Educare come Don Bosco 2012-2103, Meditazione 6 - Non basta amare

FEBBRAIO 2013


NON BASTA AMARE”

LA MANIFESTAZIONE DELL’AMORE



Questa meditazione si centra su uno dei temi fondamentali del nostro Carisma e della nostra Spiritualità Salesiana. Basterebbe ricordare, tra molti altri testi della nostra Tradizione, la Lettera da Roma del 10 maggio 1884, dove Don Bosco ha plasmato, in maniera insuperabile, questo tratto essenziale del Sistema Preventivo. Nonostante ciò, possiamo correre il rischio di farlo diventare, in maniera superficiale, soltanto uno “slogan” pubblicitario. In realtà, invece, ha una densità straordinaria dal punto di vista pedagogico o spirituale ed una ricchezza teologica che è necessario approfondire, perché ci porta alle radici della Rivelazione cristiana.


Come nelle riflessioni precedenti, anche qui prenderemo come punto di partenza l’esperienza umana, non perché si vuole minimizzare la novità cristiana di questo tema, ma perché crediamo fermamente che non c’è nessuna opposizione tra natura e grazia, tra Creazione e Redenzione.


1. L’Amore ha bisogno di manifestarsi


Alla realtà stessa dell’amore, fin dall’esperienza umana di esso, possiamo applicare, in maniera analoga, quello che san Giovanni dice su Dio: “L’amore, nessuno lo ha mai visto”. Il titolo di questo primo punto, però, non vuole affermare soltanto che, se l’amore non si manifesta, non può essere percepito (questo è ovvio!), ma vuole sottolineare che l’amore, per la sua stessa natura, cerca di rendersi visibile, vuole essere percepito dalla persona amata. Inoltre - è necessario dirlo con chiarezza – l’amore brama una risposta, che non può arrivare se non egli non si manifesta.


È necessario continuare ad analizzare questa esperienza. Ci chiediamo: perché chi ama deve manifestare l’amore? Senz’altro, perché non può smettere di farlo; ma anche - e questo non sempre si prende in considerazione – perché questa manifestazione dell’amore ha una ricaduta sulla persona amata. Se quello che voglio di più è la sua felicità, desidero anche che sappia che è amata.


Questa impostazione ci porta ad una prospettiva della fenomenologia dell’amore che troppe volte si dimentica, o si trascura: non ci stiamo collocando dal punto di vista dell’amare, ma dell’essere-amato e del sentirsi-amato. Questa dimenticanza è propiziata, molte volte, da un malinteso: quello di pensare che “vale di più dare che ricevere”, arrivando alle volte persino a non volere nessuna risposta da parte della persona amata: come se fosse più nobile questo amore “disinteressato”. Di più: forse pensiamo che, in questa maniera, assomigliamo di più a Dio. Il Santo Padre Benedetto XVI, nella sua Enciclica Deus caritas est e, ancor di più, nel suo Messaggio per la Quaresima 2007, offre spunti straordinariamente fecondi per dissipare questo malinteso. Il Papa scrive: “L’Onnipotente attende il ‘sì’ delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa (…) La risposta che il Signore ardentemente desidera da noi è innanzitutto che noi accogliamo il suo amore e ci lasciamo attrarre da Lui”.

Il malinteso, sopra accennato, purtroppo si fa presente nella stessa concezione della vita cristiana, che viene vista come un “amare e servire Dio”, nella fiducia di ottenere in questo modo una Sua doverosa risposta, cioè la salvezza. La vita cristiana, invece, dovrebbe essere compresa e vissuta con la gioia della gratitudine, come un “essere amati da Dio”. Soltanto da questa convinzione della nostra fede può nascere il nostro amore verso di Lui, come risposta riconoscente e gioiosa.


Ritorniamo alla prospettiva prima abbozzata, cioè all’esperienza “passiva” dell’essere amati; il pensatore cattolico tedesco Josef Pieper ha scritto al riguardo pagine straordinarie. Partendo da Jean-Paul Sartre, “questo è il nucleo della gioia dell’amore: noi vi ci sentiamo giustificati di esistere”, Pieper continua: “ (L’amore) non è considerato dalla parte di colui che ama, ma da quella dell’amato. È evidente quindi che non ci basta esistere semplicemente: questo infatti lo facciamo ‘lo stesso’ e ‘comunque’. Ciò che per noi è importante, al di là di questo semplice fatto, è la conferma esplicita: è bene che tu esista, com’è meraviglioso che tu ci sia! In altri termini, ciò di cui noi abbiamo ancora bisogno, oltre il puro esistere, è essere amati da qualcuno (…). Questa ‘cosa stupenda’, quale ci appare a prima vista, viene confermata in cento modi dall’esperienza che abbiamo a portata di mano, da esperienze cioè che ognuno fa giorno per giorno. Noi diciamo: una persona ‘fiorisce’, ‘sboccia’, quando le succede di essere amata; soltanto allora essa diviene completamente se stessa, incomincia per lei una ‘nuova vita’”1.


Tutti noi, penso, abbiamo vissuto questa esperienza nel nostro lavoro educativo e pastorale con i giovani, ed essa costituisce una delle gioie più profonde e autentiche. Mi esprimo con altri termini: se non ci sentiamo amati da nessuno ‘sentiamo vergogna’ di essere in questo mondo, ci percepiamo come persone coinvolte in una festa alla quale non sono state invitate. Ma appena una persona ci ama, diceva sopra Sartre, “sentiamo giustificata la nostra esistenza”; e nell’esperienza pedagogica, il cambiamento (anche esterno) diventa, molte volte, straordinario.


Vorrei insistere su questa dimensione dell’esperienza dell’amore, perché ‘l’essere-amato’ sottolinea il carattere unico, singolare ed irripetibile della persona amata. La sola dimensione attiva dell’amare non garantisce automaticamente il riconoscimento della singolarità della persona amata. Basta pensare alla frase, tante volte ascoltata, “fai il bene, senza guardare a chi lo fai”. Possiamo parlare di ‘amore’, mentre consideriamo desiderabile l’anonimato della persona amata? E, soprattutto, questa persona sarà contenta vedendosi trattata così? Forse questo comportamento si potrà definire “beneficenza”, ma manca un elemento essenziale perché sia autentico amore.


A mio avviso, sta qui la radice dell’eros, senza il quale tanto la sessualità, da una parte, come lo stesso agape, dall’altra, possono diventare “impersonali”. Per Don Bosco ogni ragazzo era unico e irripetibile, anche se ne incontrava cento o mille. Erano tutti “oggetto” del suo amore!



2. L’espressione e la Manifestazione dell’Amore


Approfondendo la fenomenologia dell’amore, proprio perché l’amore sia percepito come tale, conviene fare un’importante distinzione tra espressione e manifestazione dell’amore. L’”espressione” sgorga più “immediatamente” dalla natura stessa dell’amore, e pertanto è più legata a chi ama; la “manifestazione”, invece, è più legata a chi riceve l’amore. La manifestazione precisa e “spiega” l’espressione e, per questo, è più legata alla parola. Purtroppo ci potrebbe anche essere il rischio della menzogna, cioè che la parola non corrisponda alla realtà che cerca di manifestare.


Possiamo dire che, in uno schema dinamico, l’amore segue questo processo di sviluppo:


realtà - espressione - manifestazione - captazione


Tutto questo ha, nel Carisma Salesiano, una straordinaria applicazione, come possiamo immaginare, e cercheremo poi di vedere.


Ci ricorda questa dinamica un proverbio spagnolo: “obras son amores, y no buenas razones” (le opere sono la prova dell’amore, più che le belle parole); possiamo dire che l’espressione dell’amore sono le azioni e la sua manifestazione tutto quello che ci permette di conoscere la fonte dalla quale provengono queste azioni, cioè l’amore stesso. Questa manifestazione, come abbiamo detto prima, è anzitutto la parola, ma ci possono essere anche altri segni. All’amore (anche nella sua realtà umana) possiamo applicare le parole del Concilio Vaticano II: l’economia della Rivelazione si realizza attraverso opere e parole, intrinsecamente legate tra di esse (cfr. DV 2).


Si possono fare due ulteriori osservazioni in quest’analisi dell’esperienza umana. Una sulla novità della manifestazione: manifesta qualche cosa che pre-esiste; è nuova proprio perché quello che pre-esisteva non si era manifestato. Questa manifestazione, inoltre, crea una nuova situazione: chi dice ad una persona “Ti amo”, stabilisce con lei una nuova (e meravigliosa) realtà.


L’altra sulla natura “sacramentale” della manifestazione: l’efficacia dell’amore risiede, in grande parte, nella sua percezione. Se manca il segno, anche se esiste la realtà che lo farebbe possibile, non si produce la captazione e, di conseguenza, non c’è la possibilità della risposta da parte di chi è amato, ma … non lo sa!


In maniera più semplice e universale: molte volte accade, soprattutto nella vita matrimoniale e familiare, che, pur esistendo l’amore, e forse anche la sua espressione (ad esempio il mutuo servizio, lo sforzo comune, perfino il sacrificio di sé per la persona amata), manca la manifestazione che permetta di percepire l’amore.



3. “Abbiamo conosciuto l’amore di Dio”


Vorrei riprendere l’approfondimento di alcuni aspetti teologici del Carisma partendo dall’Incarnazione del Figlio di Dio, intesa come la manifestazione definitiva, una volta per sempre dell’Amore di Dio. “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita – poiché la Vita si è manifestata, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi –, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi” (1 Gv 1, 1-3a). L’intero piano di salvezza di Dio per l’umanità, che trova il suo centro nell’avvenimento Cristo, si può sintetizzare in una sola parola: “Epifania”; ed ha come finalità che tutti gli esseri umani, di ogni tempo e luogo, non soltanto siano oggetto dell’Amore di Dio, ma lo possano percepire, comprendere nella fede (= credere), e corrispondere col loro amore.

Quando parliamo dell’Incarnazione non ci riferiamo evidentemente a un momento puntuale (“il 25 marzo”), ma all’insieme dell’esperienza che il Figlio di Dio ha voluto vivere: il “farsi Uomo” che dura tutta la sua esistenza terrena e trova il suo culmine nella sua morte e risurrezione.


Ritornando all’esperienza umana: tante volte diventa difficile percepire un atteggiamento dell’altra persona come espressione del suo amore, se manca la manifestazione (anzitutto attraverso una parola) che ci permette di stabilire questo rapporto.


Così la Creazione e la Storia (intesa come storia universale, ma anche come la “mia” storia) sono agapicamente mute, se vengono considerate fuori dalla rivelazione storica di Gesù Cristo. Tutto questo, in “chiave salesiana”, suona così: Dio non si è accontentato di amarci, ma ha voluto anche manifestarci il suo Amore donandoci il suo Figlio amato, Gesù Cristo.

Il carattere definitivo della rivelazione di Dio in Gesù Cristo non vuol dire che prima Dio non “ha detto niente”. Dio continua a parlarci, ma non possiamo capire quello che Dio continua a “dirci” lungo la storia, se non la “leggiamo” alla luce di Gesù Cristo.


Tutto questo ha delle implicanze, anche nel dialogo interreligioso; senza chiudere la porta a tutti i valori che troviamo fuori della nostra fede, quello che di “vero, nobile, giusto…” (Fil 4, 8) c’è in ogni autentica ricerca di Dio, questa prospettiva ci permette di affermare che Gesù Cristo è l’Unico e Universale Salvatore dell’umanità, “è apparsa, infatti, la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini… nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” (Tt 2, 11.13).



4. L’Incarnazione del Figlio di Dio, Epifania dell’Amore divino

Ma non arriviamo ancora al cuore della nostra riflessione: in che senso l’Incarnazione del Figlio di Dio costituisce la manifestazione definitiva del suo Amore, in maniera da permetterci di scoprire la sua espressione in ogni momento e circostanza della nostra vita e della vita altrui, della storia particolare e universale? Questa domanda non è retorica; in un primo momento, infatti, potrebbe sembrare più il nascondimento di Dio, il suo occultamento, che la manifestazione della Divinità. Come intendere questa rivelazione definitiva di Dio, proprio attraverso il suo “farsi Uomo”?


Se partiamo dalla descrizione “teista” di Dio, come Potenza e Sapienza, ci troviamo di fronte a un’alternativa, che diventa un vicolo cieco: il Figlio di Dio, nella sua Incarnazione, o conserva queste caratteristiche, o si svuota di esse. Nel primo caso, possiamo ancora affermare che veramente “si è fatto Uomo”? Nel secondo caso, la sua umanità è evidente, ma smetterebbe di essere “vero Dio”.

La vera soluzione teologica comincia nell’impostazione stessa del problema, cioè: qual è l’immagine autentica del Dio in cui crediamo? Dio non è, anzitutto, Potere o Sapienza, ma Amore.


Ancora una volta, ritorniamo al punto di partenza, cioè all’esperienza umana. Tutti conosciamo una bellissima frase della saggezza latina: “amor, aut similes invenit, aut similes facit”: “l’amore o trova realtà simili o le fa diventare simili”. Applichiamola all’Amore di Dio: la differenza tra Dio e le sue creature è infinita; nonostante ciò, fin dalla stessa radice della differenza (“Io sono Dio, non uomo” - Os 11, 9) nasce la ricerca di uguaglianza. L’amore non pretende ignorare le differenze, ma neanche si lascia frenare a causa di queste; piuttosto pretende andare oltre, assumendole.


In un bel testo della tradizione orientale, Niccolò Cabasilas afferma:

Giacché gli uomini sono separati da Dio per tre motivi e cioè per la loro natura, per il loro peccato e per la loro morte, il Redentore, eliminando l’uno dopo l’altro gli ostacoli, ha fatto sì che si incontrino senza impedimento alcuno e si ritrovino senza frapposizioni. Il Redentore ha eliminato il primo ostacolo partecipando alla natura umana, il secondo facendosi uccidere sulla croce e abbatté infine l’ultimo muro quando, risorgendo, ha bandito per sempre la tirannia della morte dalla nostra natura” 2.


Se l’amore (o meglio: chi ama) vuole essere uguale alla persona amata, nell’Incarnazione il Figlio si svuota del suo Potere e della sua Sapienza non per smettere di essere Dio, ma al contrario per manifestarsi a noi pienamente come Amore, cioè come Dio. Proprio perché per amore il Figlio di Dio si svuota della sua onnipotenza e della sua onniscienza per diventare vero Uomo, manifesta al massimo il suo Amore, equivale a dire: si manifesta pienamente in quanto Dio.


Questo ci porta ad una conclusione estremamente paradossale: qualsiasi intento di negare, o anche di sminuire, la radicale umanità di Gesù Cristo, va contro la sua Divinità, contro la sua “Volontà” – e anche contro la sua Onnipotenza! – che vuole condividere pienamente la nostra esistenza umana. In nessun momento possiamo dimenticare che è Dio stesso Colui che, in Cristo, diventa Uno di noi!

Tutto questo piano meraviglioso dell’epifania dell’Amore di Dio spera una risposta da ognuno di noi; anzi: la brama. Vorrei finire con una affermazione di “sapore salesiano”, intenzionalmente provocatoria: quando il Padre, per opera dello Spirito Santo, invia il suo Figlio nel mondo, gli dà questa missione: Studia di farti amare!



5. “non basta amare”: il Sistema Preventivo


Nell’articolo sul Sistema Preventivo, la nostra Regola di vita conclude con quest’affermazione: “Esso permea le nostre relazioni con Dio, i rapporti personali e la vita di comunità, nell’esercizio di una carità che sa farsi amare” (Cost. 20; cf. anche Cost. 15).


Prima di far riferimento, almeno in maniera sintetica, ad alcuni aspetti di questa dimensione centrale del nostro Carisma, vorrei riprendere alcuni brani del discorso che il Cardinale Lucido Maria Parocchi, Vicario di Roma, pronunciò nell’1884, in occasione di un viaggio di Don Bosco a Roma, durante la costruzione della Basilica del Sacro Cuore, e del quale il nostro Rettor Maggiore, citandolo (ACG 394, pp. 35-36), dice: “Se non fosse per alcuni termini obsoleti, potrebbe essere scambiata (la citazione) per contemporanea” (p. 35).


Intendo di parlarvi di ciò che distingue dalle altre la vostra Congregazione (…) Come in ogni uomo, che Dio mette al mondo, impronta una nota che lo contraddistingue da tutti gli altri uomini, così pure (…) ogni Congregazione Religiosa Dio impronta con una nota, con un carattere, con un suggello, che la distingue dalle altre Congregazioni (…) La Vostra Congregazione pare che risponda a quella di s. Francesco dal lato della povertà, ma la vostra povertà non è quella dei Francescani. Pare che risponda a quella di s. Domenico, ma voi non dovete sostenere la fede contro le preponderanti eresie (…) perché precipuo vostro scopo è l’educazione della gioventù. Pare che risponda a quella di s. Ignazio nella scienza per il numero grande di opere che date alla luce pel popolo, e don Giovanni Bosco è uomo di grande ingegno, di profondo sapere, e dotto in variate discipline; ma però non abbiatelo a male, se io dico che non siete voi che avete inventato la pietra filosofale. Che cosa dunque di speciale vi sarà nella Congregazione Salesiana? (…) Se ne ho ben compreso il suo scopo, il suo carattere speciale, la sua fisionomia, la sua nota essenziale, è la Carità esercitata secondo le esigenze del nostro secolo: Nos credidimus caritati; Deus caritas est, e si rivela per mezzo della Carità. Il secolo presente soltanto colle opere di Carità può essere adescato, e tratto al bene (…) Dire agli uomini di questo secolo: Bisogna salvare le anime che si perdono (…), gli uomini di questo secolo non capiscono. Bisogna, quindi, adattarsi al secolo, il quale vola terra terra (…) Al secolo presente, (Dio) si fa conoscere colla Carità: Nos credidimus caritati. Dite a questo secolo: vi tolgo i giovani dalle vie perché non siano colti sotto i tramvai (…) li raduno nelle scuole per educarli perché non diventino il flagello della società, non cadano in una prigione; (…) e allora gli uomini di questo secolo capiscono ed incominciano a credere: et nos cognovimus et credidimus caritati, quam habet Deus in nobis (MB XVII, 92-94).


Tra gli altri vorrei sottolineare alcuni elementi.


1. Nel realizzare la missione salesiana, in quanto segni e portatori dell’Amore di Dio per i giovani più poveri ed abbandonati, Don Bosco è pienamente cosciente della necessità che questo Amore sia espresso e manifestato, in maniera che possa essere percepito al massimo da loro (anche se non lo dice con queste stesse parole). Nel sogno che viene raccontato nella “Lettera da Roma”, lo vediamo con piena chiarezza: il lamento dei suoi interlocutori, riguardo ai salesiani e ai suoi collaboratori, non si riferisce alla mancanza di amore per i giovani, ma neanche alla mancanza dell’espressione di esso: infatti, Don Bosco dice: “Non vedi come sono martiri dello studio e del lavoro? Come consumino i loro anni giovanili per coloro che ad essi affidò la Divina Provvidenza?” Quello che manca è, in realtà, la manifestazione di questo amore, e così viene espresso: “Manca il meglio (…) Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati (…) Senza familiarità non si dimostra l’amore e senza questa dimostrazione non vi può essere confidenza”. In questa lettera si riprende questo stesso rapporto tra l’espressione e la manifestazione: “Trascurando il meno, perdono il più, e questo più, sono le loro fatiche”.


2. La motivazione data dal nostro Padre non nasce soltanto dal suo genio pedagogico, ma è pienamente evangelica: “Gesù Cristo si fece piccolo coi piccoli e portò le nostre infermità. Ecco il Maestro della familiarità (…) Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani (…) Gesù Cristo non spezzò la canna già fessa, né spense il lucignolo che fumava. Ecco il vostro modello!” È il “farci compagni di strada” dei nostri giovani e camminare con loro, come ha fatto Gesù risorto con i discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24, 13-35).


Contemplando Gesù Cristo, Buon Pastore, con lo sguardo di Don Bosco, possiamo dire che l’espressione del suo amore è la ricerca instancabile della pecorella smarrita, la “prediletta” proprio per la sua situazione di abbandono e di pericolo; e la sua manifestazione è il metterla amorevolmente sulle sue spalle…

3. Le parole del Cardinale Parocchi centrano la caratteristica della missione di Don Bosco nella capacità di concretizzare l’Amore di Dio in maniera che, cercando di rispondere ai bisogni autentici e più profondi dei giovani, questi si sentano amati realmente ed in maniera efficace da Dio, attraverso la mediazione salesiana.


Questo vuol dire che, se vogliamo essere veramente fedeli a Don Bosco e alla nostra missione, dobbiamo avere in ogni momento questo atteggiamento di discernimento, come indicano le nostre Costituzioni: “Le necessità dei giovani e degli ambienti popolari (…) muovono e orientano la nostra azione pastorale” (Cost. 7); e anche: “La nostra azione apostolica si realizza con pluralità di forme, determinate in primo luogo dalle esigenze di coloro a cui ci dedichiamo” (Coct. 41). Potrebbe accadere che certe attività e opere, che sono state indubbiamente espressione di amore pastorale, non siano più manifestazione di esso: diventano carismaticamente irrilevanti. Di conseguenza dobbiamo dire che “non basta amare”: ricordando quello che san Paolo chiedeva a Dio per i suoi cari filippesi, il nostro amore deve crescere, sempre di più, nel discernimento e nella percezione (ςςFlp 1, 9). D’altra parte, potrebbe esistere anche il pericolo contrario, cioè una manifestazione dell’amore che non porta anche la sua espressione: sarebbe falsa (“figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità”: 1 Gv 3, 18) o almeno inefficace (cfr. Gc 2, 15-18).

4. Rievocando il CG 25, ritengo che una grande sfida per la nostra vita salesiana è costituita dal mettere in pratica questo tratto fondamentale del sistema preventivo… nella nostra vita di comunità. Troppe volte dimentichiamo che “Dio ci chiama a vivere in comunità, affidandoci dei fratelli da amare” (Cost. 50). Senza dubbio Egli vuole anche che siamo da essi amati in maniera che, rispecchiando il Mistero della Trinità, troviamo veramente nella comunità “una risposta alle aspirazioni profonde del cuore”. Soltanto così diventeremo “per i giovani segni di amore e di unità” (Cost. 49). Nessuno dà quello che non ha…


Di più: non basta amare i nostri confratelli in comunità; è necessario manifestare questo nostro amore in maniera che sia percepito e corrisposto. Questa sfida è oggi più urgente, per la fretta costante con cui viviamo, dimenticando che la significatività non consiste nella quantità di lavoro fatto, ma nella sua qualità. Se manca questo, non possiamo diventare segni e portatori dell’Amore di un Dio che è, in Sé stesso, Comunità…


5. Infine vorrei richiamare la frase programmatica di Don Bosco: “studia di farti amare” chiude in maniera perfetta l’elisse dell’amore, nella sua realizzazione personale, comunitaria e apostolica. Possiamo citare a questo riguardo l’affermazione straordinaria di Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Quaresima 2007: “In verità, solo l’amore in cui si uniscono il dono gratuito di sé e il desiderio appassionato di reciprocità infonde un’ebbrezza che rende leggeri i sacrifici più pesanti”.


1 J. PIEPER, Sull’amore, Brescia, Morcelliana, 1974, p. 51; cfr. anche pp. 64ss.

2 N. CABASILAS, De Vita in Christo III, citato da: HANS URS VON BALTHASAR, Teologia dei Tre Giorni, Brescia, Queriniana, 1971, p. 33.

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