Educare come Don Bosco 2012-2103, Meditazione 7 - Gratuità

APRILE 2013


GRATUITÀ - GRAZIA - EUCARISTIA



La nostra riflessione è impostata oggi su uno dei termini più utilizzati nella fede cristiana e nella teologia: la “Grazia”. È una di quelle parole che abbracciano la totalità del Mistero Cristiano da una prospettiva specifica, come “Epifania”, ma è spesso utilizzata in modo improprio. Anzitutto molti dimenticano che la Grazia non è “qualcosa”, ma Qualcuno: Dio stesso. Con l’effetto di considerarla quasi come un oggetto, una cosa (infatti parliamo delle “diverse grazie”). Inoltre, molti dimenticano il suo carattere di gratuità, considerandola persino come dipendente più da noi che da Lui; in concreto, “l’essere” (o non-essere) “in Grazia”, il farla crescere o perderla dipenderebbe da noi, quando, in realtà, possiamo perdere tutto … tranne la Grazia, intesa come quell’amore gratuito e incondizionato con cui Dio si dona a noi.



1. La perdita del senso della Gratuità


Dopo questa motivazione teologica iniziale, un po’ provocatoria, vorrei invitarvi a prendere come punto di partenza la realtà umana che sta alla base della gratuità, non perché possiamo costruirla prima “dal basso” e poi “battezzarla” assumendola cristianamente. Piuttosto è vero il contrario, dalla fede possiamo comprendere e scoprire tutta la profondità, anche umana, della gratuità. Nonostante ciò, come salesiani vogliamo mettere in pratica la nostra convinzione, che non esiste separazione tra natura e grazia, e approfondire la sua “infrastruttura antropologica”, anche per constatare il “deficit di gratuità” nel quale vive oggi il nostro mondo.


Ci sono molti segni che indicano questa carenza; ne ho scelti tre particolarmente significativi per noi.


1. Nella cultura occidentale il modello di “uomo riuscito” è quello che può dire con orgoglio: “tutto quello che ho, l’ho potuto ottenere da me stesso”; “non mi hanno regalato niente”… Spesso le persone che sono state capaci di costruire con successo la loro vita “dal basso” diventano poi nemiche accanite contro la promozione dei bisognosi, considerando (forse un po’ pelagianamente) che “tutti hanno le stesse opportunità e se qualcuno non ha saputo sfruttarle, peggio per lui. In questa prospettiva la gratuità non trova posto; anzi, non è neppure considerata una virtù. Nella mentalità odierna, per giunta, viene considerato quasi esclusivamente un solo paradigma per valutare la “realizzazione umana”: la produttività economica o materiale.


2. Nell’ambito familiare è significativo il trattamento riservato alle persone anziane o malate, a quelle, cioè, che non possono più “produrre”. Diversamente dalle culture ancestrali, nelle quali le persone anziane sono valutate come l’asse del gruppo familiare, come il “saggio” la cui parola è norma di condotta e giudizio inappellabile, nella nostra cultura spesso sono viste come un intralcio e, nel migliore dei casi, sono inviate in centri assistenziali o case di cura. Se non ci sono queste risorse istituzionali, vengono “sopportate” in casa, senza valutare quello che hanno dato o quello che potrebbero dare, se i criteri di valutazione fossero più umani e meno consumistici. Purtroppo queste situazioni talvolta si fanno presenti anche nella vita religiosa.


3. A livello mondiale, la situazione di disuguaglianza tra i paesi cosiddetti “del primo mondo” e i paesi “del terzo mondo” è inaccettabile, ma per alcuni aspetti continua a crescere. La proposta di un “condono del debito” contratto dai paesi poveri, con qualche eccezione, non ha avuto ascolto; frequentemente, dobbiamo dirlo, questo non è un problema economico, ma soprattutto politico: serve per conservare la situazione di dipendenza provocata dallo stesso debito. Il concetto di “giustizia” inteso come “dare a ciascuno quello che si merita” non lascia spazio alla gratuità; anche se, indubbiamente, molte cose potrebbero migliorare nel nostro mondo se almeno ci fosse questo tipo di giustizia, se la norma di condotta tra le persone e le nazioni fosse… la legge del taglione. Si deve percorrere ancora molta strada da per arrivare alla civiltà dell’amore; concretamente, questa sarà impossibile se non cerchiamo di svegliare e sviluppare un senso e una cultura della gratuità.



2. La Gratuità, realtà umana fondamentale


Dopo quanto è stato detto, si potrebbe pensare di fare un passaggio immediato verso la prospettiva cristiana e teologica, lasciando a livello antropologico un vuoto totale, dando così l’impressione che la proposta di fede è soltanto risposta a un problema umano insolubile. Forse in fondo così accade, ma non dobbiamo ignorare lo “spazio intermedio” dove tutti gli esseri umani (anche i non cristiani!) possono e devono fare esperienza di gratuità, in maniera che la fede cristiana possa poi sviluppare tutta la sua ricchezza, come pienezza di qualcosa che ogni essere umano vive e spera.


La gratuità è intimamente connessa con l’esperienza del dono, del regalo. E tuttavia ha connotazioni leggermente diverse. La gratuità sottolinea l’assenza di meriti da parte di chi riceve: altrimenti, non è gratuito. Lo stipendio che un lavoratore riceve alla fine della settimana, è guadagnato con il sudore della sua fronte: non è ricevuto gratis.

Purtroppo, senza quasi renderci conto, attribuiamo spesso al dono un’altra caratteristica: è selettivo; cioè viene concesso ad alcuni e non ad altri (almeno, non a tutti). Un “regalo universale” sembra quasi contraddittorio, non sembra più un “regalo” 1.

Fatte queste precisazioni, analizziamo, ancora a livello umano, le due esperienze fondamentali di gratuità.


1. La difficoltà menzionata sopra impedisce, molte volte, di percepire che alla base stessa della nostra esistenza c’è un dono. La vita è un dono gratuito, positivo e universale. Si tratta del dono per eccellenza, per due motivi:


  • nessuno può fare niente per meritarla, perché per meritare qualche cosa è necessario prima esistere;

  • qualsiasi altro dono che possiamo ricevere è posteriore, e presuppone la vita stessa.


Per questo, diventa molto interessante e significativo l’atteggiamento con cui affrontiamo la domanda che molte volte sorge di fronte a situazioni particolarmente negative della vita e della storia: ci sono persone che non meritano di vivere?


La nostra risposta unanime è certamente: “no!” Ed è la risposta corretta. Ma come giustifichiamo questa risposta? La ragione vera non è quella che siamo abituati a pensare, cioè che tutti abbiamo il diritto alla vita, ma che nessuno “merita” la vita. Proprio per questo nessuno può disporre della vita di un’altra persona… Forse nel caso di un diritto che “si ha”, si potrebbe perdere; ma nel caso contrario?


Alla base di ogni essere umano, senza eccezione, troviamo dunque il dono per eccellenza. Un’altra questione, indubbiamente molto rilevante per noi come cristiani e come salesiani, è capire se ogni essere umano percepisce la propria vita come un dono, cioè come un regalo o qualcosa di positivo. Purtroppo molte volte non è così: a cominciare da tanti giovani che, per diverse ragioni, non trovano motivi per vivere, forse perché non si sentono amati da nessuno…


2. Questo ci porta alla seconda esperienza di gratuità. Se la vita è il dono gratuito per eccellenza, lo è in quanto fondamento, non in quanto pienezza. Una domanda che sorge spontanea è: perché ho questo dono, la vita? Che cosa può dare senso alla mia vita? E qui la risposta è immediata e universale: l’amore. Cediamo la parola a san Tommaso, un’espressione straordinaria formulata con una insuperabile concisione: “La ragione di ogni donazione gratuita è l’amore: infatti diamo gratuitamente qualcosa a qualcuno perché gli vogliamo bene. La prima cosa dunque che gli diamo è l'amore con il quale vogliamo a lui bene. Quindi è chiaro che l'amore ha natura di primo dono da cui provengono tutti i doni gratuiti”2. Josef Pieper colloca questa frase come epigrafe del suo straordinario libro sull’amore 3.


La gratuità dell’amore è un tema inesauribile, anche dal punto di vista umano. Innanzitutto questa gratuità potrebbe essere scambiata per mancanza di motivazione e, di conseguenza, risultare incomprensibile. Perché amo questa persona? È una domanda che rimane sempre senza una risposta adeguata (meno male: se ci fosse una risposta forse non sarebbe più amore autentico). È stato detto genialmente da Montaigne che, per spiegare la sua amicizia con Étienne de La Boétie, scrive: « Si on me presse de dire pourquoi je l’aimais, je sens que cela ne se peut exprimer qu’en répondant : Parce que c’était lui, parce que c’était moi »4.


Una seconda caratteristica nell’esperienza dell’amore é l’”assenza di condizioni”. Ci possono essere altre forme di rapporto interpersonale che si fondano su diverse qualità: bellezza fisica, intelligenza, abilità, ecc.; ma l’amore autentico, senza essere insensibile o indifferente a tutto questo (ubi amor, ibi oculus, diceva Ricardo di san Vittore), trascende tutte queste condizioni.


Nonostante ciò, come ogni esperienza umana, non è privo di ambiguità: potrebbe condurre o a una accettazione incondizionata, tipica del vero amore, o a uno “svuotamento” tale dell’altro (proprio perché questo rapporto non dipende da nessuna delle sue caratteristiche personali) che sarebbe semplicemente una caricatura dell’amore: infatti chi ama così non lo fa veramente, né l’altra persona si sente amata come persona. In molti casi, può essere un sottile stratagemma dell’egoismo. Sant’Agostino l’ha espresso genialmente nelle sue Confessioni: “Ancora non amavo, ma amavo l’amare” - Nondum amabam, et amare amabam 5.


Si potrebbe continuare questa analisi, ma ritengo più conveniente esplicitare l’altra dimensione nell’elisse dell’amore. Fin qui abbiamo visto l’atteggiamento di colui che ama. Ma come si vive sull’altro fronte di questa esperienza?


Qui troviamo qualcosa di straordinariamente paradossale.

A prima vista sembra evidente che tutti vogliamo essere amati, e soprattutto essere amati in maniera gratuita e incondizionata. Le cose però non sono così semplici. Cedo di nuovo la parola a J. Pieper:


Ogni amore è fondamentalmente gratuito. Non lo si può né meritare né esigere; è sempre puro dono (…) Ma pare che nell’uomo vi sia qualcosa come un’avversione all’essere fatto oggetto di dono. Non vi è nessuno a cui non sia un po’ familiare l’espressione: Non voglio regali! E questo sentimento confina terribilmente con l’altro: non voglio essere ‘amato’, meno che meno poi senza motivo! (…) E C. S. Lewis dice che l’amore, di cui abbiamo veramente bisogno, è proprio quello gratuito, non il tipo di amore che noi desideriamo. ‘Noi desideriamo essere amati per la nostra intelligenza, bellezza, generosità, gentilezza, abilità’ 6.


L’esperienza passiva, l’essere amati, fa emergere l’ambiguità di cui parlavamo; la persona amata, infatti, potrebbe chiedersi: voglio lasciarmi ‘spogliare’ di tutto quello che mi costituisce come ‘io’ unico e irripetibile? Quando qualcuno dice: “Ti amo comunque, non mi interessa come sei”: esprime amore senza condizioni o disinteresse e indifferenza? È molto difficile lasciarsi amare incondizionatamente dagli altri, e persino da Dio stesso …


Oltre a questo malinteso, forse c’è un altro motivo che potrebbe spiegare il rifiuto ad essere amati incondizionatamente: la apparente inutilità della risposta dell’amato. Se la persona che ama non appare interessata alla corrispondenza dell’altro, la persona amata si percepisce in una situazione di innegabile inferiorità. Ha molta ragione Nietzsche, quando afferma: “A chi si abitua soltanto a dare, si formano calli nelle mani e nel suo cuore”. Dobbiamo affermarlo chiaramente: all’essenza dell’amore corrisponde il dare… e il ricevere, anche in Dio. Questa ultima affermazione sarà sviluppata più avanti.



3. “La Grazia e la Verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1, 17b)


Dalla prospettiva della gratuità si possono indicare tre caratteristiche fondamentali dell’Amore divino:


- l’universalità: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi” (1 Tim 2, 4). Da qui nasce il carattere missionario della Chiesa in senso stretto e, con sottolineature proprie, della missione salesiana in essa. Credo che uno degli elementi che meglio possono aiutare a capire la “necessità” dell’appartenenza alla Chiesa in rapporto alla salvezza è il suo carattere di comunità: dobbiamo prendere sul serio il fatto che fuori dalla Chiesa non c’è esperienza piena di salvezza, proprio perché manca la manifestazione concreta, percettibile, storica dell’Amore di Dio in Gesù Cristo, che si vive nella Chiesa Famiglia di Dio.


- l’iniziativa è di Dio: “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che per primo ha amato noi” (1 Gv 4, 10). La Grazia, in quanto espressione gratuita dell’Amore divino, è sempre pre-veniente: precede sempre la risposta umana; anzi, essa stessa è in certo modo dono di Dio, pur non escludendo affatto la libertà umana. In questo senso il Sistema Preventivo di Don Bosco affonda le sue radici nel midollo della nostra fede: “Don Bosco visse (…) un’esperienza spirituale ed educativa che chiamò ‘sistema preventivo’. Era per lui un amore che si dona gratuitamente, attingendo alla carità di Dio che previene ogni creatura con la sua Provvidenza” (Cost. 20). Nella semantica di questa parola, pre-venire, mi sembra che possiamo trovare due sensi: uno, la pre-cedenza; e un altro, lo sforzo per evitare qualcosa di negativo. Nel primo senso, parliamo dell’amore che antecede sempre; nel secondo, della preoccupazione per impedire l’esperienza dell’allontanamento da Dio, il peccato (perciò, possiamo utilizzare tutti e due termini: pre-veniente, pre-ventivo).


- in fine l’incondizionalità. L’Amore di Dio, in quanto Grazia, non presuppone niente per poter amare, ma mostra persino una predilezione - sconcertante, secondo i criteri umani - per quello che non è “amabile”, per chi non “ha nessun diritto” di pretendere di essere amato. “I peccatori, infatti, sono belli perché sono amati (da Dio), non sono amati perché sono belli” 7.


Non resisto la tentazione di citare un bellissimo testo di Dostoevskij, pronunciato da un personaggio per niente “esemplare”, l’ubriacone Marmeladov:


E tutti giudicherà e perdonerà, i buoni e i cattivi, i saggi e i mansueti… E quando avrà finito con tutti gli altri, allora apostroferà anche noi: ‘Uscite’ dirà ‘anche voi! Uscite, ubriaconi, uscite, deboli, uscite, uomini senza onore!’ E noi usciremo tutti, senza vergogna, e ci metteremo ritti dinanzi a Lui. E dirà: ‘Porci siete! Con l’effigie della bestia e la sua impronta; ma venite anche voi!’ E l’apostroferanno i saggi, l’apostroferanno coloro che hanno giudizio: ‘Signore! Perché mai accogli anche costoro?’ E dirà: ‘Li accolgo, saggi, li accolgo, perché non uno di loro s’è ritenuto degno di ciò…’ E tenderà verso di noi le braccia Sue, e noi cadremo in ginocchio… e scoppieremo in pianto… e tutto capiremo!”8



4. L’Amore di Dio, Agape e Eros


L’esperienza che l’uomo fa dell’amore, anche dell’Amore di Dio, è un’esperienza umana. In quanto tale non può liberarsi dall’ambiguità inerente ad ogni captazione dell’amore. Purtroppo molte volte accade questo: l’universalità dell’Amore di Dio viene considerata genericità, il suo precederci è così lontano che passa inavvertito e l’assenza di condizioni viene intesa come indifferenza. L’evangelizzazione e la catechesi, proprio in quanto annuncio della manifestazione dell’Amore divino, devono fare il possibile per dissipare questi malintesi, perché l’Amore possa essere percepito, in tutta la sua bellezza ed efficacia, nella vita di ognuno di noi e dei giovani che il Signore ci affida.


Di tutti questi malintesi vorrei approfondirne uno, che mi sembra praticamente inesplorato. Da quello che conosco, l’unico che ha osato affrontarlo è stato Joseph Ratzinger, ed è consolante che lo abbia fatto essendo il Pastore supremo della Chiesa Universale. Purtroppo anche i più grandi autori hanno dato per scontato che l’Amore di Dio è diverso dall’amore umano, ad esempio per la sua totale ed assoluta gratuità, per cui Egli non si aspetta niente in cambio. J. Pieper afferma, senza pensare che ci sia bisogno di dimostrarlo, che “si dovrebbe essere Dio per essere capaci soltanto di amare, senza esser costretti a ricorrere all’essere amati”9.


Da parte sua S. C. Lewis scrive: “Dio è Amore (…) Questo Amore originario è un ‘amore-dono’: in Dio non vi è fame che debba essere saziata, ma solo pienezza che desidera donare (…) Gli ‘affetti-bisogno’, per quanto ho potuto sperimentare, non assomigliano a Colui che è l’amore stesso” 10.


Quasi in maniera letterale vengono contraddetti dal Papa Benedetto XVI, con termini teologicamente insoliti: “L’Onnipotente attende il ‘sì’ delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa (…) Sulla Croce è Dio stesso che mendica l’amore della sua creatura: Egli ha sete dell’amore di ognuno di noi” (Messaggio per la Quaresima 2007).


Continuando questo sforzo per “imparare” cos’è l’Amore, contemplando la sua manifestazione piena e definitiva in Gesù Cristo, ci domandiamo: Qual è il “caso ottimo” (“figura piena” lo chiama Eberhard Jüngel 11) nell’esperienza dell’amore, riguardo alla gratuità?


Se vogliamo rispondere schematicamente, possiamo stabilire queste diverse possibilità:


- amare senza aspettare/sperare nessuna risposta dalla persona amata: è chiaro che non si tratta del “caso ottimo” dell’amore (anche se Jüngel apre una porticella: “Naturalmente non è da escludersi che l’essenza dell’amore venga in luce ancora più nitidamente dal punto di vista ermeneutico quando il ‘tu’ amato non ama ‘l’io’ amante” 12).


- amare per essere ricambiato: anche qui è evidente che non si dà il “caso ottimo”, e forse neanche si tratta di un vero amore, ma di egoismo mascherato.


- amare in maniera disinteressata, ma aspettando una risposta dalla persona amata, per il bene di essa stessa: io voglio che la persona amata corrisponda al mio amore, non per il mio bene, ma per il suo, per uscire da se stessa e realizzarsi come persona, attraverso l’amore. È una posizione molto “nobile”, ma dobbiamo riconoscere, se siamo sinceri, che non è umanamente soddisfacente.


- amare in maniera disinteressata, ma aspettando una risposta della persona amata, per il bene di essa stessa, in quanto corrisponde a chi la ama: è una posizione apparentemente uguale alla precedente, ma c’è una differenza essenziale: la convinzione che la persona amata potrà trovare la felicità soltanto nell’“amante”. Questo caso sarebbe inaccettabile nelle relazioni umane (“chi ti credi di essere?”) ma, curiosamente, è il caso tipico della relazione con Dio: in quel caso, si tratta della salvezza, bene intesa: soltanto Dio può essere la felicità di chi corrisponde al suo Amore.


- Purtroppo non siamo ancora nel “caso ottimo”. È necessario aggiungere, alla luce di tutto quello che abbiamo riflettuto, che questa risposta dell’uomo all’Amore di Dio costituisce la piena felicità dell’amato… e anche dell’Amante, Dio stesso. Prendere questo sul serio, mi sembra che ci porti a intravedere, nella penombra del Mistero del Dio-Amore rivelato in Cristo, prospettive insospettabili…

Dostoevskij ha un testo straordinario quando descrive una giovane madre che si fa il segno della croce davanti al primo sorriso del suo bambino; la donna lo spiega così: “La gioia che la madre prova quando osserva il primo sorriso della sua creatura è esattamente la stessa gioia che prova Dio ogni volta che vede dal cielo un peccatore inginocchiarsi davanti a Lui per pregare di cuore” 13.



5. “Fate questo in memoria di Me”: il dono dell’Eucaristia


Tutto questo ci permette di capire molto meglio l’affermazione del Rettor Maggiore nella sua lettera sull’Eucaristia:


L’Eucaristia è mistero perché in essa ci è svelato tanto amore (cfr. Gv 15, 13), un amore così divino che, oltrepassando le nostre capacità, ci sopraffa e ci lascia sbalorditi. Anche se non sempre ne siamo consapevoli, di solito troviamo difficoltà a ricevere il dono dell’Eucaristia, l’Amore di Dio reso manifesto nella consegna del corpo di Cristo (cfr. Gv 3, 16), che eccede la nostra capienza e sfida la nostra libertà; Dio è sempre più grande del nostro cuore ed arriva dove non possono i nostri migliori desideri (…) Un amore tanto estremo ci spaventa, svela la povertà radicale del nostro essere; il bisogno profondo di amare non ci lascia tempo, né energie, per lasciarci amare. E, così, preferiamo essere indaffarati, rifugiarci nel fare tanto per gli altri e dare loro tanto di noi, e ci priviamo dello stupore di saperci tanto amati da Dio (ACG 398, p. 14).


Evidentemente, il Rettor Maggiore riprende qui alcuni contenuti ed espressioni dell’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis, che tutti noi senz’altro conosciamo ed abbiamo meditato.


Tra molte altre riflessioni possibili, vorrei concentrarmi sulla radice stessa della parola Eucaristia: ritroviamo la ς, che sottolinea al massimo il suo senso di gratuità, in quanto non troviamo qui “un” dono di Dio, ma lo stesso Dio fatto Dono per noi. Quello che il Papa afferma, all’inizio della sua prima enciclica, Deus caritas est: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (DCE, n. 1), si concretizza nell’Eucaristia (cfr. Sacramentum Caritatis n. 86 et passim): “Gesù nel Sacramento eucaristico continua ad amarci ‘fino alla fine’, fino al dono del suo corpo e del suo sangue. Quale stupore deve aver preso il cuore degli Apostoli di fronte ai gesti e alle parole del Signore durante quella Cena! Quale meraviglia deve suscitare anche nel nostro cuore il Mistero eucaristico!” (SC, n. 1).


In secondo luogo conviene ricordare che l’ultima Cena, in quanto tale, si vede preceduta da molte altre (altrimenti non sarebbe “l’ultima”). Il Rettor Maggiore ci ricorda questo senso di “convivio” che è l’Eucaristia, prendendo come punto di partenza il “mangiare insieme” da parte di Gesù, in particolare con i peccatori. Basta ricordare, tra altri testi evangelici, Mt 9, 9-13; Lc 5, 29-30; 15, 1ss. (ACG 398, p. 33-35).


Sorge una domanda interessante: quale Sacramento della Chiesa trova qui il suo “fondamento cristologico”, l’Eucaristia o la Riconciliazione? Penso che la risposta dovrebbe essere: tutte e due, in maniera inseparabile. Non si può dimenticare che il perdono costituisce un elemento centrale nella vita e nella missione di Gesù, come espressione privilegiata dell’Amore misericordioso di Dio. Anzi, soltanto nell’Amore può avere la sua autentica radice. Questo lo possiamo vedere anche attraverso l’analisi etimologico della parola; almeno nelle lingue occidentali, la sua radice è semplicissima: donare, regalare, con un prefisso intensivo per (anche nel campo linguistico anglosassone: for-give, ver-geben). In altre parole, non c’è un dono più grande e più gratuito che il per-dono; e, ricordando la frase di san Tommaso, non c’è autentico perdono che non nasca dall’amore.


Tutto questo può avere, tra molte altre concretizzazioni, una che si riferisce alla nostra vita comunitaria. Nell’Eucaristia “la comunità vi celebra il mistero pasquale (…) per costruirsi in Lui come comunione fraterna e rinnovare il suo impegno apostolico” (Cost. 88). Prendere sul serio l’Eucaristia dovrebbe portarci a crescere nella fraternità comunitaria (includendo la realtà quotidiana del perdono) e accettando il comandamento di Gesù, “Fate questo in memoria di Me”, essere anche noi corpo che si dona, sangue che si versa per la salvezza dei nostri giovani.


Infine, vorrei invitarvi a contemplare Maria. Non c’è bisogno di “inventarci” presenze apocrife nell’Ultima Cena (né apparizioni pasquali): Giovanni Paolo II allude a questo ricordando che “nel racconto dell’istituzione, la sera del Giovedì Santo, non si parla di Maria” (EdE, n. 53). Non ce n’è bisogno. “Al di là della sua partecipazione al Convito eucaristico, (…) Maria è donna ‘eucaristica’ con l’intera sua vita” (ibidem). “Da Lei dobbiamo imparare a diventare noi stessi persone eucaristiche ed ecclesiali” (SC, n. 96).

Dopo l’esplicitazione di questa affermazione nei diversi testi neotestamentari, il Beato conclude: “Se il Magnificat esprime la spiritualità di Maria, nulla più di questa spiritualità ci aiuta a vivere il Mistero eucaristico. L’Eucaristia ci è data perché la nostra vita, come quella di Maria, sia tutta un Magnificat!” (EdE, n. 58).

1 Forse potrebbe persino vedersi, da questo punto di vista, il midollo della discussione teologica degli anni 50 sul tema - indubbiamente, centrale nella teologia cattolica - del Soprannaturale.

2 S. Th., I, q. 38, a. 2, resp. Il testo originale é: “Ratio autem gratuitae donationis est amor, ideo enim damus gratis alicui aliquid, quia volumus ei bonum. Primum ergo quod damus ei, est amor quo volumus ei bonum. Unde manifestum est quod amor habet rationem primi doni, per quod omnia dona gratuita donantur”.

3 J. PIEPER, L’Amore, Brescia, Morcelliana, 1974, p. 8.

4 « Se mi si chiede di spiegare perché l’amavo, mi accorgo che ciò non può essere espresso se non rispondendo : Perché era lui e perché ero io », citato da: M. WIRTH, François de Sales et l’Éducation, Paris, Éditions Don Bosco, 2005, p. 92.

5 SAN AGUSTÍN, Confesiones III/1, Madrid, BAC, 1991, p. 131.

6 JOSEF PIEPER, Sull’Amore, pp. 58-59 (la citazione de Lewis si trova in: C. S. LEWIS, Los Cuatro Amores, Madrid, Rialp, 2002, 145).

7 J. MOLTMANN, Il Dio Crocifisso, Brescia, Queriniana, 2002, pp. 248-249.

8 F. M. DOSTOYEVSKI, Delitto e Castigo, Milano, Mondadori, 2004, p. 30.

9 J. PIEPER, Sull’Amore, p. 65.

10 S. C. LEWIS, I quattro Amori, Milano, Jaca Book, 2006, 115-116. Los Cuatro Amores, pp. 140-141.

11 Cfr. EBERHARD JÜNGEL, Dio Mistero del Mondo, Brescia, Queriniana, 2004, p. 414.

12 Ibid.

13 F. M. DOSTOEVSKIJ, l’Idiota, Torino, Einaudi, 2004, p. 220.

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