorprendente: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». E l’evangelista annota: «Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro». Meno ancora probabilmente Maria capì quando la sua maternità, annunciata solennemente dall’alto, le fu per così dire espropriata perché divenisse comune eredità della comunità dei discepoli: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50). Ai piedi della croce poi, quando si fece buio su tutta la terra, l’Eccomi pronunciato nel momento della chiamata prese i contorni della rinuncia estrema, la separazione dal Figlio al cui posto doveva ricevere dei figli peccatori per i quali lasciarsi trapassare il cuore dalla spada.
Quando dunque la donna maestosa del sogno inizia a svolgere il suo compito di maestra e, ponendo una mano sul capo di Giovanni, gli dice «A suo tempo tutto comprenderai», essa trae queste parole dalle viscere spirituali della fede che ai piedi della croce l’ha resa madre di ogni discepolo. Sotto la sua disciplina Giovanni dovrà restare per tutta la vita: da giovane, da seminarista, da sacerdote. In modo particolare dovrà rimanervi quando la sua missione prenderà contorni che al momento del sogno non poteva immaginare; quando, cioè, egli dovrà divenire nel cuore della Chiesa fondatore di famiglie religiose destinate alla gioventù di ogni continente. Allora Giovanni, divenuto ormai don Bosco, capirà anche il senso più profondo del gesto con cui l’uomo venerando gli ha dato sua madre come “maestra”.
Quando un giovane entra in una famiglia religiosa, trova ad accoglierlo un maestro di noviziato, cui viene affidato perché lo introduca nello spirito dell’Ordine e lo aiuti ad assimilarlo. Quando si tratta di un Fondatore, che deve ricevere dallo Spirito Santo la luce originaria del carisma, il Signore dispone che sia la sua stessa madre, Vergine della Pentecoste e modello immacolato della Chiesa, a fargli da Maestra. Lei sola, la “piena di grazia”, comprende infatti dal di dentro tutti i carismi, come una persona che conosca tutte le lingue e le parli come fossero la propria.
In effetti la donna del sogno sa indicargli in modo preciso e appropriato le ricchezze del carisma oratoriano. Essa non aggiunge nulla alle parole del Figlio, ma le illustra con la scena degli animali selvaggi divenuti agnelli mansueti e con l’indicazione delle qualità che Giovanni dovrà maturare per svolgere la sua missione: «umile, forte, robusto». In questi tre aggettivi, che designano il vigore dello spirito (l’umiltà), del carattere (la forza) e del corpo (la robustezza), c’è una grande concretezza. Sono i consigli che darebbe a un giovane novizio chi ha una lunga esperienza di oratorio e sa ciò che richiede il “campo” in cui si deve “lavorare”. La tradizione spirituale salesiana ha custodito con cura le parole di questo sogno che si riferiscono a Maria. Le Costituzioni salesiane vi alludono in modo evidente quando affermano: «La Vergine Maria ha indicato a Don Bosco il suo campo di azione tra i giovani»,70 o ricordano che «guidato da Maria che gli fu Maestra, don Bosco visse nell’incontro con i giovani del primo oratorio un’esperienza spirituale ed educativa che chiamò Sistema Preventivo».71
Don Bosco riconobbe a Maria un ruolo determinante nel suo sistema educativo, vedendo nella sua maternità l’ispirazione più alta di ciò che significa “prevenire”. Il fatto che Maria sia intervenuta fin dal primo momento della sua vocazione carismatica, che essa abbia avuto un ruolo così centrale in questo sogno, farà per sempre comprendere a don Bosco che essa appartiene alle radici del carisma e che ove non le sia riconosciuto questo ruolo ispiratore, il carisma non è inteso nella sua genuinità. Data per Maestra a Giovanni in questo sogno, essa dovrà esserlo anche per tutti coloro che ne condividono la vocazione e la missione. Come i successori di don Bosco non si sono mai stancati di affermare, la «vocazione salesiana è inspiegabile, tanto nella sua nascita come nel suo sviluppo e sempre, senza il concorso materno e ininterrotto di Maria».72
«Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici»: queste parole sono senza dubbio l’espressione più nota del sogno dei nove anni, quella che in qualche modo ne sintetizza il messaggio e ne trasmette l’ispirazione. Sono anche le prime parole che l’uomo venerando dice a Giovanni, interrompendo il suo sforzo violento di mettere fine al disordine e alle bestemmie dei suoi compagni. Non si tratta solo di una formula che trasmette una sentenza sapienziale sempre valida, ma di un’espressione che precisa le modalità esecutive di un ordine («mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole») con cui, come si è detto, viene riorientato il movimento intenzionale della coscienza del sognatore. La foga delle percosse deve divenire lo slancio della carità, l’energia scomposta di un intervento repressivo deve lasciar spazio alla mansuetudine.
Il termine “mansuetudine” viene ad avere qui un peso rilevante, che colpisce ancora di più se si pensa che l’aggettivo corrispondente sarà usato alla fine del sogno per descrivere gli agnelli che fan festa intorno al Signore e a Maria. L’accostamento suggerisce un’osservazione che non pare priva di pertinenza: perché possano divenire “mansueti” agnelli coloro che erano animali feroci, bisogna che divenga mansueto anzitutto il loro educatore. Entrambi, seppur a partire da punti diversi, devono compiere una metamorfosi per entrare nell’orbita cristologica della mitezza e della carità. Per un gruppo di ragazzi scalmanati e rissosi è facile capire che cosa esiga questo cambiamento. Per un educatore forse è meno evidente. Egli, infatti, si pone già sul versante del bene, dei valori positivi, dell’ordine e della disciplina: quale cambiamento gli può essere chiesto?
Si pone qui un tema che nella vita di don Bosco avrà uno sviluppo decisivo, anzitutto sul piano dello stile dell’azione e, in certa misura, anche su quello di una riflessione teorica. Si tratta dell’orientamento che conduce don Bosco a escludere categoricamente un sistema educativo basato sulla repressione e sui castighi, per scegliere con convinzione un metodo che è tutto basato sulla carità e che don Bosco chiamerà “sistema preventivo”. Di là delle diverse implicanze pedagogiche che derivano da questa scelta, per le quali rimandiamo alla ricca bibliografia specifica, interessa qui evidenziare la dimensione teologico-spirituale che è sottesa a questo indirizzo, di cui le parole del sogno costituiscono in qualche modo l’intuizione e l’innesco.
Ponendosi dalla parte del bene e della “legge”, l’educatore può essere tentato di impostare la sua azione con i ragazzi secondo una logica che mira a far regnare l’ordine e la disciplina essenzialmente attraverso regole e norme. Eppure anche la legge porta dentro di sé un’ambiguità che la rende insufficiente a guidare la libertà, non solo per i limiti che ogni regola umana porta dentro di sé, ma per un limite che ultimamente è di ordine teologale. Tutta la riflessione paolina è una grande meditazione su questo tema, poiché Paolo aveva percepito nella sua esperienza personale che la legge non gli aveva impedito di essere «un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1Tim 1,13). La stessa Legge data da Dio, insegna la Scrittura, non basta a salvare l’uomo, se non vi è un altro Principio personale che la integri e la interiorizzi nel cuore dell’uomo. Paul Beauchamp riassume felicemente questa dinamica quando afferma: «La Legge è preceduta da un Sei amato e seguita da un Amerai. Sei amato: fondazione della legge, e Amerai: il suo superamento».73 Senza questa fondazione e questo superamento, la legge porta in sé i segni di una violenza che rivela la sua insufficienza a generare quel bene che essa, pure, ingiunge di compiere. Per tornare alla scena del sogno, i pugni e le percosse che Giovanni dà in nome di un sacrosanto comandamento di Dio, che proibisce la bestemmia, rivelano l’insufficienza e l’ambiguità di ogni slancio moralizzatore che non sia interiormente riformato dall’alto.
Occorre dunque anche per Giovanni, e per coloro che apprenderanno da lui la spiritualità preventiva, la conversione a una logica educativa inedita, che va oltre il regime della legge. Tale logica è resa possibile solo dallo Spirito del Risorto, effuso nei nostri cuori. Solo lo Spirito, infatti, consente di passare da una giustizia formale ed esteriore (sia essa quella classica della “disciplina” e della “buona condotta” o quella moderna delle “procedure” e degli “obiettivi raggiunti”) a una vera santità interiore, che compie il bene perché ne è interiormente attratta e guadagnata. Don Bosco mostrerà di avere questa consapevolezza quando nel suo scritto sul Sistema preventivo dichiarerà francamente che esso è tutto basato sulle parole di san Paolo: «Charitas benigna est, patiens est; omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet».
Solo la carità teologale, che ci rende partecipi della vita di Dio, è capace di imprimere all’opera educativa il tratto che ne realizza la singolare qualità evangelica. Non per nulla il Nuovo Testamento identifica nella mitezza e nella mansuetudine i tratti distintivi della “sapienza che viene dall’alto”: essa «anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera» (Gc 3,17). Per questo per coloro che la praticano, facendo opera di pace, «viene seminato nella pace un frutto di giustizia» (Gc 3,18). La “mansuetudine”, o con linguaggio salesiano la “amorevolezza”, che caratterizza tale sapienza è il segno qualificante di un cuore che è passato attraverso una vera trasformazione pasquale, lasciandosi spogliare di ogni forma di violenza.
«Non colle percosse»: la forza di questo imperativo iniziale, cui forse abbiamo fatto troppo l’orecchio per coglierne il carattere d’ingiunzione, si staglia come un’eco delle parole più forti del Vangelo: «Ma io vi dico di non opporvi al malvagio» (Mt 5,39) o «Rimetti la spada nel fodero» (Mt 26,52; cfr. Gv 18,11). Esso rimanda a uno dei tratti che qualificano l’inaudita novità dell’evento cristiano, quello per cui l’assolutezza della sua pretesa veritativa è espressa unicamente nella forma dell’agape, ossia del dono di sé per la vita dell’altro. A partire dalle parole iniziali del sogno veniamo così a trovarci nel cuore stesso della rivelazione cristiana, lì dove è questione del Volto autentico di Dio e della conversione che esso comporta. Lo “stile” dell’educazione cristiana, la sua capacità di generare pratiche e atteggiamenti realmente radicati nell’evento cristologico, si gioca esattamente sulla corrispondenza con quel Volto.
La grammatica religiosa, da sola, non è capace di onorarlo. La vicenda di Gesù mostra con tutta evidenza che anche dentro quella grammatica, con i suoi codici e i suoi riti, le sue regole e le sue istituzioni, può mettere radici qualcosa che non viene da Dio e che anzi gli fa resistenza e gli si oppone. L’evento cristologico viene proprio a fare esplodere queste contraddizioni interne alla pratica del sacro così come i figli di Adamo la trasmettono ai loro figli, adeguandola ai loro standard di giustizia e di punizione; pronti, in nome della Legge, a lapidare l’adultera e a crocifiggere il Santo di Dio.
A fronte di questo modo distorto di intendere la religione, Gesù è venuto a inaugurare un altro Regno, di cui egli è il Signore e di cui il suo ingresso messianico a Gerusalemme rivela in modo emblematico la logica. Entrando nella Città santa in groppa a un asinello, Gesù si presenta come il re-messia che non conquista gli uomini con le armi e gli eserciti, ma solo con la forza mite della verità e dell’amore. Il dono della sua vita, che egli compirà nella città di Davide, è l’unica via attraverso cui il Regno di Dio può venire nel mondo. La sua mansuetudine di Agnello pasquale è l’unica forza con cui il Padre vuole guadagnare i nostri cuori, mostrando l’affidabilità del legame e la giustizia della corrispondenza.
«Non colle percosse ma colla mansuetudine dovrai guadagnare questi tuoi amici». Leggere questa parole sullo sfondo della rivelazione evangelica significa riconoscere che attraverso di esse viene consegnato a Giovanni un movimento interiore che, nella sua genuinità incontaminata, può sorgere solo dal Cuore di Cristo.74 «Non colle percosse ma colla mansuetudine» è la traduzione educativa dello stile “personalissimo” di Gesù.
Naturalmente “guadagnare” i giovani in questo modo è un compito assai esigente. Implica di non cedere alla freddezza di un’educazione fondata solo sulle regole, né al buonismo di una proposta che rinuncia a denunciare la “bruttezza del peccato” e a presentare la “preziosità della virtù”. Conquistare al bene mostrando semplicemente la forza della verità e dell’amore, testimoniata attraverso la dedizione “fino all’ultimo respiro”, è la figura di un metodo educativo che è al contempo una vera e propria spiritualità.
Non c’è da stupirsi che Giovanni nel sogno faccia resistenza a entrare in questo movimento e chieda di comprendere bene chi è Colui che lo imprime. Quando però avrà capito, facendo diventare quel messaggio dapprima un’istituzione oratoriana e poi anche una famiglia religiosa, penserà che raccontare il sogno in cui ha appreso quella lezione sarà il modo più bello per condividere con i suoi figli il significato più autentico della sua esperienza. È Dio che ha guidato ogni cosa, è Lui stesso che ha impresso il movimento iniziale di quello che sarebbe divenuto il carisma salesiano.
1 MO 34s.
2 MO 84. Il testo completo recita: “Intanto si avvicinava la fine dell’anno di Retorica, epoca in cui gli studenti sogliono deliberare intorno alla loro vocazione. Il sogno di Murialdo mi stava sempre impresso; anzi mi si era altre volte rinnovato in modo assai più chiaro, per cui, volendoci prestar fede, doveva scegliere lo stato ecclesiastico; cui appunto mi sentiva propensione: ma non volendo credere ai sogni, e la mia maniera di vivere, certe abitudini del mio cuore, e la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato, rendevano dubbiosa e assai difficile quella deliberazione”.
3 MO 111.
4 MO 37. La prima visita di don Bosco a Roma avvenne tra il 21 febbraio e il 14 aprile 1858. Egli incontrò il Papa più volte, il 9, il 21 (o 23) marzo e il 6 aprile. Secondo il Lemoyne fu nel secondo incontro (21 marzo) che il Papa ascoltò il racconto del sogno e ordinò a don Bosco di scriverlo. Su questo viaggio cfr. P. Braido, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, Roma, LAS 2003, I, 378-390.
5 Stella afferma che di quest’avvenimento possediamo “solide testimonianze” (PST1, 32).
6 C.M. Viglietti, Cronaca di don Bosco. Prima redazione (1885-1888). Introducción, texto crítico y notas por Pablo Marín Sánchez, LAS, Roma 2009, 207.
7 MB XVIII, 341.
8 PST1, 30.
9 PST1, 31s.
10 F. Desramaut, Les Memorie I de Giovanni Battista Lemoyne. Étude d’un ouvrage fondamental sur la jeunesse de siat Jean Bosco, Maison d’études Saint Jean Bosco, Lyon 1962, 250-256. L’indagine è ripresa e sviluppata da A. Lenti, Don Bosco’s Vocation-Mission Dream. Its Recurrence and Significance, «Journal of Salesian Studies» 2 (1991) 45-156. Cfr. anche Id., Don Bosco storia e spirito. 1. Dai Becchi alla Casa dell'Oratorio (1815-1858), LAS, Roma 2017, 211-225.
11 L’edizione critica si trova in MO 34-37. Don Berto, segretario di don Bosco, riprende alla lettera questo racconto, formulandolo ovviamente alla terza persona, nella sua deposizione al processo ordinario per la canonizzazione, come si può leggere in Copia Publica Transumpti Processus Ordinaria auctoritate constructi in Curia Ecclesiastica Taurinensi super fama sanctitatis vitae, virtutum et miracolorum Servi Dei Ioannis Bosco Sacerdotis Fundatoris Piae Societatis Salesianae, 277 r (= retto) -279 r.
12 Ivi, 1080 v (= verso) - 1081r.
13 Nella sua forma più antica si trova, senza indicazione di origine, in G.B. Lemoyne, Documenti per scrivere la storia di D. Giovanni Bosco, dell’Oratorio di S. Francesco di Sales e della Congregazione Salesiana, I, 153
14 Ivi, I, 68-69.
15 “Mi raccontò Lucia Turco, appartenente a famiglia ove D. Bosco recavasi sovente a trattenersi coi di lei fratelli, che un mattino lo videro arrivare giulivo più del solito. Interrogato quale ne fosse la causa, rispose che nella notte aveva avuto un sogno, che tutto l’aveva rallegrato. Pregato a raccontarlo, espose che aveva visto a venire verso di lui una gran Signora, che aveva dietro di sé un gregge molto numeroso, e che avvicinandosi a lui, lo chiamò per nome e gli disse: «Ecco Giovannino: tutto questo gregge lo affido alle tue cure». Intesi poi da altri, che egli chiese: «come farò io ad aver cura di tante pecore e di tanti agnelli? Dove troverò i pascoli per mantenerli?» La Signora gli rispose: «non temere, io ti assisterò» e poi sparì”. (Copia Publica, 2476 v)
16 “Mentre era chierico, mi raccontò pure un giorno che aveva fatto un sogno, che egli si sarebbe stabilito in qualche luogo, dove avrebbe raccolto un gran numero di giovani per istruirli” (Copia Publica…, 768 v).
17 Nel I volume delle Memorie Biografiche Lemoyne riporta fedelmente la narrazione del sogno dei nove anni offerta da don Bosco nella Memorie dell’Oratorio (MB I, 123-126); incrociando varie informazioni a sue disposizione attribuisce la versione trasmessa da Turco (D) a una ripetizione del sogno avvenuta nel 1831, quando don Bosco aveva 16 anni (MB I, 243s.); quella di Barberis (C) a un’ulteriore ripetizione avvenuta nel 1834 quando Giovanni ha 19 anni (MB I, 305s.); e infine quella di Cagliero (B) all’epoca in cui Giovanni era ormai chierico (MB I, 424).
18 Per le questioni relative alla data di composizione del manoscritto originale, della copia di don Berto e degli interventi correttivi di don Bosco cfr. l’Introduzione di E. Ceria alla prima edizione a stampa del documento G. (san) Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, SEI, Torino 1946, 6; F. Desrmaut, Les Memorie I de Giovanni Battista Lemoyne, 116-119; l’Introduzione dell’edizione critica MO 18-19.
19 Per la comprensione della logica narrativa presente nelle Memorie si veda l’eccellente saggio di A. Giraudo, L’importanza storica e pedagogico-spirituale delle Memorie dell’Oratorio, in G. Bosco, Memorie dell’oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, LAS, Roma 2011, 5-49.
20 Indirizzandosi ai salesiani, presenti e futuri, le Memorie si differenziano chiaramente dagli altri testi storici precedenti scritti da don Bosco: la lettera al Vicario di Città del 1846; il Cenno e i Cenni storici del 1854 e del 1862, che si concentrano sulle vicende connesse all’inizio del Catechismo presso S. Francesco di Assisi, poi trasferito al Rifugio della Barolo ecc. fino all’approdo a Casa Pinardi. Tali testi, infatti, erano destinati alle autorità o al pubblico o a benefattori e sostenitori, cui don Bosco voleva offrire un ragguaglio sulla nascita e sulle finalità della sua istituzione, presentando parimenti le attività che vi si svolgevano e i risultati educativi conseguiti.
21 MO 30.
22 “Il vertice di questa strategia di trascinamento dei lettori si raggiunge col sogno della pastorella, collocato nel passaggio dal Convitto a Valdocco, cioè dalla fase delle esperienze iniziali, di indole prevalentemente personale, a quella della realizzazione definitiva dell’Oratorio di carattere comunitario […]. Negli agnelli trasformati in pastorelli […] i figli di don Bosco erano e sono invitati a riconoscere se stessi come continuatori della provvidenziale missione, preconizzati fin dal principio, nell’esperienza profetica del sogno, quali parte viva della storia” (A. Giraudo, L’importanza storica, 19).
23 P. Braido, Scrivere “memorie” del futuro, RSS 11 (1992) 97-127.
24 A. Giraudo, L’importanza storica, 21s.
25 MO 37.
26 A. Bertuletti, Dio, il mistero dell’unico, Queriniana, Brescia 2014, 395s . “Intervenendo contro le forme di malattia che danno figura concreta al male che minaccia l’intera esistenza. Essi attualizzano l’impegno di Dio a favore dell’uomo e raggiungono l’effetto quando confermano la disposizione radicale che Gesù chiama ‘fede’: la convinzione intima che la volontà di Dio nei confronti dell’uomo è univocamente determinata in favore della sua salvezza. […] Ciò spiega l’analogia, sottolineata dagli evangelisti, fra i miracoli e le parabole. Come i miracoli, le parabole uniscono la dimensione di giudizio a quella di edificazione. Esse intendono vincere le resistenze che l’uomo oppone all’accoglimento della parola di Dio a motivo della sua apparente inevidenza. Un evento è intervenuto nel presente che cambia la faccia della terra, ma esso deve essere cercato per poter essere compreso” (396).
27 P. Ricoeur, Tempo e racconto. I, Jaca Book, Milano 1986; Tempo e racconto II. La configurazione del racconto di finzione, Jaca Book, Milano 1987; Tempo e racconto III. Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano 1988; Id., Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1989; Id., Sé come un altro, Jaca Book Milano, 1993; Id., L’identité narrative, “Revue des sciences humaines” 95 (1991) 35-47.
28 Tra testo e azione, dunque, c’è sempre una circolarità: sono il polo oggettivo e il polo soggettivo della stessa attuazione. Il testo rivela l’azione perché fornisce il modello per interpretarla. L’azione è come un testo perché ha un progetto, un’intenzione, un agente (che cosa, perché, chi). Per questo il racconto mostra i tratti specifici dell’azione umana: la struttura gerarchica delle azioni complesse; il loro carattere storico; la loro struttura teleologica, cioè il riferimento all’orizzonte totale della vita. Ma d’altro lato il linguaggio non viene capito radicalmente se non in quanto azione: non solo esprime qualcosa di già costituito, ma concorre a costituirlo.
29 Come afferma Ricoeur, «la soggettività non è né una sequenza incoerente d’eventi, né una sostanzialità immutabile, inaccessibile al divenire. È proprio quel tipo d’identità che soltanto la composizione narrativa può creare con il suo dinamismo […]. L’identità narrativa si trova nel mezzo […] tra puro cambiamento e identità assoluta» (P. Ricoeur, La vita: un racconto in cerca di narratore, in ID., Filosofia e linguaggio, a cura di D. Jervolino, Guerini e Associati, Milano, 169-185, 184s.).
30 Per questo anche l’opera più scientificamente distaccata di uno storico ha ultimamente la forma di un racconto, che definisce un punto di partenza e un punto di arrivo, raggiunti attarvero un intreccio in cui sono messi in scena protagonisti e altri attori colti nell’interagire di una trama. La storia non è sussumibile in teoria; essa può essere capita solo in quanto raccontata, ha cioè una intelligibilità narrativa.
31 Le stesse correzioni che si trovano nel manoscritto, e che la preziosa edizione critica di Antonio Da Silva Ferreira mette a disposizione, attestano la qualità accurata di questa selezione linguistica.
32 Per il mondo classico, cfr. E. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 (in particolare il capitolo Schema onirico e schema di civiltà); L. Binswnager, Il sogno. Mutamenti nella concezione e interpretazione dai greci al presente (1928), Quodlibet, Macerta 2009; per il mondo biblico, cfr. J.M. Husser, Songe, in Supplement au Dictionnaire de la Bible, vol. 12 (1996), 1439-1543; E.R. Hayes - L.-S. Tiemeyer (edd.), “I Lifted my Eyes and Saw”. Reading Dream and Vision Reports in the Hebrew Bible, Bloomsbury, London 2014.
33 L. De Paula, Il sogno tra radicalismo scettico e realismo onirico, http://www.uniurb.it/Filosofia/isonomia/2008depaula. pdf, 3.
34 “Freud non è riuscito a oltrepassare un postulato fondamentale della psicologia del XIX secolo: che il sogno è una rapsodia d’immagini. Se il sogno fosse solo questo, lo si potrebbe esaurire in un’analisi psicologica condotta o nello stile meccanico di una psicofisiologia o in quello di una ricerca dei significati. Ma il sogno è probabilmente ben altro che una rapsodia di immagini, per la semplice ragione che è un’esperienza immaginaria; e se non si lascia esaurire – l’abbiamo appena visto – da un’analisi psicologica è perché rientra anche nell’ambito della teoria della conoscenza. Fino al XIX secolo, è proprio nei termini di una teoria della conoscenza che si è posto il problema del sogno. Il sogno viene descritto come una forma d’esperienza assolutamente specifica, e se è possibile metterne in luce la psicologia, questo avviene in seconda battuta e in modo derivato, a partire dalla teoria della conoscenza che lo situa come tipo di esperienza. È questa tradizione dimenticata che Binswanger riprende in Sogno ed esistenza” (M. Foucault, Il sogno, Raffaello Cortina, Milano 2003, 28).
35 L. De Paula, Il sogno tra radicalismo scettico e realismo onirico, 16.
36 Si tratta del frammento IX, cit. in M Foucault, Il sogno, 42.
37 L. Binswanger, Il sogno. Mutamenti nella concezione e interpretazione dai greci al presente (1928), Quodlibet, Macerata 2009; Sogno ed esistenza (1930), SE, Milano 1993.
38 M Foucault, Il sogno, 43.
39 L. De Paula, Il sogno senza inconscio. Immaginazione notturna tra psicologia e fenomenologia, Alpes, Roma 2013, 31. Anche solo per vedere una persona cara ho bisogno dell’immaginazione. È grazie ad essa se, nel cuore della percezione, io riesco a dar forma alla persona e agli oggetti che lo circondano. Nel vissuto percettivo è sempre all’opera un movimento di ulteriorità e trascendenza, una dinamica intenzionale che organizza e coordina l’attività sensoriale dischiudendone l’orizzonte.
40 M. Zambrano, Il sogno creatore, Mondadori, Milano 2002, 24.
41 Copia Publica Transumpti Processus Ordinaria, 1195r-v.
42 PST2, 507.
43 Tra i suoi discepoli, in ogni casi, la convinzione che i sogni fossero, in ampia parte, vere e proprie “visioni divine”, era largamente diffusa. Così si esprime, ad esempio, il Cagliero nella già citata deposizione: “Fra le rivelazioni che il Servo di Dio ebbe da fanciullo e da sacerdote, e che egli chiamava sogni, …” (Copia Publica Transumpti Processus Ordinaria, 1135r). Parimenti don Cerruti attesta che quella fosse l’idea comune tra i ragazzi: “Io e la gran maggioranza dei miei compagni li abbiamo quasi sempre creduti visioni, modi cioè con cui il Signore faceva vedere a don Bosco quel che voleva da lui, e soprattutto ciò che occorreva al nostro bene spirituale” (ibi, 1362v). Le testimonianze di questo genere si potrebbero moltiplicare.
44 K. Rahner, Visioni e profezie, Vita e Pensiero, Milano 1995.
45 K. Rahner, Visioni e profezie, 52. Postcristiano va inteso qui nel senso di “appartenente all’epoca successiva all’evento cristologico”.
46 K. Rahner, Visioni e profezie, 38s.
47 K. Rahner, Visioni e profezie, 31
48 Ibi, 39, nota 12. “D’altra parte bisogna comprendere, proprio a partire da questa fondamentale struttura incarnatoria in cui Dio e il creato sono raccolti in unità senza confusione, che si può accedere a Dio soltanto nel segno – anche nella figura della visione – solo se non ci si attacca al segno (‘noli me tangere’) quasi fosse qualcosa di definitivo e ultimo, Dio stesso, ma lo si attesta trascendendolo e lo si afferra lasciandolo libero” (ibid).
49 Ibi, 66.
50 “In concreto, sarà ovviamente quasi impossibile dire dove corra con esattezza, nell’atto della visione, il confine tra le leggi psichiche necessariamente valevoli e quelle naturali, anche se non necessarie, che vengono sospese attraverso l’intervento miracoloso di Dio” (66). Inoltre, “se già nella visione immaginativa bisogna supporre necessariamente un elemento soggettivo, ciò potrà darsi a maggior ragione dopo la visione, anche là dove si tratta di persone assolutamente oneste: correzioni involontarie, errori di memoria, utilizzazione di schemi di pensiero precostituiti e di un vocabolario già confezionato nel racconto con il quale inavvertitamente vengono spostate le prospettive, aggiunte involontarie di tipo supplementare, descrizione psicologica e interpretazione dell’accaduto, le quali riescono meglio o peggio a seconda della capacità di auto-osservazione del visionario” (97s.).
51 Ibi, 68.
52 Ibi, 69.
53 Ibi, 119. “Il veggente parapsicologico afferra in maniera impersonale un piccolo brandello del futuro, che in modo assolutamente causale, senza senso e ciecamente, s’intrufola nella sfera della sua conoscenza. Ciò che è visto direttamente, è visto chiaramente e concretamente, quasi si fosse sul posto. Lo si può riferire al modo di un reportage. Ma ciò che è visto così chiaramente, resta in se stesso isolato e quindi, nonostante la chiarezza, incomprensibile” (ibid).
54 Ibid.
55 Il testo critico è in MO 34-37. Le due varianti sono indicate da Aldo Giraudo in G. Bosco, Memorie dell’oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, LAS, Roma 2011, 62s., nota 18: «presemi», ove Da Silva legge «presomi»; e nota 19: integrazione di «ed ogni cosa disparve», accidentalmente omesso da Da Silva.
56 Sull’indole impulsiva e focosa del carattere di don Bosco abbiamo queste significative testimonianze di coloro che l’hanno conosciuto molto da vicino: “Per sua stessa confessione, da me udita, era di naturale focoso ed altero e non poteva soffrire resistenze, eppure con molti atti seppe talmente frenarsi da diventare uomo pacifico e mansueto e talmente padrone di se stesso che pareva non avesse mai cosa da fare” (Marchisio, in Copia Publica Transumpti Processus Ordinaria, 629r). Simile è il giudizio di don Cagliero e di don Rua: “Per sua stessa confessione, il suo naturale era focoso ed altero, per cui non poteva soffrire resistenze, e provava in sé una lotta inesprimibile, quanto aveva da presentarsi a qualcuno a domandare la carità” (Cagliero, ibi 1166r); “Egli era di carattere focoso, come io, e molti altri con me, ho potuto constatare; poiché in varie circostanze ci accorgevamo quanta violenza dovesse farsi per reprimere i moti di collera per le contrarietà che gli succedevano. E se questo si verificava nella sua età avanzata, lascia luogo a credere, che ancor più vivo fosse il suo carattere nella gioventù” (Rua, ibi 2621 r-v).
57 Se da un lato Giobbe afferma che Dio “nel sogno, nella visione notturna, quando cade il torpore sugli uomini, nel sonno sul giaciglio, allora apre l’orecchio degli uomini e per la loro correzione li spaventa, per distogliere l’uomo dal suo operato e tenerlo lontano dall’orgoglio” (Gb 33,14-17); dall’altro i profeti avvertono: “Non vi traggano in errore i profeti che sono in mezzo a voi e i vostri indovini; non date retta ai sogni che essi sognano, poiché falsamente profetizzano nel mio nome: io non li ho inviati” (Ger 29,8-9; cfr. Ger 27,9)
58 N. Hofmann, Der Berufungstraum Don Boscos, “Schriftenreihe zur Pflege salesianischer Spiritualität” 29 (1991) 1-48. Un’edizione ridotta in lingua italiana è reperibile in: N. Hofmann, Il sogno della vocazione di don Bosco, in ABS, Bollettino di collegamento n. 11, 43-65
59 N. Hofmann, Il sogno, 53.
60 Esodo, nuova versione, introduzione e commento di M. Priotto, Paoline, Milano 2014, 72.
61 Per quanto la terminologia del “pastore” non ricorra in modo esplicito nel racconto, la sua simbologia è indubbiamente sullo sfondo. Essa peraltro diventerà esplicita in un secondo sogno, che le Memorie dell’Oratorio narrano più avanti, qualificandolo come una sorta di “appendice di quello fatto ai Becchi” (MO [1991] 129). In questo sogno, che don Bosco ha nella notte precedente la seconda domenica di ottobre del 1844, egli vede nuovamente la scena di animali schiamazzanti che diventano agnelli mansueti, ma a questo si aggiunge un nuovo elemento meraviglioso, poiché “molti agnelli cangiavansi in pastorelli, che crescendo prendevano cura degli altri” (130). La stessa figura femminile del sogno dei nove anni ritorna anche in questo nella figura di una “pastora”. L’immaginario pastorale, che nel primo sogno era presente come sfondo implicito, diviene così progressivamente più chiaro.
62 Il testo critico è pubblicato in P. Braido (ed.), Don Bosco educatore. Scritti e testimonianza, LAS 31996, 108-111.
63 MO 160.
64 J.L. Marion, Nulla è impossibile a Dio, “Communio” n. 107 (1989) 57-73, 62.
65 Ibi, 72.
66 A. LaCocque, La révélation des révélations: Exode 3,14, in P. Ricoeur - A. LaCocque, Penser la Bible, Seuil, Paris 1998, 305.
67 Con riferimento a Es 3,15, in cui il Nome divino è unita al singolare umano «tu dirai», A. LaCocque afferma: «Il più grande dei paradossi è che colui che solo ha il diritto di dire “Io”, che è l’unico ’ehjeh, ha un nome che include un seconda persona, un “tu”» (A. LaCocque, La révélation des révélations: Exode 3,14, 315).
68 A. Bertuletti, Dio, il mistero dell’unico, 354.
69 J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1971, 93.
70 Cost art. 8.
71 Cost art. 20.
72 E. Viganò, Maria rinnova la Famiglia Salesiana di don Bosco, ACG 289 (1978) 1-35, 28. Per una ricezione critica della devozione mariana nella storia delle Costituzioni dei Salesiani, cfr. A. van Luyn, Maria nel carisma della “Società di San Francesco di Sales”, in Aa.Vv., La Madonna nella “Regola” della Famiglia Salesiana, Roma, LAS, 1987, 15-87.
73 P. Beauchamp, La legge di Dio, Piemme, Casale Monferrato 2000, 116.
74 Per questo l’art. 11 delle Costituzioni afferma che “lo spirito salesiano trova il suo modello e la sua sorgente nel cuore stesso di Cristo, apostolo dl Padre”, precisando che esso si rivela nell’atteggiamento del “Buon Pastore che conquista con la mitezza e il dono di sé”.